STRUMENTI DI MISURA DELLA RADIAZIONE
1 Scegliere un rivelatore
La scelta del rivelatore più adatto alla misura che si ha in programma di fare deve partire da alcune
considerazioni preventive, prima tra tutte la banda spettrale in cui si ha intenzione di effettuare la
misura stessa. Un rivelatore ideale per una data misura infatti, dovrà essere molto sensibile nella
banda di interesse ed essere, idealmente, insensibile altrove, ovvero non produrre alcun risultato se
investito da radiazione con altre lunghezze d'onda. La sensibilità spettrale ideale di un rivelatore
dovrebbe avere quindi la forma riportata in figura.
Sensibilità
spettrale
Banda di
interesse
Lungh. onda
Questa idealizzazione è poco praticabile con i rivelatori reali, ma con alcuni accorgimenti si
possono ottenere risultati molto buoni. E' necessario, innanzitutto, avere un buon segnale iniziale,
ovvero: il rivelatore deve dare un alto segnale quando investito dalla radiazione che si vuole
misurare, ed eventualmente le radiazioni che non interessano (ma che producono ugualmente
segnale) possono essere opportunamente filtrate. In figura sono riportate le sensibilità spettrali di
alcune tipologie di rivelatori, di cui ne vedremo in dettaglio i principi di funzionamento
2 Rivelatori al silicio
I fotodiodi sono forse i rivelatori più diffusi per le loro caratteristiche di robustezza, versatilità e
prezzo contenuto. Il funzionamento si basa sulle caratteristiche dei materiali di cui è composto,
ovvero materiali semiconduttori. I materiali semiconduttori di per sè non sono nè isolanti nè
conduttori; se nel reticolo caratteristico della loro struttura vengono inseriti artificialmente altri
elementi (drogaggio) si può avere un eccesso di cariche positive o negative a seconda dell'elemento
introdotto (drogaggio di tipo p o n) come drogante. Quando due porzioni di materiale, drogate in
modo opposto, vengono posti a contatto, nella zona di interfaccia le cariche positive da una parte e
negative dall'altra si neutralizzano a vicenda, creando una zona a carica neutra, detta zona di
svuotamento. La zona di svuotamento può essere "allargata" introducendo una opportuna differenza
di potenziale ai capi delle due porzioni di materiale. Quando un fotone luminoso rilascia la propria
energia all'interno della zona di svuotamento, le cariche prima neutralizzate vengono nuovamente
liberate dando così luogo ad un passaggio di corrente, la cui intensità sarà proporzionale al numero
di fotoni incidenti. La misura di tale corrente dà quindi una misura della radiazione incidente sul
fotorivelatore.
Scendendo nei particolari costruttivi, un fotodiodo è sostanzialmente dunque un diodo particolare
caratterizzato da una giunzione pn drogata in modo asimmetrico. La zona p, cioè la zona drogata
con Na accettori (atomi che hanno un elettrone in meno rispetto agli altri presenti nel reticolo
cristallino, hanno una lacuna) è molto più drogata rispetto alla zona n, zona caratterizzata dalla
presenza di atomi Nd donori (atomi che hanno un elettone in eccesso rispetto agli altri presenti nel
reticolo, hanno un elettrone). La zona p, disposta molto vicino alla struttura esterna del fotodiodo è
a sua volta rivestita da uno strato antiriflesso e corredata da due elettrodi in Ossido di Silicio.
Il fotodiodo opera correttamente se polarizzato in inversa, e cioè se la tensione ai propri terminali si
presenta più alta al nella zona n che nella zona p. In questo caso, il campo elettrico di built-in,
presente in tutti i dispositivi a giunzione, tenderà ad aumentare di intensità favorendo la creazione
della zona di svuotamento (depletion region). Questa regione svuotata può essere considerata come
una zona resistiva oppure come una zona neutra. Nel momento in cui un fotone incide sulla
superficie del fotodiodo, l'energia, data dall'equazione
Eg = hν
se sarà maggiore della differenza di energia tra banda di valenza e banda di conduzione del
dispositivo, causerà la creazione di una coppia elettrone-lacuna libera (EHP). Una EHP libera
consiste in un elettrone eccitato in banda di conduzione ed una lacuna in banda di valenza. Una
volta generata la coppia, essa sarà soggetta al campo elettrico generato dalla differenza di potenziale
applicata ai capi del dispositivo. L'elettrone sarà quindi spontaneamente attratto verso la zona n
mentre la lacuna verso la zona p. A causa della assenza di una coppia elettrone-lacuna nella zona
svuotata, la regione non sarà più neutra. Non essendo più neutra. il dispositivo compenserà questa
situazione con un movimento di elettroni-lacune prelevati dal generatore di polarizzazione,
causando così la presenza di una fotocorrente inversa che rappresenta il segnale elettrico prodotto
dall'incidenza del fotone.
