1. La Russia zarista: una “periferia” di vivace

Capitolo XI
LA PRIMA INDUSTRIALIZZAZIONE RUSSA
1. La Russia zarista: una “periferia” di vivace contraddittorietà…
È opinione comune, pur in presenza di un cospicuo numero di studi
in senso contrario1, che l’industrializzazione russa sia tutta da ascrivere
all’età sovietica. Se con ciò si vuole intendere che la Russia geografica,
comprendente anche l’Ucraina, divenne una grande potenza industriale
grazie alla industrializzazione forzata degli anni Trenta, questo è indubbiamente vero. Tuttavia quel processo industrializzante, con i costi sociali che comportò, si innestò su una precedente, e tutt’altro che esigua,
prima industrializzazione sviluppatasi, ancorché contraddittoriamente,
negli ultimi decenni dell’impero degli zar2. La rivoluzione d’Ottobre poggiò, del resto, su un robusto – ancorché minoritario – proletariato di fabbrica
formatosi proprio in quel periodo .
Questo capitolo intende ripercorrere, ancorché sommariamente, l’approdo russo ad una modernizzazione di tipo occidentale che sembrò porre
le basi di una “rivoluzione” borghese in grado di mettere la parola fine
all’autocrazia zarista. Così non fu, e le timide riforme avviate dagli ultimi due zar, Alessandro III3 e il figlio Nicola II4, naufragarono di fronte
1
Cfr. sull’argomento The Cambridge Economic History of Europe, ai voll. The Industrial Revolution and After e The Industrial Economies: Capital, Labour, and Enterprises,
Cambridge, Cambridge University Press, 1965 e 1978 [traduz. italiana: Storia economica Cambridge, voll. 6 e 7, Torino, Einaudi, 1974 e 1980], nonché i riferimenti bibliografici in tali volumi contenuti.
2
Dato che in questo capitolo viene usato il termine autocrazia [potere assoluto nelle
mani di una sola persona], può essere interessante rammentare la formula con la
quale – a partire da Pietro il Grande – iniziavano gli ukase [decreti] degli zar: Io, per
grazia di Dio, Imperatore e Autocrate di tutte le Russie…
3
Alessandro III (1845-1894) regnò dal 1881 al 1894.
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Capitolo undicesimo
ai gravi problemi indotti dalla partecipazione russa alla prima guerra
mondiale, e poi dalla rivoluzione bolscevica.
Si può sostenere che il processo di industrializzazione russo, o – meno
enfaticamente – la lenta transizione della Russia a forme di trasformazione
manifatturiera di tipo moderno, si avviò a partire dall’emanazione dello
“statuto di emancipazione” che nel 1861, sotto il regno di Alessandro
II5, liberò una parte dei contadini dalla loro condizione di servi della
gleba. Si trattò di una sorta di riforma agraria, limitata/limitatissima,
che tuttavia consentiva a costoro di lavorare, traendone reddito, in fondi
di cui sarebbero divenuti nel tempo proprietari a tutti gli effetti, anche se
attraverso complicati meccanismi di riscatto.
Ciò liberò energie individuali teoricamente disponibili ad indirizzarsi al
lavoro manifatturiero; i fondi assegnati a questi primi ex-servi della gleba
non avevano infatti dimensioni in grado di dare sostentamento a tutti i componenti delle loro famiglie, non pochi dei quali erano perciò costretti a
cercare lavori alternativi. Tra il 1882 e il 1885 il governo di Alessandro III
migliorò tale riforma, aumentando il numero di beneficiari, e – soprattutto – consentendo loro di muoversi anche fuori dai territori nei quali
erano sempre vissuti. Fu tra queste persone, libere ormai di spostarsi da
un luogo all’altro, che l’industria nascente andò a reclutare i lavoratori di
cui aveva bisogno. Ma la trasformazione di un ex-contadino in operaio
di fabbrica non era così semplice, dato che per il suo addestramento
occorreva un periodo di tempo che variava dalle mansioni e dal settore
nel quale veniva impiegato. Cosicché l’utilizzazione di contadini nelle
nuove fabbriche fu lento, e graduato nel tempo. Ma di crescente intensità,
anche perché non fu raro che intere famiglie di ex-servi abbandonassero,
cedendone i diritti, le terre loro assegnate, dando impulso a quel fenomeno di inurbamento nei centri industriali già noto nei primi paesi che
sperimentarono il passaggio dalla manifattura tradizionale al “sistema di
fabbrica”.
L’emancipazione giocò però – nella prima industrializzazione – un ruolo
che andò al di là del reperimento di una manodopera precedentemente
“indisponibile”: essa determinò infatti una capacità reddituale di chi rima-
neva nei fondi in grado di alimentare una qualche domanda di manufatti
prima inesistente. L’aprirsi di un “mercato contadino” ai beni di consumo, fu un fenomeno che si fece già evidente agli inizi degli anni ‘80 del
secolo, da allora ampliandosi, anche se in maniera discontinua.
Bisogna a questo proposito tener presente due elementi. Da un lato il
forte incremento demografico, che portò la popolazione russa a crescere
dagli 84,5 milioni del 1870 ai quasi 98 del 1880, per raggiungere i 113
milioni nel 1887, con un incremento durante tutto il periodo di quasi 1,7
milioni di unità all’anno. E dall’altro la natura altalenante del tenore di
vita nelle campagne: le capacità di consumo dei contadini crescevano o
si riducevano bruscamente, fino ad annullarsi, a seconda dell’andamento stagionale dei raccolti e del verificarsi o meno di dure carestie, il
che li rendeva per l’industria una clientela in buona parte “irregolare”.
Come dire che le grandi potenzialità d’acquisto di manufatti del mondo
agricolo rimasero a lungo inespresse, o – meglio specificando – che quel
mercato rimase a lungo solo aggiuntivo, e marginale, rispetto a quello
urbano.
Ciò vale per il fronte delle industrie produttrici di beni di consumo,
che dall’emancipazione trassero beneficio soprattutto nel reperimento di
manodopera, e solo parzialmente nel collocamento dei propri manufatti
sull’ancora incerto mercato rurale. Vi furono però attività – e non solo
quelle della grande possidenza agraria nobiliare – che dalla “liberazione”
dei servi furono fortemente danneggiate. Fu il caso delle industrie, ad esempio quelle situate negli Urali ed attive nella produzione di ferro e di ghisa,
che utilizzavano in maniera quasi esclusiva manodopera servile. Queste
fabbriche – peraltro già penalizzate dall’abbassamento, dopo la disastrosa
guerra di Crimea (1853-56), dei dazi sul ferro d’importazione – praticamente si svuotarono dopo la liberazione dei servi. Così fu anche per quelle che producevano tessuti per le divise dell’esercito imperiale, di prevalente proprietà nobiliare e situate in alcune aree della steppa a 5-600 kilometri a sud di Mosca6.
Non fu così per le imprese di manifattura leggera use a lavorare per il
mercato civile, come la generalità di quelle tessili, di piccola meccanica
4
6
Nicola II (1868-1917), successo al padre nel 1894, fu travolto agli inizi del 1917
Rivoluzione di febbraio che pose fine all’impero zarista. Il governo bolscevico, nato
dalla successiva Rivoluzione d’ottobre, decretò nel luglio del 1918 la sua condanna a
morte, che fu eseguita il 17 luglio 1918. Con lui fu sterminata anche la sua famiglia.
5
Alessandro II (1818-1881) regnò dal 1855 al 1881.
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Da questo punto di vista, è significativo il caso di Voronež, precoce e vivace città
tessile già all’inizio dell’Ottocento. Nel 1856, e quindi prima dell’emancipazione,
erano ancora attive tre fabbriche impegnate nella produzione di tessuti per l’esercito;
nel 1865 non ne esisteva più nessuna! La circostanza è ricordata da R. Portal nel
suo saggio L’industrializzazione della Russia, p. 876: Storia economica Cambridge, vol.
6/II, cit.
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La prima industrializzazione russa
Capitolo undicesimo
o del mobilio, le quali già impiegavano – anche perché insistevano in un
ambiente urbano – solo lavoratori salariati, ancorché sottopagati.
Ai primi avventurosi magnati delle ferrovie si sostituirono presto
manager competenti, che seppero approvvigionarsi di risorse sugli emergenti mercati finanziari russi; e ciò non tanto facendo ricorso alla Borsa,
che non svolse mai un ruolo particolarmente attivo nella crescita di
società azionarie, bensì intrattenendo rapporti molto stretti con le
nuove banche commerciali, spesso banche “miste” improntate all’esperienza tedesca del credito a medio-lungo termine. Il tema del credito, è
noto, fu cruciale in tutti i processi di industrializzazione, e quindi anche in un paese come la Russia dove il capitale di rischio delle società
azionarie era modesto rispetto all’entità degli investimenti nei quali si
impegnavano, da cui il ricorso ad ingenti prestiti bancari. La fragilità
di tali strutture societarie favorì le intese tra concorrenti per evitare
dannose guerre commerciali, e avviò una rapida “cartellizzazione”
dell’economia che fu in parte favorita dallo stato di fronte alla
depressione del primo ‘900. I cartelli, indubbiamente, rafforzarono
la posizione dell’imprenditoria nazionale, che in misura crescente, e
già agli inizi del nuovo secolo, presero il posto di quegli operatori
stranieri che avevano dato avvio alla prima infrastrutturazione industriale del paese.
La crescita dell’industria fu significativa, benché malsicura ed in
termini assoluti poco estesa, come dimostrano le limitate aree in cui
essa avvenne: la città di Mosca e, parzialmente, il suo circondario;
le regioni centrali della Russia europea; la capitale San Pietroburgo7; le
città del Baltico ed alcuni territori lungo il corso del basso Don e del
Dnepr e le regioni a sud degli Urali. Oltre ad esse conviene ricordare che il governo zarista favorì una qualche industrializzazione anche in alcune località della Polonia russa, pur se eccentriche rispetto
alle aree forti testé menzionate.
