quaderno dispensa di filosofia

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QUADERNO
DISPENSA DI
FILOSOFIA
Anno scolastico 2016-2017
Davide Pelo 4° B
LA FILOSOFIA ELLENISTICA
Il contesto
storico
La polis era
fondamentale
La filosofia ellenistica esprime il sostanziale mutamento che avviene nella società greca in seguito ad uno sconvolgimento politico. Per
capire, quindi, il passaggio dalla filosofia greca classica a quella ellenistica è necessario analizzare il contesto storico nel quale avviene.La fase storica che viene indicata con il termine di «ellenismo»
ha inizio con la morte di Alessandro Magno1 (323 a.C.) e termina
indicativamente alla fine del II sec. d.C., quando l’Impero romano
raggiunse il suo massimo sviluppo. In particolare tra il III e il II sec.
a.C. assistiamo alla creazione e alla prima fase di sviluppo dei regni
ellenistici, i quali influenzeranno il pensiero dei filosofi contemporanei.Infatti alla morte di Alessandro frana rapidamente i suo progetto
politico-culturale di creare un grande stato unitario caratterizzato
dalla fusione della civiltà greco-macedone e quella persiana. La lotta
tra i successori dell’imperatore (diadochi) condusse alla creazione di
tre grandi regni: il regno d’Egitto, Seleucide e di Macedonia più altri
regni creatisi in seguito. In relazione a questi avvenimenti anche la
dimensione politica delle città greche cambiò notevolmente. La polis, infatti, anche se non scomparve e mantenne parte della sua autonomia, non costituì più la struttura politica fondamentale, poiché fu soppiantata dal regno. Ciò portò in seguito ad una crescente
perdita di importanza delle istituzioni cittadine, con tutte le conseguenze che ne derivarono nell’ambito della filosofia.
Per la filosofia greca classica l’appartenenza alla polis e la partecipazione alla vita politica era un aspetto della vita tutt’altro che irrilevante. Tra i più grandi esponenti della filosofia grecaPlatone visse
con l’obbiettivo della creazione di uno stato giusto e Aristotele sosteneva che l’uomo può essere felice solo all’interno di una comunità organizzata, la polis. Con la fine di questa istituzione viene meno
1
Alessandro III di Macedonia, universalmente conosciuto come Alessandro Magno, nato a Pella il 20 luglio 356 a.C. e morto a Babilonia l'11 giugno
323 a.C., è stato un militare macedone, re di Macedonia a partire dal 336
a.C., succedendo al padre Filippo II.
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LA FILOSOFIA ELLENISTICA
il fulcro della filosofia del tempo, quindi è necessario trovarne una
nuova.Ma cosa significa trovare una nuova filosofia?La filosofia, in
fondo, esprime un modo di vedere il mondo, un modo di vivere tipico della società che la sviluppa. Il problema fondamentale che i
pensatori del tempo si pongono è come rendere la vita degna di
essere vissuta ora che la polis non esiste più.È come cercare una
nuova strategia di vita, un nuovo obbiettivo e insieme una nuova
base su cui costruire la propria felicità.
I promotori
di questa
filosofia
Le soluzioni a questo problema esistenziale sono state diverse. Tra
i maggiori pensatori promotori di questa nuova filosofia ci sono:




Epicuro e la sua scuola (a Roma il suo seguace più importante è Lucrezio)
Gli Stoici (l’esponente fondamentale è Zenone)
GliScettici
I Cinici
Tra questi Epicuro e gli Stoici svilupparono due idee opposte, anche
se siamo in grado di riconoscere alcuni aspetti in comune:


L’importanzadell’etica.
L’importanza del saggio.
L’etica ebbe una grande importanza nella filosofia ellenistica dato
che la filosofia era intesa come strumento per vivere meglio.
Il saggio, invece, era inteso da entrambe le correnti come «colui che
sa vivere», sottolineando l’aspetto pratico rispetto a quello teorico.
Infatti il saggio non insegna con le parole, ma attraverso il suo
esempio2.
2
Proprio per questo si diceva che egli deve essere felice anche nel toro di
Falaride.
3
LA FILOSOFIA ELLENISTICA
4
EPICURO
Vita e opere
Epicuro visse tra il 341 e il 270 a.C. circa e
viene considerato uno dei maggiori esponenti della filosofia ellenistica. Fu scrittore
fecondissimo: Diogene Laerzio gli attribuisce
circa 80 titoli. Purtroppo molto è andato
perduto, anche se siamo in grado di ricostruire i punti fondamentali del suo pensiero
grazie soprattutto a ciò che ci ha tramandato Laerzio nelle Vite dei filosofi. Ciò che ci è
rimasto sono tre epistole:




Busto ritraente Epicuro:
Cfr.https://upload.wikimedia.
org/wikipedia/commons/d/d6
/Epicurus_bust.jpg
a Erodoto (sulla fisica),
a Pitocle (sui fenomeni celesti),
a Meneceo (sull’etica)
e una raccolta di massime, le Massime capitali.
Epicuro arrivò ad Atene alla fine del IV secolo. Essendo un meteco
non poteva costruire in città e così acquistò in campagna una casa
con un terreno, dove tenne le sue lezioni. A causa di questo la sua
scuola venne chiamata il «giardino» di Epicuro.Il fatto che non insegni in città dimostra che si rifiuta di insegnare alle masse: preferisce insegnare solo a pochi alla volta, un piccolo numero di amici.
Il suo programma
filosofico
La filosofia è, per Epicuro, una «medicina dell'anima»: è un fare,
un'attività che mira al conseguimento di una condizione di benessere. Le sue prescrizioni sono condensate nelle quattro semplici proposizioni note come il «quadrifarmaco» («le quattro medicine»):
1.
2.
3.
4.
Gli dei non sono da temere;
la morte non è cosa di cui aver paura;
il bene è facile a procurarsi;
il male è facile da sopportare.
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EPICURO
La necessità di una terapia sorge dal fatto che gli uomini conducono per lo più un'esistenza infelice: più gravi delle malattie che aggrediscono il corpo sono le paure, i turbamenti, le false opinioni che
gravano sull'anima. L’uomo comune, abituato a valori che gli sono
stati consegnati dalla società, teme esageratamente ciò che in realtà
non può arrecare un vero danno, e d'altro canto si consuma inutilmente nel desiderio di ciò che non può o non vale la pena di ottenere. L'uomo quindi va liberato da queste forme di schiavitù prima di
tutto psicologica: è questo il vero, unico compito della filosofia, che
gli deve indicare con chiarezza ciò che deve desiderare. Questo è il
senso del conoscere:
«se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e quella della
morte e il non conoscere il confine dei piaceri e dei dolori - afferma
Epicuro - non avremmo bisogno della scienza della natura» 3.
Si può così comprendere il senso della violenta polemica «anticulturale» di Epicuro: quando egli esorta i suoi discepoli a «fuggire la cultura», intende riferirsi sia al sapere dei retori sia al sapere scientifico-matematico che non offrono una autentica soluzione al problema principale della vita: la ricerca dell'eudaimonia.
Deve soddisfare due
esigenze
Per realizzare il suo programma la filosofia di Epicuro deve soddisfare due esigenze quasi opposte:

3
da un lato, deve ricondurre tutti i fenomeni all'interno del
campo di esperienza dell'individuo. Il senso di questa operazione è quello di eliminare ogni elemento di trascendenza e
di finalismo che, alludendo a un livello di realtà esterno e
superiore all'uomo, ne limiti la capacita di perseguire liberamente il proprio fine (il confronto polemico sarà qui, in
primo luogo, con Platone);
Cfr. Massime capitali, XI.
6
EPICURO

dall'altro deve anche evitare, al tempo stesso, il rischio di
cadere nel relativismo e nello scetticismo, cioè di posizioni
che escludono la possibilità di un riferimento oggettivo sia
in campo gnoseologico (verità) che in campo morale (bene).
La tensione tra queste due esigenze anima, con tutte le sue difficoltà, la dottrina epicurea.
L'etica è il
punto fondamentale
Il tetrafarmaco
Data l'impostazione pratica e operativa del suo pensiero, è ovvio
che il suo «cuore pulsante» sia l'etica: la fisica e la gnoseologia rappresentano solo le premesse, o meglio lo studio delle condizioni alle
quali è possibile l'etica. Ne deriva immediatamente un carattere tipico dell'insegnamento di Epicuro: più che svilupparsi in complessi
ragionamenti, esso tende a focalizzarsi sui punti chiave, riassumendoli in proposizioni semplici e facili da ricordare.
Il compito del discepolo infatti non è cercare nuove verità, ma assimilare quelle di Epicuro e, così facendo, trasformare la propria vita.
Da qui anche la scelta di usare l'artificio letterario della epistola, che
è breve, familiare, accattivante, facile da ricordare.
Tra tutte le opere di Epicuro, l'unica dedicata all'etica che ci sia
giunta è l'Epistola a Meneceo, che si sviluppa secondo le tesi del
quadrifarmaco.
Gli dei non sono da temere:
Epicuro non nega l'esistenza degli dei: al contrario, quest'ultima è
per lui un fatto addirittura evidente, dato che non si può avere una
idea di qualcosa di cui non si sia fatta esperienza. Epicuro concepisce gli dei come composti di atomi, quindi corporei anch'essi, ma
dotati della capacità di «rigenerarsi», quindi immortali. Perfettamente beati e imperturbabili, gli dei abitano gli spazi vuoti fra
mondo e mondo, i cosiddetti intermundia, e non hanno nessuna
possibilità di intervenire nei confronti dell'uomo: quindi non premiano né puniscono. L'opinione contraria, diffusa presso tutti i popoli, è solo una falsa superstizione.
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EPICURO
La morte non è da temere:
Il secondo precetto del quadrifarmaco è sicuramente il più controverso, perché attacca direttamente il più radicato timore dell'uomo.
Che però, sostiene Epicuro, è del tutto ingiustificato:morte e vita
sono due termini tra loro totalmente contraddittori tra loro da un
punto di vista logico, e quindi quando c'è l'uno non ci può essere
l'altro. Chi è morto, dato che non può percepire nulla, non può
neanche rendersi conto di essere morto, e tanto meno può soffrire
per questa condizione. Di conseguenza è stolto preoccuparsi per
qualcosa che, quando verrà, non modificherà in nulla le nostre percezioni. Questo secondo «farmacon» è direttamente legato alla
concezione epicurea dell'anima. Per Epicuro l'anima è un corpo e
come tutti i corpi, è costituita di atomi, sia pure particolarmente
sottili e mobili: l'individuo è dunque un composto di anima e di
«carne» (il corpo propriamente detto). Le funzioni della vita psichica
(sensazioni, affezioni, pensiero) sono determinate dal movimento
degli atomi dell'anima. La conseguenza di questa impostazione è
che l’anima è mortale. Proprio per questo essa non ha la possibilità
di percepire alcunché dopo la «morte».
La discussione epicurea sulla morte si basa in ultima analisi sulla
concezione logica rigidamente dualistica di Parmenide, che Epicuro
riceve attraverso l'atomismo di Democrito e Leucippo. Per l'Eleate,
essere e non essere sono due concetti contraddittori tali per cui non
è possibile alcuno scambio né alcuna relazione tra essi. Vita e morte
sono concepiti da Epicuro nello stesso modo: se c'è la vita, la morte
è totalmente assente, ma quando arriva la morte, è la vita a essere
completamente mancante.
Il bene è facile da procurarsi:
Con questo, è impostata la parte «negativa» dell'etica di Epicuro,
che mira alla liberazione dalla superstizione e dall'angoscia. Si deve
considerare ora la parte «positiva»: ciò che bisogna volere e fare per
essere felici. Su questo punto l'affermazione più celebre di Epicuro è
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EPICURO
stata fonte di infiniti fraintendimenti. Essa infatti suona così: la felicità, che è l'obiettivo di ogni uomo, è il piacere fisico.
Già durante la sua vita Epicuro si deve difendere da coloro che intendono questa frase nel senso che il saggio deve dedicare la sua
vita ai godimenti fisici, in particolare il cibo e il sesso.
Il senso del messaggio di Epicuro è esattamente l'opposto. Che cosa
è infatti il piacere? La risposta di Epicuro è nettissima: è solo l'assenza del dolore (generato dal bisogno).Si tratta di una definizione
negativa, in cui non viene detto cosa è propriamente il piacere, ma
solo cosa non è. Questa definizione, attivata dalla logica dualistica
di origine eleatica, permette a Epicuro la mossa successiva: il piacere viene raggiunto per il solo fatto che viene tolto il dolore, annullando il bisogno che aveva generato la sofferenza. Se esiste solo la
coppia piacere-dolore, quando io rimuovo il dolore (la sofferenza
generata dal bisogno) sono automaticamente nel piacere. Non solo,
ma sono nel piacere al maggior grado possibile, e sono simile a un
dio.
Una immagine che non è di Epicuro ma può servire a raffigurare
questo ragionamento è quella del secchiello riempito di sabbia.
Quando viene raggiunto il colmo è inutile continuare ad aggiungere
sabbia, che nel migliore dei casi è instabile e può cadere da un momento all'altro: il secchiello non diventa «più pieno».Il piacere si
comporta in questo modo perché ha un limite, che è rappresentato
dalla natura: superare i limiti che questa impone non aiuta minimamente a essere felici. L'idea di limite, che solo il logos riesce a
cogliere nella natura, è perfettamente in linea con tutte le linee guida della cultura greca. Da qui nasce la triplice distinzione dei piaceri,
tipica di Epicuro.Prima di tutto dobbiamo infatti distinguere i piaceri
non naturali da quelli naturali. I piaceri non naturali nascono dal
nostro rapporto con la società e non hanno nessun limite interno
che ci permetta di dire: «Sì, ho raggiunto il mio obiettivo, dunque
sono felice!». La ricchezza o la gloria, per esempio, non hanno un
tetto massimo oltre al quale non si possa andare: per quanto grande
la quantità di denaro che ho accumulato sarà sempre possibile
averne di più, e quindi io non sarò mai soddisfatto. Ma anche i pia9
EPICURO
ceri naturali (bere, mangiare e riposarsi) possono essere considerati sotto un profilo qualitativo, cercando una variazione infinita nel
gusto che mi impedirà di arrivare al punto di dire: più oltre non è
possibile andare. Sono quelli che Epicuro chiama «piaceri naturali
non necessari». Solo se considero i piaceri naturali in sé, allora li
posso pienamente soddisfare: se ho fame, io riesco a placarla anche con un pezzo di pane secco, e se io mi concentro solo sul semplice fatto di aver fame devo riconoscere che il pezzo di pane secco
mi dà altrettanto piacere (ovvero rimuove altrettanto dolore) di un
pranzo sontuoso. È questo che permette a Epicuro di affermare al
termine della Epistola a Meneceo che chi segue i suoi precetti vivrà
come un dio tra gli uomini: come un dio, infatti, non avrà bisogno di
(quasi) nulla, perché quasi nulla ci chiede la natura.
La natura mostra così che il piacere non è qualcosa che si aggiunga
all'esistenza «da fuori», qualcosa che vada inseguito per mezzo della
vita: il piacere è la vita, è l'esistenza stessa quando si sia riusciti a
liberarla dal turbamento e dal dolore. Il piacere non è dunque altro
che liberazione dal dolore: assenza di dolore fisico (aponia) e di
turbamento spirituale (atarassia).L’infelicità nasce da una distorsione della prospettiva con cui si guardano le cose: è un difetto intellettuale. Per questo la filosofia, che è attività intellettuale, può
liberare l'uomo nella sfera dei suoi comportamenti pratici e indicargli che è possibile un calcolo, una valutazione razionale, del piacere
e del dolore, sul quale fondare le proprie scelte di vita.
Il dolore è facile da sopportare:
L'ultimo «farmacon» è problematico. La sofferenza può essere di
due tipi, sostiene Epicuro:


o è debole
o è intensa
Se è debole, è facile sopportarla (si pensi alle persone che si abituano a un mal di schiena ricorrente): se è intensa, dura poco e al limite
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EPICURO
conduce rapidamente alla morte, cioè all'annullamento della capacità di soffrire. Secondo la tradizione Epicuro stesso ha dato una prova di coerenza con la propria dottrina morendo per un attacco di
calcoli ai reni dopo tre giorni di intense sofferenze affrontate con
grande serenità. Tuttavia resta molto difficile accettare la possibilità
di applicare concretamente questo precetto da parte delle persone
normali.
L'epistola a
Meneceo
Vediamo ora il testo dell'epistola a Meneceo:
L'uomo cominci da giovane a far filosofia e da vecchio non sia mai
stanco di filosofare. Per la buona salute dell'animo, infatti, nessun
uomo è mai troppo giovane o troppo vecchio. Chi dice che il giovane
non ha ancora l'età per far filosofia, e che il vecchio l'ha ormai passata, è come se dicesse che non è ancora giunta, o è già passata, I'età
per essere felici. Quindi sia l'uomo giovane che il vecchio devono far
filosofia: il vecchio perché invecchiando rimanga giovane per i bei ricordi del passato; il giovane perché, pur restando giovane d'età, sia
maturo per affrontare con coraggio l'avvenire. E' bene riflettere sulle
cose che possono farci felici: infatti, se siamo felici abbiamo tutto ciò
che occorre; se non lo siamo, facciamo di tutto per esserlo.
Dunque la felicità è la buona salute dell’anima che si ottiene attraverso la filosofia. Se non siamo felici tutto ciò che abbiamo non serve a niente.
Metti in pratica le cose che ti ho sempre raccomandato e rifletti su di
esse, perché sono i principi necessari fondamentali per una vita felice.
Non si deve fare filosofia astratta, quindi bisogna seguire ciò che dice Epicuro.
Gli dèi infatti esistono, ed è del tutto evidente la conoscenza che ne
abbiamo; ma gli uomini attribuiscono agli dèi caratteristiche contrarie
alla stessa idea che se ne fanno. Negare gli dèi in cui credono gli uomini, non è quindi empietà. Empietà è piuttosto attribuire agli dèi le
idee che gli uomini comunemente se ne fanno, perché non sono idee
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EPICURO
corrette, ma gravi errori. Dall'idea che si fa degli dèi l'uomo trae i più
gravi danni e vantaggi. Infatti gli dèi, che di continuo sono dediti alle
loro virtù, accolgono i loro simili, mentre considerano estraneo tutto
ciò che non è simile ad essi.
Epicuro segue il materialismo atomistico ovvero l’idea ontologica
che tutto ciò che esiste è solo la materia. Per un materialista è però
difficile dire che esistano gli idei, ma secondo Epicuro essi vivono
negli inter mundia, e non hanno a che fare nulla con noi. Inoltre per
Epicuro dei sono i nomi poetici per le energie psichiche.
Abìtuati a pensare che per noi uomini la morte è nulla, perché ogni
bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di
sensazioni. Quindi il capir bene che la morte è niente per noi rende
felice la vita mortale, non perché questo aggiunga infinito tempo alla
vita, ma perché toglie il desiderio dell'immortalità. Infatti non c'è nulla da temere nella vita se si è veramente convinti che non c'è niente
da temere nel non vivere più. Ed è sciocco anche temere la morte
perché è doloroso attenderla, anche se poi non porta dolore. La morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, ed è quindi sciocco
lasciare che la morte ci porti dolore mentre l'attendiamo. Quindi il più
temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La
morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa
non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a
non esserci.
Il secondo farmacon è molto difficile: abituati di pensare significa
che devi fare uno sforzo per pensare di non avere paura della morte. Questo è fondamentale perché così facendo si toglie il desiderio
dell’immortalità. Epicuro ragiona con una logica Parmenide: terzium
non datur significa che i due termini sono contraddittori. Tra morte
e vita trzium non datur. Per Epicuro inoltre l’anima non è immortale
ma essa può solamente sopravvivere un poco in più rispetto al corpo ma poi sparisce.
La maggior parte delle persone, però, fuggono la morte considerandola come il più grande dei mali, oppure la cercano come una libera-
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EPICURO
zione dai mali della vita. Il saggio invece non rifiuta la vita e non ha
paura della morte, perché non è contro la vita ed allo stesso tempo
non considera un male il non vivere più. Il saggio, così come non cerca
i cibi più abbondanti, ma i migliori, così non cerca il tempo più lungo,
ma cerca di godere del tempo che ha. È da stolti esortare i giovani a
vivere bene ed i vecchi a morire bene, perché nella vita stessa c'è del
piacere, ed è la stessa cosa l'arte di vivere bene e di morire bene.
È qui presente una critica contro Platone: non dobbiamo considerare la morte un male.
Dobbiamo inoltre ricordarci che il futuro non è interamente nelle nostre mani, ma in qualche modo lo è, anche se in parte. Quindi non
dobbiamo aspettarci che si avveri del tutto, ma non dobbiamo neppure disperare che esso non si avveri affatto.
Questa è una politica indiretta contro gli stoici e il loro mondo razionale. Le leggi scientifiche determinano ogni nostro atto allora
qualunque cosa avvenga dobbiamo accettarlo, maEpicuro rifiuta
questo esponendo la sua idea nel clinamen.
Dobbiamo poi pensare che alcuni dei nostri desideri sono naturali, altri vani. E di quelli naturali alcuni sono necessari, altri non lo sono. E
di quelli naturali e necessari, alcuni sono necessari per essere felici,
altri per la buona salute del corpo, altri per la vita stessa. Una sicura
conoscenza dei desideri naturali necessari guida le scelte della nostra
vita al fine della buona salute del corpo e della tranquillità dell'animo,
perché queste cose sono necessarie per vivere una vita felice. Infatti
noi compiamo tutte le nostre azioni al fine di non soffrire e di non
avere l'animo turbato. Ottenuto questo, ogni tempesta interiore si
placherà, perché il nostro animo non desidera nulla che gli manchi, né
ha altro da cercare perché sia completo il bene dell'anima e del corpo. Abbiamo infatti bisogno del piacere quando soffriamo perché esso non c'è. Quando non soffriamo, non abbiamo neppure bisogno del
piacere.
Il bene è l'assenza del dolore. Tramite questa definizione in negativo
del piacere Epicuro non dice cosa sia veramente il piacere.
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EPICURO
Per questo motivo noi diciamo che il piacere è il principio ed il fine di
una vita felice. Noi sappiamo che esso è il bene primo, connaturato
con noi stessi, e da esso prende l'avvio ogni nostra scelta e in base ad
esso giudichiamo ogni bene, ponendo come norma le nostre affezioni. Ma proprio perché esso è il bene primo ed è a noi connaturato, noi
non ci lasciamo attrarre da tutti i piaceri; al contrario, ne allontaniamo molti da noi quando da essi seguano dei fastidi più grandi del piacere stesso. Allo stesso modo consideriamo molti dolori preferibili ai
piaceri quando la scelta di sopportare il dolore porta con sé come
conseguenza dei piaceri maggiori. Tutti i piaceri quindi che per loro
natura sono a noi congeniali sono certamente un bene; tuttavia non
dobbiamo accettarli tutti. Allo stesso modo tutti i dolori sono un male, ma non dobbiamo cercare di sfuggire a tutti loro. Queste scelte
vanno fatte in base al calcolo ed alla valutazione degli utili. Per esperienza sappiamo infatti che a volte il bene è per noi un male ed al contrario il male è un bene. Consideriamo un grande bene l'indipendenza
dai desideri non perché sia necessario avere sempre soltanto poco,
ma perché se non abbiamo molto sappiamo accontentarci del poco.
Siamo profondamente convinti che gode dell'abbondanza con maggiore dolcezza chi meno ha bisogno di essa e che tutto ciò che la natura richiede lo si può ottenere facilmente, mentre ciò che è vano è
difficile da ottenere. Infatti, in quanto entrambi eliminano il dolore
della fame, un cibo frugale o un pasto sontuoso danno un piacere
eguale, e pane e acqua danno il piacere più pieno quando saziano chi
ha fame. L'abituarsi ai cibi semplici ed ai pasti frugali da un lato è un
bene per la salute, dall'altro rende l'uomo attento alle autentiche esigenze della vita; e così quando di tanto in tanto ci capita di trovarci
nell'abbondanza, sappiamo valutarla nel suo giusto valore e sappiamo
essere forti nei confronti della fortuna.
Questa è l'essenza del pensiero epicureo: come va inteso il piacere?
Il piacere è l’assenza di dolore. Il piacere del cibo, bere tanto, mangiare tanto, essere lussurioso, sono piaceri carnali legati al corpo.
Epicuro però non è epicureo perché il piacere di cui parla è l’assenza
del dolore. Nel testo epicureo egli dice di fare dei calcoli per decidere quale piacere sia più convenite seguire poiché bisogna sapere che
un piacere eccessivo porta ad un dolore eccessivo. Un esempio di
ciò potrebbe essere la dieta, che facciamo soffrendo per ottenere il
piacere di essere più belli. Quello che devo fare è dunque un calcolo
14
EPICURO
che però non è basato sui numeri ma sulle parole. È stato Socrate il
primo a ragionare in questo modo. Il piacere è facile da ottenere,
basta togliere il dolore, la fame, la sete, e il sonno. Abituati a godere del niente e se ti capita di avere di più poterai goderne meglio.
Quando dunque diciamo che il piacere è il bene completo e perfetto, non ci riferiamo affatto ai piaceri dei dissoluti, come credono alcuni che non conoscono o non condividono o interpretano male la
nostra dottrina; il piacere per noi è invece non avere dolore nel corpo né turbamento nell'anima.
Epicuro è un uomo che controlla la propria natura e non ha bisogno
d'altro e viene quasi come un dio.
Infatti non danno una vita felice né i banchetti né le feste continue, né il godersi fanciulli e donne, né il godere di una lauta
mensa. La vita felice è invece il frutto del sobrio calcolo che indica le cause di ogni atto di scelta o di rifiuto, e che allontana
quelle false opinioni dalle quali nascono grandissimi turbamenti
dell'animo.
La filosofia ellenistica vuole essere una filosofia di vita che deve essere trasmessa con l’esempio. In questo modo è possibile raggiungere qualcosa di assoluto, nell’attimo stesso in cui tolgo la sofferenza. La strategia4 di Epicuro è quella di saper sfruttare la felicità. Ci
deve essere un equilibrio tra danno e vantaggi.
E adesso dimmi: pensi davvero che ci sia qualcuno migliore dell'uomo
che ha opinioni corrette sugli dèi, che è pienamente padrone di sé riguardo alla morte, che sa sino in fondo che cosa sia il bene per l'uomo
secondo la sua natura e sa con chiarezza che i beni che ci sono necessari sono pochi e possiamo ottenerli con facilità, e che i mali non sono
senza limiti, ma brevi nel tempo oppure poco intensi?
4
La strategia è l'arte di saper sfruttare i risultati del combattimento. Mentre la tattica è l’arte di condurre un combattimento.
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EPICURO
Il consumismo dice il contrario di Epicuro ovvero che solo il consumare fa stare meglio. Il male o è molto intenso e allora dura poco5
oppure dura a lungo ed è facile da sopportare.
Un uomo così ha imparato a sorridere di quel potere - il fato - che per
alcuni è il sovrano assoluto di tutto: di fatto ciò che accade può essere
spiegato non soltanto attraverso la necessità, ma anche attraverso il
caso o in quanto frutto di nostre decisioni per le quali possiamo essere criticati o lodati6.
Si crede che il fato sia qualcosa che ci vincola in maniera assoluta
mentre Epicuro dice che non siamo legati al fato.
Virtù è felicità
La fisica di
Epicuro
Aretè (ciò che rende uomo l'uomo) e felicità (ossia il piacere, ovvero la capacità di vivere senza sofferenza) per Epicuro coincidono.
Nell'affermare ciò il filosofo opera una sottolineatura particolare:
non è possibile essere felici se non si è giusti ma, di converso, non si
può essere giusti senza essere felici. Il bene non è, al modo platonico, un ideale trascendente: il bene è nella vita stessa. Ciascuno può
averne una percezione immediata ed evidente: ogni individuo, infatti, distingue con chiarezza nell'affezione (pathos), ciò che per lui è
bene, il piacere, e ciò che è male, il dolore. Dunque virtù, bene, felicità coincidono con il piacere: o, in altri termini, il piacere è criterio
di distinzione fra bene e male. Epicuro formula cosi un'etica che si
suole chiamare edonistica (da hedone, piacere).Anche se si manifesta nell'esperienza soggettiva dell'individuo, il criterio del piacere
non è arbitrario: esso fornisce una norma oggettiva, perché il piacere stesso è connaturato all'uomo. Si tratta dunque di riportarsi alla
natura, alla physis, sgombrando il campo da falsi timori e pregiudizi.
Per Epicuro tutto è costituito da atomi, che sono particelle di materia con tanti ganci, che servono per unirsi tra loro per formare
l’esistente. Gli atomi cadono dall’alto verso il basso (queste direzioni vanno considerate in senso «assoluto») fino a quando a un
5
Infatti si racconta che Epicuro abbia sofferto per pochi giorni prima di
morire a causa di calcoli renali.
6
Cfr. http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/testi/epicuro1.htm
16
EPICURO
certo punto subiscono un «clinamen» (deviazione) e, scontrandosi
tra loro, cominciano ad aggregarsi. Col passare del tempo, gli aggregati formano i vari mondi, separati dagli «intermundia» di cui
abbiamo già parlato. Non è del tutto chiaro se a subire un clinamen
sia per Epicuro un solo atomo o più. Quello che è chiarissimo è che
poiché gli atomi sono infiniti, anche i mondi sono infiniti.
Questa tesi porta a un’evidente conseguenza: l’infinità dei mondi
implica che ogni potenzialità dell’essere esiste attualmente (ossia
non è una potenzialità), qualsiasi cosa che avvenga nel proprio
mondo esiste già in un altro, e quindi non porta a un incremento
reale dell’essere (e quindi non viola Parmenide), quindi non c’è
niente che da essere va nel nulla. Il clinamen tuttavia resta fortemente problematico: da lato è necessario alla dottrina (altrimenti
non sarebbe possibile la formazione dei mondi) ma dall'altro rappresenta la apparizione di qualcosa dal nulla, ciò che è vietato
dall'adesione di Epicuro alle posizioni parmenidee. La scienza (lo
studio della natura) per Epicuro serve solamente a togliere il turbamento dell’animo, non a conoscere la verità delle cose. La sua scienza ha uno scopo etico: se io conosco la causa di un fenomeno non
lo temo. La cosa importante è dunque che la spiegazione di un fenomeno tolga il turbamento dell’animo, non che sia vera: da qui la
tesi delle ipotesi plurime o della pluralità delle ipotesi.
17
LO STOICISMO
Su cosa si
basa
Lo stoicismo nasce nel IV secolo, insieme all’epicureismo, e non a
caso: stoicismo ed epicureismo danno risposte diverse a un bisogno
uguale, ossia quello di dare un senso alla vita, che ha perso l’orizzonte di riferimento tradizionale (la polis).La soluzione stoica è opposta a quella epicurea. Al di là degli aspetti comuni (materialismo;
opposizione a Platone e Aristotele per riscoprire gli autori preplatonici) ci sono differenze evidenti: secondo gli stoici tutto è determinato dal logos:niente è libero, tutto è necessario. Il cosmo è
guidato da una necessità assoluta: ogni evento è quello che deve essere. La razionalità coincide quindi con la necessità e anche con la
giustizia (la vecchia dea di Parmenide che ritorna).Si può scorgere
qui facilmente è la concezione tradizionale greca portata
all’estremo. Il compito dell’uomo deve essere quello di adeguarsi
alla razionalità del cosmo, poiché questo è l’unica strategia per essere felici e ridurre le sofferenze.
L'origine
dello stoicismo
La scuola stoica viene fondata intorno al 300 a.C. da Zenone di Cizio7 in Atene, nel «portico dipinto» (in greco stoà poikile, donde il
nome «stoicismo»); l'ultimo grande rappresentante della scuola fu
l'imperatore romano Marco Aurelio, morto nel 180 d.C.. Lo stoicismo si sviluppa dunque lungo un arco di cinque secoli: cinquecento
anni durante i quali ha modo di condizionare profondamente la cultura del mondo mediterraneo, soprattutto perché viene adottata
come filosofia (si potrebbe perfino dire come «ideologia») dalla
classe dirigente dell'impero romano. Tuttavia, stranamente, ci sono
arrivati ben pochi testi originali degli stoici più antichi e per ricostruire il loro pensiero dobbiamo far ricorso ai riassunti degli autori
successivi.
7
Zenone di Cizionato a Cizo nel 336 - 335 a.C. e morto nella stessa nel 263
a.C., è stato un filosofogreco antico di origine fenicia e considerato il fondatore dello stoicismo.
18
LO STOICISMO
Come era
suddivisa la
filosofia
Fondamentale e poi canonica è la distinzione della filosofia in tre
parti:



logica (teoria della conoscenza)
fisica (studio dell'essere fisico)
etica
La filosofia viene spesso paragonata dagli stoici a un frutteto in cui
la logica è rappresentata dal muro che circonda e protegge gli alberi
(la fisica), cioè le strutture teoriche che innalzano verso il cielo i rami
carichi dei frutti dell'etica; oppure a un uovo, il cui tuorlo (l'etica) è
circondato e sorretto dall'albume (la fisica) e dal guscio (la logica); o
a un organismo: ossa e muscoli (logica), sangue e carne (fisica), anima (etica).L'idea chiave è che la filosofia è un sistema, un insieme
di parti correlate e interdipendenti, nessuna delle quali può stare da
sola; solo per necessità didattiche gli stoici ammettono che questi
tre ambiti possano essere trattati separatamente.Come per l'epicureismo, il cuore pulsante della filosofia stoica è l'etica: tuttavia nello stoicismo il peso della «fisica» (cioè dello studio della totalità) è
maggiore.
La vita per
gli stoici
La concezione della vita degli stoici è espressa da Cleante8 con la
metafora del cagnolino: un cagnolino legato a un carro, se tenta di
fermarsi o di guardarsi in giro il guinzaglio lo tira con sé, quindi il cane non può fare quello che desidera se non vuole essere travolto,
deve adeguarsi al movimento del carro e seguirlo. Questo significa
che noi possiamo ribellarci al logos, ma in questo caso veniamo
sconfitti, oppure comprimere i propri desideri e adeguarsi ad esso9.
Per sopravvivere (l'unico obiettivo realistico nel nuovo mondo ellenistico) bisogna sacrificare la corporeità e ridurre e comprimere i
propri desideri.Una seconda metafora molto utilizzata dagli stoici è
8
Cleante nato ad Asso nel 330 a.C. e morto nella stessa nel 232 a.C. circa, è
stato un filosofogreco antico, esponente dello stoicismo.
9
Bisogna raggiungere l'apateia in latino apatia, ovvero assenza di
passioni che sono ilmale.
19
LO STOICISMO
quella dell’attore: dobbiamo renderci conto che noi non siamo altro
che attori di un «dramma» (la vita stessa, in realtà) scritto dal Logos
e interpretare al meglio la parte che ci è stata assegnata.
O forse il tuo fastidio è ancheper la sorte che, nell'ordine universale,
ti viene assegnata10?
Gli stoici ammettono e teorizzano dunque la scissione tra l’io profondo e il ruolo che ci è stato assegnato dal destino: per sopravvivere questo è il prezzo da pagare. L’intuizione che la barriera della necessità del destino sia invalicabile è talmente greca che la ritroviamo
alla base delle tragedie (hybris è il peccato che consiste nel tentare
di andare al di là dei limiti).
Cosa è la
felicità?
La felicità per gli stoici consiste nel non desiderare, o meglio nel
nascondere nella profondità della coscienza i nostri desideri. Se gli
epicurei ci suggeriscono di vivere lasciandoci portare dal mare
dell’esistenza, gli stoici ci suggeriscono di irrigidirci una volta che
abbiamo scorto la razionalità del disegno del logos e di resistere alle
ondate della passione e del desiderio (della paura, della sofferenza...).La strategia stoica vede il punto decisivo nella lotta contro le
passioni, che vanno estirpate come se fossero delle vere malattie.
Sii come il promontorio, contro cui si infrangono incessantemente i
flutti: resta immobile, e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque11.
Le passioni sono male poiché sono irrazionali. Solo la lotta contro le
passioni permette di resistere alla vita, anche nelle situazioni peggiori. Se i nostri desideri tentano di opporsi alle onde del destino
vengono travolti, non bisogna quindi aspirare solo al controllo di esse, ma vanno distrutte. L'obiettivo degli stoici, la apatia (assenza di
passioni), è molto più radicale di quello degli epicurei, la atarassia
(controllo delle passioni).
10
11
Cfr. A me stesso di Marco Aurelio, libro quarto, 3.
Cfr. A me stesso di Marco Aurelio, libro quarto, 49.
20
LO STOICISMO
In realtà l’unica cosa che ci può veramente rendere felici, l’unico
modo che abbiamo di realizzarci, in un mondo dominato da necessità esterne, su cui non abbiamo alcun potere, è proprio la facoltà di scegliere il bene e di agire in modo conforme alla ragione,
indipendentemente dal risultato parziale delle nostre azioni, che
non dipende solo da noi. La forza dell’uomo sta nella coerenza col
proprio ideale di bene: è la sua libertà di scegliere ciò che è bene12.
Il saggio
Per essere saggi dovremmo compiere solo atti razionali, ma anche gli stoici ritengono che questo sia impossibile: solo Socrate
(forse) ci è riuscito. La conseguenza paradossale è che il messaggio
degli stoici più antichi è irrealizzabile sul piano pratico e che quindi
non si può «diventare» stoici attraverso un processo graduale. Una
metafora molto usata dagli stoici per visualizzare questo concetto è
quella dell’uomo che annega, il quale va a fondo sia che abbia sopra
di sé solo una spanna d’acqua o mille metri di oceano. Non c’è una
via di mezzo tra l’essere saggi e l’essere stolti: quindi è impossibile
un’educazione. Lo stoicismo romano cambierà questa conclusione,
difatti loro adatteranno lo stoicismo che in principio era troppo radicale, e quindi non aveva trovato un particolare apprezzamento.
La fisica
stoica
La concezione stoica del mondo fisico rimanda consapevolmente
al naturalismo presocratico, in particolare a Eraclito, subendo al
tempo stesso la forte influenza delle dottrine platoniche e aristoteliche che vuole criticare. Gli stoici concepiscono il cosmo, intendendo
con questo termine la totalità dell'esistente, come un immenso organismo vivente. Vitale e pulsante in ogni sua parte, i cui processi
dinamici sono governati da un principio unitario di organizzazione
12
La felicita consiste nell’essere virtuosi ovvero nell’essere razionali. Si tratta di cambiare la nostra vista adattandoci alla realtà del cosmo.
Cfr. Gli stoici e la vitrùtesto tratto da Hadotdi Michela Giangualano,
1.4:http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiaantica/giangualan
o.pdf
21
LO STOICISMO
che essi chiamano logos, o pneuma, o fuoco. Tale principio è immanente alla realtà e inseparabile da essa: il tentativo stoico è dunque
quello di spiegare il mondo nei termini di un rigoroso immanentismo, escludendo il ricorso a principi o forme trascendenti. Esiste un
unico piano dell'essere: quello della corporeità. Tutto ciò che esiste
è corpo; anche la divinità, anche l'anima, anche il vizio e la virtù sono corpi. Reale è infatti solo ciò che agisce o subisce un'azione, e
solo ciò che è corporeo può agire o patire. Perciò solo il corpo esiste. Ritroviamo dunque nella natura, nel tutto corporeo, l'operare di
due principi fondamentali: l'uno attivo, l'altro passivo. La distinzione, che richiama la coppia aristotelica di materia e forma, vale a
spiegare il divenire della physis (intesa, al modo presocratico, come
totalità della realtà) e l'esistenza di enti qualitativamente determinati. Rispetto alla fisica atomistica, che è discontinua e corpuscolare, abbiamo quindi una prima fondamentale differenza: quella stoica è una fisica del continuo, che postula la divisibilità fisica all'infinito ed esclude l'esistenza di indivisibili ultimi (atomi).La materia, sostanza priva di qualità, riceve forma a opera di un principio attivo
corporeo che è dagli stoici identificato nel Fuoco (con esplicito richiamo a Eraclito). Si tratta del Fuoco creatore, di un soffio caldo
(pneuma) che pervade e anima tutte le cose. Il pneuma non è altro,
potremmo dire, che la dimensione fisica del logos che ordina il
mondo. Entrambi coincidono con Zeus, la divinità, la cui esistenza ci
è accertata dall'essere una nozione naturale comune a tutti i popoli
della terra e dall'ordine, bellezza e perfezione della natura. La divinità e l'intelligenza immanente al mondo, il «fuoco intelligente» ed
eterno, «artefice» di tutto, compenetra di sé ogni parte del cosmo.
Il pneuma contiene le «ragioni seminali» (spermatikoilogoi), cioè i
semi generatori di tutte le cose, grazie alle quali la materia si differenzia e si qualifica nella varietà delle forme individuali e si determinano i processi di generazione, vita e corruzione degli enti. Il
pneuma genera nel tutto come nelle singole parti una tensione (tonos), una forza di coesione che conferisce unità e vita alle piante,
agli animali, alle pietre stesse. Ogni corpo è compenetrato dal pneuma: non esiste tra un corpo e l'altro, o all’interno di ciascun corpo, il
vuoto, perché, se così fosse, il principio attivo non potrebbe tra22
LO STOICISMO
smettersi a tutte le cose. Una volta fissata l'immanenza del logos alla vita del cosmo e identificato l'ordine razionale con l'intelligenza
divina, si ricavano due principali conseguenze. In primo luogo tutto
ciò che accade ha una causa, anche ove non sia possibile scorgerla.
Ogni evento è inserito in una catena causate che lo determina in
modo assoluto: ciò che è non poteva essere altrimenti e ciò che sarà
è già compreso in modo necessario nell'ordine del tutto. A questa
legge causale assoluta gli stoici, riutilizzando in senso nuovo un termine fondamentale nella tradizione culturale greca, danno il nome
di fato, o destino, definito da Crisippo13 come «La serie inviolabile
delle cause». In secondo luogo dall'ordine causale concepito come
piano intelligente seguono di necessità la perfezione del mondo e la
sua organizzazione in vista del bello e del bene. Il mondo è perfetto,
nel senso che non manca di nulla: ogni essere è concatenato con gli
altri e con il tutto (gli stoici chiamano simpatia questa corrispondenza universale); ha un fine e una destinazione precisa che realizza la
bellezza e l'armonia dell'insieme. Il cosmo è dunque retto da una
provvidenza divina che va intesa non come l'esplicarsi della volontà
di un dio personale e trascendente, al modo giudaico-cristiano, ma
come l'operare, immanente al mondo stesso, della razionalità divina. Questa visione deterministica e finalistica si trova, evidentemente, agli antipodi dell'atomismo epicureo. Una delle principali critiche
che gli stoici muovevano a Epicuro era proprio quella di avere introdotto il clinamen, il moto di declinazione spontanea degli atomi, postulando così un movimento privo di causa che infrange la catena
causale necessaria a spiegare l'ordine degli eventi. D'altra parte, il
finalismo di questa visione si contrappone al meccanicismo atomistico, che concepiva gli enti e i fenomeni come formazione e dissoluzione di aggregati in seguito a processi puramente meccanici e
privi di intenzionalità. Tale visione meccanicistica risulta inaccettabile per gli stoici, che accolgono su questo punto fondamentale l'istanza teleologica presente nel platonismo e nell'aristotelismo: i
processi naturali sono inseriti in un piano d'ordine razionale che assegna ai singoli enti una funzione e uno sviluppo finalizzati all'equili13
Crisippo di Soli nato a Soli nel 281 a.C./277 a.C. e morto ad Atene nel 208
a.C./204 a.C., è stato un filosofo e matematico greco antico.
23
LO STOICISMO
brio dinamico del tutto. L’uomo occupa, all'interno di questa totalità, una posizione privilegiata: la concezione stoica della natura è caratterizzata da un marcato antropocentrismo. L'essere mostra una
struttura scalare determinata dai diversi gradi di forza e di purezza
del pneuma. L’uomo è composto di anima e di corpo. Anche la psicologia stoica, come quella epicurea, non ammette la separatezza
dell’anima. L'anima dell'uomo è parte dell'anima del mondo, del
pneuma; dunque essa è corporea, vive in stretta interazione con il
corpo e, con la morte, abbandona l'organismo, rifluendo nell’anima
universale, cosmica, di cui è parte.
Il bene, il
dovere e la
felicità
Disponiamo ora degli elementi necessari a collocare l'etica stoica
nel quadro del sistema. Occorre tuttavia accennare al fatto che la fisica stoica suscita diversi problemi e difficoltà che gli avversari non
mancarono di sottolineare sin dall'inizio. Il principale tra questi, direttamente attinente al tema dell'etica, nasce dall'esclusione di ogni
elemento di contingenza dalla visione stoica del cosmo (contingenza
che invece trovava spazio nell'epicureismo a opera della teoria del
clinamen).Il caso, per gli stoici, non esiste: esso è solo il nome che
si da a ciò che non si riesce a spiegare. Ma se tutto avviene per necessità (una necessità che riguarda il futuro tanto quanto il passato
e il presente), non sembra aprirsi alcuno spazio per la libertà
dell'uomo, nessuna possibilità di scelta, e dunque la stessa vita morale risulta svuotata di ogni significato. Ogni agire è equivalente a
tutti gli altri; cade la possibilità stessa della valutazione e del giudizio
morale.
La scelta
mortale
Ogni essere vivente mostra una tendenza fondamentale all'autoconservazione, ad appropriarsi ciò che gli giova, a rifiutare ciò che lo
danneggia. Nell'uomo questa capacità di valutare è pienamente
consapevole e si manifesta nella formulazione di concetti di valore:
l'individuo, se riceve un'educazione adeguata, diviene capace di
operare riflessivamente e di scegliere in vista del bene. Oggetto della scelta morale e il logos stesso: utile e buono in massimo grado è
ciò che consente all'uomo di realizzare la sua natura di essere razionale e ne permette lo sviluppo; male è ciò che è di ostacolo a que24
LO STOICISMO
sto; indifferente tutto quanto non porta né vantaggio né danno morale. Dal momento che il bene consiste nella realizzazione della natura razionale dell'uomo, questi è portato per natura a fare il bene
(e questo un principio fondamentale dell'etica stoica).
Il principio sovrano dentro di noi, quando si trovi conforme a natura, ha verso gli eventi una disposizione tale,che può sempre facilmente mutarla in relazione a ciò che è possibile e concesso. Infatti
non ama alcuna materia definita,ma segue, con riserva, il suo impulso ai fini più alti, e di quello che gli si oppone fa materia per sé,
come il fuoco,quando fa suo ciò che vi cade dentro - un lumicino ne
sarebbe spento: il fuoco vivo, invece, in un istante siimpadronisce di
ciò che gli si getta sopra, lo consuma e proprio di qui trae alimento
per divampare ancora più alto14.
Da dove
nasce la
possibilità
del male
morale?
La risposta degli stoici radicalizza l'intellettualismo socratico: il male è una perversione del logos dell'uomo, che lo rende incapace di
valutare correttamente (per esempio, si scambia il piacere che accompagna talune azioni con il fine delle azioni stesse o, sotto l'influenza delle opinioni dominanti, si considera la ricchezza un bene,
inseguendola affannosamente).
Senza di te, o Dio, non si fa niente sulla terra, Né nel divino etere
del cielo, né nel mare, Tranne che quel che ordiscono i malvagi nella loro follia15. Ma tu sai riportare gli estremi alla misura, Ordinare
quel che é senz'ordine, e i tuoi nemici ti divengono amici. Perché tu
hai armonizzato così bene insieme il bene e il male che vi é per ogni
cosa una sola Ragione eterna16, quella che fuggono e abbandonano
i perversi tra i mortali, disgraziati, che desiderano senza sosta il
possesso dei (pretesi) beni, e non badano alla legge universale di
Dio, né l'ascoltano, mentre, se le obbedissero con intelligenza
14
Cfr. A me stesso di Marco Aurelio, libro quarto, 1.
Come si ammette che allora esista il male? Se l’assoluto sostiene tutto
allora Dio ha voluto anche il male? I malvagi proprio per questo vengono
definiti folli ovvero allontanati dal logos.
16
La soluzione al problema è quella eraclitea ovvero che il male e il bene
sono le due facce di un qualcosa di superiore.
15
25
LO STOICISMO
avrebbero una nobile vita; da se stessi si gettano, insensati, da un
male all'altro; questi, spinti dall'ambizione, alla passione delle contese; quelli, volti al guadagno, senza alcun principio; altri, sfrenati
nella licenza e nei piaceri del corpo, (Insaziabili) vanno da un male
all'altro e fan di tutto perché succeda loro proprio il contrario di
quel che desiderano. Ah! Zeus, benefattore universale, dai cupi
nembi, signore della folgore, salva gli uomini dalla loro funesta
ignoranza17; dissipa questa, o padre, lungi dalle loro anime; e concedi loro di scorgere il pensiero che ti guida per governare tutto con
giustizia, affinché, onorati da te, ti rendiamo anche noi grande onore, cantando continuamente le tue opere, come si conviene ad un
mortale, poiché né per gli uomini é più grande privilegio né per gli
dèi, di cantare per sempre, nella giustizia, la legge universale18.
Quando il pathos, la passione, prevale sui logos, viene dato l'assenso a rappresentazioni false di ciò che è buono e utile. Le passioni sono dunque vere e proprie malattie dell’anima, che richiedono
un'adeguata terapia. Non viene riconosciuta a esse alcuna funzione
positiva, ancorché sussidiaria e subordinata, nella ricerca della vita
felice. Non si tratta perciò di limitarle, di governarle con l'esercizio
della ragione, ma di estirparle: l'ideale del saggio stoico si fonda
sull'apatia
(apatheia),
l'eliminazione
delle
passioni,
l'«impassibilità».Quest'etica è, nel suo impianto generale, caratterizzata da un accentuato rigorismo: fra bene e male, virtù e vizio,
saggezza e stoltezza non vi sono gradazioni intermedie. L'etica stoi17
Qui ha inizio la preghiera finale, considerata una delle migliori di Cleante:
gli uomini si comportano male perché non conoscono cosa sia il bene, sono
ignorati, e questa è la summa dell’etica greca.
18
Inno a Zeus di Cleante. L'Inno a Zeus dello stoico Cleante é una delle più
elevate preghiere dell'antichità. Lo Zeus di Cleante non é la personificazione di una forza cieca ma la legge universale che tutto amministra con giustizia: giusta é la sua potenza. Non c'é l'odio biblico per i malvagi e per i
nemici: il fulmine, simbolo del la sua potenza, può ferire ma anche guarire.
I malvagi possono rinsavire dalla loro "follia" e i nemici "divengono amici".
In fondo la loro colpa principale é l'ignoranza. E proprio questo chiede con
insistenza Cleante al suo Dio potente ma misericordioso: Salva gli uomini
dalla loro funesta ignoranza.
Cfr.http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiaantica/cleante.htm
26
LO STOICISMO
ca conduce tuttavia un'accurata analisi dei comportamenti pratici,
che risente della lezione aristotelica e consente di attenuare il rigorismo della dottrina (è un punto importante per comprenderne lo
straordinario successo nella società romana). Esistono, ai due
estremi dell'ampia gamma dei comportamenti possibili, le azioni
moralmente perfette e le azioni assolutamente viziose ed errate: nel
mezzo, si collocano le azioni «medie», coincidenti in gran parte con
il comportamento ordinario dell'individuo, le quali, anche se non
realizzano la perfezione morale, sono tuttavia convenienti alla natura dell'uomo e, in quanto tali, preferibili. Vi sono cose e comportamenti che, sebbene sia erroneo considerare belli, sono tuttavia valori positivi, degni di essere scelti (per esempio ingegno, salute, bellezza, ricchezza). Posto che il male è sempre contro natura, le azioni
secondo natura ammettono dunque una gradazione al proprio interno: ciò che distingue l'azione perfetta da quella semplicemente
conveniente non è né il contenuto né il risultato, ma l'intenzione
che la determina, il grado di "purezza" razionale che esprime. Ora,
nella categoria delle azioni medie rientra gran parte dei cosiddetti
doveri sociali e morali, cioè i contenuti della morale comune: onorare i genitori, servire la patria, occuparsi del buon funzionamento
della collettività. Il concetto stoico del dovere rappresenta dunque
l'anello di congiunzione fra etica e politica.
Immagine tratta dal film di Charlie Chaplin:Tempi moderniCfr.https://jacopopaoletti.files.wordpress.com/2016/04/tempimoderni-charliechaplin.jpg
27
LO STOICISMO
Il panteismo
Gli stoici sono i primi panteisti, ossia sono i primi ad identificare
l’assoluto con il cosmo, i panteisti cioè per così dire «vivono in paradiso», perché tutto ciò che è è necessario, e quindi il meglio che
possa esistere. Ciò che è razionale è necessario e viceversa, e quindi
tutto quello che avviene nel cosmo deve essere così, non possiamo
fare nulla per cambiarlo, per sopravvivere dobbiamo costringerci a
comprendere che ciò che i sensi vogliono va contro la ragione, e deve quindi essere abbandonato. Il panteismo è una delle soluzioni
possibili al problema di dare un senso all’esistenza: il mondo è assoluto, e quindi necessario e razionale.
Tutto ciò che avviene,avviene giustamente: lo verificherai, se osservi con attenzione. Non dico soltanto nel senso che avviene in giusta
conseguenza, ma nel senso che avviene secondo giustizia e come
per opera di qualcuno che assegna quanto spetta secondo il merito19.
Lettere a
Lucilio
Le Epistulaemorales ad Lucilium (Lettere morali a Lucilio) sono
una raccolta di 124 lettere (suddivise in 20 libri) scritte da Lucio Anneo Seneca20 al termine della sua vita. L'opera venne scritta negli
anni del disimpegno politico, tra il 62 e il 65, ed è giunta a noi incompleta. Questo epistolario costituisce un caso unico nel panorama letterario latino, sebbene Seneca abbia tratto l'idea di comporre
lettere filosofiche da Platone e da Epicuro. È un'opera sulla quale v'è
una discussione se siano davvero lettere inviate da Seneca a Lucilio
o siano una finzione letteraria, ma probabilmente si tratta di un epistolario reale, dato che in varie lettere si chiede una risposta dell'amico. Rispetto alla tradizione epistolare, rappresentata in particola-
19
20
Cfr. A me stesso di Marco Aurelio, libro quarto, 10.
Lucio Anneo Seneca, in latino Lucius Annaeus Seneca, anche noto
come Seneca o Seneca il giovanenato a Corduba il 4 a.C. e morto a
Roma nel 65 è stato un filosofo, drammaturgo e politico romano,
esponente dello stoicismo.
28
LO STOICISMO
re da Cicerone, il filosofo distingue le lettere filosofiche dalla comune pratica epistolare21.
Analizziamo ora alcune di queste lettere:
Comportati così , Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il
tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così , come
ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri
ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder
tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona
parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente
e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto. 2 Puoi indicarmi
qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata,
che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la
morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai
quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo
del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la
vita se ne va. 3 Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro.
La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile:
chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che
se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso
compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece,
nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando
è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può
restituire22.
Prima lettera: il tema principale è il tempo, cosa particolare per la
filosofia antica. La maggior parte della vita la buttiamo nell'irrazionalità delle passioni, mentre altra parte del tempo la buttiamo nel
non far nulla. In realtà dunque perdiamo tutto il tempo nel fare ciò
che non dovremmo. È il nostro stesso esistere che ci sfugge tra le
mani dunque è come se morissimo ogni giorno.
21
Cfr.https://it.wikipedia.org/wiki/Epistulae_morales_ad_Lucilium
Prima lettera: cfr.
http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/SenecaLettereLucilio.pdf
22
29
LO STOICISMO
Lo spazio surroga il tempo, il tempo è come se fosse spazio, perché
è solo così che noi umani possiamo dominarlo, ma Seneca non può
pensarlo così perché non c'era ancora la scienza, però gli viene istintivo dire che il futuro è davanti a noi come se fosse spazialmente
davanti a noi. Noi siamo portati istintivamente a pensare che il futuro stia davanti a noi, ed è quello che dice anche lui, però al contempo dice che la morte è dentro di noi visto che al contempo sto vivendo ma anche morendo.
Niente ci appartiene solo il tempo è nostro, possiamo vivere senza
molte cose ma non senza il tempo perché noi siamo il tempo.
Mi scrivi che hai dato a un tuo amico delle lettere da consegnarmi;
mi inviti poi a non discutere con lui di tutto quello che ti riguarda,
poiché tu stesso non ne hai l'abitudine. Così nella stessa lettera affermi e poi neghi che quello è tuo amico. Se usi una parola specifica
in senso generico e lo chiami amico come noi chiamiamo "onorevoli" tutti quelli che aspirano a una carica pubblica, oppure salutiamo
con un "caro" chi incontriamo, se il nome non ci viene in mente, lasciamo perdere23.
Il tema principale è l'amicizia, poiché dopo la fine della politica i
rapporti sociali vengono meno e restano solo le amicizie.
Mi chiedi che cosa secondo me dovresti soprattutto evitare? La folla. Non puoi ancora affidarti a essa tranquillamente. Quanto a me, ti
confesserò la mia debolezza: quando rientro non sono mai lo stesso
di prima; l'ordine interiore che mi ero dato, in parte si scompone.
Qualche difetto che avevo eliminato, ritorna. Capita agli ammalati
che una prolungata infermità li indebolisca al punto di non poter
uscire senza danno: così è per me, reduce da una lunga malattia spirituale. 2 I rapporti con una grande quantità di persone sono deleterî: c'è sempre qualcuno che ci suggerisce un vizio o ce lo trasmette o
ce lo attacca a nostra insaputa. Più è la gente con cui ci mescoliamo,
tanto maggiore è il rischio. Ma non c'è niente di più dannoso alla
23
Seconda lettera: cfr.
http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/SenecaLettereLucilio.pdf
30
LO STOICISMO
morale che l'assistere oziosi a qualche spettacolo: i vizi si insinuano
più facilmente attraverso i piaceri. 3 Capisci che cosa intendo dire?
Ritorno più avaro, più ambizioso, più dissoluto, anzi addirittura più
crudele e disumano, poiché sono stato in mezzo agli uomini. Verso
mezzogiorno sono capitato per caso a uno spettacolo; mi attendevo
qualche scenetta comica, qualche battuta spiritosa, un momento di
distensione che desse pace agli occhi dopo tanto sangue. Tutto al
contrario: di fronte a questi i combattimenti precedenti erano atti di
pietà; ora niente più scherzi, ma veri e propri omicidi. I gladiatori
non hanno nulla con cui proteggersi; tutto il corpo è esposto ai colpi
e questi non vanno mai a vuoto. 4 La gente per lo più preferisce tali
spettacoli alle coppie normali di gladiatori o a quelle su richiesta del
popolo. E perché no? Non hanno elmo né scudo contro la lama.
Perché schermi protettivi? Perché virtuosismi? Tutto ciò ritarda la
morte. Al mattino gli uomini sono gettati in pasto ai leoni e agli orsi,
al pomeriggio ai loro spettatori. Chiedono che gli assassini siano gettati in pasto ad altri assassini e tengono in serbo il vincitore per
un'altra strage; il risultato ultimo per chi combatte è la morte; i
mezzi con cui si procede sono il ferro e il fuoco. 5 E questo avviene
mentre l'arena è vuota. "Ma costui ha rubato, ha ammazzato". E allora? Ha ucciso e perciò merita di subire questa punizione: ma tu,
povero diavolo, di che cosa sei colpevole per meritare di assistere a
questo spettacolo? "Uccidi, frusta, brucia! Perché ha tanta paura a
