1. Il fenomeno del nichilismo.
Il termine Nichilismo, derivato dal latino nihil (nulla), viene utilizzato nel suo significato moderno
solo a partire dal XVIII secolo. La filosofia del “nulla” tuttavia, ha origini remote: già Gorgia da
Leontini (485-83 a.C. – 375 a.C.), uno dei maggiori pensatori sofisti della Grecia antica, ha
affermato che “non esiste l’essere, cioè nulla esiste; se anche l’essere esistesse, esso non sarebbe
comprensibile; e ammesso pure che fosse comprensibile, esso non sarebbe comunicabile né
spiegabile agli altri”. Il termine Nichilismo, nell’Atene del V secolo non ha ancora un significato
autonomo, ma ha una funzione esclusivamente psicagogica-persuasiva, nonostante Gorgia e i
pensatori a lui vicini sentono il bisogno di interrogarsi sull’essere come sul nulla. Successivamente,
in età Cristiana cambia il valore attribuito al termine: secondo Agostino sono nihilisti coloro che
negano Dio, che negano la natura umana di Cristo oltre che un sistema determinato di valori. Ciò
schiude la via all’indifferentismo morale e alla negazione di Dio, come ben espresso nell’opera di
Dostoevskij Fratelli Karamazov (1878-80). Nel trattato De nonismo et nihilismo in theologia
(1783) di F.L. Goetzius, compare per la prima volta il termine nihilismus; In epoca moderna, il
termine compare nelle lezioni di metafisica di Hamilton. Il primo ad usarlo per designare le dottrine
che, dalla sofistica, come già detto, al moderno fenomenismo (Hume), negano la realtà sostanziale
delle cose, del mondo o più in generale dell’essere. Lo stesso termine viene utilizzato in lingua
italiana da P. Galluppi per definire la posizione filosofica di Zenone di Elea che, conservando la
funzione della filosofia di Parmenide, negava il “movimento”, il divenire. Un ulteriore riferimento
alla tradizione italiana, dal punto di vista del significato del termine nichilista, è sicuramente
l’esperienza poetica-filosofica di Giacomo Leopardi, il quale, nello Zibaldone, identifica il principio
delle cose e Dio stesso nel nulla. Per la poetica leopardiana è solo nella ricerca dell’infinito,
attraverso un “nulla di concreto”, che si può giungere ad uno stato d’animo meno afflitto: “e il
naufragar m’è dolce in questo mare”. Solo attraverso la siepe, che toglie il tutto dalla vista del
poeta, nella quale rimane il niente, egli può andare oltre la finitudine del suo essere. La concezione
dell’uomo come essere sospeso tra la sua condizione di materia finita e l’infinità della sua anima
crea quel senso di “spaesatezza metafisica”. Questo disorientamento non viene mitigato in alcun
modo dalle scoperte e innovazioni dell’età moderna e contemporanea, dalle quali non deriva una
nuova conoscenza delle cause ma solo delle modalità. Quindi l’uomo non si sente al centro del
mondo come invece accadeva nell’età antica e medievale.