Qualche dato, riferito agli inizi del 1890, può essere di qualche
utilità:
- la Russia già possedeva 32.000 chilometri di ferrovie;
- gli operai erano circa 1.400.000, di cui la maggior impiegata nell’industria tessile, il che testimonia della fragilità del secondario
russo, peraltro comune ad altri paesi periferici, come ad es. l’Italia.
2. Creazione di un’industria, creazione di un mercato…
Accanto alle tipologie citate, la Russia zarista aveva peraltro sviluppato intense attività manifatturiere nel campo degli armamenti, e su
di esse le élites dirigenti erano convinte potesse crescere un processo industrializzante simile a quello occidentale. Tale ipotesi tramontò sui campi di battaglia di Crimea, come riconobbe lo stesso ministro della
guerra del tempo. Gli impacci e gli oneri di approvvigionamenti militari forniti da produttori inefficienti rivelarono tutto il ritardo dell’economia russa rispetto alla Gran Bretagna, ma anche a paesi come la
Francia e gli stati tedeschi. Gli esponenti “filoccidentali” di tali élites,
forti del successo ottenuto imponendo ad Alessandro II il già citato
“statuto di emancipazione”, ritenevano che la strada della modernizzazione del paese fosse ormai in discesa.
Non era ovviamente così. L’abolizione (parziale) della servitù della
gleba non fu infatti accompagnata da misure rivolte alla creazione di
un vero mercato concorrenziale, che si pensava si sarebbe formato spontaneamente. Il primo decennio del ‘900 avrebbe clamorosamente dimostrato la Russia era ancora sprovvista degli elementi minimali un
libero mercato. Certo, la combinazione di una piccola-media proprietà
contadina, in parte capitalistica, e di grande industria, in larga misura monopolistica, risultava potenzialmente stabile e per certi versi
efficiente, grazie a un mercato della forza-lavoro extragricola ormai
consolidato.
Il ruolo dello stato rimaneva però ingombrante. Precedendo la
domanda con la realizzazione di varie infrastrutture, il governo russo
aprì e stabilizzò un mercato di vaste dimensioni fisiche e finanziarie.
La costruzione delle ferrovie favori all’interno e all’estero la mobilitazione del capitale – cui il governo assicurava un rendimento
minimo garantito – per la creazione di un sistema di comunicazioni e per lo sfruttamento delle risorse naturali. Fu un periodo
tumultuoso, e per lo più caotico, come avvenne nelle costruzioni
ferroviarie. Ma ad esso seguì una qualche positiva stabilizzazione, in
parte guidata dallo stato, in parte esigenza naturale di una economia
in rapida crescita.
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7
San Pietroburgo, fondata nel 1703 da Pietro il Grande, venne nel tempo correntemente chiamata Pietroburgo, fino a quando – negli ultimi decenni dell’800 – assunse il
nome di Pietrogrado. In queste pagine si userà sempre la denominazione originaria.
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Capitolo undicesimo
E, tuttavia, la capitalizzazione delle imprese tessili russe risultava ben maggiore di quella esistente nella nostra penisola;
- la produzione annuale di carbone era cresciuta del 1200% rispetto al 1860, raggiungendo i 6,6 milioni di tonnellate;
- la produzione di ferro e acciaio, sempre rispetto al 1860, risultava più che raddoppiata, con un valore di 2 milioni di tonnellate
annue;
- il bilancio dello stato risultava in trent’anni raddoppiato, ma
con un peso degli interessi sul debito pubblico di ben quattro
volte maggiore: il che stava a significare che il “servizio” del
debito rappresentava il 28% delle uscite complessive, con ciò
compromettendo di molto la possibilità di una politica economica espansiva che pure era negli obiettivi del governo dell’epoca.
Lo sviluppo dell’industria aveva nel frattempo portato alla nascita di
un combattivo proletariato urbano che ben presto, e malgrado le repressioni poliziesche, incominciò ad organizzarsi nei primi sindacati clandestini,
entrando in contatto con le idee socialiste e comuniste che si stavano diffondendo in Europa.
Alla fine del XIX secolo i ritardi/contraddizioni di quel processo industrializzante sul quale avevano puntato le élites modernizzatrici, e la debolezza di una politica estera che non riusciva a costruire alleanze utili a
favorire una positiva transizione interna, avevano raggiunto proporzioni
preoccupanti, tanto che all’interno del governo zarista alla fine passò – pur
non senza contrasti – il duro programma economico del ministro delle
Finanze Sergej Witte8, incentrato su un forte indebitamento sull’estero
finalizzato (con il rafforzamento del cambio internazionale del rublo che
sarebbe derivato dall’implementazione delle riserve monetarie) sia ad agganciare la valuta russa all’oro, sia a sostenere la crescita dell’industria
pesante e, soprattutto, l’ambiziosa realizzazione della ferrovia Transiberiana9: la quale doveva essere segno non tanto immateriale della nuova
Grande Russia. In sostanza, Witte giocò ad un tempo una partita di
politica economica e di politica internazionale.
La sua azione portò ad esiti, che se per certi versi fu positiva sul campo delle relazioni con gli altri grandi paesi, risultò contraddittoria dal
punto di vista interno. Malgrado la profonda depressione economica che
colpì l’economia mondiale sulla fine del secolo, la produzione russa di
carbone, ferro, acciaio e petrolio triplicò nel decennio 1890-1900, mentre lo sviluppo delle ferrovie raddoppiò, rendendo la rete ferroviaria seconda per lunghezza solo a quella del più grande paese industriale del
mondo, gli Stati Uniti. E tuttavia mancò quella crescita della produzione di grano, che negli intendimenti di Witte doveva innescare un incremento
virtuoso delle esportazioni, che invece si contrassero pericolosamente. A
ciò si aggiunse che la crescita del tenore di vita urbano fece lievitare la
domanda di beni di consumo, solo in parte soddisfatta dalla ancora insufficiente produzione locale, da cui una conseguente lievitazione delle
importazioni. Talché il risultato fu che il servizio del debito pubblico,
ora più oneroso, e il crescente scompenso della bilancia commerciale,
portò a un raddoppio del deficit dello stato: con costi sociali elevatissimi,
dato che si cercò di farvi fronte con una più pesante imposizione fiscale
che colpì in modo particolare i contadini, e più in generale tutta l’agricoltura.
Ma vediamo meglio i singoli aspetti, a partire dall’emancipazione.
8
S. Witte (1849-1915), fu un importante dirigente di imprese ferroviarie, passato
nel 1889 a reggere la Direzione degli Affari ferroviari del governo imperiale. Ebbe
una rapida carriera politica, dato che nel febbraio 1892 venne nominato ministro dei
Trasporti e delle Comunicazioni, incarico che mantenne anche quando nell’agosto
di quell’anno fu posto a capo del ministero delle Finanze dove rimase ininterrottamente fino al 1903. Per un breve periodo, tra il 1905 e il 1906, fu anche Primo
Ministro di Nicola II.
9
La Transiberiana, la cui costruzione fu avviata nel 1891, andò a collegare Mosca
(e quindi la Russia europea con le sue nascenti aree industriali) alle regioni centrali
della Siberia e all’estremo oriente dell’impero fino al confine cinese. La sua lunghezza, da Mosca a Vladivostock, è di 9.288 km, il che la rende in assoluto la più
grande strada ferrata mai costruita. La grande infrastruttura, che fu presentata
all’Esposizione Universale di Parigi del 1900 ricevendo un premio per la qualità
ingegneristica del progetto, venne completata – ed entrò in funzione – nel 1916. La
forza lavoro impiegata nei momenti di massimo sforzo costruttivo arrivò a contare
circa 90 mila uomini, molti dei quali condannati ai lavori forzati. In migliaia morirono per le terribili condizioni di lavoro. Il limite dell’opera era tuttavia costituito
dall’essere a binario unico, e fu solo in età sovietica che esso venne raddoppiato.
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346
3. Mercato del lavoro e infrastrutture
Alla vigilia dell’emancipazione, la manodopera industriale comprendeva 386.000 servi della Corona nelle fabbriche statali e 230.000 nelle miniere dello Stato, 519.000 servi “possessionali” e 59.000 servi “curtensi”. Molti di meno erano invece i lavoratori salariati, concentrati nelle
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Capitolo undicesimo
produzioni tessili rivolte al mercato, e in poche altre attività sempre dirette ai consumatori privati. I metodi di gestione dei “servi” erano corrispondenti a quelli di reclutamento: coercizione e brutalità erano la norma.
Sebbene limitato sino al 1906 dagli oneri di riscatto dei fondi attribuiti
ai servi “liberati”, e dalla lentezza con la quale fu loro consentito il diritto
di potersi muovere dai luoghi di residenza, si può sostenere che fu l’emancipazione a consentire la nascita di un vero mercato del lavoro10.
Gli stessi storici sovietici sono concordi nel sottolineare come fu proprio
l’emancipazione a creare le precondizioni dell’industrializzazione capitalistica e un notevole impulso a un moderno sviluppo agricolo.
Anche se – come ricorda M.C. Kaser – lo stesso Lenin aveva sostenuto che i ceti contadini già prima della riforma avevano iniziato a differenziarsi in borghesia rurale e proletariato agricolo, pur all’interno
di un protocapitalismo ancora fortemente condizionato dal potere statale11.
Kaser, a questo proposito afferma che, in realtà, anche prima del 1861
«i datori di lavoro (fossero funzionari dello Stato o proprietari privati)
avevano preso l’abitudine di ricorrere in parte a manodopera salariata; di fronte a operai che potevano rifiutarsi di lavorare per loro, o recarsi altrove alla ricerca di paghe più elevate, essi erano indotti a valutare
con attenzione molto maggiore che in passato l’opportunità di sostituire
la forza-lavoro con investimenti di capitale. In breve essi cominciavano
a imparare il mestiere di capitalisti»12.