slanciarsi contro la spada? Perché colpisce con poca audacia? Perché va incontro alla morte poco volentieri? Lo si faccia combattere a
sferzate, che si feriscano a vicenda affrontandosi a petto nudo." C'è
l'intervallo: "Si scanni qualcuno, intanto, per far passare il tempo."
Non capite nemmeno questo, che i cattivi esempi si ritorcono su chi
li dà? Ringraziate gli dei perché insegnate a essere crudele a uno che
non può imparare24.
Senatores probi viri senatus mala bestia, ovvero: i senatori sono
buoni uomini, il senato è una cattiva bestia. Singole persone sono
buone ma se vengono messe insieme possono diventare cattive.
Quando stanno insieme le soglie dell'attenzione cambiano e diventano quasi come invasate. Io divento disumano perché incontro gli
24
Lettera sette: cfr.
http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/SenecaLettereLucilio.pdf
31
LO STOICISMO
uomini e questo è un paradosso. Un paragone possibile è il divertimento nelle arene dove si vedeva uccidere le persone. Inoltre dice
che l'anima è qualcosa che va curata come il corpo come diceva Epicuro.
Seguite questa sana e salutare regola di vita: concedete al corpo solo quanto basta a mantenerlo in salute. Bisogna trattarlo con una
certa durezza perché non disobbedisca alla mente: il cibo deve
estinguere la fame, il bere la sete, i vesti devono proteggere dal
freddo, la casa difendere dalle intemperie. Non importa se è stata
costruita con zolle o con marmo variegato di importazione: sappiate
che un tetto di foglie copre bene quanto uno d'oro. Ornamenti e
fregi ottenuti grazie a inutili fatiche, disprezzateli tutti; pensate che
nulla è straordinario tranne l'anima e per un'anima grande nulla è
grande." 6 Dico queste cose a me stesso, le dico ai posteri; e non mi
rendo più utile secondo te che se mi presentassi come difensore in
giudizio o imprimessi il sigillo ai testamenti o mettessi gesto e voce
a servizio di un candidato senatoriale? Credimi, fa di più chi sembra
che non faccia niente: si cura nello stesso tempo delle faccende divine e di quelle umane25.
Il corpo deve ricevere il minimo per rimanere in vita e non servono
cibi prelibati o ingenti quantità di cibo come diceva Epicuro.
25
Lettera otto: cfr.
http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/SenecaLettereLucilio.pdf
32
L'ASTRONOMIA
L'esperienza
originaria
Se una notte serena e senza luna un viaggiatore andando per boschi e colline trovasse un punto di osservazione alto e aperto, lontano dalle luci delle città, e si fermasse e alzasse gli occhi, assisterebbe
ad uno dei più grandi ed emozionanti spettacoli della natura: il cielo
stellato si aprirebbe davanti ai suoi occhi come uno scrigno pieno di
pietre preziose. Stelle grandi e piccole, scintillanti come cose vive,
così numerose da non poter essere contate (nessuno crederebbe
che le stelle visibili a occhio nudo sono solo seimila circa), riempirebbero la notte buia, sullo sfondo della Via Lattea, una vaga luminescenza che taglia diagonalmente il cielo. Se il nostro viaggiatore
potesse fermarsi abbastanza a lungo nel suo luogo di osservazione
potrebbe anche costatare che gli innumerevoli punti luminosi nel
cielo non stanno fermi e
immobili, ma si
spostano maestosamente e
misteriosamente tutti insieme, come
obbedendo a
una forza se- Cfr.http://www.nationalgeographic.it/fotografia/2011/05/18/foto/fotografie_spazio_notte338350/2/#media
greta, con un
lento moto da est verso ovest che li fa sorgere a oriente e a tramontare a occidente. Gli uomini hanno sempre avuto sotto gli occhi
questo spettacolo notte dopo notte, fin dai tempi della preistoria.
Essi, a partire da un certo momento, cominciarono a interpretarlo
come l'effetto di un'immensa sfera trasparente ma rigida su cui erano incastonati gli astri, considerati spesso come divinità. Alcuni di
essi, le stelle, non modificavano mai la loro posizione relativa muovendosi sempre insieme; altri invece, in particolare il sole e la luna,
33
L’ASTRONOMIA
si spostavano su questo sfondo grandioso come in una cavalcata
senza fine.
I primi
furono i
greci
I primi greci condividevano queste idee di base e avevano imparato a usare il cielo per scopi pratici, senza porsi troppi problemi sul
piano teorico. Ulisse per esempio tornando verso Itaca, usa le stelle
per orientarsi, mentre Esiodo26, l'altro grande poeta greco arcaico,
le sfrutta come «calendario» per i lavori agricoli.
Nasce
l'astronomia
Le cose cominciarono a cambiare quando sulle coste della Ionia,
nell'attuale Turchia, nacque la filosofia. I primi pensatori, nel loro
sforzo di fornire una spiegazione razionale di tutta la realtà, costruirono tra il VI e il V secolo a.C. le prime interpretazioni «scientifiche»
del cielo, ottenendo alcuni interessanti risultati: Talete (VI secolo
a.C.) per esempio riusciva già a prevedere le eclissi, mentre Parmenide (VI-V secolo) intuì che la terra è sferica ed Empedocle (V secolo) spiegò le eclissi col passaggio della luna davanti al sole. Agli inizi
del IV secolo si era formata un'immagine abbastanza precisa del cosmo: la Terra, sferica, era immobile al centro, mentre le stelle venivano trascinate attorno alla Terra da un'immensa sfera che compiva
un giro completo al giorno ruotando attorno ai poli, dando così l'impressione che gli astri «sorgessero» e «tramontassero». Sullo sfondo delle stelle si muovevano il Sole, la Luna e gli altri pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno). Ma qui cominciavano i problemi. Prima del telescopio, inventato da Galilei27 nel 1610, fare
astronomia poteva significare solo studiare le posizioni degli astri e i
loro spostamenti. A occhio nudo infatti è impossibile distinguere un
pianeta da una stella: entrambi appaiono come un semplice puntino
luminoso, anche se alcuni pianeti (per esempio Marte) possono presentare notevoli cambiamenti di luminosità. L'unica vera differenza
26
Esiodo nato adAscra nel VIII secolo a.C. e morto nella stessa nel VII secolo
a.C. è stato un poeta greco antico, le cui opere sono fatte risalire al periodo
tra la fine dell'VIII secolo e l'inizio del VII secolo a.C.
27
Galileo Galilei nato a Pisa il 15 febbraio 1564 e morto ad Arcetri l'8 gennaio 1642 è stato un fisico, astronomo, filosofo e matematico italiano, considerato il padre della scienza moderna.
34
L’ASTRONOMIA
osservabile a occhio nudo tra le stelle e i pianeti è che questi ultiminel corso del tempo si spostano rispetto alle stelle28. Questo vuol
dire che se si osserva tutti i giorni più o meno alla stessa ora un pianeta si vedrà che nel corso di qualche settimana esso si sposta rispetto alle stelle che lo accompagnavano all'inizio del periodo delle
osservazioni.
I pianeti
Si potrebbe pensare che, esattamente come le stelle fisse, anche
gli «astri erranti» (cioè i pianeti) siano trascinati attorno alla Terra
da una loro sfera. Purtroppo un'osservazione condotta per qualche
tempo, anche senza strumenti sofisticati, mostra subito che il moto
di questi astri non si lascia spiegare in modo così semplice. Esso infatti è molto irregolare: non solo i pianeti nel corso dei mesi sembrano rallentare o accelerare, ma in certi periodi sembrano addirittura fermarsi rispetto allo sfondo delle stelle fisse e tornare indietro
(oggi questo fenomeno è detto «moto retrogrado»).
28
La parola «pianeta» deriva non a caso da un verbo greco che significa
«vagabondare».
35
L’ASTRONOMIA
Queste anomalie finirono ben presto al centro dell'attenzione di
quanti studiavano la natura, e cercare di darne una spiegazione fu il
compito principale, anche se non l'unico, che si assunsero gli astronomi greci. Noi oggi possiamo sorridere delle soluzioni che essi proposero: non dobbiamo però dimenticare che sono stati necessari
36
L’ASTRONOMIA
secoli per accettare una realtà (il Sole immobile con al Terra e i pianeti che gli girano attorno) che è in totale contrasto con quello che i
sensi ci mostrano. Bisogna anche considerare che fin quando ci si
ferma all'aspetto cinematico del problema, ossia quando si considerano solo i movimenti, come facevano i greci, senza considerare le
forze in gioco (livello dinamico), il sistema eliocentico (col Sole al
centro del sistema solare) e quello geocentrico (con la Terra al centro) sono perfettamente equivalenti. Si verifica insomma su scala
enormemente maggiore lo stesso fenomeno che noi tutti sperimentiamo quando, per esempio, ci troviamo su un treno in stazione e
guardando fuori dal finestrino non riusciamo a stabilire se è il nostro treno che si muove o quello accanto che si muove in senso contrario.Gli astronomi greci, quindi, hanno diritto a molte attenuanti.
Essi, rispetto ai colleghi egiziani e soprattutto babilonesi che in quel
periodo avevano raggiunto notevoli risultati nel campo dell'osservazione dei fenomeni celesti, avevano un formidabile vantaggio: potevano disporre degli strumenti di calcolo forniti dai primi sviluppi
della geometria scientifica, nata proprio in quegli stessi decenni. Secondo la tradizione sarebbe stato il grande filosofo Platone a porre
per la prima volta in termini chiari ed espliciti il problema di come
spiegare i moti dei pianeti usando solo moti circolari e uniformi. Anche se oggi gli storici della scienza dubitano che le cose siano andate così, questa prescrizione ebbe un'importanza enorme per la storia della scienza, perché condizionò tutta la storia dell'astronomia
fino a Keplero29 (inizi XVII secolo), il primo che introdusse le ellissi
per descrivere le orbite dei pianeti. Lo stesso Copernico per esempio, che pure rovesciò l'altro postulato dell'astronomia classica (la
terra posta al centro dell'universo), continuò a usare moti circolari
uniformi. L'idea di poter e dover usare solo moti circolari e uniformi
era dovuta a ragioni in parte filosofiche e in parte religiose, in quanto il cerchio è simbolo della perfezione e il moto circolare uniforme
è quello che si avvicina di più all'immobilità divina. Nell'antichità la
29
Giovanni Keplero nato ad Weil derStadt il 27 dicembre 1571 e morto a
Ratisbona il 15 novembre 1630 è stato un astronomo, astrologo, matematico e teologo evangelico tedesco, che scoprì empiricamente le omonime
leggi che regolano il movimento dei pianeti.
37
L’ASTRONOMIA
prima teoria astronomica completa e coerente con questi principi fu
formulata dal matematico Eudosso di Cnido30, che studiava presso
l'Accademia di Platone.
La teoria
di Eudosso
In base alla sua teoria, un pianeta si comporta come se fosse incastonato su un punto dell'equatore di una sfera di immense dimensioni. Questa sfera però, a differenza della visione ormai tradizionale, fa parte di un gruppo di sfere aventi tutte lo stesso centro, ossia
la Terra (per questo la teoria è nota come «omocentrica»). Ogni sfera ha un'inclinazione e una velocità di rotazione diverse, e le trasmette meccanicamente alle sfere più piccole che stanno al suo interno (le sfere infatti sono pensate come se fossero connesse le une
alle altre tramite i loro assi di rotazione). Il movimento del pianeta,
visto dalla Terra che è al centro della sfera, è il risultato del moto di
tutte le sue sfere. Eudossoin particolare aveva scoperto che se due
di queste sfere ruotano in direzione opposta l'una rispetto all'altra il
pianeta percorre una curva particolare a forma di otto (detta «ippopede» perché assomiglia alle pastoie dei cavalli, ma che in effetti
è una lemniscata sferica, risultante dell'intersezione di una sfera e
di un cilindro che la tocchi internamente in un solo punto).
30
Eudosso di Cnido nato aCnido nel 408 a.C. e morto nella stessa nel 355
a.C. è stato un matematico e astronomo greco antico, cui sono attribuiti
risultati di grande importanza, fondamentali per il costituirsi della matematica come scienza.
38
L’ASTRONOMIA
Tale curva assomiglia molto alle traiettorie disegnate in cielo dai
pianeti e perciò serviva ottimamente allo scopo diEudosso: egli infatti non voleva tanto spiegare come sono fatti realmente i cieli,
quanto descrivere con buona approssimazione i movimenti degli
astri usando solo moti circolari uniformi. Il sistema omocentrico era
complicato ma soprattutto presentava anche delle difficoltà insormontabili. La più grave era il fatto che i pianeti, in particolare Marte, cambiano periodicamente luminosità, come se la loro distanza
dalla terra cambiasse con la stessa frequenza (e noi oggi sappiamo
che in effetti è proprio così). La teoria di Eudosso invece prevedeva
che i pianeti fossero sempre alla stessa distanza dalla Terra e quindi,
per usare la terminologia di oggi, non poteva risolvere questa anomalia o, per usare quella greca, non riusciva a «salvare i fenomeni».
Come teoria astronomica perciò dovette essere rapidamente abbandonata dagli specialisti.Tuttavia, prima che potesse essere sostituita da qualcosa di più convincente, apparve sulla scena il grande
filosofo Aristotele (seconda metà IV sec. a.C.), che non trovando
niente di meglio inglobò la teoria delle sfere omocentriche nella sua
cosmologia. Aristotele, a differenza di Eudosso, voleva spiegare la
natura e perciò interpretò le sfere omocentriche come se fossero
delle realtà fisiche, realmente esistenti. Con lui il cosmo diventò un
immenso e affascinante meccanismo, che si muoveva secondo uno
schema ordinato e meraviglioso. La fisica di Aristotele, dopo un periodo di oblio, fu riscoperta dagli arabi e poi trasmessa a tutto il
mondo occidentale come «il» sapere sulla natura e sul cosmo. Per
molti secoli Aristotele rappresentò l'autorità somma nel campo della conoscenza della natura: fu attraverso di lui che la teoria di Eudosso, nata come strumento matematico, condizionò la cosmologia,
la filosofia e in ultima analisi la visione del mondo per i successivi
duemila anni circa.
Oltre Eudosso
Gli astronomi che vennero dopo Aristotele si comportarono invece esattamente come gli scienziati moderni: dal momento che il sistema di Eudosso poneva dei problemi che non poteva risolvere,
essi cercarono altre soluzioni, completamente diverse. L'unico
aspetto che rimase costante fu il fatto che venivano previsti solo
moti circolari e uniformi. Nel corso del III secolo a.C. si diffusero così
39
L’ASTRONOMIA
due nuovi modelli geometrici per interpretare il moto dei pianeti:
quello detto «epicicloidale» e quello detto a «eccentrico». Nel primo, il pianeta ruota a velocità costante su un cerchio, detto appunto «epiciclo», il cui centro si sposta a sua volta su un cerchio più
grande detto «deferente» con al centro la terra.
Cfr.http://www.astronomia.com/wp-content/uploads/2010/07/moto-pianeta-esterno-tolomeo.jpg
Nel secondo, il pianeta ruota su un cerchio il cui centro è spostato
all'esterno della Terra. Non è noto chi abbia introdotto questi modelli. Essi sono equivalenti da un punto di vista geometrico e ottengono entrambi lo scopo di far variare la distanza dei pianeti dalla
Terra (rendendo ragione della loro variazione di luminosità) riuscendo anche a giustificare il moto retrogrado dei pianeti. Non si
trattava però di una descrizione della «realtà», come se nel cielo
esistessero veramente delle specie di gigantesche «manovelle», ma
solo di ipotesi introdotte per giustificare il movimento dei pianeti. In
effetti, anche a causa dello scarso numero di osservazioni che gli
astronomi avevano a disposizione, i due sistemi riuscivano a interpretare i fenomeni osservati in modo convincente, e apparivano
perciò una conferma del presupposto secondo cui il moto fondamentale fosse quello circolare e uniforme.
L'astronomia
ellenistica
Nel periodo ellenistico (323-146 a.C.) l'astronomia greca migliorò
notevolmente rispetto a quella babilonese o egizia perché seppe
sfruttare lo sviluppo della geometria, in particolare la sua sistemazione in un tutto organico e coerente a opera di Euclide. Fu questo
40
L’ASTRONOMIA
fatto che permise agli scienziati greci di ottenere alcuni dei loro risultati più notevoli. Per esempio Aristarco31, vissuto nel II sec. a.C.,
riuscì a progettare un sistema per determinare la distanza della Luna rispetto alla Terra: secondo i suoi calcoli essa era pari a 40 diametri terrestri (il valore corretto è circa 30,5). Esaminando poi le osservazioni condotte durante le eclissi aveva determinato anche la
distanza tra la Terra e il Sole, dichiarandola pari a 760 diametri terrestri (qui Aristarco fu tradito dai suoi strumenti di osservazione: il
valore corretto è circa 20 volte maggiore).L'astronomo che sfruttò
al meglio le possibilità offerte dallo strumento matematico, introducendo per la prima volta l'uso delle funzioni trigonometriche e
usando il calcolo per prevedere la posizione dei pianeti, fu Ipparco
di Nicea32. Usando abilmente alcune osservazioni effettuate durante le eclissi di Sole e di Luna migliorò notevolmente la stima della
distanza Terra-Luna (che fissò in un intervallo tra 29,5 e 33,6 diametri terrestri circa, ossia praticamente uguale a quello reale). Compilò
uno dei primi cataloghi di stelle al mondo e mentre effettuava questo lavoro si accorse che le stelle modificano lentamente la loro posizione rispetto agli equinozi (ossia i punti sulla volta celeste in cui
l'equatore celeste e l'eclittica si intersecano): è il fenomeno oggi noto come «precessione degli equinozi», una delle scoperte più importanti di tutta l'astronomia antica. Per dare un'idea dell'accuratezza delle osservazioni di Ipparco basti dire che questo lentissimo
movimento è inferiore a 1° ogni cento anni.
Tolomeo
Tutte le conoscenze e i risultati dell'astronomia ellenistica confluirono nell'opera del più grande astronomo dell'antichità, Claudio Tolomeo, vissuto ad Alessandria d'Egitto tra 130 e il 175 d.C. La sua
opera più famosa, universalmente nota col nome arabo di Almagesto, rimase il punto di riferimento in campo astronomico fino al XVII
31
Aristarco di Samo nato a Samo nel 310 a.C. circa e morto nella stessa nel
230 a.C. circa, è stato un astronomo greco antico.
32
Ipparco di Nicea, noto anche come Ipparco di Rodi o semplicemente Ipparco nato a Nicea nel 200 a.C. e morto a Rodi nel 120 a.C., è stato un
astronomo, astrologo e geografo greco antico, noto principalmente per la
scoperta della precessione degli equinozi.
41
L’ASTRONOMIA
secolo. La rappresentazione dei moti celesti raggiunse in questo libro un notevole grado di complessità. Tolomeo infatti scelse di
combinare insieme sia il modello a epicicli sia quello a eccentrici, in
modo da usare gli epicicli per rappresentare alcune variazioni di velocità dei pianeti e gli eccentrici per rappresentarne altre. Tuttavia
questo accorgimento non era ancora sufficiente per giustificare alcuni dati ricavati da certe osservazioni. Per poter includere anche
questi dati Tolomeo fu costretto a formulare un'ulteriore ipotesi: il
moto del pianeta è uniforme non rispetto alla Terra, da cui noi lo
osserviamo, e neppure rispetto all'eccentrico (che era, ricordiamolo, il centro del cerchio su cui si muoveva il centro dell'epiciclo), ma
rispetto a un terzo punto, detto «equante», simmetrico alla Terra
rispetto all'eccentrico.
Cfr.http://www.vialattea.net/spaw/image/astronomia/tolom1.gif
I dati calcolati accettando questo postulato concordavano molto
bene con i dati ricavati dall'osservazione di quasi tutti i pianeti (meno Marte: non a caso sarà proprio studiando la sua orbita che Keplero formulò all'inizio del Seicento le sue famose leggi sul moto dei
pianeti). Di fatto il moto risultante da questi artifici introdotti «ad
hoc» (cioè inventati per giustificare specifici risultati forniti dalle osservazioni) era molto simile a un ellisse, che è, come sappiamo oggi,
l'orbita vera. Tolomeo però non poteva svincolarsi dal «paradigma
scientifico» della sua epoca e continuò a sentirsi obbligato a usare
solo moti circolari uniformi per descrivere le traiettorie dei pianeti.
Nessuno scienziato dell'antichità o del medioevo riuscì a superare i
risultati di Tolomeo. Tuttavia la sua teoria, come ogni teoria scientifica, era destinata a essere «falsificata» da un fatto che essa non
42
L’ASTRONOMIA
riusciva a spiegare. Questo avvenne agli inizi del XVII secolo e segnò
l'inizio di una nuova fase della storia dell'astronomia.
Il moto di
Marte
Per accorgersi di questo moto irregolare dei pianeti non basta dare un'occhiata frettolosa in cielo e neppure osservare la volta stellata per una sola notte: in questo caso infatti quello che si
osserverebbe sarebbe solo il
moto diurno comune a tutti
gli astri. Per accorgersi del
fatto che i pianeti sono davvero «astri erranti» è necessario effettuare una serie di
osservazioni alla stessa ora:
solo così infatti ci si accorge
che la posizione degli astri
cambia in modo non uniforme. E' importante capire che
il moto che l'immagine presenta non è il movimento del
pianeta nel corso di una sola
Moto del pianeta Marte:
notte (in questo caso si muo- Cfr.http://www.astronomynotes.com/nakedeye/animations/ret
rograde-anim.htm
verebbero anche le stelle) ma
la ricostruzione che si ottiene segnando a intervalli di una settimana
la posizione del pianeta rispetto alle stelle delle costellazioni in cui
si trova.Il pallino rosso che si sposta è Marte (ogni pallino indica la
posizione del pianeta a distanza di una settimana), i pallini neri di
varie dimensioni sono le stelle e le linee che uniscono alcune stelle
indicano le costellazioni, indicate col nome scientifico latino.
Il SomniumScipionis
Il SomniumScipionis è il racconto di un sogno di Scipione Emiliano33 (protagonista di questo trattato ciceroniano), ospitato in Numidia dall'anziano re Masinissa, alleato dell'Africano. In questo sogno, racconta l'Emiliano, gli era apparso il nonno adottivo Scipione
33
Publio Cornelio Scipione Emiliano, detto anche Africano minore nato nel
185 a.C. e morto a Roma nel 129 a.C., è stato un militare e politico romano.
43
L’ASTRONOMIA
34
l'Africano : costui gli aveva predetto le sue glorie future e la sua
morte prematura, mostrandogli però successivamente una visione
delle sfere celesti e spiegando che il premio riservato dagli dèi alle
anime degli uomini politici virtuosi sarebbe stato l'immortalità
dell'anima e una dimora eterna nella Via Lattea. Affermando l'immortalità dell'anima e l'esistenza di un premio celeste per le buone
azioni degli uomini, così come di un aldilà, Cicerone espone, inoltre,
rifacendosi a stoici ed aristotelici, la sua visione del cosmo, in cui
nella Via Lattea trovano pace le anime che hanno in vita operato
per il bene dello Stato35. All'interno di quest'opera troviamouna visone del mondo molto reale e affine a quella moderna provata
scientificamente.
Da qui, a me che contemplavo l'universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano, tra l'altro,
stelle che non vediamo
mai dalle nostre regioni
terrene36; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi
celesti erano maggiori di
quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l'astro che, essendo il più lontano dalla
volta celeste e il più vicino
alla terra, brillava di luce
riflessa37. I volumi delle
stelle, poi, superavano
nettamente le dimensioni
Blue dot, foto scattata alla terra dalla sonda Voyager
1ad una distanza di 6 miliardi di kilometri risalente al
1990 scattata.Cfr.https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commo
ns/7/71/PaleBlueDot.jpg
34
Publio Cornelio Scipione nato a Roma nel 236 a.C. e morto a Liternum
nel 183 a.C., noto anche come Scipione l'Africano, è stato un politico e militare romano, appartenente alla gens Cornelia.
35
Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Somnium_Scipionis
36
Poiché si trovava nell'altro emisfero terrestre.
37
Ovvero la Luna. Il fatto che la luna brillasse di luce riflessa ci dice molto
delle conoscenze di cui erano già in possesso a quei tempi.
44
L’ASTRONOMIA
della terra. Anzi, a dire il vero,
perfino la terra mi sembrò così
piccola, che provai vergogna del
nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un
punto del globo(la terra è cosipiccola che il nostro desiderio di
potenza in realtà non era nulla,
un
puntino
microscopico
nell’immensità del cosmo)38.
Blue Marble è una famosa fotografia della
Terra scattata il 7 dicembre 1972 dall'equipaggio dell'Apollo 17.
38
SomniumScipionis, 16. Cfr.http://www.classicitaliani.it/dante1/somnium.htm
45
CRISTIANESIMO
Rapporto
tra fede e
ragione...
...termini
contrapposti
Prima di tutto occorre affrontare il rapporto tra fede e ragione,
spesso interpretato in maniera scorretta a causa di una serie di preconcetti sulla natura di queste due realtà. Secondo il sentire comune moderno, formatasi durante la Riforma protestante luterana e
sviluppatosi XVII secolo in un contesto dualista dal punto di vista
gnoseologico e antropologico, la fede sarebbe essenzialmente un
sentimento irrazionale: chi crede, deve sentire dentro di sé un
«qualcosa» (descrivibile, almeno in prima approssimazione, come la
«presenza» di Dio o il «sentimento» di Dio) che lo rende in qualche
modo diverso dagli altri (i non credenti).In parallelo a questa interpretazione, sempre per la comune opinione occidentale moderna la
ragione si ridurrebbe essenzialmente a una qualche forma di capacità di calcolo (che sia esso matematico o puramente logico) e quindi
in ultima analisi si identifica con la razionalità scientifica.
È evidente che tra una fede e una ragione concepiti in questo modo non è possibile alcun rapporto, e tanto meno alcuna collaborazione. Ragione e fede sono interpretati come due termini opposti e non complementari. Io devo scegliere: se voglio essere un credente devo rinunciare all'uso della mia ragione, se invece voglio
usare la mia razionalità per organizzare la mia vita devo rinunciare al
sentimento della fede. Secondo la Chiesa cattolica delle origini, invece, le cose stanno in modo completamente diverso: la fede è prima di tutto una esperienza che rinnova il significato di tutta l'esistenza e che nasce dall'incontro con il Cristo all’interno della comunità dei suoi fedeli; la ragione d'altro canto viene intesa in senso
classico come la capacità di manifestare l’essere e quindi la possibilità per l'essere di manifestarsi. In questo modo i rapporti tra fede e
ragione si configurano in termini non conflittuali: non è più necessario scegliere tra la razionalità e il sentimento, ma i due principi
possono convivere pacificamente e anzi aiutarsi a vicenda.
46
CRISTIANESIMO
Punti di
vista della
religione
Contributi
alla filosofia
Se infatti la fede è prima di tutto un modo per riorganizzare la visione della totalità a partire dall'incontro con il Cristo, per svolgere
questo compito ha bisogno di concepire l'uomo come «apertura al
mondo», proprio come sostiene la tradizione classica quando interpreta il pensiero come manifestazione dell'essere. Lo stesso incontro con il Cristo è una «manifestazione» del divino, sia pure del
tutto particolare. Viceversa dal punto di vista della ragione intesa
come apertura alla totalità la fede è un potenziamento e insieme un
approfondimento, dato che essa nasce dall'incontro di «qualcosa»
che la ragione da sola non poteva né prevedere né immaginare. Non
a caso, la Bibbia per esprimere l'esperienza della fede ricorre molto spesso all'immagine dell'amore, inteso come non come semplice
sentimento interiore e solipsista ma come la scoperta e l'apertura
all'Altro da sé.
Le principali tematiche che il Cristianesimo introduce nella filosofia
sono riunibili in due coppie:


il tema della persona e della libertà
il tema dell’esistenza e della creazione.
Il tema della persona nasce agli inizi del IV secolo da una problematica squisitamente teologica, ovvero la necessità di parlare un Dio
«uno e trino», come afferma il Credo niceno, senza dover ammettere l’esistenza di tre divinità distinte. Questo punto fondamentale
della dottrina cattolica offre un ovvio bersaglio polemico ai nemici
del Cristianesimo, perché sembra negare nel modo più plateale
possibile il principio di non contraddizione, fondamento del pensiero umano: è facile capire quindi
perché, non appena è possibile per
i cristiani elaborare una organica
riflessione teologica, esso viene
posto al centro della loro attenzione. La risposta ruota attorno al
concetto di «persona», che a
Maschere teatrali della tragedia. Cfr:
quanto pare fu introdotto per la
47
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons
/3/3c/Roman_masks.png
CRISTIANESIMO
prima volta nella teologia da Tertulliano39.La parola viene dal latino,
dove indica la maschera teatrale che ha il compito non solo di rendere facilmente identificabili i personaggi ma anche di amplificare la
voce dell'attore grazie alla sua forma particolare.
La «persona» nella
teologia
cattolica
Nella teologia cattolica la nozione di «persona»serve per indicare
gli «attori»della storia della salvezza, così come si ricavano dalla
tradizione consolidatasi nelle Scrittura: il Padre, il Figlio e lo Spirito.
Il principio fondamentale dell'antropologia cristiana però, affermato
fin nel libro del Genesi (versetto ventisette), sostiene che:«Dio creò
l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e
femmina li creò»: se Dio è «persona», quindi, anche l'uomo lo
sarà. La caratteristica fondamentale della persona divina è la libertà,
intesa come libero arbitrio. Dio infatti non può essere costretto da
qualcosa o qualcuno che gli sia esterno a fare o a non fare qualcosa.
Se così fosse non sarebbe più Dio, perché non sarebbe più il fondamento e il
vertice del mondo, ciò al di là o al di
sopra del quale non c'è più nulla. Dio è
libero nel senso che non esiste una
causa esterna a lui che lo possa obbligare a fare o a non fare qualcosa. Allo
stesso modo l'uomo è libero perché
nulla di esterno a lui, nemmeno Dio,
può obbligarlo a fare o non fare qualcosa. La seconda caratteristica della
persona divina è l'amore, inteso come Trinità, celebre icona di Andrej Rublev.
capacità di donazione di sé all'altro. Cfr.http://upload.wikimedia.org/wikipedia
/commons/0/0b/Angelsatmamre-trinityrublev-1410.jpg
Nell'icona russa di Andrej Rublev40 è
raffigura per mezzo di tre angeli, simili a quelli che visitarono Sara,la
39
Quinto Settimio Fiorente Tertulliano nato a Cartagine nel 155 circa e
morto nella stessa nel 230 circa, è stato uno scrittore romano e apologeta
cristiano, fra i più celebri del suo tempo.
40
Andrej Rublëv, nato a Mosca nel 1360 e morto nella stessa il 29 gennaio1430, è stato un pittorerusso, considerato il più grande pittore di icone. È venerato come santo dalla Chiesa ortodossa.
48
CRISTIANESIMO
trinità. Questi angeli sono seduti attorno ad un tavolo quadrato con
un lato vuoto che sembra invitare lo spettatore a sedersi al tavolo e
a partecipare alla fede.
L'antropologia cristiana
Si delineano già alcune caratteristiche tipiche della antropologia
cristiana prima di tutto in contrapposizione alla antropologia greca.
Quest'ultima si basava sulla nozione di «psychè», cioè di principio
vitale immateriale che deve essere ammesso per giustificare il fatto
che il corpo umano «vive»: come abbiamo appena detto, l'antropologia cristiana si basa sul concetto di «persona». L'antropologia greca, nonostante qualche accenno in senso contrario, rimane fondamentalmente legata al cosiddetto intellettualismo etico di Socrate.
Cosa sosteneva
Socrate...
Questi sosteneva che l’uomo fa necessariamente ciò che la ragione gli mostra come buono, e perciò non compie il male volontariamente. Il problema etico si risolve in un problema gnoseologico: se
riesco a far conoscere veramente a un uomo cosa è il bene per lui,
egli certamente lo farà. Se non lo fa, significa semplicemente che
nonostante le sue eventuali affermazioni in contrario egli non ha
ancora capito in modo autentico cosa sia il bene per lui. L'accento è
messo sulla conoscenza.
...al contrario i
cristiani
Al contrario i teologi e i pensatori cristiani, come per esempio S.
Paolo, amano ripetere: «Video meliora proboque, sed deteriora sequor» (Vedo le cose migliori e le approvo, ma segue lo peggiori), che
in realtà una citazione dalle Metamorfosi di Ovidio (la frase è pronunciata da Medea per descrivere il suo dramma interiore). Non
serve capire con l'intelletto cosa è il bene e quindi cosa dovrei
astrattamente fare. Quello che conta veramente è ciò che decido
liberamente di fare, e la mia libertà si spinge al punto che io posso
anche decidere di rifiutare l'evidenza del bene, che invece per i greci
dovrebbe condurmi all'assenso. L'accento è messo sulla volontà.
Rapporto
tra cultura
greca ed
ebraica
L'antropologia cristiana si fonda sulla visione biblica dell'uomo,
che a sua volta assorbe ed esprime una serie di concetti e di valori
tipicamente semitici. Tuttavia questa concezione, molto diversa da
49
CRISTIANESIMO
quella greca, si mescola in modo inestricabile e ambigua con quest'ultima prima ancora dell'avvento del Cristianesimo. L'occasione e
la causa di questa evoluzione è la traduzione della Bibbia dall'ebraico al greco per la comunità ebraica di Alessandria di Egitto, dove
c'era una maggioranza di neoconvertiti che non conoscevano l'ebraico. La traduzione viene affidata a una commissione di 70 saggi,
da cui prende il nome con cui è attualmente nota (la «Bibbia dei
Settanta»). Anche in questo caso ci concentreremo solo sui punti
che possono interessare direttamen-te la filosofia e in particolare la
antropologia.
Versione bilingue moderna della Bibbia (in greco e in ebraico)
Nella Bibbianon esiste una unica parola per indicare l'«uomo»: ne
esistono invece almeno quattro, che sono nefěs, bâsâr, ruah e leb.
Ciascuna di esse indica non una parte dell'uomo, ma l'uomo stesso
nella sua completezza sebbene considerato da un particolare punto
di vista.