Storicamente parlando furono i greci i primi ad aver creato il linguaggio inteso come principio della
conoscenza: di conseguenza la scienza, il dominio dell’uomo sull’oggetto, poggia su quello che
prende il nome di “tecnica”. E’ stato perciò l’uomo artefice della sostituzione di Dio con se stesso a
definire e causare il passaggio dalla “tecnica divina” (creazione) alla “tecnica umana” (produzione)
come suggerisce Emanuele Severino. Solo chi ha il coraggio di guardare in faccia la realtà e di
prendere atto del crollo degli assoluti è ormai maturo, secondo Nietzsche, per varcare l’abisso che
divide l’uomo dall’oltre-uomo. Furono sempre i greci ad avere riconosciuto il valore che sta alla
base della vita, il dolore, che deve essere accettato. “La nascita della tragedia” (1872) è la prima
opera nitzscheana di una certa importanza filosofica. All’origine della grande tragedia greca, lo
spirito dionisiaco e lo spirito apollineo: il primo (essere, Apollo) è ragione e si esprime
artisticamente nella scultura e nelle forme limpide delle arti; il secondo (divenire, Dionisio) è istinto
e si esprime artisticamente nell’esaltazione creatrice della musica e nella poesia tragica. L’oltreuomo (o quello che è il suo predecessore, lo “spirito libero”) ha dietro se stesso, come condizione
necessaria del suo esistere, la morte di Dio e la vertigine da essa provocata. Davanti a se, a titolo di
conquista, il mare aperto delle possibilità connesse a una libera progettazione della propria esistenza
al di là di ogni costruzione metafisica. La morta di Dio (l’atto di nascita dell’oltre-uomo) non
poteva avvenire nella società dell’antica Grecia perché il Dio era in tutte le cose (religione
panteistica); il Dio cristiano invece, in quanto entità creatrice (non panteistica), può essere “ucciso”.
“Gott is tot!” (Dio è morto) è il grande annuncio presente nell’aforisma 125 de La gaia scienza.
L’annuncio dell’“uomo folle” rappresenta uno dei passi più significativi dell’intera opera
nietzscheana: “Dio è morto, lo abbiamo ucciso noi” è l’alba dell’oltre-uomo, e, al tempo stesso,
dell’essere umano che non si accontenta mai e di nessuna cosa, neppure del Dio metafisico che esso
stesso ha creato. La chiesa diventa perciò il sepolcro di Dio: “che altro sono queste chiese, se non
fosse e i sepolcri di Dio?” (La gaia scienza 125, in Opere, Adelphi, Milano 1991, Vol.5, tomo III,
pp. 150-152). Per i nichilisti Dio è un’ipotesi.
Sono proprio queste chiese, simbolo della volontà metafisica, che differenziano l’uomo
dall’animale. Ogni altra facoltà umana (pensiero, linguaggio, etc.) è un semplice mezzo attraverso il
quale far progredire la specie. Secondo Nietzsche, che riprende in un certo senso la teoria
evoluzionistica di Darwin, la nostra facoltà intellettiva o ideologica non è altro che l’equivalente
degli artigli della tigre (Verità e menzogna in senso extramorale; Sul pathos della verità).
Nell’ultimo Nietzsche si assiste ad una radicale trasvalutazione di tutti i valori: “questa è la mia
formula per l’atto con cui l’umanità prende la decisione suprema su se stessa, un atto che in me è
diventato carne e genio” (Ecce Homo). La verità agli occhi di Nietzsche non è solo un’illusione di
cui si è dimenticata la natura illusoria. Tutto ciò apre la strada al prospettivismo ermeneutico, quella
teoria secondo cui non esistono cose o fatti ma solo interpretazioni circostanziate di cose o di fatti:
anche il soggetto(l’io) risulta perciò una costruzione interpretativa.
Il linguaggio è solo un esercito di metafore che assume una convenzione alla cui base stanno
bisogni e interessi collegati all’istinto di conservazione e alla volontà di potenza, “sono i nostri
bisogni che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro”. Si apre davanti all’uomo e
allo stesso Nietzsche quella che prende il nome di illusorietà della scienza. La stessa scienza che è
stata tradizionalmente vista come la forma più rigorosa di conoscenza risulta essere adesso una
costruzione pratico-teorica che maschera la debolezza dell’uomo.
Sulla scorta della nostra breve premessa possiamo affermare che il nichilismo teorico e pratico si
è affermato in modo particolare nella cultura europea tra la fine dell'ottocento e l'inizio del
novecento1.
Un clima nichilistico ha percorso la cultura europea dopo la prima guerra mondiale: la
recezione e lo sviluppo delle tematiche nichilistiche ha come base la sfiducia in quella
razionalità che da Socrate a Comte aveva rappresentato un asse fondamentale dell'Occidente.