Ed a proposito dell’interventismo statale, egli ricorda come negli ambienti intellettuali «il fatto che lo Stato si arrogasse il potere di intervenire direttamente nel mondo della produzione era oggetto della stessa
ostilità che veniva tributata alla polizia o ai governatori di provincia nella vita politica e sociale. Nel 1857, Herzen13 paragonava un’economia
diretta dallo Stato a “Genghiz khan con ferrovie e telegrafi”. D’altra par-
te, scontento dei risultati cui aveva dato luogo l’azione pubblica [… e]
dopo che la disfatta militare [in Crimea] aveva messo in luce il caos dei
servizi di approvvigionamento e delle industrie di cui era responsabile, il
governo desiderava l’instaurazione di un mercato che gli permettesse di
coordinare le proprie attività con quelle di imprenditori indipendenti»14.
Parlare di “coordinamento” come fa Kaser, anche se solo a proposito
di un miglioramento nel sistema degli approvvigionamenti militari, è in
realtà riduttivo. Le dimensioni dell’impero degli zar (un sesto delle terre
emerse del pianeta, come spesso si usava ricordare) richiedeva indubbiamente un potere in grado non solo di coordinare il mondo dei produttori, ma anche di creare davvero un mercato nazionale e di dotarlo di
quelle infrastrutture che lo rendesse davvero tale. A partire dalle grandi
vie di comunicazione, il vero tallone d’Achille del gigante russo: basti
pensare alle difficoltà con le quali le derrate prodotte nelle campagne
arrivavano nei centri urbani, stante il virtuale isolamento di molte aree
del paese. Per cui uno stato che si fosse limitato, nella situazione di
estrema arretratezza sia dell’agricoltura che delle produzioni manifatturiere, al solo “coordinamento”, avrebbe fallito l’obiettivo della modernizzazione. L’autocrazia zarista va letta anche in questi termini, tenendo però presente che essa, più che in capo al sovrano pro tempore, era più
concretamente nelle mani di un variabilmente razionale sistema di governo, nel quale – accanto al ceto nobiliare – cominciò, proprio dopo la
disfatta in Crimea, fare la loro comparsa un ceto borghese, senz’altro
minoritario, ma portatore di interessi concreti, che proprio allo sviluppo
di una industria degna di tal nome e a un efficace sistema distributivo
poneva attenzione.
Nella partita della infrastrutturazione del paese si giocò, perciò, una
sottile e difficile partita di potere che aveva a che fare proprio con la modernizzazione del sistema-paese.
L’unificazione, e l’articolazione, dell’immenso potenziale racchiuso nel
grande paese fu il tratto distintivo di un’azione che iniziò, così si può
sostenere, con l’avvio del business ferroviario, a partire dalla linea di
poco più di 700 kilometri che, completata nel 1851, andò a collegare la
capitale San Pietroburgo a Mosca15. Anche se non mancarono significati
10
Cfr. G. Von Rimlinger, The Expansion of the Labour Market in Capitalist Russia,
1861-1917, “Journal of Economic History”, XXI, 1961.
11
M.C. Kaser, L’imprenditorialità russa, in Storia economica Cambridge, vol. 7/II, cit.,
p. 580.
12
Ibidem.
13
Conviene ricordare che il citato Aleksandr Ivanovi Herzen (1812-1870), scrittore e filosofo, è considerato tra i più grandi intellettuali russi dell’Ottocento. Di
origine aristocratica, egli fece della libertà la propria bandiera opponendosi vivacemente all’autoritarismo zarista, e battendosi per i diritti dei contadini. Anche per
questo egli è spesso ritenuto uno dei primi pensatori del populismo russo. Morì in esilio a Parigi.
347
14
M.C. Kaser, L’imprenditorialità russa, in Storia economica Cambridge, vol. 7/II, cit.,
p. 580.
15
Si trattava della ferrovia Nikolaevskaja, dal nome dello zar Nicola I (1796-1855)
che l’avviò nel 1843. Il suo regno, iniziato nel 1825, fu caratterizzato da una politica accentuatamente reazionaria, nella quale l’unico elemento di (una qualche) mo-
348
La prima industrializzazione russa
Capitolo undicesimo
simbolici, il collegamento tra la nuova e la vecchia capitale testimoniava
che, ancor prima della svolta post-Crimea, si avvertiva la necessità di
coinvolgere nel progetto di (ancora inconsapevole) modernizzazione del
paese quel-la che ancora era l’unica area manifatturiera russa. Fu il
primo passo di una lunga avventura. Una più equilibrata diffusione
spaziale delle attività economiche, che solo la ferrovia poteva consentire, era indispensabile per la valorizzazione di miniere e terre molto
lontane. Ma la creazione della rete ferroviaria poteva essere utile, ce se
ne accorse più tardi, per evitare anche le concentrazioni operaie ritenute
pericolose dal potere, disperdendole lungo la rete. La Transiberiana e le
linee di Orenburg e Taskent diedero luogo a interi nastri di colonizzazione contadina ovunque le condizioni naturali lo permisero; quanto
più i contadini cui era stata elargita l’emancipazione dalla servitù si
fossero trovati lontani dalle sedi urbane, tanto meno avrebbero potuto
contare sui sistemi tradizionali di trasporto delle merci al mercato
cittadino o alle fiere mediante i loro carri, e tanto più avrebbero dovuto
perciò – sostiene Kaser – servirsi delle ferrovie offrendo così nuovi spazi
all’intermediazione capitalistica e incrementando le esportazioni.
Il rinnovamento dei modi di trasporto nel commercio granario fornì
un contributo rilevante all’espansione di una moderna intermediazione.
L’approvvigionamento, la commercializzazione e l’esportazione esigevano del resto un livello di investimenti connessi al maggior volume delle
transazioni e alle distanze crescenti che finì per emarginare, fino a farli
scomparire, i mercanti tradizionali usi ad operare sui corsi d’acqua. La
ferrovia trasportava le derrate non solo più velocemente, ma – soprattutto – a costi unitari decrescenti facendole arrivare, senza costose “rotture di carico”, ai porti del Mar Nero e del Baltico.
La costruzione da parte dello stato di vie di comunicazione non rappresentava, in realtà, una novità neanche in Russia. Era dall’epoca di Pietro
il Grande che ciò avveniva16. Ed anche il fatto di garantire alle società ferroviarie private una determinata redditività del capitale investito, non
era una novità in Europa, salvo che nel caso della Gran Bretagna. Ovviamente, le erogazioni statali alle compagnie ferroviarie potevano assumere forme diverse, come avvenne in Italia dove ad esse veniva corrisposto un contributo monetario per ogni chilometro percorso dai convogli ferroviari. La logica era comunque la stessa: dato che gli stati non
avevano, salvo che nella fase iniziale17, le risorse sufficienti per finanziare
le costruzioni ferroviarie essi lasciavano presto mano libera alle compagnie private garantendo però loro – sotto forme diverse, ma analoghe
negli effetti – un qualche (proficuo) ritorno degli investimenti. Essendo la mobilità delle merci e delle persone un interesse primario degli stati,
questi se ne facevano in buona sostanza carico, sovvenzionando di fatto
le tratte non remunerative18.
Sergej Witte, il già citato ministro delle Finanze19 di Nicola II, fece
dernità fu appunto rappresentato dalla menzionata, e prima, linea ferroviaria del
paese. Linea che, peraltro, implicò costi altissimi e tempi elevati di esecuzio-ne: e
fu probabilmente questo negativo esempio che spinse i governi dei suoi suc-cessori
ad affidarsi all’iniziativa privata. In realtà, questa ferrovia fu preceduta, nel 1837,
da un breve collegamento (una trentina di km) che univa San Pietroburgo a
Zarskoe Selo (l’odierna Puškin), una cittadina dove esisteva residenza estiva degli
zar.
16
Qualche esempio? La Gosudareva doroga [strada Gosudareva] costruita nel 1702
tra il Mar Bianco e il lago Onega, o il successivo canale di Vyssij Volocov che andò
a collegare il Baltico e il sistema Caspio-Volga.
17
Per la Russia fu il caso della ricordata ferrovia San Pietroburgo-Mosca.
18
Ancor oggi accade, e pure in Italia. Le tariffe ferroviarie e del trasporto su gomma,
sia urbano che extraurbano, non sono sufficienti a coprire i costi, cosicché lo stato
interviene con un contributo chilometrico a garantire l’equilibrio economico delle
imprese che gestiscono tale servizio. Nel caso italiano, dove tali imprese sono generalmente di proprietà pubblica, tale contributo non remunera il capitale limitandosi
a ripianare i costi.