Nefěs indica l'uomo considerato dal punto di vista dei bisogni
essenziali e dell'indigenza, cioè della mancanza di ciò che serve
per vivere: quindi talvolta indica la parte anatomica che meglio
simboleggia questo aspetto dell'uomo, e cioè la gola.
Bâsâr indica la carne nel senso più ampio del termine, tanto
che viene usata anche per indicare gli animali o, tra le parti del
corpo, indica quella legata alla riproduzione sessuale. Tuttavia
50
CRISTIANESIMO


prevale il senso per il quale l'uomo, nel suo complesso, è impotente quando rinuncia all'amicizia con Dio.
Viceversa ruah indica proprio la potenza di Dio e dell'uomo
quando accetta il piano che Dio ha su di lui
Infine leb indica la razionalità dell'uomo intesa in un senso
molto ampio, dato che comprende sia il sentimento, la ragione
e la volontà. È fondamentale capire che per la cultura ebraicosemitica la conoscenza si ottiene non con la ricerca intellettuale, ma con l'ascolto. È per questo che la sede del leb è il cuore,
non il cervello.
Difficoltà
nella traduzione
Il problema è che queste parole non hanno corrispondenti esatti
né in greco né in latino e a maggior ragione in italiano. I saggi che
traducono la Bibbia dei Settanta devono quindi compiere delle scelte difficili, che condizioneranno poi tutto il modo di interpretare l'esperienza religiosa ebraico - cristiana. Nefeš quindi viene tradotto
con psychè e poi con anima, bâsâr con soma e quindi con caro, ruah
con pneuma tradotto poi in latino con spiritus e infine leb con kardia e poi cor.Ma le parole usate nella cultura greca esprimono principi tipici della cultura greca e completamente diversi da quelli
ebraici: psyché è il principio vitale del movimento, che deve in
qualche modo unirsi al soma, il corpo fisico che lasciato a se stesso
non può vivere.
Il senso
viene così
modificato
Il solo fatto di usare queste parole ha modificato il senso stesso
del testo biblico, introducendovi una interpretazione dualistica della
vita che era del tutto assente nella versione originaria. In particolare, la psyché di Platone è intrinsecamente immortale ed è pienamente se stessa solo quando si libera del corpo; al contrario, la nefeš ebraica è talmente unita al corpo che la Bibbia non parla mai di
immortalità dell'anima ma solo di resurrezione dei corpi.
Un'idea
differente
di Dio
Questo però non basta a far comprendere e condividere la nuova
dottrina ai Greci, i quali non possono accettare né che Dio si possa
fare uomo, né l'idea che l'amore possa essere un moto spontaneo
del superiore (Dio) nei confronti dell'inferiore (l'uomo).Non a caso
51
CRISTIANESIMO
nella mitologia greca le divinità si uniscono alle donne solo mediante la forza o l’inganno. Al contrario nell’episodio dell’Annunciazione
cristiana l'angelo chiede a Maria il suo consenso.
Cristo, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini.
Apparso in forma umana,
umiliò se stesso facendosi obbediente
fino alla morte e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre41.
"Annuncizione" del Beato Angelico (Museo del Prado, Madrid)
41
Cfr. Inno cristologico (fil 2,6-11).
52
CRISTIANESIMO
Annunciazione di Leonardo (Museo degli Uffizi)
53
PLOTINO
Chi è Plotino?
È uno degli autori più difficili e importanti della storia della filosofia e il suo pensiero emerge nei luoghi più impensati. Il suo pensiero
rappresenta una delle possibili opzioni ontologiche e
metafisiche nella rilettura
della realtà. Dal punto di
vista culturale Plotino42
rappresenta la risposta greca al cristianesimo, che
rappresentava una sfida
mortale, e costituisce di fatto una sintesi di tutta la filosofia ellenica, in particolare di Aristotele e Platone.Al
centro della riflessione di
Plotino è il problema
Plotino nella scuola di Atene di Raffaello Sanzio.
Cfr.http://www.parlandosparlando.com/wpdell'essere: quale struttura
content/uploads/2013/10/Scuola-di-Atene-PlotinoRaffaello.jpg
esso abbia, come possano
conciliarsi unità e molteplicità, immobilità e movimento, eternità e
tempo.
42
Plotino nato a Licopoli nel 203/205 e morto a Minturno nel 270 è stato
un filosofogreco antico. È considerato uno dei più importanti filosofi
dell'antichità, erede di Platone e padre del neoplatonismo.
54
PLOTINO
L'ontologia
Plotino parte da Aristotele, che aveva notato la coestensione del
concetto di essere e unità: questo significa che là dove c’è essere
c’è unità, e viceversa dove c’è unità c’è essere. Posso dire che qualcosa esiste solo perché questo si presenta come qualcosa di unitario. Plotino fa l’esempio del gregge o dell’esercito: diciamo che un
gregge e un esercito esistono quando vediamo un gruppo di pecore
o di uomini. Ma se uno dei due insiemi si disperde non esiste più ma
le ciò che lo formava sì: le pecore per essere chiamate gregge e i
soldati per essere chiamati esercito devono formare un’unità, se no
non esistono più come tale. Il passo successivo è di carattere platonico: da dove viene l’unità alle cose? La risposta è: dalla partecipazione all’Unità in quanto tale. Plotino introduce la parola Uno (Hen)
come concetto ontologico. Le cose esistono perché sono une, e
questa unità deriva dalla partecipazione con l’unità in quanto tale,
con l’Uno in sé.
55
PLOTINO
Ma cosa
possiamo
dire
dell'Uno in
sè?
Se l’Uno deve essere davvero uno, non deve avere in sé nessuno
forma di molteplicità. Deve essere assolutamente uno, puro, inscindibile, indiveniente, eterno. Non deve avere al proprio interno
nessuna forma di molteplicità, nemmeno la più piccola. Questo ci
costringe però, paradossalmente, a non poter ammettere nessuna
qualità dell'Uno. Infatti se noi diciamo:
L’uno è bello,
oppure
L’uno è immodificabile
o addirittura
L’uno è unitario
aggiungiamo all’Uno qualcosa, poiché se il «bello» è in qualche modo «dentro» l’Uno (dato che predico l'aggettivo «bello» dell'Uno)
allora l'Uno è «due», cioè una molteplicità, dato che deve essere insieme «uno» e «bello».In altre parole se l'Uno deve essere concepito come totalmente unitario allora di esso non possiamo propriamente dire nulla.
La stessa
parola uno
è contraddittoria
L'uno come Ipostasi
Plotino è così rigoroso nel trarre le conseguenze della sua impostazione da affermare che l'Uno non è causa, non è il bene, non è il
pensiero, non è l'essere, non è propriamente nemmeno Dio e a rigor di termini non può neanche venir definito come Uno: esso possiamo dire solo ciò che non è. («lo stesso nome «Uno» non significa
altro che la negazione della molteplicità e, dunque, solo indirettamente lo designa43»).In questo modo Plotino diventa l'iniziatore di
quella che verrà chiamata in seguito «teologia negativa» [clicca qui
per un approfondimento]
Il suo fondamento è totalmente trascendente, ossia totalmente al
di là di quello che noi possiamo conoscere. È qualcosa che esiste,
ma in un modo tale che noi non possiamo parlarne se non per ana43
Enneadi, V,6,5
56
PLOTINO
logie e simboli. Plotino per descrivere questa situazione inventa una
parola nuova: l’Uno è ipostasi, cioè ciò che esiste in modo autonomo.L'Uno è la «categoria delle categorie», la «forma delle forme» (o
la «forma senza forma») in cui possiamo scorgere l'idea platonica di
bene; è la fonte perenne da cui ogni cosa scaturisce e verso cui tende a tornare.L'Uno è (se vogliamo utilizzare una terminologia religiosa) un «dio senza nome». Esso rappresenta una delle immagini
più astratte della divinità che mai siano state concepite, ben lontano
sia dal demiurgo platonico (sottoposto alle idee) e dal «creazionismo» del Dio ebraico - cristiano (che vuole creare il mondo e che lo
ama).L'Uno di Plotino non «crea», propriamente parlando, qualcosa
che è «altro da lui», cioè un mondo distinto dall'Uno stesso (come
invece avviene nella tradizione ebraico - cristiana) ma si autopone
liberamente, essendo infinita potenza che necessariamente si
espande.
Le altre
Ipostasi
Nella cultura greca è impensabile che i principi ontologici opposti
(ovvero «essere» e «non essere») possano entrare direttamente in
contatto. Per questo Plotino introduce una seconda ipostasi, detta
Nous (pronuncia: «nus», «Spirito»), che corrisponde esattamente al
mondo delle idee platoniche e che serve ad attenuare l'abisso vertiginoso che separa l'Uno dal mondo delle cose che noi vediamo. Ma
nemmeno il Nous basta a spiegare il mondo delle cose, caratterizzato dalla trasformazione e dal divenire (caratteristiche opposte a
quelle del Nous): perciò Plotino recupera la nozione di Anima del
mondo (anima mundi), anch'essa derivata da Platone.
Le tre Ipostasi
Esistono quindi tre ipostasi: Uno, Nous o Spirito e Anima.
L'Uno, suprema potenza, è centro di un processo di «irradiazione»
(perilampsis) che è essenzialmente una autocontemplazione di sé da
parte dell'Uno: non esiste propriamente nulla al di fuori dell'Uno,
che l'Uno possa in qualche modo contemplare. Grazie a questo processo l'Uno «non esce da sé» ma «produce in sé» la sovrabbondanza d'essere di cui è portatore. Con ciò non si depotenzia, non si sminuisce, non cambia ma, semplicemente, «è ciò che dev'essere».
57
PLOTINO
L’uno è tutte le cose e non è nessuna di esse: infatti il principio di
tutto non è il Tutto; Egli è il tutto, in quanto il tutto ritorna a Lui; e
cioè nell’Uno non si trova ancora, ma vi si ritroverà.
Egli infatti è perfetto perché nulla cerca e nulla possiede e di nulla
ha bisogno; e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera un’altra cosa. Ma l’Essere così generato si volge a
Lui e tosto ne è riempito e, una volta nato, guarda a se stesso e
questa è l’Intelligenza.
E così l’Essere, essendo simile a Lui, genera ciò che gli è affine, riversando fuori la sua grande potenza; ma anche questa è
un’immagine di Colui che, prima di lui manifestò la sua potenza.
Questa forza che procede dall’Essere è l’Anima, ma questa diviene, mentre l’Intelligenza è immobile, poiché anche l’Intelligenza
nacque mentre Colui che è prima di lei persiste nella sua immortalità44.
L'uno come emanazione
Per descrivere questo processo produttivo Plotino usa una serie di
efficaci immagini metaforiche (ricordiamo che propriamente parlando noi non dovremmo dire nulla dell'Uno). Una delle più efficaci
è l'immagine della luce che s'irradia in ogni direzione senza, per
questo, veder diminuito il proprio splendore.
Cfr.http://xnoybis.org/preview/gallery/5_02_08_12_9_20_29.png
Il nous
come indebolimento
Dall'Uno, dunque, prima ipostasi, procede la seconda ipostasi, il
Nous (o «Spirito»). Il processo di irradiazione è un processo di moltiplicazione e insieme per così dire di «indebolimento» della po44
Enneadi, V 2, 1, Bompiani 2004, pag. 815
58
PLOTINO
tenza contemplatrice originaria, che resta qualitativamente la stessa (come la luce, che allontanandosi dal centro di emissione si indebolisce pur restando se stessa).Il Nous pensa se stesso ed è, nello
stesso tempo, ciò che viene pensato: l'attività del pensiero richiede
uno sdoppiamento del soggetto, che si rende «oggetto» a se stesso.
L'anima si
fa materia
Dal Nous insieme «pensante» e «pensato» (oppure «conoscente»
e «conosciuto») procede la terza ipostasi, l'Anima, che, pur continuando a partecipare della vita del Nous e quell'Uno, si fa materia,
mondo e corpo, in quanto è una ulteriore moltiplicazione e frammentazione dell'unica e medesima energia contemplatrice originaria.L'Anima occupa una posizione intermedia tra mondo intelligibile
e mondo sensibile: essa, da un lato, si volge verso il Nous e quindi
partecipa della vita dell'Uno, cogliendo la luce delle idee; dall'altro,
come Anima del mondo, produce, ai suoi estremi confini, la materia
dell'universo fisico (è dunque physis) e, infine, si specifica nei singoli
corpi viventi (come «anima individuale»).
Le Ipostasi
come un
fuoco
Per descrivere il rapporto tra le tre ipostasi Plotino tra l'altro la
metafora del fuoco: la fiamma viva corrisponde all'Uno, perché è
calore e luce insieme. Poi, come attorno al fuoco c’è una zona con
luce e calore, così attorno all'Uno esiste il Nous. Infine c’è un’area
molto più grande in cui si vede il fuoco ma non si sente il calore, e
questa fascia corrisponde all'Anima. Il mondo che noi vediamo è
l’ultimo segno del fuoco, è l’uno indebolito dai passaggi.
Cfr.https://c2.staticflickr.com/4/3072/2750329080_3837accbf2.jpg
59
PLOTINO
Panteismo
acosmista
Questo significa che l’Uno esprime una trascendenza assoluta, è
totalmente al di là di quello che noi possiamo intuire. Questa è la
risposta greca alla visione ebraico - cristiana. Nella bibbia c’è infatti
un passo del profeta Isaia che dice “tu es deus absconditus” (tu sei
un dio nascosto). L’esperienza religiosa ebraico - cristiana parla di
un Dio trascendente, altro dal mondo. Plotino risponde dicendo che
è vero, ciò da cui tutto inizia è totalmente trascendente. L’unità deve derivare da un’unità fondamentale, priva di tutte le caratteristiche, per cui non può essere detto e colto. Se tutto è prodotto
dall’energia dell’uno, allora ogni cosa è una forma di questo
Uno. Per Plotino è l’Uno che, grazie alla sua energia, produce il
mondo. L’Uno è ciò da cui deriva tutto il resto: in qualche modo "è"
anche tutto il resto. Plotino rappresenta una delle varianti del panteismo, ossia di quella posizione filosofica per la quale c'è identità
tra il "fondamento" e il "mondo". La caratteristica del panteismo di
Plotino è di essere un "panteismo acosmista": il mondo (cioè il cosmo) non ha una sua vera consistenza ontologica. Le cose esistono
solo come proiezioni, in qualche modo, dell'Uno, come se fossero
solo degli ologrammi. L’immagine che nel medioevo è usato per
rappresentare questo è quella del raggio che colpisce un cristallo: il
raggio di luce è sempre uguale a sé, eppure è diverso, si indebolisce
come intensità, diventa colorato (ossia "altro da sè", in qualche modo).
Cfr.https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/59/Optical-dispersion.png
60
PLOTINO
La teologia
negativa
L’Uno deve produrre il mondo, ma questo processo non può essere che necessario: il dio di Plotino non sarebbe se stesso se non
producesse il mondo.Per questo è sbagliato parlare di creazione a
proposito di Plotino, perché questo implicherebbe ammettere
nell'Uno la possibilità di non produrre il mondo e allo stesso tempo
la volontà (libera) di portarlo all'esistenza.
Per Plotino:
Dio+mondo>Diomondo
Per la tradizione
ebraicocristiana:
Dio+mondo = Diomondo
Questo significa che se il Dio cristiano avesse deciso di NON creare
il mondo, la "quantità totale" di realtà sarebbe rimasta la stessa:
l'Uno di Plotino è in qualche modo costretto a produrre il mondo,
invece, perché altrimenti non sarebbe neppure se stesso. Il punto
debole della posizione di Plotino è che anche lui finisce, contro le
proprie intenzioni, per ammettere almeno una forma di dualismo:
quella tra l’Uno e la necessità che gli impone di costituire il mondo.
Plotino riprende esplicitamente il passo di Platone (alla conclusione
dell'allegoria della caverna) in cui il sole (idea del bene) viene reinterpretato come Uno, come il bene che sta al di là delle eide. Il nostro pensiero è infatti legato al mondo delle idee, quando parliamo
61
PLOTINO
facciamo riferimento alle eide platoniche. La parola esprime la connessione che il pensiero ha colto tra l’oggetto sensibile e
l’eidos.L’Uno è al di sopra del livello cui si collocano sia il pensiero
sia le parole: perciò è “ineffabile”, ossia indicibile.
La prima parte dell’anima è in alto, vicina alla cima, eternamente soddisfatta e illuminata, e rimane lassù; l’altra parte, che partecipa della prima, in quanto ne partecipa procede eternamente, vita dalla vita; essa è infatti attività che si diffonde in ogni
luogo ed è presente ovunque45.
Dio non
può essere
descritto
La materia
e il male
Plotino afferma infatti che se noi cogliessimo davvero l’Uno
(l’assoluto, il fondamento di tutto il resto) lo trasformeremmo in
una cosa tra le cose, ossia tradiremmo la sua più autentica natura.
Se Dio esiste sicuramente non è una cosa tra le cose, non può essere paragonabile a nulla. Ma siccome le nostre parole e pensieri
arrivano al massimo al livello delle eide platoniche non siamo in
grado di cogliere il fondamento: non resta che la via della teologia
negativa. Tutti coloro che hanno dichiarato di aver avuto una esperienza mistica, ossia di aver contemplato direttamente l’assoluto, e
che poi hanno tentato di descriverlo, hanno detto: "è niente" (oppure: "è buio", oppure ancora, "è luce nella quale non si distingue nulla"). L'esperienza di Dio viene spesso descritta come "notte", "assenza", "buio": anche se è un’esperienza dolcissima, non può essere descritto con le parole che si usano normalmente. Le parole semplicemente non bastano e quindi si finisce per descrivere Dio con
termini negativi, dicendo ciò che Dio non è, ossia si costruisce una
teologia negativa. Il "niente" di cui i mistici parlano va inteso come
un "ni-ente", ossia un "non-ente", una realtà diversa dalle cose che
ci circondano (che sono gli enti). Si ammette che non si può dire
quello che dio è, ma ci di deve accontentare di dire solo quello che
non è.
La materia, dunque, non è che l'ultimo esito del processo di irradiazione dell'Uno, è il margine d'ombra al limitare della luce, è man45
Enneadi, III 8, 5, 513.
62
PLOTINO
canza e privazione di bene. Ma, si badi, non è, propriamente, il male. Il male, infatti, sta nella rinuncia dell'anima a percorrere la
strada che riconduce all'Uno, il male è la "scelta" di rimanere nelle
tenebre, il male è assenza di misura, indeterminatezza, instabilità,
passività, non essere: esso, in definitiva, «non è sostanza»46.
Ma se la materia rappresenta «il confine dell'anima» ed è l'ultimo
effetto della cosmica irradiazione dell'Uno, allora si deve concludere
che i corpi stanno dentro le anime . Da questo primato dell'anima
sul corpo nasce l'orrore del nostro filosofo per la tesi cristiana della
resurrezione dei corpi, destinata a diventare uno dei dogmi centrali
della nascente religione.
Dunque anche le anime? [tutt’insieme come l’Essere-Intelligenza]
Sì, anche le anime, poiché ciò che fu detto “divisibile nei corpi” è
tuttavia indivisibile per sua natura; i corpi invece sono estesi e
l’essenza di anima è presente in essi: o meglio, sono i corpi che
vengono generati in essa; e poiché quell’essenza si manifesta in
ogni loro parte fino al limite della loro divisibilità, essa fu considerata “divisibile”. In realtà che essa non sia suddivisa nelle parti del
corpo, ma sia intera da per tutto lo rende manifesto l’unità e
l’effettiva indivisibilità della sua natura47.
Il percorso
di ritorno
all'Uno
Plotino, abbiamo visto, sostiene che se noi cogliessimo davvero
l’Uno (l’assoluto, il fondamento di tutto il resto) lo trasformeremmo
in una cosa tra le cose, ossia tradiremmo la sua più autentica natura. Se Dio esiste sicuramente non è una cosa tra le cose, non può essere paragonabile a nulla. Ma siccome le nostre parole e pensieri
arrivano al massimo alle eide platoniche non siamo in grado di percepirlo. Per Plotino la possibilità di cogliere l’Uno è legata a un lungo
processo di purificazione interiore, paragonabile a quello del Simposio platonico (alla scala di eros). Questo processo di purificazione
è un progressivo abbandono della molteplicità, si devono abbandonare gradualmente tutte le forme di molteplicità che si conoscono.Il
46
Enneadi, I, 8, 3.
47
Enneadi, VI 4, 4, 1123.
63
PLOTINO
motto è Afelepanta, cioè spogliati di tutto, della corporeità, della
molteplicità di sensi e idee.
Bisogna dunque risalire verso il Bene, che è ciò a cui tende ogni
anima. Chi l'ha visto, sa cosa voglio dire, e in che senso esso è
bello. Come Bene, è desiderato e il desiderio tende verso di lui;
ma lo si raggiunge solo risalendo verso la regione superiore,
piegandosi verso di lui e spogliandosi dei vestiti indossati nella
discesa. Nello stesso modo chi sale ai santuari dei templi deve
purificarsi, deporre i suoi vecchi abiti e avanzare nudo; e infine,
abbandonato lungo questa salita tutto ciò che è estraneo a Dio,
può guardare da solo a solo nel suo isolamento, nella sua semplicità e purezza, l'Essere da cui tutto dipende, verso cui tutto
guarda, perché è l'essere, la vita e il pensiero; perché è causa
della vita, dell'intelligenza e dell'essere48.
Al termine del processo si arriva a una contemplazione ineffabile
dell’Uno, ossia a un’esperienza mistica (termine della riflessione filosofica). Questa posizione plotiniana verrà apprezzata dai filosofi
cristiani, che vedranno in lui una conferma della loro esperienza religiosa. Noi siamo già immersi in Dio (nell’uno, nell’energia contemplatrice dell’Uno che si è indebolita passaggio per passaggio):dobbiamo solo riconoscerlo. Espandendosi l’energia dell’uno si
moltiplica, indebolendosi, ma rimanendo sempre se stessa. Il senso
della nostra vita è renderci conto di ciò e risalire la corrente, dobbiamo tornare all’esperienza originaria e abbandonare la molteplicità. Quello che dobbiamo fare è un’opera di conversione: dobbiamo
cambiare il nostro punto di vista, se guardiamo verso l’esterno vediamo solamente il nulla. Se invece cambiamo punto di vista vediamo quello che c’è sempre stato ma che non siamo stati in grado di
vedere, cioè l’Uno.
Cosa ci
scrive
Plotino
Queste intuizioni vanno tutte insieme: se si immagina l’assoluto
come qualcosa di trascendente, di completamente altro, il senso
della nostra vita non può essere altro che un avvicinamento a que-
48
Enneadi, libro primo, 6.7.
64
PLOTINO
sto; ci saranno quindi dei livelli sempre maggiori da raggiungere, devi avvicinarti un passo alla volta. L'anima dell'uomo, dunque, vive
nell'incerto confine tra luce e tenebre, al limitare di quell'Uno-tutto
di cui anch'essa e parte: vive, ma «francamente - scrive Plotino - il
vivere quaggiù e tra le cose della terra non è che crollo ed esilio e
perdita di ali». Perché se «l'Uno, immune com'è da alterità, non
aspira a noi, noi sì aspiriamo a Lui [...] e in Lui sta il nostro benessere; già il semplice esserne lontani significa esistere in uno stato di
minorità. [...] Inoltre la vita vera è solo lassù; poiché la vita dell'oggi,
ch'è vita senza Dio, è solo un'orma di vita [...] e quando invece fissiamo in Lui lo sguardo, solo allora noi approdiamo al nostro termine e al nostro riposo [...] perché la vita di lassù è forza operante
dell'Intelletto: essa genera gli dei nel riposante contatto con Lui, genera bellezza, genera giustizia, genera virtù. [...]»49.
Esiste una
scala di
valori
Ma come realizzare questa unione con Dio, questo ritorno all'Uno
da cui tutto ha origine e in cui tutto trova il proprio fine?
C'e una sorta di parallelismo tra «la via in giù» (che porta dall'Uno
all'Anima individuale dell'uomo) e «la via in su» (che riporta l'Anima
all'Uno): esiste una specie di scala di valori (come esiste una scala di
ipostasi) che permette di ripercorrere il cammino verso l'Uno.
I gradini di questa metaforica scala sono la pratica della virtù, la
contemplazione della bellezza e lo studio della filosofia. La virtù è
purificazione, liberazione dall'esteriorità e dalla corporeità; la contemplazione della bellezza permette di cogliere la manifestazione
dell'Uno nell'ordine e nell'armonia delle cose; nella filosofia, infine,
si ha l'intuizione intellettuale del mondo intelligibile. Per avvicinarsi
a dio non occorre «credere», è necessario «comprendere».L'anima
dell'uomo, dunque, attraverso questa serie di conquiste (morali,
estetiche, intellettuali), arrivata al punto più alto della consapevolezza di sè, si libera e raggiunge lo stato in cui è possibile l'estasi (ekstasis: uscita da sè). Nell'estasi, essa gode direttamente dell'Uno e
della sua pienezza di vita.
49
Enneadi, VI, 9; 8-9.
65
AGOSTINO
Chi è Agostino?
Agostino (354-430 d.C) è un pensatore di importanza fondamentale nella storia dell'Occidente. È un filosofo
cristiano che si trova a vivere alla fine
dell'impero romano e assiste al crollo
della più grande civiltà del mondo antico. Infatti, anche se la storiografia
(solo quella italiana, però) indica nel
476 d.C (deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre) l'atto finale
dell'impero, nella coscienza dei contemporanei di gran lunga più traumaAgostino in un dipinto di Antonello da
Messina.
tica fu la presa di Roma da parte dei
Cfr.https://upload.wikimedia.org/wikipedi
goti di Alarico nel 410, quando Ago- a/commons/9/9e/Antonello_da_Messina
_009.jpg
stino era ancora vivo. Il suo pensiero si
pone quindi come un «pensiero della fine», ma insieme rappresenta la base sulla quale ripartirà nei secoli successivi la filosofia cristiana.
La seconda, essenziale caratteristica del pensiero agostiniano è la
sua insistenza sulla interiorità. La ricerca filosofica coincide con la
ricerca esistenziale del significato della vita e viceversa la vita è essenzialmente ricerca. Vita e filosofia non sono staccate: la ricerca
filosofica non è qualcosa di astratto ma è rivolto al raggiungimento
della felicità, che però coincide con l'incontro con Dio. L’esperienza
dell'uomo infatti si attua nella tensione fra due poli, l'inquietudo,
che è mancanza, desiderio, e la beatitudo, che è pienezza, appagamento. In una delle sue opere più importanti, le Confessioni, Agostino scrive: «ero divenuto un enigma angoscioso (magna quaestio) per me stesso»50. La ricerca della felicità parte mettendo in disolo nell'incontro con Dio.
50
Confessioni, IV, 4, 9
66
AGOSTINO
67
AGOSTINO
La vita
Agostino nacque a Tagaste (l'odierna SoukAhras, in Algeria) nel
354. Come molti giovani africani della sua condizione, Agostino aveva una sola possibilità di ascesa sociale: una cultura superiore che
aprisse la via all'avvocatura, alla carriera amministrativa e politica,
all’insegnamento nelle cattedre imperiali.
Agostino studiò prima a Tagaste, poi a Madaura, infine a Cartagine,
dove studiò con grande successo la retorica. Tuttavia Agostino vive
una prima crisi alla lettura di un testo di Cicerone per noi perduto,
l'Ortensio, in cui Cicerone, muovendo dal tema tradizionale della
felicità, mostrava che quest'ultima non può essere trovata nelle ricchezze, nei piaceri, negli onori, ma solo nella sapientia, la saggezza
che è verità, conoscenza delle cose umane e divine. La lettura di
questo testo fece scoprire ad Agostino, la filosofia intesa non come
adesione all'una o all'altra setta filosofica, ma come ricerca della verità. In questo periodo la madre Monica, fervente cristiana, cerca
inutilmente di avvicinarlo alla sua fede: Agostino trovò un ostacolo
insormontabile nello stile della Bibbia, troppo lontano dalla raffinatezza ciceroniana. A Cartagine Agostino conviveva con una ragazza
da cui ebbe un figlio nel 372 (Agostino aveva solo 18 anni). La morte
del padre lo privò del sostegno economico e quindi dovette tornare
a Tagaste per aprire una scuola.
68
AGOSTINO
In quegli anni, all'inizio del mio insegnamento nella città natale, mi
ero fatto un amico, che la comunanza dei gusti mi rendeva assai caro. Mio coetaneo, nel fiore dell'adolescenza come me, con me era
cresciuto da ragazzo, insieme eravamo andati a scuola e insieme
avevamo giocato; però prima di allora non era stato un mio amico,
sebbene neppure allora lo fosse, secondo la vera amicizia. Infatti
non c'è vera amicizia, se non quando l'annodi tu fra persone a te
strette col vincolo dell'amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello
Spirito Santo che ci fu dato . Ma quanto era soave, maturata com'era al calore di gusti affini! Io lo avevo anche traviato dalla vera fede,
sebbene, adolescente, non la professasse con schiettezza e convinzione, verso le funeste fandonie della superstizione, che erano causa delle lacrime versate per me da mia madre. Con me ormai la
mente del giovane errava, e il mio cuore non poteva fare a meno di
lui. Quando eccoti arrivare alle spalle dei tuoi fuggiaschi, Dio delle
vendette e fonte insieme di misericordie, che ci rivolgi a te in modi
straordinari ; eccoti strapparlo a questa vita dopo un anno appena
che mi era amico, a me dolce più di tutte le dolcezze della mia vita
di allora51.
Chi può da solo enumerare i tuoi vanti , che in sé solo ha conosciuto?. Che facesti tu allora, Dio mio? Imperscrutabile abisso delle tue
decisioni ! Tormentato dalle febbri egli giacque a lungo incosciente
nel sudore della morte. Poiché si disperava di salvarlo,fu battezzato
senza che ne avesse sentore. Io non mi preoccupai della cosa nella
presunzione che il suo spirito avrebbe mantenuto le idee apprese
da me, anziché accettare un'azione operata sul corpo di un incosciente.La realtà invece era ben diversa. Infatti migliorò e uscì di pericolo; e non appena potei parlargli, e fu molto presto, non appena
poté parlare anch'egli, poiché non lo lasciavo mai, tanto eravamo
legati l'uno all'altro, tentai di ridicolizzare ai suoi occhi, supponendo
che avrebbe riso egli pure con me, il battesimo che aveva ricevuto
mentre era del tutto assente col pensiero e i sensi, ma ormai sapeva di aver ricevuto. Egli invece mi guardò inorridito, come si guarda
un nemico, e mi avvertì con straordinaria e subitanea franchezza
che, se volevo essere suo amico, avrei dovuto smettere di parlare in
quel modo con lui. Sbalordito e sconvolto, rinviai a più tardi tutte le
mie reazioni, in attesa che prima si ristabilisse e acquistasse le forze
51
Le Confessioni, libro quarto, 4.7. Cfr.
http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm
69
AGOSTINO
convenienti per poter trattare con lui a mio modo. Sennonché fu
strappato alla mia demenza per essere presso di te serbato alla mia
consolazione. Pochi giorni dopo, in mia assenza, è assalito nuovamente dalle febbri e spira52.
Nel frattempo però aveva conosciuto la setta dualistica dei manichei, che in un primo momento gli sembrò soddisfare la sua sete di
verità. La concezione manicheaè rigidamente dualistica: un dio del
bene lotta perennemente contro un dio del male; l'uomo è composto di un'anima e di un corpo, concepiti anch'essi come elementi
contrapposti e sempre in lotta; tutto ciò che è legato al corpo, in
particolare la sessualità, è male. Nell'orbita di questa religione razionalistica, che non si presenta come incompatibile con il cristianesimo, ma anzi pretende di esserne l'autentica espressione, Agostino
resterà nove anni, dal 373 al 382, insegnando grammatica e retorica
con crescente successo, prima a Tagaste, poi a Cartagine, quindi a
Roma. Tuttavia la fiducia di Agostino nel manicheismo si indebolì
nel corso degli anni per la sempre più evidente incapacità di questa
dottrina di risolvere sia i problemi di fisica sia quelli, ben più importanti, dell'esistenza umana. Dopo un decisivo incontro con l'esponente più in vista della setta, Fausto, che non riuscì a risolvere i
dubbi di Agostino, questi cominciò ad abbandonare il manicheismo.
Nel 383 Agostino va a Roma e qui si avvicina alle correnti accademiche scettiche. Si trattava in teoria di filosofi eredi dell'Accademia
platonica che però ormai sapevano solo esprimere una critica corrosiva di ogni certezza esaltando il dubbio e la sospensione del giudizio. Sul piano biografico, l'anno che Agostino trascorse a Roma fu
caratterizzato da malessere e disagio. Tuttavia le amicizie dell'ambiente manicheo si rivelarono preziose procurandogli un incontro
con il prefetto della capitale, Simmaco, il quale gli conferì una cattedra vacante di retorica a Milano, nel 384. Il soggiorno a Milano fu
una svolta fondamentale nella vita di Agostino, sia sul piano esistenziale, sia su quello filosofico. Inizialmente cercò di inserirsi nella società milanese con una serie di mosse strategiche (per esempio si
52
Le Confessioni, libro quarto, 4.8. Cfr.
http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm
70
AGOSTINO
fece catecumeno della chiesa ambrosiana e ripudiò la donna amata
in vista del matrimonio con una donna dell'alta società), ma l'ansia
di verità continuava a tormentarlo. Due erano i problemi cruciali:
l'antropomorfismo della Bibbia e l'esigenza di svincolarsi dal materialismo. La soluzione venne dal vescovo di Milano Ambrogio. Ambrogio non era un provinciale autodidatta come Agostino: era di illustre famiglia senatoria, conosceva il greco e la filosofia greca, in
particolare quella neoplatonica, padroneggiava la letteratura. In
questo modo poté fornire le risposte che Agostino cercava: una interpretazione allegorico-simbolica della Bibbia, da una parte, e la
sinergia tra cristianesimo e neoplatonismo dall'altro.
Che cosa trovò Agostino nel neoplatonismo?