Ecco uno schema delle conseguenze del nichilismo teorico e pratico:
1) senso di smarrimento e di angoscia dinanzi al crollo di tradizioni e valori millenari;
della coscienza di una crisi complessiva che ha investito le fedi religiose
2) spaesamento dinanzi all'avvento delle grandi ideologie storico-politiche e dei relativi
totalitarismi.
Oggi, lo stesso nichilismo, inteso in senso lato, è ormai un fenomeno che fa parte
dell'autocoscienza del nostro tempo, tocca in profondità la vita, il costume e l'azione dei
contemporanei. In esso confluiscono molti e differenti concetti quali:
1
Cfr. M. Heidegger, Der europäische Nihilismus, Neske, Pfullingen 1967; E. Severino, Essenza del nichilismo,
Adelphi, Milano 1982; G. Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura della
postmodernità, cit.; F. Vercellone, Introduzione a il Nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1992; S. Givone, Storia del
nulla, Laterza, Roma-Bari 1995; F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1997; P. Coda-E. Severino, La verità e
il nulla. Il rischio della libertà, cit.; K. Löwith, Il nichilismo europeo, Laterza, Roma-Bari 1999.
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
la crisi dei valori
la svalorizzazione dei valori supremi
il relativismo intellettuale e morale
la dissoluzione dell'idea stessa di verità
un pessimismo crepuscolare orientato al declino
un senso disperato della finitudine
la fine della concezione lineare e ascendente della storia, e perfino il concetto di post
histoire e di fine della storia.
La storia della filosofia distingue comunemente tra nichilismo metafisico, logico-gnoseologico,
morale e politico. Il nichilismo metafisico, secondo l'espressione del filosofo della scuola
scozzese W. Hamilton2 è la concezione filosofica che nega la realtà sostanziale. Lo si trova nelle
varie forme di fenomenismo e la sua espressione più radicale è in Gorgia, che riduce l'essere al
nulla. Il nichilismo logico-gnoseologico corrisponde allo scetticismo che esclude la verità quale
valore oggettivo. Il nichilismo morale e politico consegue alla dissoluzione di ogni verità
d'ordine conoscitivo e metafisico. È infatti la negazione assoluta di qualsivoglia norma e
dovere sociale, il rifiuto indiscriminato di qualunque principio o criterio. Le maggiori
espressioni di tale nichilismo sono reperibili nella più tarda cultura romantica. Fra esse sono
tipiche la filosofia dello Stirner e del Nietzsche. Nichilismo si intitola, inoltre, la dottrina di un
movimento intellettuale e politico, affermatosi in Russia nella seconda metà dell’Ottocento, e
tendente a riformare la struttura sociale sulle basi di un individualismo a carattere
pessimistico e naturalistico. Questa corrente rivoluzionaria cui parteciparono gli elementi più
avanzati della massa studentesca fu per la prima volta chiamata con tale nome da Ivan
Turgenev nel romanzo Padri e figli (1862), che dipinge nel personaggio Eugenij Vassilevic
Bazarov un nichilista russo di metà '800, e resta un fenomeno tipico del tardo Romanticismo,
in cui confluiscono ambiguamente la volontà di potenza dei singoli e oscuri disegni di
palingenesi sociale. Il processo che ha portato all'esplosione del nichilismo è stato lungo e
articolato e, pur giungendo al suo culmine nel nostro secolo, è cresciuto lentamente e
parallelamente allo sviluppo di tutta la modernità: sembra iniziare verso la fine del 1700, ad
es. nell'importante lettera di Jacobi a Fichte (1799) e indirettamente nello scritto di Johann
Paul Friedrich Richter Discorso del Cristo morto, il qual dall'alto dell'edificio del mondo
proclama che Dio non è (1796). Jacobi ha concepito il nichilismo come un processo di
desostanzializzazione della realtà provocato dal razionalismo moderno, che, sin da Spinoza, si
allontanò dalle certezze del sapere spontaneo, per sostituirle con una costruzione speculativa
astratta, concludendo poi nell'idealismo. A questo nichilismo Jacobi ha contrapposto il
realismo come conoscenza diretta delle cose, esente da un falso rapporto conoscitivo con
l'oggetto, capace, perciò, di rivelare la realtà sensibile e ultrasensibile entro un rapporto
integro con l'esistenza3. Il monaco Seraphim Rose, in una sua ricostruzione storica delle
origini del nichilismo, sostiene addirittura che già la mentalità liberale che tanta parte ha
avuto nella costruzione della vita politica e sociale degli stati moderni ha svuotato il contenuto
delle verità assolute e ha contribuito a far smarrire il senso profondo delle domande ultime:
“Il liberale può essere interessato alla cultura, al sapere, agli affari o semplicemente al
benessere; ma in ciascuna delle sue sollecitudini la dimensione dell'assoluto è affatto assente.