I due parametri che si usano per valutare e comparare le prestazioni dei fotodiodi sono l'efficienza
quantica e la responsività. Esse sono definite in questo modo:
Efficienza quantica: L'efficienza quantica è il numero di EHP generate per ogni fotone incidente.
L'equazione che rappresenta questo parametro è:
dove Iph è la fotocorrente generata, e è la carica dell'elettrone, h la costante di Planck e ν è la
frequenza della luce incidente e P0 è la potenza ottica incidente.
La Responsività è definita invece in questo modo:La responsività è il rapporto tra la fotocorrente
generata e la potenza ottica incidente. Anch'essa ha un'equazione che la definisce:
.
Esiste quindi una relazione tra i parametri di efficienza per cui:
Grazie a questa relazione è possibile passare da un parametro di efficienza all'altro comodamente.
I fotodiodi possono essere costruiti con materiali diversi, ed in base a questo cambia l'energia
minima che deve avere un fotone per produrre fotocorrente ed essere quindi rivelati, ad esempio,
per i fotodiodi al silicio, i fotoni devono avere lunghezze d'onda comprese tra 190 nm e 1100 nm,
per quelli al germanio tra 800 e 1700 nm e per quelli all'arseniuro di gallio tra 800 e 2600 nm. I più
diffusi sono quelli al silicio ed a questi limiteremo la presente trattazione.
La sensibilità spettrale dei fotodiodi al silicio è bassa nella banda UV, dato che queste radiazioni
rilasciano la propria energia nei primissimi strati di materiale dove la rivelazione non avviene. In
modo opposto, non vengono rilevate lunghezze d'onda maggiori di un micron e mezzo in quanto
esse attraversano il materiale senza rilasciarvi energia. Il picco di sensibilità è intorno ai 900nm e
questi rivelatori hanno una risposta lineare luce incidente-corrente prodotta che si mantiene tale per
circa dieci decadi, rendendoli degli ottimi rivelatori per essere usati come standard
Fotodiodi commerciali
3 Scelta dei filtri
Come accennato precedentemente, al fine di adattare un rivelatore ad una specifica misura, talvolta
deve essere schermata quella radiazione a cui è sensibile il rivelatore e che però non deve essere
rivelata ai fini della misura in programma. Ad esempio, se si ha intenzione di utilizzare un
fotodiodo al silicio per rivelare la radiazione compresa tra 500 e 700nm occorrerà filtrare la
radiazione con lunghezza d'onda minore di 500 e maggiore di 700 nm. Anteponendo un filtro al
rivelatore, nella pratica, si incide anche sulla sensibilità spettrale del rivelatore, ed ora spiegheremo
il perchè. Un filtro ideale da anteporre al rivelatore avrà una trasmettività spettrale il cui grafico
avrà la forma di un gradino ed in particolare avrà trasmissione massima (100%) nella banda di
interesse e minima (0%) altrove. Anteponendo un filtro del genere ad un rivelatore non se ne
cambia la sensibilità spettrale nella banda di interesse, ma semplicemente si rende il rivelatore
insensibile al di fuori di detta banda. Nella pratica però la trasmettività spettrale dei filtri non avrà
una forma a gradino e quindi "deformerà" la sensibilità spettrale del rivelatore. Per calcolare la
sensibilità spettrale di un rivelatore filtrato occorrerà dunque, lunghezza d'onda per lunghezza
d'onda, tenere conto di come viene abbattuto il segnale dalla trasmettività del filtro, come esposto in
figura.