19
Witte è considerato da Kaser – anche se con toni un po’ eccessivi – un personaggio che «nella formazione del sistema economico russo, non ebbe paragoni nei secoli
che intercorsero tra Pietro il Grande e Stalin»: M.C. Kaser, L’imprenditorialità russa,
in Storia economica Cambridge, vol. 7/II, cit., p. 582. In gran parte ciò è vero: il conte
Sergej Jul’evi Vitte (1849-1915) – ma per i suoi interlocutori occidentali il cognome veniva trascritto come Witte, e tale è rimasto nella nostra storiografia economica – aveva una visione complessiva dell’economia russa, tutt’altro che riducibile
alla sola questione ferroviaria in cui spesso il suo ruolo viene circoscritto. Fu studioso di finanza, di questioni fiscali e monetarie (abbiamo ricordato l’arrischiata,
ma alla fine positiva operazione che portò il rublo nel sistema aureo), ma – soprattutto, e da questo punto di vista in occidente è stato poco studiato, il vero attore della politica economica pre-rivoluzionaria, giocando abilmente tra l’interesse
primario di favorire l’imprenditoria nazionale e la necessità di attirare/mantenere
la presenza dei capitali stranieri. Da cui una attenzione particolare alla finanza francese, risultandogli quella tedesca eccessivamente invadente, e comunque poco disponibile a mediazioni cui invece lui, e quindi il governo, non intendevano rinu-
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La prima industrializzazione russa
Capitolo undicesimo
del controllo statale delle ferrovie uno dei punti centrali della sua politica “interna”. Politica non senza contrasti con le compagnie impegnate
in tali attività, dato che mentre Witte intendeva fossero privilegiati i collegamenti tra i centri urbani nella convinzione che lì l’economia sarebbe
maggiormente cresciuta, le compagnie puntavano alla più veloce redditività che ad esse poteva derivare dalla intensificazione delle costruzioni
nelle aree di recente industrializzazione (il bacino del Donec20 prima di
tutto, e poi l’area del Baltico). Al di là dei contenziosi di routine, rimane
il fatto che le costruzioni ferroviarie innescarono – attraverso le commesse rivolte all’interno – una crescita virtuosa di alcuni settori, invero strategici. Ne trasse giovamento l’ammodernamento della produzione industriale di carbone, acciaio e di manufatti meccanici21; ma il risultato
fondamentale, che potremmo definire “a valle”, fu quello di dare un
decisivo contributo all’unificazione e alla stabilizzazione del mercato dei
beni di consumo, grazie a una rete di trasporto-merci le cui potenzialità
eccedevano ampiamente (un’altra contraddizione della crescita russa) la
domanda effettiva.
Il governo si era peraltro anteriormente cimentato altresì nel mettere a
punto altre forme di comunicazione, indispensabili alla concretizzazione
del mercato nazionale: tema, quest’ultimo, cruciale non solo per paesi
immensi come la Russia ma anche per paesi di molta più limitata di-
mensione, come già si è avuto modo di annotare per l’Italia. Il sistema postale era stato completamente riorganizzato, in parte ispirato a modelli occidentali ancorché in ritardo rispetto a paesi anche molto piccoli22.
il primo francobollo russo da 10 copechi
emesso nel 1858
La riforma postale fu accompagnata dall’avvio della rete telegrafica,
anch’essa tardiva rispetto ad altri paesi, ad esempio gli Stati Uniti dove
l’utilizzazione commerciale del telegrafo partì, dopo una sperimentazione
del Post Office federale, già nel 1847. E, tuttavia, la realizzazione di una
prima maglia infrastrutturale in Russia fu abbastanza rapida, anche perché la tecnologia di una rete telegrafica richiedeva strutture fisse molto più
leggere, ed economiche, rispetto a quelle ferroviarie.
Ma torniamo alle ferrovie. Già abbiamo accennato alla lentezza ed
ai costi di costruzione della Nikolaevskaja da San Pietroburgo a Mosca.
Già abbiamo accennato come quella (negativa) esperienza a spinse i
successivi governi imperiale a delegare le nuove costruzioni all’iniziativa
privata, secondo il modello contrattuale di tipo francese della concessione a “costruire e gestire”, ancorché con la garanzia statale di un interesse
minimo sulla entità degli investimenti. Protagonista di questa nuova stagione fu soprattutto il ministro delle Finanze Reutern, che resse quel di-
nunciare. Di fatto, anche se non formalmente, Witte giocò a un tempo il ruolo di ministro finanziario e – a surroga – quello di capo del governo e di ministro degli Esteri.
Era il suo nome a fare aggio nei rapporti internazionali, e per lungo tempo determinò la politica del paese. Non pochi dei suoi provvedimenti – e in questo rileva
l’annotazione di Kaser, anche se non esplicitata – furono recuperati, e aggiornati,
dalla NEP avviata da Lenin, soprattutto per quanto atteneva la politica agricola. Cfr.
su Witte un testo datato, ma tuttavia illuminante su alcuni aspetti della sua politica: T.H. von Laue, Sergei Witte and the Industrialization of Russia, New York, Columbia University Press, 1963.
20
Il Bacino del Donec, noto anche come Donbass, è il bacino dell’omonimo fiume
che attraversa parte della Russia e dell’Ucraina. Il nome Donbass proviene dalle
miniere di carbone che lì vennero scoperte e messe a frutto. Da questo lungo corso
d’acqua (poco più di un migliaio di kilometri), prese nome la città di Donec’k,
fondata nel 1869 da un uomo d’affari gallese, John Hughes, che costruì uno stabilimento di acciaio, sfruttando altresì nelle vicinanze sia giacimenti di minerali
ferrosi che di carbone. Fu a lungo una città industriale, poi distrutta dai tedeschi
nella seconda guerra mondiale, ancorché se di lì a poco quasi completamente ricostruita.
21
Ciò, in realtà, riguardò quasi esclusivamente la costruzione dei carri ferroviari,
mentre la maggior parte delle locomotive proveniva dalla Germania e dalla Francia.
Uno dei modi di valutare la modernità di un sistema postale è, da almeno un secolo, vedere quando fu introdotto il sistema di “affrancamento” della corrispondenza, con quanto ciò implicava in termini di organizzazione complessiva del servizio. Il primo francobollo in assoluto, è noto, fu quello emesso nel Regno Unito
nel 1840, il famoso Penny black. Seguirono Svizzera e Brasile (1843), Stati Uniti
(1847), Francia e Belgio e Baviera (1849), Austria (1850), Regno di Sardegna (1851).
Il primo francobollo russo venne emesso, invece, solo nel 1858. Indubbiamente tardi, anche se conviene tenere a mente le enormi dimensioni dell’impero zarista, e le
maggiori difficoltà organizzative che ciò implicò. E, tuttavia, il nuovo sistema non
tardò ad andare a regime, almeno nelle aree più popolate.
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La prima industrializzazione russa
Capitolo undicesimo
castero dal 1862 al 1878 durante il regno di Alessandro II.
Attorno a lui operarono molti dei pionieri delle ferrovie, con i quali
intrattenne rapporti non sempre limpidi. Così successe con P.G. von Derviz,
che ebbe tuttavia il merito di collegare efficacemente Mosca a Kozlov (oltre 800 km di tracciato). Alcuni di questi divennero ricchissimi, affiancando presto al business ferroviario altre proficue attività, come capitò a
Samuel Poljakov, che da modesto impiegato postale si fece imprenditore,
realizzando in soli quattro anni e linee Kozlov-Rostov e Kursk-Taganrog
(più di 1.000 km la prima, quasi 900 la seconda), e per di più a metà del
costo inizialmente previsto. Si trattò di due ferrovie economicamente strategiche, dato che misero in comunicazione le regioni cerealicole centrali
con i porti del Mar Nero.
Un altro costruttore di spicco fu Ivan S. Blioch che, in particolare, realizzò la linea Libau-Romny per collegare il Baltico con i centri cerealicoli
dell’Ucraina, nonché il tracciato Odessa-Brest. Di origini modestissime,
egli era entrato nel campo ferroviario come subfornitore di materiali, trasformandosi poi in imprenditore. All’apice della carriera, diede vita
all’Associazione delle ferrovie sudoccidentali23.
Alquanto diversa fu la carriera imprenditoriale di Savva Mamontov,
che proveniva da una cospicua famiglia di grandi mercanti nel settore
delle bevande alcoliche. Uomo di svariati interessi (nel 1885 diede vita a
una società operistica privata per promuovere l’attività di compositori
quali Musorgskij, Rimskij-Korsakov e Cajkovskij), egli sviluppò le reti
ferroviarie che, a nord di Mosca, andarono a collegare la capitale con le
città di Jaroslavl’, Vologda e Arcangelo. E, tuttavia, la crisi finanziaria che
colpì la Russia tra il 1900 e il 1903, lo travolse al pari di altri grandi costruttori.
Lo stato non fu tuttavia del tutto estraneo alle costruzioni ferroviarie,
trovando “stretta” la ricordata pratica delle concessioni a “costruire e gestire” alla quale aveva precedentemente deciso di autolimitarsi. Tra il 1881 e
il 1886, ad esempio, ma poi la cosa si replicò anche per la Transiberiana,
il governo si attribuì nuovamente il ruolo di principale promotore del-
l’industrializzazione, in parte a causa di una caduta nel tasso di crescita.
Nel campo ferroviario, anziché limitarsi a garantire la redditività dei capitali investiti, il Tesoro cominciò a comprare azioni ferroviarie, giungendo
a detenere all’inizio del ‘900 partecipazioni per poco più del 75% dell’intero capitale delle varie compagnie, valutato in 4.700 milioni di rubli24.
4. La “infrastrutturazione” giuridica e finanziaria
Vi è una singolarità nella contraddittoria, e se vogliamo ondularoria,
industrializzazione russa; ed è che un paese arretrato si pose presto il
problema di dotarsi di istituzioni finanziarie in grado di supportare l’enorme stock di investimenti necessario alla modernizzazione di un’economia
arcaica. Certo, ci si arrivò per gradi, ma prima di altri paesi periferici, se
solo si pone a mente la difficoltà di riformare la vetusta (e vincolistica)
legislazione sulle società anonime nella pur piccola Italia, o di costruire
un qualche sistema bancario degno di questo nome25.
Certo, le costruzioni ferroviarie funzionarono da volano, dato che –
con i capitali stranieri che arrivarono a sostegno delle stesse – giunsero
anche investimenti che servirono da abbrivio a un primo sistema di fabbrica. Permanevano però non pochi remore allo sviluppo di un capitale
di rischio, locale o straniero che fosse, in grado di sviluppare tutte le sue
potenzialità. Un primo passo in tale direzione fu rappresentato dalla riforma della giustizia civile e, soprattutto, dei codici commerciali, nel
1864 rappresentò una vera e propria, e per certi versi rivoluzionaria,
“infrastrutturazione giuridica” del paese, che portò decisi cambiamenti
nell’ordinamento normativo riguardante le attività economiche. Cosicché il mondo degli affari cominciò a disporre di un «sistema legale in
Si trattò di una delle prime associazioni imprenditoriali russe, che fu peraltro utile a Blioch per raccogliere i materiali che poi gli servirono per scrivere, e pubblicare
(1878) uno studio di particolare interesse, L’influenza delle ferrovie sulla vita economica
della Russia, ancor oggi molto citato nella letteratura di settore. In questa associazione lavorarono anche due futuri ministri delle Finanze, Vysnegradskij e il già ricordato
Witte, il che testimonia del legame tra costruzioni ferroviarie ed élites politiche.