Egli non può, o non vuole, pensare in termini di cose ultime. La sete di verità assolute è
svanita, è stata ingoiata nella mondanità”4. In seguito, la mentalità positivista ha sostenuto
2
W. Hamilton, Lectures on Metaphysics and Logic, (a cura di H.L. Mansel e J. Veitch), I, W. Blackwood, Edimburgo
1859, pp. 293-294.
4
Seraphim Rose, Nichilismo. Le radici della rivoluzione dell'età moderna, cit., p. 39.
l'infondatezza di tutto ciò che non può essere dimostrato o sperimentato scientificamente, e la
mentalità agnostica ha sostenuto l'impossibilità di conoscere qualsiasi tipo di verità assoluta.
La conseguenza pratica di questa mentalità positivistica e agnostica è stata che, in assenza di
una verità che possa fare da criterio di discernimento, si è legittimata quella forma di dominio
fondato esclusivamente sul potere, sia che esso si chiami nazione, sia che si chiami razza o
classe o benessere o qualsiasi altra causa che sia capace di assorbire le energie che gli uomini
un tempo dedicavano alla verità. Nel '900 la presenza del nichilismo circola ovunque: nelle
avanguardie letterarie e artistiche (F. Kafka, H. Hesse, G. Benn, A. Camus, J.P. Sartre), nella
cultura politica di taglio anarchico e populista, in quelle del disincanto e della crisi (M. Weber,
O. Spengler), che vedono profilarsi l'arrivo del buio per l'Occidente. In questa atmosfera
vengono talvolta collegati al nichilismo il terrorismo politico e il diffuso impiego della
violenza. Ma è specialmente nella filosofia che il nichilismo sperimenta un'inedita dilatazione
temporale, sino a divenire un principio radicale di spiegazione di un'intera civiltà, la cifra
segreta che sin dagli albori accompagna l'Occidente, e, in specie, la sua concezione filosofica.
Con Nietzsche e successivamente con Heidegger, si è imposta l'idea del nichilismo come il
destino ineludibile dell'Occidente, l'approdo necessario della filosofia occidentale nata con i
Greci. L’uomo, seguendo il suo bisogno esasperato di certezze e di punti fermi, si interroga,
heideggerianamente, secondo due diverse e fondamentali modalità: esistenzialmente (domandosi:
che cos’è l’essere?) oppure esistentivamente (chiedendosi: che cos’è l’ente?). L’umanità, non
essendo in grado di conoscere l’essenza delle cose, ha accantonato la domanda metafisica
(esistenziale): si è dimenticato dell’essere alla maniera in cui lo intendevano i greci, sostituendo
all’essere l’ente. Rendiamo nostra l’affermazione di Heidegger che, pensata fino in fondo, è una
critica essenziale e non facilmente accantonabile al storia dell’Occidente ormai dominata dalla
tecnica: “nella dimenticanza dell’essere promuovere solo l’ente”.
Liceo Scientifico “ E. Siciliano” Bisignano
Gli Studenti
Bisignano Emilio
Bentivedo Pasquale
Cesario Giuseppe
Montalto Simone
Turco Francesco