I filtri funzionano per assorbimento, trasmettendo le lunghezze d'onda non assorbite, e per
interferenza In quest'ultima tipologia di filtri, i trattamenti dicroici deposti sulle superfici fanno
interferire tra loro le radiazioni luminose che si elidono a vicenda nell'attraversamento del filtro
stesso.
Filtri passabanda
Filtri Interferenziali
4 Il luxmetro
Il rivelatore che sta ala base della realizzazione di un luxmetro è un fotodiodo al silicio
opportunamente filtrato. Il filtro, per quanto detto prima, non dovrà avere una trasmettività spettrale
identica alla funzione V(λ), dato che dovrà essere la combinazione "sensibilità fotodiodo - filtro" ad
essere uguale alla funzione fotopica dell'occhio umano e non il solo filtro anteposto al rivelatore. Il
vantaggio del fotodiodo è quello di avere una sensibilità spettrale che ha una curva pressochè
lineare nell'intervallo visibile, e ciò rende più semplice il filtraggio con filtri in pasta o gelatina,
poichè non si devono correggere picchi o valli nella curva di sensibilità spettrale. Davanti al
fotodiodo si introdurrà un filtro che ha quindi una forma molto simile alla curva V(λ) sebbene non
esattamente uguale ad essa.
Sens. spettrale fotodiodo
Trasmettività filtro
V(λ)
Utilizzando opportuni filtri si possono ottenere dei luxmetri che hanno una curva di sensibilità
molto vicina alla funzione V(λ), sebbene non esattamente uguale ad essa, e questo può portare delle
differenze in alcune misure, come vedremo più avanti.
Inoltre, nella costruzione di un luxmetro, poichè l'illuminamento (misurato in lux) è definito come
la quantità di radiazione visibile che arriva in un determinato punto, viene introdotto un diffusore
(spesso di forma emisferica) che ha la funzione di "pesare" in modo uguale la radiazione
proveniente dalle varie direzioni che altrimenti darebbe adito ad un segnale diverso a seconda che
arrivi perpendicolarmente o lateralmente rispetto al fotodiodo filtrato.
Un luxmetro commerciale viene utilizzato per la misura di illuminamenti dati da una molteplicità di
sorgenti luminose, con distribuzioni spettrali anche molto diverse tra di loro. I luxmetri commerciali
vengono tarati facendo riferimento all'illuminante A definito dalla C.I.E., che corrisponde ad una
lampada ad incandescenza a 2853 °K. I risultati che si hanno misurando lampade ad incandescenza
con temperatura di colore 2853 °K sono quindi esatti. Quando si misura invece l'illuminamento dato
da un altra tipologia di lampada (o da una incandescente con diversa temperatura di colore) si
devono tenere in considerazione due cose: 1) il luxmetro commerciale non ha una sensibilità
spettrale uguale alla funzione V(λ), 2) si sta misurando una lampada la cui distribuzione spettrale è
diversa da quella con la quale è stato tarato il luxmetro.
Queste considerazioni, dal punto di vista operativo, danno l'esigenza di correggere la lettura
effettuata col luxmetro commerciale, moltiplicando la stessa lettura per un coefficiente (Color
Correctio Factor) che tenga conto di questa diversità.
Il coefficiente di correzione del colore (Color Correction Factor) viene definito come:
∫λ S (λ ) s
s
ccf ( S t , S s ) =
rel
∫λ S (λ )V (λ )dλ
( λ ) dλ
t
∫ S s (λ )V (λ )dλ
∫ St (λ ) srel (λ )dλ
λ
λ
(eq. 1)
dove St(λ) è la distribuzione spettrale della sorgente in esame, Ss(λ) è la distribuzione spettrale della
sorgente utilizzata per fare la taratura e srel(λ) la sensibilità spettrale del fotometro.