In primo luogo, una filosofia radicalmente antimaterialistica, in cui pensare quel superamento del materialismo che egli giudicava necessario sul piano religioso non meno che su quello filosofico.

In secondo luogo, una impostazione del problema del maleche gli consentì di svincolarsi dal dualismo manicheo.

Infine, un percorso di ricerca della verità che si rivolge non
all'esterno;ma all'interno, in cui l'anima, nella luce di Dio, ritrova in
se stessa sè e Dio: «accolsi il consiglio di tornare in me stesso e con
la tua guida entrai nel mio mondo interiore»53. La conversione definitiva al cristianesimo ebbe luogo nell'estate del 386, aprendo tutta l'esistenza di Agostino a una nuova prospettiva che si concretizza
in una serie di importanti opere filosofiche. Nel 387 riceve il battesimo dalle mani di Ambrogio e ritorna a Tagaste.
Sapienza
e felicità
Per Agostino la felicità è lo scopo della conoscenza. Il modo che
lui ha di concepire l’uomo non è quello astratto di Cartesio, che si
limita a dire che l’uomo è una cosa che pensa, Agostino dice che
l’uomo è una persona che si apre al mondo in diverse direzioni,
l’amore è questo tendere a, ma questo tendere a, aprirsi a è quello
che noi chiamiamo conoscenza.È sbagliato concepire l’anima umana come divisa tra intelletto e sentimento. Il sentimento è il colore
53
Confessioni, VII, 10, 16
71
AGOSTINO
della conoscenza. Io devo desiderare di conoscere prima di conoscere, e io desidero ciò che amo. Senza questo desiderio non c’è vera
conoscenza. La concezione dell’anima è conoscenza come una realtà polimorfa, che è essenzialmente apertura all’essere. C’è una ripresa in chiave cristiana dell’eros. Il simposio diceva questo, che la
spinta verso la conoscenza è una spinta erotica, se non siamo mossi
da questa energia non si va da nessuna parte, ma si impara meccanicamente.
Descrizione nei
Soliloquia
L'essenziale del programma e del metodo di ricerca agostiniano è
delineato con chiarezza nei Soliloquia:
«Dio e l'anima: questo desidero conoscere. - Nulla più? - Assolutamente nulla»54.
In questa dichiarazione vi è, in primo luogo, l'esclusione della conoscenza del mondo esterno dalla direttrice principale della ricerca:
essa sarà tutt'al più una tappa di un percorso che conduce alla vera
scienza dell'anima e di Dio. In secondo luogo, vi è posta la coincidenza, dal punto di vista metodologico, tra conoscenza di sé è conoscenza di Dio: solo a partire da sé - nella tradizione che congiunge il
nosci te ipsum socratico con Plotino - l'uomo può giungere alla verità, all'Uno, a Dio.
L'anima è il luogo dell'incontro con la verità:
L'anima e
la verità
«Non andare fuori di te, ritorna in te stesso» (Noli foras ire, in te
ipsum redi).
La verità dimora nell'uomo interiore (in interiore homine habitat veritas)come avevano già intuito Socrate e Platone. E «se scoprirai che
la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricorda,
quando trascendi te stesso, tu trascendi l'anima razionale. Tendi
pertanto la donde s'accende il lume stesso della ragione»55. Dal
mondo esterno all'interiorità dell'anima, alla verità trascendente:
54
SoliloquiaI, 2, 7.
De vera religione, XXXIX, 72
55
72
AGOSTINO
è questo l'itinerario, di evidente impianto platonico, che conduce
alla conoscenza di Dio. Ciò che spinge l'uomo a intraprendere questo itinerario è il desiderio di essere felice, «beate vivere»: è questo il problema fondamentale di Agostino uomo e di Agostino filosofo. Nulla est homini causa philosophandi, nisi ut beatussit, (non c’è
nessuna ragione per l’uomo di fare filosofia se non essere felice) dirà Del De civitate Dei. In questa finalizzazione della conoscenza alla
felicità Agostino è pienamente erede della filosofia ellenistica, come
pure nell'identificazione tra felicità, beatitudo, e sapientia. Dall'Hortensius Agostino ha imparato che la felicità non può consistere
nell'appagamento dei propri desideri, quali che siano. La felicità è sì
un possesso che appaga un desiderio, ma perché sia autentica occorre che il bene voluto sia veramente tale: occorre quindi conoscere quale sia il vero bene. Ma questo movimento è rivolto non alla
sola conoscenza del bene, ma al possesso, al godimento di esso:
dunque nella ricerca è implicata in modo decisivo la volontà.
L'attenzione posta da Agostino sulla volontà costituisce una novità
di grande rilievo; la volontà è, per Agostino, quella forza che non
solo produce le azioni, ma interviene in modo determinante nella
conoscenza: per conoscere alcunché, occorre volerlo. E si vuole ciò
che si ama: si cerca per trovare ciò che si ama. L'amore dunque è il
motore fondamentale. Il punto di partenza della riflessione di Agostino è l’anima. Bisogna abbandonare l’esteriorità a favore
dell’interiorità, e in questa ritrovare Dio. La frase che riassume questa impostazione è celeberrima: in te ipsum rede (torna in te stesso).
La ricerca
di Dio
Ma come è possibile che Dio sia presente nella propria coscienza?
Per spiegare questo lui riprende la reminiscenza di Platone, ossia il
ricordo delle eide: le idee vengono messe nell’anima da Dio, non c’è
nulla di intermedio. Per Agostino Dio è quindi verità, poiché è lui
che ci dà le idee al momento della nostra nascita. Il fondamento di
questo è il recupero del platonismo. In ogni filosofia cristiana è cruciale la dimostrazione dell’esistenza di Dio, ma per Agostino questa
non è così fondamentale: la verità esiste, se si dimostra questo è
dimostrata anche l’esistenza di Dio.
73
AGOSTINO
La polemica contro gli
scettici
Gli scettici erano gli Accademici, cioè gli eredi nominali della scuola
platonica. In realtà questi pensatori avevano ormai abbandonato
completamente le posizioni del loro fondatore e sostenevano posizioni scettiche ossia affermavano che la verità non esiste). Agostino
contesta il loro scetticismo con una serie di argomenti, alcuni dei
quali banali, altri di estrema importanza. Abbiamo prima di tutto
una serie di argomenti dialettici, ripresi dalla tradizione classica:
a) non è vero che non esistono verità certe: per esempio esistono
le verità della matematica e della geometria
b) se anche non è possibile essere certi di verità fattuali, tuttavia
occorre ammettere la verità di proposizioni disgiuntive (se io dico:
«questa cosa o è bianca o è non bianca» pronuncio una frase che è
sicuramente vera, anche se non so se la cosa in questione sia bianca
oppure no)
c) dal fatto che la conoscenza sensibile sia imprecisa, non si può
ricavare l'impossibilità della conoscenza vera: quello che i sensi attestano è sempre vero nel campo delle apparenze, l'errore consiste
nell'estenderne il valore di verità al campo dell'intellegibile
d) Lo scetticismo in realtà si autocontraddice. Se infatti lo scettico
afferma: «non esiste la verità», con ciò stesso afferma l'esistenza
almeno di questa verità. Nessuna di queste confutazioni è particolarmente originale. Di estrema importanza invece è un'argomentazione originale che Agostino sviluppa in diverse opere, con formulazioni leggermente diverse, e che viene normalmente indicata come
Cogito agostiniano per la similitudine che presenta con una analoga
argomentazione anch'essa nota come «Cogito» e presentata oltre
mille anni dopo dal filosofo francese Descartes.
Il cogito
La nuova argomentazione chiama in causa la certezza che l'uomo
ha di se in quanto soggetto pensante e vivente. Nessuna di queste
confutazioni è particolarmente originale. Di notevole rilievo, invece,
un'argomentazione che Agostino sviluppa, in diverse formulazioni e
in diverse opere, e che chiama in causa la certezza che l'uomo ha di
74
AGOSTINO
sé in quanto soggetto pensante e vivente. Qualunque argomentazione scettica non può indebolire la verità di questa consapevolezza.
Delle molte formulazioni che ne dà Agostino, la più sintetica è forse
quella contenuta nel De civitate Dei:
«Se mi inganno, sono (si fallor, sum). Infatti chi non è, non può
nemmeno ingannarsi».
Poniamo che abbiano ragione gli scettici, ossia non esiste la verità:
questo significa che io mi inganno sempre. Ma anche se io mi ingannassi sempre, una cosa è sempre vera: che io sono.
Almeno la mia esistenza è certa: questo però basta a sconfiggere lo
scetticismo, perché non è più vero che non esistono verità.
Tuttavia, a differenza di quanto farà Cartesio, Agostino articola in
modo più complesso il suo argomento distinguendo livelli diversi:
Ordine e
conoscenza

1°livello: la mia semplice esistenza è certa

2° livello: io però, proprio mentre eseguivo il cogito, sono cambiato, perché sono passato da una posizione di errore (quella in
cui pensavo che nulla esiste di vero) a una posizione in cui riconosco che la verità esiste. Questo significa che io non solo esisto, ma sono anche vivo.