24
Nel 1912 il valore di tali partecipazioni era sceso al 67%, ma più per gli incrementi nell’estensione delle varie reti che per un qualche disinvestimento
da parte dello stato. Per dare un’idea dell’incidenza pubblica nell’investimento ferroviario, basti ricordare che è stato calcolato come nel periodo 1890-1900 le nuove
sottoscrizioni azionarie e/o l’acquisto di azioni ferroviarie sul mercato da parte del
Tesoro abbiano comportato un esborso annuo di ca. 120 milioni di rubli. Dati tratti
da M.C. Kaser, L’imprenditorialità russa, in Storia economica Cambridge, vol. 7/II,
cit., p. 584.
25
Si veda qualche spunto al capitolo X.
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Capitolo undicesimo
grado di rispondere alle esigenze proprie delle relazioni e delle istituzioni commerciali moderne con imparzialità, flessibilità, prontezza e prevedibilità»26. La “prevedibilità”, anzitutto: elemento fondamentale in un
paese nel quale la giustizia era sempre stata aleatoria, o meglio, il più
del-le volte, assolutamente discrezionale.
Pur se ancora con qualche incertezza, quell’atto legislativo determinò
la nascita di un mercato garantito dalla legge in materia di contratti a
lunga scadenza, e quindi anche di quel particolare “contratto” rappresentato dalle emissioni azionarie e dalle transazioni relative ai titoli delle
stesse, favorendo l’afflusso dei capitali stranieri ma anche, e soprattutto,
la ventata di ottimismo, “giuridico” verrebbe da dire, che alimentò una
improvvisa propensione del risparmio interno ad indirizzarsi agli investimenti di rischio27.
E tuttavia ciò non sarebbe stato sufficiente se non fossero contemporaneamente sorte istituzioni finanziarie in grado di supportare questa
euforia degli investitori. Si può far datare il loro comparire a partire
dalla costituzione, nel 1860, di un istituto centrale d’emissione. Pochi
anni dopo (1864) nacque la prima banca commerciale, cui presto
seguirono numerose altre; a San Pietroburgo nel 1875 ne esistevano
già 25, e a Mosca ne erano nel frattempo sorte altre 5. Ma, accanto a
queste, si svilupparono presto le Associazioni di mutuo credito
(qualcosa di simile alle banche popolari promosse in Italia da Luigi
Luzzatti) e le banche municipali: nel 1875, le prime superavano ormai
la ottantina, mentre le seconde avevano quasi raggiunto le 250 unità. A
queste, che muovevano essenzialmente il risparmio urbano, si unì nel
1883 la Banca fondiaria dei contadini che si attivò, con un numero
crescente di sportelli, nella raccolta del piccolo risparmio rurale. La
crescita del numero di istituti bancari si ri-fletté positivamente sullo
sviluppo economico: se fino al 1861 la raccolta delle poche banche
esistenti (si trattava, in genere, delle c.d. Banche di risparmio28)
indirizzava gli impieghi prevalentemente ai titoli si stato, nel 1876 la
situazione appariva molto diversa, stante che l’attivo dei nuovi e
numerosi istituti era nella stragrande maggioranza costituito da azioni
ferroviarie e da obbligazioni ipotecarie su fondi agri-coli.
Se l’investimento dei singoli investitori, ma più ancora quello delle banche, si indirizzava al mercato azionario, quest’ultimo appariva comunque
ancora arretrato. Certo, esisteva una Borsa, sorta a San Pietroburgo fin
dal 1703, ma solo una piccola parte delle transazioni (sia che in merci
che in titoli) passava di lì, la maggior parte avvenendo direttamente tra
“venditori” [le società emittenti, nel caso di titoli azionari] e “compratori”.
Pesò a lungo, nel difficoltato decollo di un mercato borsistico maturo, e
quindi impersonale, il ritardo con il quale lo stato rimosse il rigido vincolismo sulla formazione e sulla gestione delle società azionarie: non fu,
ovviamente, una caratteristica solo russa29, ma pesò qui più che altrove
perché lasciò ine-spresse molte potenzialità imprenditive.
La costituzione di società azionarie, già regolamentata in atti normativi che risalivano al ‘700, e quindi all’epoca preindustriale, era stata
parzialmente innovata con uno Statuto del 1836, che tuttavia manteneva
pressoché inalterato il complesso iter autorizzativo cui, per poter operare, erano soggette le società private. Nel 1861 il governo di Alessandro
II, premuto soprattutto dai grandi investitori stranieri, decise di
procedere ad una radicale riforma degli istituti societari; ma essa tardò
quasi un decennio, dato che fu emanata solo nel febbraio 1870. Il
provvedimen-to, che costituiva una sostanziale abolizione dei vincoli
precedenti, rileva perché da esso conseguì, nel 1874, la
regolamentazione (e quindi un’altra “certezza” giuridica) dell’attività di
mediazione e di specula-zione borsistica, dando così luogo alla nascita
di un mercato finanziario coerente alle esigenze di un’economia
industriale di mercato. Alla Borsa della capitale si affiancarono presto
analoghe istituzioni (ancorché di minore importanza) nei principali
centri russi. Alla vigilia della prima guerra mondiale, se ne contavano
ben 115, anche se nella maggior parte di esse le contrattazioni
26
W.G. Wagner, Tsarist Legal Policies at the End of the Nineteenth Century. A Study in
Inconsistencies, “Slavonic and East European Review”, LVI, 1976, p. 393.
27
Qualche dato è, al proposito, significativo, e riguarda le sottoscrizioni azionarie
nelle compagnie ferroviarie. Tra il 1851 e il 1860 dei 178 milioni investiti, quasi 130
venivano dall’estero. Dei 700 milioni di capitale azionario emesso tra il 1861 e il
1870, oltre il 65% venne sottoscritto da cittadini russi, il che testimoniava del clima
di fiducia che la riforma del ‘64 aveva innescato tra i risparmiatori.
Queste erano abbastanza simili per ordinamento, e funzioni, alle Casse di risparmio dell’Occidente europeo, focalizzandosi più alla tutela e modesta remunerazione
dei depositi che non al sostegno delle attività economiche.
29
Rimando al caso italiano descritto nel capitolo X, che parzialmente si intrattiene
sulla lunga battaglia parlamentare dell’industriale laniero (e senatore del regno) Alessandro Rossi che alla fine portò alla liberalizzazione delle società anonime.
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28
La prima industrializzazione russa
Capitolo undicesimo
riguardavano principalmente derrate agricole e materie prime (carbone,
legname, minerali ferrosi), e solo parzialmente azioni ed obbligazioni.
Pure il sistema fiscale venne aggiornato, ma non sino al punto da poterlo comparare con i principi in uso nei principali paesi industriali dell’Europa occidentale. E comunque si trattò di una riforma molto lenta.
Il testatico, imposta medievale ed odiosa poiché colpiva ogni individuo
per il solo fatto di esistere, venne abolito solo nel 1885, ma bisognò attendere il 1916 perché venisse introdotta, quale misura eccezionale di
guerra, la tassazione sul reddito. Nel frattempo, al fabbisogno statale
veniva fatto fronte con una timida tassazione sui patrimoni fondiari e
immobiliari, e con crescenti imposte sui consumi, invero inique quanto
il testatico. Fu anche questa una causa della cd. Rivoluzione del 1905,
ancorché originata dalla disastrosa guerra con il Giappone, che costrinse
Nicola II a concedere la Costituzione e ad (almeno teoricamente) garantire alcuni basilari diritti civili. Una prima concretizzazione di tali
diritti fu, comunque, un ulteriore allargamento della libertà di movimento
dei contadini, straordinariamente utile in una fase di ripresa del processo
industrializzante dopo la depressione dei primi anni del secolo.
condivisibile) la tesi di A. Gerschenkron circa il cruciale ruolo di “supplenza” svolto – in carenza di una sufficiente disponibilità di capitali
locali – dagli investimenti bancari dei paesi terzi. Con, tuttavia, una
specificazione: la carente disponibilità di capitali nazionali nei paesi
“periferici” non va intesa (come Gerschenkron ha teso invece spesso a
ritenere31) come carenza assoluta di risorse finanziarie, quanto come resistenza dei ceti redditieri all’investimento di rischio. Il che sta a dire che,
pur in presenza di uno stock di capitali anche rilevante, solo una parte di
esso era disponibile a mobilitarsi nelle attività produttive, indirizzandosi piuttosto a un mix variegato di titoli del debito pubblico dei principali
paesi europei e alle obbligazioni ferroviarie, in genere statunitensi. Ciò
fu vero in Russia, ma anche in altri paesi di tardiva industrializzazione
come l’Italia. Del resto, Gerschenkron ha utilizzato per Russia e Italia le
medesima argomentazione della mancanza di capitali come freno al processo di industrializzazione, sottovalutando sia l’entità dello stock di capitale esistente, sia i fattori psicologici che rendevano gran parte di tale massa
finanziaria indisponibile all’investimento di rischio.