L’integrale
∫λ S (λ ) s
t
rel
( λ )dλ è quindi proporzionale alla lettura eseguita col luxmetro sulla lampada
in esame, in quanto esso è di fatto lo spettro della sorgente “pesato” sulla sensibilità del nostro
fotorivelatore, l’integrale
∫λ S (λ )V (λ )dλ
t
è invece proporzionale alla lettura che si avrebbe se la
curva di sensibilità del luxmetro coincidesse perfettamente con la funzione V(λ). I due integrali
∫λ S (λ )s
s
rel
( λ ) dλ e
∫λ S (λ )V (λ )dλ
s
sono invece proporzionali alle letture che si avrebbero col
luxmetro in esame e quello “ideale” se si misurasse l’illuminamento della stessa sorgente utilizzata
per la taratura. Utilizzando l’eq. 1 e conoscendo la risposta spettrale del luxmetro, la lettura può
essere corretta in base a qualsiasi tipo di sorgente di cui si conosca l’emissione spettrale: per
correggere la lettura basterà moltiplicare la misura ottenuta con il luxmetro per il fattore ccf, come
accennato sopra. Si nota che se la distribuzione spettrale della sorgente in esame è uguale a quella
della sorgente utilizzata per la taratura (St(λ)=Ss(λ)) il ccf è uguale ad uno, ed a questo valore viene
generalmente impostato su tutti i luxmetri che si trovano in commercio. Dato che, in accordo con le
normative vigenti, viene utilizzata una sorgente incandescente (illuminante A) per la taratura, si può
definire un ccf* come:
ccf*=ccf(St, SA)
dove SA è appunto la distribuzione spettrale dell’illuminante A.
Esempio di luxmetro commerciale
5 Vacuum Photodiodes
I fototubi sono rivelatori che basano il proprio funzionamento sull'effetto fotoelettrico, ovvero sulla
capacità di alcuni materiali di liberare elettroni se colpiti da radiazione ottica. Il rivelatore è
costituito da un'ampolla sotto vuoto nella quale sono inseriti anodo e catodo, rivestito dei materiali
sopra citati. Tra anodo e catodo vi è una differenza di potenziale; nei primi modelli la ddp era circa
di 80-90V, con la tecnologia odierna si riescono a fare fototubi imponendo ddp di qualche volt. La
radiazione ottica, colpendo il catodo, provoca la liberazione degli elettroni i quali, a causa della ddp,
migrano verso l'anodo provocando in questo un passaggio di corrente. La corrente, una volta
rivelata da un amperometro, è il segnale proporzionale alla quantità di luce incidente sul catodo e
quindi, una misura della quantità di luce.
La sensibilità spettrale di un fototubo è direttamente legata alle caratteristiche del materiale che
ricopre il catodo, ed alla sua proprietà di emettere elettroni se colpito da radiazioni entro
determinate bande spettrali.
6 Fotomoltiplicatori
Altri rivelatori che basano il proprio funzionamento sull'effetto fotoelettrico sono i
fotomoltiplicatori. Questi rivelatori sono sostanzialmente dei fototubi, con l'aggiunta di un sistema
di amplificazione del segnale, che li rende degli ottimi rivelatori in caso di segnale molto basso
(anche conteggio di singolo fotone). Il primo catodo, spesso posizionato alla finestra d'ingresso del
rivelatore, è, come nel fototubo, rivestito di materiali che emettono elettroni se investiti da
radiazione ottica. A differenza del fototubo però, prima dell'anodo, vi sono diversi altri catodi
(dinodi) ognuno posto a potenziale più alto rispetto al precedente. Ogni dinodo emette elettroni se
colpito a sua volta da elettroni. Gli elettroni emessi dal catodo, incidono sul primo dinodo e
producono l'emissione di altri elettroni i quali incidono sul secondo dinodo che emette altri elettroni
e così via, in un processo "a cascata" di amplificazione del segnale. Infine tutti gli elettroni così
prodotti vengono raccolti dall'anodo e quindi rivelati.
7 Termopile
Una termopila è fondamentalmente un sensore di temperatura che è composto da più elementi
(termocoppie) collegati in serie ed aventi le rispettive giunzioni di riferimento e le giunzioni di
misura poste alla stessa temperatura.
Una termopila formata da n termocoppie possiede ai suoi capi una differenza di potenziale n volte
superiore alla singola termocoppia, aumentandone dunque la sensibilità, ma a causa dell'accresciuta
area associata alle giunzioni di misura, la temperatura rilevata è in realtà una temperatura media.
La termocoppia basa il proprio funzionamento sull'effetto Seebeck (Thomas Johann Seebeck, fisico
di provenienza estone, 1770-1831) per il quale una corrente elettrica scorre in un circuito costituito
da due conduttori metallici in serie quando le due giunzioni sono poste a temperature diverse.
La fem è proporzionale alla differenza di temperatura delle giunzioni.
Una termocoppia è costituita quindi da una coppia di conduttori elettrici di diverso materiale uniti
tra loro in due punti distinti, convenzionalmente denominati giunzione fredda e giunzione calda. È
possibile risalire alla differenza di temperatura esistente tra questi due punti misurando la differenza
di potenziale presente fra i due punti. Se, anziché la differenza di temperatura, si vuole misurare la
temperatura assoluta, una giunzione è mantenuta ad una temperatura fissa e nota. Essa prende allora
il nome di giunzione di riferimento, mentre l'altra è la giunzione di misura.
La relazione tra la differenza di temperatura tra le giunzioni e la differenza di potenziale prodotta
non è lineare, ma può essere approssimata dalla seguente equazione polinomiale:
I valori an variano in relazione ai materiali utilizzati. A seconda della precisione desiderata, è
possibile scegliere n compreso tra 5 e 9.
Una volta quindi costituito il circuito, una delle due giunzioni dovrà essere mantenuta ad una
temperatura di riferimento (ad es. ricoprendola con vernice isolante e dissipando eventuale calore
accumulato) mentre l'altra sarà immersa in un materiale assorbente che aumenta la propria
temperatura se investito da radiazione ottica. Maggiore sarà la radiazione ottica incidente
sull'assorbitore, maggiore sarà la differenza di temperatura tra le due giunzioni e maggiore sarà la
fem che scorre nel circuito. La misura della fem dà quindi come risultato una grandezza
proporzionale alla quantità di luce incidente sull'assorbitore. La sensibilità spettrale di questi
rivelatori è legata alle caratteristiche di assorbimento del materiale utilizzato. Generalmente questi
materiali hanno risposta pressochè costante se investiti da radiazione che va dalla banda UV alla
banda IR, e questa caratteristica li rende molto versatili in quanto può essere facilmente selezionata
la banda di interesse anteponendo al rivelatore un filtro passabanda. Lo svantaggio, se questo può
essere, è la maggior energia che deve avere la radiazione incidente per essere rivelata, così che
questi rivelatori non hanno sensibilità eccessive.
8 Campo di vista del rivelatore
Il campo di vista del rivelatore è un parametro molto importante da valutare, al fine di utilizzare il
rivelatore più opportuno per la misura che si intende effettuare. Ad esempio, quando si vorrà fare
una misura di irradiamento, bisognerà rivelare la radiazione proveniente da ogni direzione sul piano
di misura ed occorrerà un rivelatore con angolo di vista più ampio possibile. D'altra parte, se ad
esempio si vuole effettuare una misura di radianza, dovendo conteggiare solo la radiazione
proveniente entro un determinato angolo intorno ad una ben precisa direzione, si dovrà utilizzare un
rivelatore con angolo di accettazione opportunamente stretto.
I fotodiodi al silicio hanno di per sè un angolo di vista molto ampio e di conseguenza una risposta
proporzionale al coseno dell'angolo dal quale proviene la radiazione, proprietà che li rende ben
utilizzabili in tutte le misure in cui occorre misurare la luce proveniente da tutte le direzioni in un
emispazio. Tuttavia l'introduzione di filtri ne può limitare anche considerevolmente l'angolo di
vista. Per avere rivelatori con stretto angolo di vista, vengono introdotti diaframmi a determinate
distanze davanti alla superficie sensibile del rivelatore. Ciò diminuisce di molto la quantità di luce
che complessivamente incide sull'area sensibile, fino a rendere critico, in alcuni casi, il rapporto
segnale/rumore. Per avere segnali più alti, a parità di angolo di vista, viene aumentata la quantità di
luce che entra nel rivelatore aumentando, per mezzo di lenti, la sezione del fascio che viene rivelato,
mantenendo fisso l'angolo di vista.