Non ci furono, comunque, solo le banche straniere nella modernizzazione russa. Un ruolo di non poco conto fu svolto dalle banche commerciali
di San Pietroburgo e di Mosca, e in particolare da quelle moscovite. La
Banca commerciale di prestiti dell’antica capitale, fondata nel 1856, divenne presto una delle maggiori del paese, tallonata dalla Banca di
sconto, sua diretta concorrente. In tali istituti, l’azionariato principale
non era finanziario, bensì soprattutto di industriali tessili, e infatti la maggior parte degli impieghi furono rivolti alle attività di quel settore, dapprima sotto forma di prestiti d’esercizio, poi assumendo partecipazioni
nelle singole imprese. Il fatto che fossero capitali di origine industriale ad
essere investiti nelle attività bancarie moscovite contraddice, in parte, la
tesi di Gerschenkron circa la natura necessariamente finanziaria del capitale bancario. Certo, la presenza di capitale industriale non fu comune a
tutte le banche, e certamente non in quelle di San Pietroburgo, dove la componente finanziaria, soprattutto straniera, risultò decisiva. E ciò si riflesse anche nella modalità di impiego dei depositi: che se a Mosca furono
prevalentemente “a breve” (con dilazioni massime a 9 mesi per il credito commerciale), nelle banche della capitale si indirizzarono in gran parte agli investimenti a lungo termine, soprattutto nel settore delle industrie estrat-
5. Finanza nazionale, e penetrazione del capitale straniero
È indiscutibile la presenza del capitale straniero nella prima industrializzazione russa, peraltro comune a buona parte dei paesi periferici, alla
cui categoria la Russia è indubbiamente ascrivibile. E tuttavia conviene
analizzare meglio in quale peso essa si manifestò. A partire da un comparto strategico dal punto di vista dell’energia da vapore, vale a dire l’estrazione di carbone.
Uno storico di prima età sovietica ha valutato che, nel 1913, tre quarti
delle imprese attive in quel settore, erano pressoché totalmente dipendenti dai capitali di banche straniere, quelle franco-belghe innanzitutto,
seguite da quelle tedesche e franco-tedesche30. Come dire che il capitale francese, in Russia come in altri paesi periferici – ad esempio in Spagna –
è stato cruciale nello sfruttamento delle risorse carbonifere. Con l’avvertenza, tuttavia, che non tutta la produzione rimaneva poi nel paese di
produzione, prendendo in parte la via dell’esportazione.
Nella storiografia economica, peraltro, è nota (e, per certi versi, anche
30
Cfr. N. Vanag, Finansovyj kapital v Rossii, Moskva, 1925, pp. 123 e 125.
357
31
A. Gerschenkron, The Modernization of Enterpreneurship: Id. Continuity in History
and Other Essays, Cambridge (Mass.), 1968, pp. 128-129.
358
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Capitolo undicesimo
tive e metallurgiche. La loro funzione nei prestiti di tal tipo, rese più stretti di quanto non avvenisse per gli istituti moscoviti i legami col ministero
delle Finanze. Nei periodi di crisi, la Banca di Stato (riformata nel 1897)
collaborò – con forti iniezioni di capitale, o meglio giocando il ruolo di
“prestatore di ultima istanza”32 – a garantirne il funzionamento, considerato strategico nel processo industrializzante. Convintisi dell’efficacia
del sostegno governativo, gli investitori esteri acquistarono dopo il 1908
quantità crescenti di azioni delle banche russe, cosicché nel 1916 – in
pieno conflitto mondiale – risultava in mani straniere quasi la metà del
capitale complessivo delle dieci maggiori società di credito. È indubbio
che l’afflusso di capitali esteri accelerò l’incremento della dimensione media delle banche, in un processo di accentuata concentrazione sia in termini
di proprietà azionaria che nell’entità dell’attivo detenuto dalle principali
banche.
Ha osservato Gerschenkron che «pochi fenomeni sono altrettanto
sorprendenti dei grandi cambiamenti intervenuti nei valori, negli atteggiamenti e nelle regole di condotta degli imprenditori russi nel corso di una
sola generazione, tra il penultimo decennio dell’Ottocento e gli anni che
precedettero la prima guerra mondiale. Ebbe [infatti] luogo uno stupefacente processo di modernizzazione, non prima ma proprio durante una
fase di intensa industrializzazione, e quale sua conseguenza diretta»33. Nel
decennio 1889-99, ad esempio, il numero delle società azionarie crebbe da
504 a 1.181, con un capitale complessivo di 1.737 milioni di rubli: di questi, ben 911 erano in capo ad azionisti stranieri (nel 1870 le sottoscrizioni
dal’estero ammontavano a soli 27 milioni di rubli, il che testimonia del
progressivo appeal assunto dal mercato russo. Questa fase espansiva nella
formazione di società azionarie si bloccò bruscamente durante la recessione dei primi anni del ‘900, e riprese (anche se con minore intensità) solo
a partire dal 1911.
L’afflusso di capitale straniero fu perciò cruciale nell’industrializzazione zarista, e tale era del resto ritenuto dallo stesso ministro delle Finanze, Witte, che nel 1899 così si esprimeva scrivendo allo zar Nicola II:
«[Esso costituisce] la condizione sine qua non perché la nostra industria
si ponga in grado di rifornire rapidamente il paese con prodotti abbon-
danti e poco costosi. Ciascuna delle nuove ondate di capitale provenienti
dall’estero compromette il livello eccessivamente elevato di profitti cui
sono abituati i nostri uomini d’affari monopolistici, costringendoli a ricercare profitti altrettanto elevati mediante miglioramenti tecnici tali da
provocare riduzioni dei prezzi»34. Il che sta a dire che Witte affidava agli
investimenti esteri non solo il compito di aumentare lo stock di disponibilità finanziarie utili alla crescita industriale del paese, ma anche quello
(immateriale) di favorire/affinare nell’imprenditoria locale mentalità più
moderne e, tutto sommato, meno parassitarie. Mancano studi specifici
sull’argomento, ma è presumibile ritenere che gli stranieri che combinarono il possesso di azioni a funzioni manageriali all’interno delle società
partecipate, riuscirono a imporre comportamenti tendenzialmente più
affini a quelli in uso nei paesi da cui essi provenivano. Certo, l’agire all’interno di un paese arretrato poteva anche portare in qualche misura ad
assimilare la mentalità “predatoria” dei soci russi, ma la maggiore abitudine a confrontarsi con mercati più maturi può aver indotto, secondo le
aspettative di Witte, a una qualche (positiva) modificazione nelle modalità operative delle imprese partecipate.
Riservando i finanziamenti o le iniziative dello Stato ai soli investimenti in infrastrutture, ferroviarie soprattutto, Wítte lasciò disponibili per gli
imprenditori privati tutte le altre opportunità economiche. Conviene ricordare come i due terzi della rete ferroviaria fossero partecipati in misura maggioritaria dallo stato, mentre scarse erano le risorse finanziarie
da questo direttamente destinate al sostegno di altri comparti. Non
mancarono, tuttavia, episodi di “salvataggio” pubblico di imprese
sull’orlo del fallimento. E ciò non tanto per salvaguardare l’occu-pazione,
quanto per evitare gli effetti moltiplicativi che il crollo di qual-che grande
impresa poteva determinare nel sistema: il tutto con un effetto
rassicurante nei confronti degli investitori stranieri, forse il vero obiettivo
dell’intervento statale. Esso, comunque, non significò mai la nazionalizzazione delle imprese in crisi, ma solo un temporaneo, ancorché consistente, aiuto finanziario.
Ma quale fu, davvero, il contributo del capitale straniero all’economia
russa? Possiamo riassumerlo nei quattro punti indicati da J.P. Mckay,
32
Con ciò assolvendo al compito tipico degli istituti di emissione da tempo in uso
in Occidente, attraverso il meccanismo del risconto sui titoli detenuti dalle banche
onde rifornirle di nuova liquidità.
33
Gerschenkron, The Modernization of Enterpreneurship, cit.
34
Riprendiamo questa argomentazione da M.C. Kaser, L’imprenditorialità russa, in
Storia economica Cambridge, vol. 7/II, cit., p. 595, autore del quale siamo peraltro
debitori per parte dell’impianto di questo capitolo.
359
360
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uno di principali studiosi occidentali che si sono occupati del tema35:
a) presente in Russia ben prima del 1870, tra il 1881 e il 1913 il capitale
estero rappresentò approssimativamente la metà di tutti gli investimenti
industriali effettuati in quel paese;
b) esso favorì, anche in misura allo stato non quantificabile, investimenti di capitali locali al di fuori del territorio nazionale, in una sorta di
internazionalizzazione della finanza russa;
c) diffuse tecniche produttive e gestionali molto più progredite di quelle
in uso nelle aziende locali, in particolare in quelle estrattive, metallurgiche, della lavorazione dei metalli, e della produzione elettrica e chimica,
in buona parte delle quali vennero presto raggiunte strutture di costo paragonabili a quelle dell’Europa occidentale;
d) incise negli atteggiamenti degli imprenditori locali, in particolar modo
favorendo/imponendo il reinvestimento sistematico di buona parte dei
profitti, nonché la formazione dei lavoratori e la rimozione degli ostacoli spesso frapposti all’assegnazione di funzioni direttive a personale ebreo
o polacco, in particolare nella Polonia russa36.
A proposito dei territori polacchi dell’impero, conviene ricordare che
essi ebbero non solo un ruolo di “colonia” industriale, ma anche di supporto finanziario alla modernizzazione economica dell’impero.
Ciò fu dovuto al sorgere in quell’area, in parte grazie a finanzieri ebrei,
di alcune banche d’investimento, e soprattutto della Banca commerciale
di Varsavia, che ben presto approdò anche a San Pietroburgo. Nel 1873
il giro d’affari di questa banca a Varsavia e nella capitale non era molto
dissimile (414 milioni di rubli a Varsavia, 521 milioni a San Pietroburgo);
solo tre anni dopo, però, la situazione era mutata radicalmente, superando
l’attività nella capitale di quasi tre volte quella a Varsavia. Fu un rapporto che tuttavia si invertì a fine secolo, allorché la concorrenza bancaria
si fece più aspra in Russia, mentre crebbe considerevolmente la domanda di credito in una Polonia nella quale il numero di banche era sensibilmente inferiore: nel 1900 la Banca registrava, con le filiali che ave-va nel
frattempo aperte in altre aree polacche, un giro d’affari di 1.105 mi-lioni
di rubli, contro i 307 sviluppato nella capitale russa.
La Banca commerciale di Varsavia era particolarmente attiva nei prestiti all’industria metallurgica, soprattutto ucraina, nel comparto cotoniero
e nei finanziamenti a vari settori d’attività sviluppatisi nei territori progressivamente aperti alle comunicazioni dalla ferrovia Transiberiana.
Oltre che a evidenti ragioni economiche, l’atteggiamento del governo
che dal giugno 1906 al settembre 1911 resse il paese, quello di Pëtr A.
Stolypin, favorevole a che le nuove iniziative industriali si collocassero
lungo la strada ferrata in costruzione, era dovuto alla preoccupazione di
evitare una eccessiva concentrazione operaia nella Russia europea per
scongiurare il rischio che si potessero determinare pericolosi focolai di
sovversione socialista in aree eccessivamente prossime al potere centrale.
L’azione politica di P.A. Stolypin, la cui vita fu stroncata da un attentato di incerta matrice, non fu tuttavia improntata alla sola repressione dei
fermenti rivoluzionari (prima di assumere la guida del governo, era stato peraltro abile, e risoluto, ministro degli Interni), ma – in qualche modo –
anche a una forte azione riformatrice, tanto che lo si può considerare, al
pari di S. Witte, uno dei pochi grandi riformatori d’età zarista.
Nel novembre 1906, pochi mesi dopo essere diventato ministro, egli fece
infatti promulgare da Nicola II una nuova legge di riforma agraria che
allargava la proprietà privata dei piccoli contadini perseguendola attraverso un istituto di credito pubblico, la Banca Agraria dei Contadini.
Questa fu abilitata a comprare, contrattandola al ribasso, una estesa quantità di terre inutilizzate mettendole a disposizione dei contadini che
potevano acquistarle a credito grazie a una speciale garanzia del Tesoro
statale. Ne usufruì circa mezzo milione di capifamiglia, che entrarono in
possesso di quattro milioni di ettari. Stolypin tendeva a trasformare una
parte dei contadini poveri in piccoli proprietari, nell’obiettivo di fare della
Russia una sorta di “federazione” di proprietari, dai più piccoli ai più
grandi; il tutto nell’idea, dal punto di vista di un aristocratico fedele alla
corona quale egli era, di costruire un blocco sociale che si identificasse
35
J.P. Mckay, Pioneers of Profit: Foreign Entrepreneurship and Russian Industrialization,
1885-1913, Chicago, 1970, pp. 380-83.
36
La Polonia orientale, come è noto, era una sorta di protettorato degli zar, e lì il capitale russo fu particolarmente attivo, a partire dal settore tessile, ma compartendo
la propria influenza con non indifferenti capitali tedeschi. Esisteva, tuttavia, anche
una vivace imprenditoria autoctona, in parte di religione ebraica, impegnata sia nel
tessile – soprattutto cotoniero – sia nelle attività estrattive e metallurgiche. Il capitale
straniero, tedesco in particolare, era indifferente all’origine etnica dei tecnici e dei
dirigenti dato che li sceglieva unicamente in base alla loro competenza ed efficienza. Per gli imprenditori russi le cose erano più complicate, dato che mal sopportavano nei posti di responsabilità personale che non fosse di nazionalità russa, in ciò
appoggiato anche dal governo zarista che aveva nei territori polacchi avviato una
politica di russificazione spinta, soprattutto dopo la rivolta del 1863, peraltro
sedata nel sangue.
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362
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nei destini della monarchia zarista. Esito non scontato, e infatti alla fine
non conseguito, anche per le tensioni modernizzanti che attraversavano
non solo la borghesia agraria, ma parte della stessa aristocrazia, ostile ad
una visione “conservatrice” della costituzione che Nicola II pure era stato
costretto a concedere.
ingente quantità di risorse naturali ancora da sfruttare – la possibilità di
realizzare, più che economie di scala, economie esterne fosse molto appetibile per le imprese russe. Le quali tendevano inoltre a importare
dall’Occidente la tecnologia più avanzata (l’industria russa dell’acciaio
era all’avanguardia all’inizio del xx secolo) e ad applicarla in unità di maggiori dimensioni, come avvenne nel bacino del Don dove sorsero officine
metallurgiche tra le più grandi del mondo. La disparità tra le economie
di scala interne e quelle esterne rese possibili dalla cartellizzazione dovette esercitare uno stimolo di particolare vigore, che del resto addirittura si esasperò nelle grandi concentrazioni produttive d’età sovietica.
I primi cartelli, ad esempio quelli già citati del petrolio e dello zucchero, non erano tuttavia strutture organizzative eccessivamente rigide. Fu
nella “regione Polacca” fecero la loro comparsa cartelli rigidamente disciplinati, dapprima nel settore del cemento (1901) e della metallurgia (1902).
Il sindacato del petrolio del 1892, limitato al commercio d’esportazione,
era stato concepito, auspice il governo, per competere con la Standard
Oil sui mercati esteri. I campi petroliferi di Baku erano sfruttati in parte
da una gran massa di piccoli produttori, di origine tatara o armena, e in
parte da qualche grande società.
Il primo passo verso un rigoroso controllo della produzione sul mercato interno avvenne con l’organizzazione di consultazioni periodiche
nell’ambito delle associazioni di produttori; fu quindi creato un Consiglio congressuale degli industriali del petrolio di Baku, mentre si formarono
analoghi gruppi per i campi carboniferi o minerari della Russia del Sud,
degli Urali e della stessa “regione Polacca”. L’organizzazione degli industriali petroliferi diede vita nel 1902 ad un’agenzia di vendita associata, denominata Prodamet, che giunse nel 1908 a controllare circa il
70% circa di tutta la produzione nazionale. Vennero analogamente
create due agenzie di vendita per prodotti metallici (1902) e per tubi e
vagoni ferroviari (1904): quest’ultima riuscì a praticamente monopolizzare il mercato. Un sindacato altrettanto importante, ancorché diverso in quanto controllato principalmente da compagnie francesi e belghe,
fu quello carbonifero del bacino del Donec (Produgol) creato nel 1906,
che arrivò pressoché subito a controllare il 75% della produzione lì realizzata. Altri cartelli risultavano di minor dimensione, ma ugualmente
importanti, come il Comitato per i metalli e i prodotti metallici degli
Urali (1904) e il Congresso dei costruttori di macchine agricole (1907), i
quali – pur organizzati in forme meno rigorose – giunsero tuttavia a raggruppare facilmente i tre quarti della produzione dei rispettivi settori.
6. La “cartellizzazione” dell’industria russa
La depressione che esplose all’inizio del ‘900, accelerò la latente cartellizzazione dell’industria già emersa negli ultimi due decenni del secolo precedente. Nel 1892 era ad esempio sorto il cd. Sindacato del petrolio, che ebbe subito l’appoggio del governo. Il quale favorì successivamente
(1895) la trasformazione di un accordo privato tra i raffinatori di zucchero
in un cartello formale, dando esso stesso origine a un monopolio per la
produzione di bevande alcoliche, in parte strutturato sul modello francese della régie des tabacs, in parte sui permessi di distillazione ai produttori
agricoli introdotti – prima ancora dell’unificazione tedesca – dal regno
di Prussia.
Per Witte, ma ciò valse dopo anche per Stolypin, non esisteva «contrapposizione netta tra l’impresa di Stato e quella privata, sinché ciascuna di
esse si fosse attenuta alla sfera di attività nella quale aveva dato la prova
d’essere più efficiente»37. In questa ottica, i cartelli potevano anche formarsi tra imprese private e imprese pubbliche, al fine di meglio coordinare
le rispettive attività. E Witte incoraggiò sistematicamente le associazioni
nazionali e locali di industriali, commercianti e funzionari, più volte
sostenendo che il governo «non avrebbe sollevato ostacoli» se l’industria
«avesse trovato utile di combinare gli sforzi al fine di cercare una via d’uscita alle difficoltà del momento»38. Il riferimento era, ovviamente, alla
recessione d’inizio secolo.
È indubbio che, al di là dell’emergenza di una congiuntura particolarmente sfavorevole, la cartellizzazione (che costituiva di fatto un processo
di concentrazione industriale) rispondeva anche ai vantaggi in termini di
economie esterne che così potevano essere conseguite. Era del resto
naturale che – in una delle prime fasi dell’industrializzazione e con una
37
R. Hare, Portraits of Russian Personalities between Reform and Revolution, London,
1959, p. 306.
38
Laue (von), Sergei Witte…, cit., p. 677.
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La prima industrializzazione russa
Capitolo undicesimo
Le associazioni dei produttori tessili non riuscirono invece mai a raggiungere tali livelli di concentrazione: né l’Associazione dei cotonieri
della regione centrale (che nella sua massima estensione a mala pena
riuscì a superare il 40% della produzione complessiva), né tanto meno
quelle degli industriali lanieri e degli industriali linieri. La spiegazione
sta non solo nella estrema frammentazione di quei comparti, ma – più
ancora – nella congenita lentezza dei salti tecnologici nei loro processi produttivi, tanto che i tentativi concentrativi nel tessile non erano
riusciti nemmeno negli Stati Uniti.
Al vertice della sistema dei cartelli stava una complessa gerarchia di
organizzazioni consultive, a partire dal “Congresso dei congressi dei rappresentanti del commercio e dell’industria”, costituito nel 1906, che fungeva da portavoce presso il governo dell’industria nel suo complesso39.
Ma la generalità (e, per certi versi, genericità) degli interessi di cui esso
era patrocinatore, portò al sorgere di rappresentanze più settoriali, come
l’influente “Ufficio consultivo permanente degli industriali del ferro”, che
rappresentava l’intera metallurgica russa e che fu presto in grado di efficacemente condizionare le scelte politiche che riguardavano i suoi associati.