9 Lo spettroradiometro
Lo spettroradiometro è uno strumento che misura la distribuzione spettrale d’energia di una
sorgente luminosa, determinandone non solo le proprietà radiometriche e fotometriche, ma anche
quelle colorimetriche. Questo tipo di strumento registra lo spettro della radiazione emessa dalla
sorgente luminosa e calcola via software parametri come cromaticità, luminanza o temperatura di
colore. Lo spettroradiometro determina inoltre il colore di un oggetto, così come di una sorgente
luminosa, analizzando le componenti spettrali della radiazione che viene riflessa dall’oggetto in
esame e pesandole con le curve opportune che tengono conto della sensibilità dell’occhio alle
diverse lunghezze d’onda.
Una misura spettrofotometrica infatti, pur descrivendo univocamente il colore del campione in base
allo spettro della radiazione riflessa, non si traduce in modo diretto in un colore se non viene
considerato il sistema visivo umano. La curva di sensibilità spettrale corrispondente all’occhio,
V(λ), e le funzioni colorimetriche, utili a determinare le tre componenti Rosso, Verde e Blu
dell’Osservatore Standard del 1931 sono memorizzate nel software e utilizzate per elaborare i valori
spettrali misurati per la sorgente in esame. Per ottenere una buona accuratezza nella misura (almeno
una larghezza di banda di 5 nm), sono richieste allo strumento una adeguata sensibilità, un’alta
linearità ed una bassa stray-light. Alcuni spettrofotometri portatili montano un sistema di
dispersione -rivelazione di proprio brevetto.
Ci si può chiedere quali siano i criteri su cui basare la scelta dello strumento da utilizzare. I più ovvi
sono il prezzo e le caratteristiche, intese come possibilità di calcolo offerte dal software (numero di
spazi colori, temperatura di colore, indice di resa cromatica etc.), le dimensioni e la facilità
d’utilizzo o gli accessori in dotazione. L’accuratezza è tra gli aspetti più importanti da valutare per
eseguire una misura affidabile.
E’ esperienza comune il fatto che uno stesso oggetto illuminato con due sorgenti luminose
spettralmente diverse, appaia ai nostri occhi di colore diverso. Un oggetto assorbe parte della luce
emessa dalla sorgente luminosa ed incidente su di esso e la restante la riflette. La parte riflessa viene
analizzata dall’occhio umano e trasmessa, sotto forma di stimolo, al cervello che lo riconosce come
colore.
Per esprimere il colore numericamente, la CIE (Commision Internationale de l’Eiclarage) ha
sviluppato, nel corso del secolo scorso, diversi modelli tra cui i più conosciuti sono lo spazio
colorimetrico Yxy, nel 1931, e lo spazio colorimetrico L*a*b*, ideato nel 1976 per fornire maggiori
differenze di colore in relazione alle differenze visive. Indipendentemente dallo spazio
colorimetrico in cui si sceglie di lavorare è necessario conoscere la distribuzione spettrale
dell’Illuminante Standard e la riflettanza spettrale del campione: il colore dell’oggetto è legato al
loro prodotto eseguito lunghezza d’onda per lunghezza d’onda.
Lo spettroradiometro è lo strumento che permette di misurare direttamente lo “spettro di un
colore”, cioè la riflettanza spettrale di una superficie colorata. La riflettanza spettrale di un
campione è definita come il rapporto tra il flusso radiante riflesso e quello incidente per diverse
lunghezze d’onda. La riflettanza spettrale totale di un oggetto è data dalla somma di una riflettanza
spettrale speculare (Rs) e una riflettanza spettrale diffusa (Rd). La riflettanza si definisce speculare
se il flusso radiante o luminoso è riflesso specularmente dalla superficie; si definisce diffusa quando
la luce viene riflessa in tutte le direzioni. L’accuratezza con cui questa curva spettrale è determinata
influenza l’accuratezza della misura di colore. Ciascun punto della curva di riflettanza spettrale è
individuato dalla lunghezza d’onda, in nm, e dal valore di riflessione percentuale. E’ importante che
entrambe siano ripetibili e misurate con precisione. La risoluzione spettrale, cioè il numero di
lunghezze d’onda su cui la misura viene fatta, è meno importante rispetto all’accuratezza con cui
queste misure sono fatte, dove per accuratezza si intende un controllo sullo shift in lunghezza
d’onda o sulla fluttuazione delle misure di riflessione.
Lo strumento è in grado di determinare i valori di riflettanza del campione relativi ad un illuminante
specifico attraverso calcoli basati sui dati effettivamente misurati (è necessario misurare
preliminarmente lo spettro della radiazione incidente su un campione bianco) e i dati della
distribuzione spettrale dell’illuminate memorizzati nello strumento.
Effettuare misure fotometriche e colorimetriche su una sorgente luminosa, utilizzando uno
spettroradiometro, non richiede una procedura particolare: la maggior parte degli strumenti
acquisisce la distribuzione spettrale della radiazione emessa direttamente dalla sorgente. Il software
di gestione elabora i dati acquisiti fornendo in uscita i valori richiesti. Di una sorgente luminosa si
può misurare anche la temperatura di colore, questa è calcolata utilizzando il metodo di Robertson
che si basa sul confronto, per approssimazioni successive, tra la distribuzione spettrale della
radiazione emessa dalla sorgente e le curve di corpo nero tabulate per diverse temperature. E’
sempre preferibile accanto al valore numerico riportare anche l’andamento grafico delle due curve
spettrali così da avere un’idea di quanto sia buona l’approssimazione.
Uno spettroradiometro portatile presenta caratteristiche intermedie tra strumenti compatti, ad alta
velocità, come i colorimetri, e strumenti veramente accurati, ma ingombranti, come gli
spettrofotometri da banco. Ha il vantaggio, comunque, di permettere misure a distanza.
Nello schema di funzionamento, seguendo il percorso della luce si incontra, dapprima, un obiettivo,
che focalizza la luce su di uno specchio, nel cui centro è posta un’apertura le cui dimensioni
individuano l’area di misura. La luce continua il suo percorso all’interno di una fibra ottica nella
quale, in seguito a riflessioni multiple, si ‘mescola’ diventando virtualmente un fascio uniforme. La
luce viene poi collimata su un reticolo di diffrazione che la disperde nelle varie lunghezze d’onda; i
contributi di diversa lunghezza d’onda λ, attraverso un condensatore ottico, vengono focalizzati su
una batteria di fotodiodi al silicio, stabilizzati in temperatura. L’elemento disperdente (il reticolo
diffrattivo) è responsabile per la risoluzione spettrale, mentre è il sensore che determina
l’accuratezza del segnale misurato. Il segnale elettrico viene poi convertito, per mezzo di un
convertitore A/D, in digitale per essere elaborato dal microprocessore dello strumento così da
fornire la misura di grandezze radiometriche, fotometriche e colorimetriche dello stimolo luminoso.
La luce incidente sulla parte rimanente dello specchio viene riflessa e inviata all’oculare dello
strumento, così che l’operatore possa vedere l’area dell’oggetto o della sorgente sulla quale viene
effettuata la misura. La possibilità di osservare un punto esatto garantisce, insieme alla
stabilizzazione termica dei sensori, la ripetibilità della misura. Un otturatore posto subito dopo la
fibra, permette, in fase d’inizializzazione della misura, di registrare automaticamente il segnale
di‘buio’.
Come già accennato, gli strumenti moderni hanno la possibilità di correggere i risultati per lo
spettro della sorgente o fare valutazioni con illuminanti diversi da quello usato per la misura
(svincolandosi così dall’utilizzo di una sorgente precisa), essendo forniti di un database interno.
Elencando vantaggi e svantaggi si può dire che lo spettroradiometro è uno strumento compatto e in
grado di effettuare misure con un buon grado di accuratezza grazie alla presenza di un elemento
disperdente; la velocità di misurazione è elevata grazie all’autotaratura dello strumento
all’accensione e dalla possibilità di acquisire con un’unica misura lo spettro in tutto l’intervallo
visibile per mezzo di una batteria di sensori. La possibilità di osservare il punto esatto dove
effettuare la misura, così da poter riposizionare lo strumento correttamente, rende quest’ultima
ripetibile; inoltre i sensori sono stabilizzati in temperatura per mezzo di un sistema di
raffreddamento che ne assicura un elevato rapporto segnale-rumore.