Un tale fervore associativo, a meno che non si trattasse di cartelli, non
rispose necessariamente a logiche lobbistiche o strettamente economiche,
mirando piuttosto a migliorare l’immagine sociale e l’influenza degli imprenditori, in modo da far progredire quella legittimazione dell’iniziativa privata alla cui mancanza, fin dai tempi di Pietro il Grande40, aveva
dovuto in qualche modo supplire l’intervento statale41. Questo attivismo
favorì del resto, dopo l’entrata della Russia nel primo conflitto mondiale,
il protagonismo imprenditoriale nella gestione dell’economia di guerra,
della quale le principali organizzazioni (di cartello, o meno) assunsero di
fatto il controllo. Che, tuttavia, si rivelò presto inadeguato, soprattutto
dopo che l’esercito russo subì una grave sconfitta a Galich, città polacca
ai confini con l’Ucraina42, da dove iniziò l’avanzata nemica in Ucraina.
L’inferiorità del sistema di produzione bellica russa, e dei rifornimenti alimentari alle truppe, apparse allora in tutta la sua gravità, e si corse presto
ai ripari con la costituzione da parte del governo (giugno 1915) di un
Consiglio speciale per il coordinamento degli approvvigionamenti bellici, cui presto si affiancarono su iniziativa delle imprese private due distinti
(e tra loro conflittuali) Comitati centrali delle industrie di guerra: uno
nella capitale e l’altro a Mosca, quest’ultimo sorto per il timore degli imprenditori moscoviti che quello di San Pietroburgo accaparrasse a favore
dei propri associati tutti i contratti di fornitura all’esercito, poi tuttavia
unificandosi. Si sperava così che l’attività coordinata di un’organizzazione non ufficiale portasse ad un superamento della inefficienza governativa,
e in parte fu così. Il comitato unificato di San Pietroburgo e di Mosca
comprendeva non solo le imprese, ma anche rappresentanti eletti dai
lavoratori delle fabbriche, ancorché assolutamente minoritari; il loro inserimento aveva lo scopo di motivare le maestranze nello sforzo bellico,
anche se ciò non evito ricorrenti scioperi e proteste di ordine sia salariale che organizzativo.
L’unificato Comitato centrale delle industrie di guerra trovò in parte il
modo di coordinare le proprie attività con gli omologhi comitati governativi’, ottenendo quattro posti nel ricostituito Consiglio speciale per la
difesa (agosto 1915). Quest’ultimo svolse in parte il ruolo di mobilitatore/organizzatore dello sforzo produttivo bellico, anche se meno efficacemente di quanto non avvenne negli analoghi organismi messi in
campo in Inghilterra o in Francia nel medesimo periodo, o anche in
Italia con il Sottosegretariato alla Mobilitazione industriale (1916).
Non ci volle molto perché gli industriali si spingessero ben oltre la
semplice attività di coordinamento degli appalti e delle forniture di munizioni. Essi rafforzarono i cartelli già esistenti, e ne crearono di nuovi
in forme più istituzionalizzate e paragovernative, ad esempio il Rasmeko,
un comitato per la fornitura di metalli (novembre 1915), ove erano rappresentati su basi paritetiche il governo e il Comitato delle industrie di
guerra. I nuovi cartelli, le cui denominazioni erano destinate a perdurare in età sovietica durante il c.d. comunismo di guerra, riguardavano le
principali materie prime: nell’autunno del 1916 si arrivò alla costituzione del Centrougol per il carbone, il Centrochlopok per il cotone, il Centro-
39
Secondo i critici dell’epoca, l’operato del “Congresso dei congressi” fu spesso
inquinato dagli stretti legami che esistevano da sempre tra gli industriali di San Pietroburgo, dove aveva sede tale organizzazione, e i ministeri. Tale opinione è riassumibile in questa frase tranchante, riportata in J.D. White, Moscow, Petersburg and the
Russian Industrialists, “Soviet Studies”, XXIV, 1973, p. 416: «[…] nel perpetuo contatto con la burocrazia sclerotizzata, la rappresentanza dell’industria e del commercio
divenne essa stessa una sorta di burocrazia industriale».
40
Pietro I (1682-1725), detto Pietro il Grande, regnò dal 1696 fino alla morte, connotando la sua azione con un forte interventismo governativo in economia.
41
È la tesi di Gerschenkron: The Modernization of Enterpreneurship, cit., pp. 128-39.
365
42
Galich è nota, in polacco, come Haliz.
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serst per la lana; cui, nel marzo del 1917, seguì il Centroles per il legname.
Queste organizzazioni rimasero formalmente in vita tra la rivoluzione
“borghese” del febbraio 1917, e quella bolscevica dell’ottobre, esautorate
però di fatto dai «comitati d’approvvigionamento» locali, controllati sin
dal luglio 1916 da un Comitato centrale di raccolta (Zagotovitel’nyj Komitet) e da un Consiglio economico, il cui braccio esecutivo era costituito
dal Comitato supremo dell’economia. Il che stava a significare la rapida
sostituzione dei cartelli, e del loro strapotere, con forme di monopolio
statale, a partire da quello per il macchinario agricolo e per il cuoio
nell’aprile 1917, nonché per il carbone del Donec nel luglio dello stesso
anno.
43
Cfr., a questo proposito, E.H. Carr, The Bolshevik Revolution, 1917-1923, in The
Economic Order, vol. II, London, 1952, p. 81.
soprattutto a causa del loro eccessivo indebitamento nei confronti del
Tesoro, e poi intervennero alcune iniziative “anarchicamente” assunte da
qualche Soviet locale, come nel caso delle industrie cotoniere del Turkestan. Si proseguì, e questo fu un disegno coerente con la necessità assumere il controllo di gangli vitali dell’economia, espropriando nella
loro totalità alcuni settori, quali le banche, e le aziende che gestivano tratte cruciali dei trasporti per via d’acqua, nonché le imprese attive nella
raffinazione dello zucchero.
Nel dicembre 1917 era stato peraltro istituito il Consiglio supremo dell’economia (Vesencha), che fu lucidamente concepito come organo di
pianificazione e regolamentazione dell’intera economia nazionale, dando vita a monopoli di stato che andarono via via a sostituirsi alle concentrazioni costituite dai cartelli privati, ancorché legittimati ad operare
dal governo imperiale. Il Prodamet e il Krovlja (i cartelli per i prodotti
dei metalli ferrosi e per il ferro da costruzione) furono trasformati, con
un decreto del Vesencha del 22 gennaio 1918 nelle «amministrazioni
dello stato per la regolazione dell’industria dei prodotti ferrosi, sotto la
sorveglianza del dipartimento metallurgico del Vesencha». Seguirono
poi interventi analoghi, anche se modulati nel tempo, per tutti gli altri
vecchi “sindacati” industriali, il tutto in continuità con la politica zarista
che aveva favorito il sorgere di tali cartelli/concentrazioni monopolistici. E, tuttavia, fu una “continuità” che rispondeva a una logica diversa dell’intervento statale: se in età zarista questo era di sostegno/supplenza rispetto all’iniziativa privata, quello bolscevico mirava invece ad
affermare l’indiscusso primato dell’economia statale rispetto a quella privata in via di marginalizzazione, e comunque confinata a comparti non
strategici.
Le vicende della resistenza “bianca” al potere bolscevico, con la portata dirompente dell’appoggio occidentale di cui essa fruì, accelerarono i
processi di statalizzazione dell’apparato economico. Il cui esito ultimo si
può datare con il decreto del 28 giugno 1918, che sancì l’esproprio di
tutte le società il cui capitale eccedesse il milione di rubli in otto settori
industriali d’importanza fondamentale. Ciò segnò rapidamente la fine dell’esperimento di un sistema economico nel cui ambito il controllo era
esercitato congiuntamente dallo Stato e dagli imprenditori capitalisti, e l’inizio del periodo – poi conosciuto col termine di “comunismo di guerra”
– che vide il completamento della nazionalizzazione: un decreto del 29
novembre 1920 espropriò infatti senza indennizzo tutte le imprese con
più di cinque addetti se veniva utilizzata energia meccanica, e con più di
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7. La centralità dello stato indotta dalla rivoluzione bolscevica
Da quel momento in poi nulla più fu come prima: ci si avviava rapidamente a quel diretto controllo dello stato sul complesso dell’economia
che se era in quella fase motivata dall’emergenza bellica, divenne poi
carattere essenziale (e permanente) del nuovo potere bolscevico.
In realtà, ad una completa nazionalizzazione delle imprese industriali, ancorché teoricamente prevista, i bolscevichi non miravano in tempi
brevi. Essi ritenevano infatti obiettivo primario assumere il controllo delle imprese a totale o prevalente capitale straniero, mirando invece per
quelle nazionali ad intese che garantissero, magari con una qualche partecipazione statale, una qualche continuità delle produzioni, essendo il capitale privato ampiamente compensato e/o controllato dalla presenza
di vivaci organizzazioni sindacali attive un po’ in tutte le grandi concentrazioni industriali, e in misura anche maggiore nelle ferrovie, da
tempo – peraltro – ad ormai prevalente capitale pubblico.
In realtà, nel periodo intercorso tra la rivoluzione dell’ottobre 1917 e
la prima grande ondata di nazionalizzazioni avviata nel luglio 1918, appariva in qualche modo evidente una certa comunità di interessi tra il
governo rivoluzionario e gli industriali più accorti per favorire la ripresa
della produzione43.
Le nazionalizzazioni investirono dapprima alcuni singoli impianti,
La prima industrializzazione russa
dieci dipendenti se tutto il lavoro veniva eseguito manualmente. Iniziava
una nuova epoca, e con essa si apriva la strada al più intenso – in termini
sia spazio-temporali che dimensionali – processo di industrializzazione
della storia mondiale.
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