3° livello: questa trasformazione però avviene a livello della
consapevolezza, e la vita di cui stiamo parlando non è biologica,
ma coscienziale: io quindi esisto nella forma della vita e vivo
nella forma della coscienza. Dunque esisto, vivo, sono consapevole/cosciente.
Nell'esperienza che il soggetto pensante fa di se stesso, quindi, esso conosce di esistere e di vivere. Con ciò, egli definisce anche la
propria collocazione nell'ordine gerarchico del tutto: infatti anche la
pietra è, anche l'animale è e vive, ma solo l'uomo è, vive e conosce.
Nella conoscenza si manifestano dunque la specificità e la superiorità della creatura umana. La conoscenza è attività propria dell'ani75
AGOSTINO
ma, anche al livello della sensazione. Quest'ultima ha luogo attraverso una modificazione degli organi di senso, ma non appartiene al
corpo: sentire non est corporis sed animae per corpus, ovvero la
sensazione è un'esperienza che l'anima compie attraverso il corpo,
utilizzando il corpo come suo strumento. In generale, l'anima dà vita al corpo: nella sensazione, essa rivolge alle modificazioni degli
organi di senso un'attenzione, intentio, che dà luogo alla rappresentazione. Senza questa attività dell'animo non vi è sensazione.
Ma «la facoltà più eccellente dell'animo umano non è quella con cui
esso sente le realtà sensibili bensì quella con cui le giudica»56. I parametri di giudizio non possono derivare dal mondo esterno, che è
molteplice e mutevole, ma devono essere reperiti dall'anima entro
se stessa. Ciò è del tutto evidente quando si pensa alla conoscenza
intellettiva delle verità matematiche e geometriche: queste hanno
una certezza e una stabilità ben superiori a quelle della conoscenza
sensibile. L'anima non ricava certamente tali verità dagli oggetti d'esperienza, anzi se ne serve per giudicarli; ma, d'altra parte, tali verità non possono neppure essere prodotte dal pensiero umano, mutevole e soggetto all'errore. Occorre dunque che tali verità esistano
indipendentemente dalla scoperta che di esse viene fatta: nel numero si esprime l'ordine perfetto e immutabile di un tutto che trascende l'uomo. Vi sono dunque rationes aeternae, analoghe alle
eide platoniche, che fungono da forme e modelli in base ai quali
opera la mente umana. Tali verità sono superiori alla ragione, indipendenti da essa: se così non fosse, non sarebbe possibile alcuna
scienza né comunicazione intersoggettiva. Le rationes aeternae però
non costituiscono un modo autonomo: sono nell'anima umana perché Dio ce le ha messe. È Dio il maestro interiore nel quale e dal
quale impariamo tutto ciò che sappiamo: Dio è la luce che illumina
l'anima e le permette di comprendere la verità. Agostino rielabora
qui la tradizione platonica: ha presente il paragone tra il Bene e il
Sole istituito da Platone e quello tra l'anima, che riflette la luce divina, e la luna, che riflette la luce solare, formulato da Plotino.
56
De vera religione, XXIX, 53.
76
AGOSTINO
Il problema del
male
Il problema del male è contenuto nel libro VII delle Confessiones. Il
mondo sembra inabitato dal male. Una posizione creazionista come
quella del cristianesimo è in difficoltà quando affronta questo tema,
perché non riesce a spiegare perché Dio avrebbe dovuto creare il
male. Si Deus est, undemalum? è il quesito che riassume la questione. Se Dio - assolutamente buono, onnisciente e previdente - ha
creato tutte le cose, qual è l'origine del male? Da dove vengono il
dolore, la violenza, il peccato che attraversano la vita dell'uomo?
La soluzione
manichea
al male
La soluzione manichea, che elevava il male a principio contrapposto al Bene e in lotta con questo, si è rivelata fallace: in primo luogo, essa inficia l'onnipotenza e l'incorruttibilità di Dio; in secondo
luogo, essa priva l'uomo di ogni libertà. La soluzione di Agostino
comincia distinguendo il problema in due aspetti: male morale e
male ontologico.
Ma anch'io ormai sostenevo e credevo fermamente la tua intangibilità, inalterabilità e immutabilità totale, Dio nostro, Dio vero, creatore non solo delle nostre anime ma altresì dei nostri corpi, né soltanto delle nostre anime e corpi, ma di tutti gli esseri e di tutte le cose.
Non mi era invece chiara e palese l'origine del male; tuttavia vedevo
che, comunque fosse, la sua ricerca non avrebbe dovuto costringermi a credere mutabile un Dio immutabile, se non volevo divenire
io stesso ciò che cercavo. Procedevo dunque tranquillamente, sicuro della falsità delle loro asserzioni e aborrendoli di tutto cuore, poiché li vedevo intenti a cercare l'origine del male quando erano essi
medesimi colmi di malizia, tanto da ammettere piuttosto che la tua
sostanza possa subire, ma non la loro fare il male.
Mi sforzavo di vedere ciò che udivo sulla libera determinazione della
volontà come causa del male che facciamo, e l'equità del tuo giudizio come causa di quello che subiamo, ma non riuscivo a scorgerla
chiaramente. Tentavo di spingere lo sguardo della mia mente fuori
dall'abisso, ma vi ricadevo di nuovo; ripetevo i tentativi, ma ricadevo di nuovo e di nuovo. Una cosa mi sollevava verso la tua luce: la
consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. In
ogni atto di consenso o rifiuto ero certissimo di essere io, non un al-
77
AGOSTINO
tro, a consentire e rifiutare; e di trovarmi in quello stato a causa del
mio peccato, lo capivo sempre meglio. Invece, degli atti che compivo mio malgrado mi riconoscevo vittima piuttosto che attore e li
giudicavo non già una colpa, bensì una pena inflittami da te giustamente, non esitavo ad ammetterlo considerando la tua giustizia. Ma
a questo punto mi chiedevo: "Chi mi ha creato? Il mio Dio, vero?
che non è soltanto buono, ma la bontà in persona. Da chi mi viene
dunque il consenso che dò al male e il rifiuto che oppongo al bene?
Accade così per farmi scontare giusti castighi? Ma chi ha piantato e
innestato in me questo, virgulto d'infelicità, se sono integralmente
opera del mio dolcissimo Dio? E se fossi creatura del diavolo, donde
viene a sua volta il diavolo? Se anch'egli diventò diavolo, da angelo
buono che era, per un atto di volontà perversa, questa volontà maligna che doveva renderlo diavolo donde entrò anche in lui, fatto integralmente angelo da un creatore buono? ". Queste riflessioni tornavano a deprimermi, a soffocarmi, ma non riuscivano a trascinarmi
fino al baratro di quell'errore ove nessuno ti confessa, preferendo
assoggettare te al male, che crederne l'uomo capace 57.
Il male
morale e
ontologico
La risposta di Agostino al male morale è che esso deriva dalla libertà che Dio ha concesso. L’uomo può scegliere anche di seguire
un male che vedere e riconosce essere tale. Il male ontologico, ossia la negatività delle cose, appare molto più difficile da spiegare,
perché non sembra possibile evitare di accusare Dio del male nel
mondo. La risposta di Agostino è di stampo neoplatonico: noi interpretiamo come male quello che è semplicemente una forma e un
aspetto del bene. Dal punto di vista ontologico significa che il male
non ha una sua positività, addirittura si potrebbe dire che non esiste affatto. Tale non esistenza va intesa in senso metafisico e ontologico, non in senso fattuale: del male, infatti, si fa continua esperienza. Ma il male -dice Agostino - «non è una sostanza, perché se
fosse una sostanza sarebbe un bene»58. Esso non ha realtà ontologica; non appartiene all'ordine dell'essere, ma a quello del nonessere. Il male è privazione, venir meno del bene; è il negativo, pen57
Le Confessioni, libro settimo, 3. Cfr.
http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm
58
Confessioni, libro settimo, 12.
78
AGOSTINO
sabile solo come deficienza, mancanza del positivo inerente alla natura di un essere. Non vi è dubbio, per esempio, che la cecità sia
male: ma la cecità stessa, in quanto tale, non esiste; esiste solo in
quanto mancanza della vista, in quanto venir meno della capacita di
vedere.
Cercavo l'origine del male cercando male e non vedendo il male nella mia stessa ricerca. Davanti agli occhi del mio spirito ponevo l'intero creato, tutto ciò che ne possiamo scorgere, ossia la terra, il mare,
l'aria, gli astri, gli alberi, gli animali mortali, e tutto ciò che ci rimane
invisibile, ossia il firmamento celeste sopra di noi, tutti gli angeli e
tutti gli spiriti che lo abitano, spiriti che la mia immaginazione distribuiva pure in vari luoghi, quasi fossero corpi; così feci del tuo creato
un'unica massa enorme, ove spiccavano secondo il loro genere i
corpi, sia veri e reali, sia spirituali, resi arbitrariamente corporei dalla mia immaginazione, e feci enorme questa massa, non quanto era
effettivamente, perché non potevo concepirlo, ma quanto mi piacque immaginare, però finita in tutte le direzioni, avvolta e penetrata
da ogni parte da te, Signore, che pure rimanevi in tutti i sensi infinito, come un mare che si stenda dovunque e da dovunque per spazi
immensi infinito, un unico mare che contenga nel suo interno una
spugna grande a piacere, però finita e ripiena evidentemente in
ogni sua parte del mare immenso. Così concepivo la tua creazione,
finita e ripiena di te infinito. Dicevo: "Ecco Dio, ed ecco le creature
di Dio. Dio è buono, potentissimamente e larghissimamente superiore ad esse. Ma in quanto buono creò cose buone e così le avvolge
e riempie. Allora dov'è il male, da dove e per dove è penetrato qui
dentro? Qual è la sua radice, quale il suo seme? O forse non esiste
affatto? Perché allora temere ed evitare una cosa inesistente? Se lo
temiamo senza ragione, è certamente male il nostro stesso timore,
che punge e tormenta invano il nostro cuore, e un male tanto più
grave, in quanto non c'è nulla da temere, eppure noi temiamo.
Quindi o esiste un male oggetto del nostro timore, o il male è il nostro stesso timore. Ma da dove proviene il male, se Dio ha fatto, lui
buono, buone tutte queste cose? Certamente egli è un bene più
grande, il sommo bene, e meno buone sono le cose che fece; tuttavia e creatore e creature tutto è bene. Da dove viene dunque il male? Forse da dove le fece, perché nella materia c'era del male, e Dio
nel darle una forma, un ordine, vi lasciò qualche parte che non mutò in bene? Ma anche questo, perché? Era forse impotente l'onni-
79
AGOSTINO
potente a convertirla e trasformarla tutta, in modo che non vi rimanesse nulla di male? Infine, perché volle trarne qualcosa e non impiegò piuttosto la sua onnipotenza per annientarla del tutto? O forse la materia poteva esistere contro il suo volere? O, se la materia
era eterna, perché la lasciò sussistere in questo stato così a lungo,
attraverso gli spazi su su infiniti dei tempi, e dopo tanto decise di
trarne qualcosa? O ancora, se gli venne un desiderio improvviso di
agire, perché con la sua onnipotenza non agì piuttosto nel senso di
annientare la materia e rimanere lui solo, bene integralmente vero,
sommo, infinito? O, se non era ben fatto che chi era buono non edificasse, anche, qualcosa di buono, non avrebbe dovuto eliminare e
annientare la materia cattiva, per istituirne da capo una buona, da
cui trarre ogni cosa? Quale onnipotenza infatti era la sua, se non poteva creare alcun bene senza l'aiuto di una materia non creata da
lui?". Questi pensieri rimescolavo nel mio povero cuore gravido di
assilli pungentissimi, frutto del timore della morte e della mancata
scoperta della verità. Rimaneva tuttavia saldamente radicata nel
mio cuore la fede nella Chiesa cattolica del Cristo tuo, signore e salvatore nostro. Certo una fede ancora rozza in molti punti e fluttuante oltre il limite della giusta dottrina; però il mio spirito non l'abbandonava, anzi se ne imbeveva ogni giorno di più 59.
Il tempo
Un'altra analisi di straordinaria importanza è quella della temporalità, che si trasforma in uno studio sull'anima. Nelle Confessiones
Agostino spiega che alcuni catecumeni erano venuti a chiedere cosa
faceva Dio prima di aver creato il tempo. Agostino, a differenza di
altri, riconosce che la domanda in sé è giusta, e richiede una risposta altrettanto seria. Appare subito chiaro però che non è semplice
definire cosa è il tempo, una esperienza apparentemente così semplice: con una frase diventata famosissima, Agostino riconosce che
se nessuno mi chiede cosa sia il tempo, so cosa è, ma nel momento
in cui qualcuno mi chiede di spiegarlo non so farlo. Perché ci sia il
tempo è essenziale la consapevolezza del passato e del futuro; nel
semplice movimento degli oggetti naturali (il movimento del sole,
l’acqua che cade da una cascata, le lancette dell’orologio) questa è
5959
Le Confessioni, libro settimo, 5. Cfr.
http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm
80
AGOSTINO
del tutto assente. Questa consapevolezza viene raggiunta in Agostino da una semplice considerazione linguistica: tutti noi parlanti siamo immersi da sempre in un ambiente comunicativo orale che prevede l’uso di tempi verbali per descrivere un’azione presente (cioè
che si svolge nel momento in cui parlo), un’azione futura (che si
svolgerà appunto in un momento futuro, successivo a quello in cui
sto parlando) e un’azione passata (che si è già svolta nel momento
in cui parlo). I problemi nascono quando svolgiamo, come fa Agostino riflettendo sulle profezie (che gli interessano particolarmente dal
punto di vista religioso), una semplice considerazione: noi parliamo
del futuro, ma il futuro non esiste ancora; parliamo del passato, ma
il passato non esiste più. Nessuno può sostenere che Giulio Cesare,
di cui posso descrivere le gesta, esista in questo momento; così come nessuno può sostenere che esista in questo momento il XXIII secolo. Apparentemente, solo il presente di salva da questa condizione di non essere. Questa situazione è già abbastanza problematica:
il tempo, considerato inizialmente come qualcosa di molto semplice,
si dimostra composto in parte di «essere» (il presente) e di «non essere» (il passato e il futuro).Ma subito anche il tempo presente si
dimostra problematico: che cosa infatti è davvero «presente»? Non
certo l’anno che stiamo vivendo, osserva Agostino, visto che non
tutti i mesi che lo compongono sono presenti tutti insieme; ma
nemmeno il singolo mese, la singola settimana o il singolo giorno
sono «presenti» tutti insieme alla nostra coscienza. Una volta iniziato questo processo di smascheramento delle certezze del senso comune è impossibile fermarsi: neppure una singola ora è davvero
«presente», dato che è composta di sessanta minuti, ciascuno dei
quali è composto da sessanta secondi. Ogni volta che noi compiamo
questa operazione di suddivisione, un solo secondo può essere quello davvero «presente». Ma in realtà l’operazione va ripetuta
all’infinito: per quanto piccola sia l’unità di misura che stiamo considerando, sempre sarà possibile distinguere in essa una suddivisione
in presente-passato-futuro. Mai troveremo un «presente puro», un
«istante» che noi siamo in grado di cogliere con uno sguardo definitivo, un «atomo» temporale indivisibile che funga da «mattone»
per tutto il resto del tempo. E tuttavia la realtà del tempo rimane
81
AGOSTINO
innegabile. Negare il fluire dal futuro verso il passato sarebbe semplicemente folle. Come si esce da questo paradosso?
Il tempo è
nell'anima
La tesi di Agostino è che se il tempo non è
nel mondo esterno, esso è (deve essere)
nell’anima. Cioè: il «tempo» esterno, quello
dell’orologio, non è affatto tempo. Quello che
si vede guardando (oggi, naturalmente, non ai
tempi di Agostino!) le lancette dell’orologio è
semplicemente un movimento, per essere
esatti un «moto locale» (ossia uno spostamento che avviene nello spazio).Il movimento
(che è sempre nello spazio) è una condizione Orologio a sabbia sec. XVII del tempo, non è il tempo. L’orologio riper- Museo nazionale della scienza
Leonardo
corre con un moto identico gli stessi spazi, la e della tecnologia
da Vinci
materia torna ad assumere gli stessi rapporti.
È come se io facessi una somma, e poi alterassi l’ordine degli addendi: la somma è la stessa. Ma come fa il tempo a essere
nell’anima? Che cosa differenzia in modo così decisivo la coscienza
dalle cose? La coscienza, abbiamo visto, va intesa prima di tutto
come un aprirsi verso l'essere. Ma a questo punto, nota Agostino,
bisogna ammettere che esistono tre modi distinti di aprirsi verso
l'essere:
 laprotensioneverso il futuro (che non esiste ancora)
 la ritenzione del passato (che non esiste più ma è ancora presente alla coscienza)
 l'attenzione verso il presente, che raccoglie in unità tutti i momenti.
La dimensione temporale del futuro è strettamente legata
all’esperienza della libertà. Avere un futuro significa infatti aprirsi a
un essere solo potenziale che implica l'esistenza della libertà: se fosse tutto già stabilito saremmo solamente parte di un meccanismo.
L’uomo può, è vero, ridurre questo suo moto di protensione e riten82
AGOSTINO
zione fino a vivere completamente nell’attimo presente, ma così si
cesserebbe di vivere da uomo.
Il senso
della
storia
Se la coscienza è veramente un essere presente anche del passato
si capisce infine l’importanza della storia. La coscienza è un modo
di esistere: non è un lampo puntuale, ma una aprirsi all’essere temporale. Agostino è uno dei primi filosofi a cercare di costruire una
«filosofia della storia» sistematica. È spinto a ciò dalle condizioni
storiche in cui vive: egli assiste alla fine del mondo classico (simboleggiata dalla presa di Roma da parte dei Visigoti nel 410) e non può
non riflettere sulla necessità di cercare un significato a quella che gli
appare come una catastrofe terribile. La sua ultima opera, la Città di
Dio, rappresenta questo sforzo Agostino prima di tutto si muove
all'interno di una concezione del tempo lineare, tipicamente cristiana, del tutto diversa da quella greca che invece è ciclica. Per i
greci le cose possono cambiare ma in ultima analisi la totalità deve
restare immutata, come aveva intuito Parmenide all'inizio della filosofia ellenica: il divenire fa apparire e scomparire dei contenuti che
però in qualche modo permangono anche dopo che sono usciti dal
nostro orizzonte di consapevolezza e che quindi potranno riapparire
identici, in un futuro lontanissimo da noi, all'infinito. Per la visione
cristiana questa concezione è inammissibile perche implicherebbe
che il sacrificio del Cristo debba ripetersi infinite volte. Verrebbe
meno il carattere di amorosa gratuità del gesto con cui il Figlio ha
scelto di farsi carne e di morire per noi: Gesù sarebbe solo una specie di marionetta nelle mani di una «necessità» che, in perfetto spirito greco, sarebbe ancora la vera dominatrice della storia. Il secondo punto centrale della visione agostiniana della storia è che nel
mondo si intrecciano in modo inestricabile due «città», o meglio
due «civitates»60. Esse sono formate rispettivamente da coloro che
rifiutano Dio e da coloro che lo accettano. Sono loro a essere la «civitas Dei» del titolo. Solo alla fine della storia, nel momento del giudizio finale di Dio, sarà possibile distinguere veramente i due gruppi
e stabilire chi apparteneva a ciascuno di essi.
60
Parola latina che indica la città come insieme dei suoi abitanti.
83
AGOSTINO
Schematizzazione della concezione greca e cristiana della vita
Il tempo
nelle
Confessiones
Nell' undicesimo libro delle Confessioni Agostino disquisisce riguardo al tempo. Questo testo è relativamente facile e molto bello
da leggere ma è molto difficile da studiare poiché Agostino scrive "di
getto", senza fare revisioni e riletture, creando così un testo poco
controllato e formalizzato.
Non sono forse pieni della loro vecchiezza quanti ci dicono : "Cosa
faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti, continuano,
stava ozioso senza operare, perché anche dopo non rimase sempre
nello stato primitivo, sempre astenendosi dall'operare? Se si sviluppò davvero in Dio un impulso e una volontà nuova di stabilire una
creazione che prima non aveva mai stabilito, sarebbe ancora un'eternità vera quella in cui nasce una volontà prima inesistente? La
volontà di Dio non è una creatura, bensì anteriore a ogni creatura,
perché nulla si creerebbe senza la volontà preesistente di un creatore. Dunque la volontà di Dio è una cosa sola con la sua sostanza. E
se nella sostanza di Dio qualcosa sorse che prima non v'era, quella
sostanza viene chiamata erroneamente eterna. Che se poi era volontà eterna di Dio che esistesse la creatura, come non sarebbe
eterna anche la creatura?61.
Qui viene posta la domanda: "cosa faceva Dio prima di creare?".
Prima però bisogna specificare cosa sia il tempo.
61
Le Confessioni, libro undicesimo, 10. Cfr.
http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm
84
AGOSTINO
Ecco come rispondo a chi chiede: "Cosa faceva Dio prima di fare ilcielo e la terra". Non rispondo come quel tale, che, dicono, rispose,
eludendo con una facezia l'insidiosità della domanda: "Preparava la
geenna per chi scruta i misteri profondi". Altro è capire, altro è
schernire. Io non risponderò così. Preferirei rispondere: "Non so ciò
che non so", anziché in modo d'attirare il ridicolo su chi ha posto
una domanda profonda, e la lode a chi diede una risposta falsa. Invece dico che tu, Dio nostro, sei il creatore di ogni cosa creata; e se
col nome di cielo e terra s'intende ogni cosa creata, arditamente dico: "Dio,prima di fare il cielo e la terra,non faceva alcunché". Infatti,
se faceva qualcosa, che altro faceva, se non una creatura? Oh, se io
sapessi quanto desidero con mio vantaggio di sapere, allo stesso
modo come so che non esisteva nessuna creatura avanti la prima
creatura62!
Agostino cerca di spiegare cosa sia il tempo ma il compito gli è reso
difficile perche lui scrive e prega al contempo.
Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l'hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te,
poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo. Cos'è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e
breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente,
per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e
nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo
noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne
udiamo parlare altri. Cos'è dunque il tempo? Se nessuno m'interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo so. Questo
però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe
un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo
presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come
esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo
dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non
62
Le Confessioni,libro undicesimo, 12. Cfr.
http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm
85
AGOSTINO
esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del
tempo, se non in quanto tende a non esistere 63.
Non esiste un tempo nel quale Dio non ha fatto nulla perche è egli
stesso che ha creato il tempo. Ma Agostino non è pienamente in
grado di spiegare cosa sia il tempo, perche esistono livelli della nostra esperienza così profondi che non si possono spiegare a parole.
Insisti, spirito mio, e fissa intensamente il tuo sguardo. Dio è il
nostro aiuto, egli ci fece, e non noi. Fissa il tuo sguardo dove
albeggia la verità. Ecco, immagina che una voce, corporea,
cominci a risuonare, risuona, risuona ancora, ed ecco cessa, è
già tornato il silenzio, la voce è passata, non c'è più voce ormai. Era futura, prima di risuonare, e non si poteva misurarla,
perché non era ancora, come non si può ora, perché non è
più. Si poteva misurarla quando risuonava, perché allora era,
in modo che si poteva misurare. Ma anche allora non era
ferma, perché andava, passava. O proprio per questo invece
si poteva? Passando, infatti, si estendeva per un certo spazio
di tempo, durante il quale si poteva misurarla, poiché il presente non ha nessuna estensione. Ammesso dunque che in
quel frangente poteva essere misurata, eccoti ora una seconda voce, che cominciò a risuonare e risuona tuttavia con tono
uniforme, senza alcuna variazione. Misuriamola finché risuona, poiché, appena avrà cessato di risuonare, sarà ormai passata e non sarà più, in modo che si possa misurare! Misuriamola, presto, e indichiamone la durata. Ma sta risuonando
ancora: non si può misurarla, se non partendo dall'inizio della
sua esistenza, ossia dal momento in cui cominciò a risuonare,
e giungendo alla fine, ossia al momento in cui cessa. Gli intervalli si misurano appunto da un certo inizio e a un certo fine;
quindi una voce non ancora finita non può essere misurata,
non si può dire quanto sia lunga o breve, né dire se sia uguale
a un'altra, o semplice o doppia o comunque diversa rispetto a
63
Le Confessioni, libro undicesimo, 14. Cfr.
http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm
86
AGOSTINO
un'altra. Ma una volta finita non sarà più. Come si potrà misurarla allora? Eppure misuriamo il tempo: non quello che non è
ancora, né quello che non è più, né quello che non si estende
in durata, né quello che non ha limiti; cioè non lo misuriamo
né futuro, né passato, né presente, né passante; eppure lo
misuriamo, il tempo64.
Deus creator omnium: in questo verso si alternano otto sillabe
brevi e lunghe: le quattro brevi, cioè la prima, terza, quinta e
settima, semplici rispetto alle quattro lunghe, cioè la seconda,
quarta, sesta e ottava. Di queste ultime ognuna dura un tempo doppio rispetto a ognuna delle prime, come annuncio
mentre le pronuncio, e come è, secondo che ci fanno intendere manifestamente i sensi. Come manifestano i sensi, io misuro la sillaba lunga mediante la breve, sentendo che la lunga ha
una durata doppia della breve. Ma una sillaba risuona dopo
un'altra; se prima è la breve, la lunga dopo, come trattenere
la breve? e come applicarla sulla lunga per misurarla e trovare
cosicché ha una durata doppia, se la lunga comincia a risuonare soltanto quando la breve cessò di risuonare? e la stessa
sillaba lunga la misuro quando è presente, mentre non la misuro che finita? Ma quando è finita è passata. Cosa misuro
dunque? Dov'è la breve, che uso per misurare? dov'è la lunga,
che devo misurare? Entrambe risuonarono, svanirono, passarono, non sono più. Eppure io misuro e rispondo, con tutta la
fiducia che si ha in un senso esercitato, che una è semplice,
l'altra doppia, in estensione temporale, s'intende: cosa che
posso fare solo in quanto sono passate e finite. Dunque non
misuro già le sillabe in sé, che non sono più, ma qualcosa nella mia memoria, che resta infisso.È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L'impressione che le
cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il
64
Le Confessioni,libro undicesimo, 27. Cfr.
http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm
87
AGOSTINO
loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che
misuro. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio
in termine di estensione temporale? Anche senza impiego
della voce e delle labbra noi percorriamo col pensiero poemi
e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l'estensione col
pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio
di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a emettere il
suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già
compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si
produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il
futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che
passato65.
Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è, e come crescerebbe il passato, che non è più, se
non per l'esistenza nello spirito, autore di questa operazione,
dei tre momenti dell'attesa, dell'attenzione e della memoria?
Così l'oggetto dell'attesa fatto oggetto dell'attenzione passa
nella memoria. Chi nega che il futuro non esiste ancora? Tuttavia esiste già nello spirito l'attesa del futuro. E chi nega che
il passato non esiste più? Tuttavia esiste ancora nello spirito
la memoria del passato. E chi nega che il tempo presente
manca di estensione, essendo un punto che passa? Tuttavia
65
Le Confessioni,libro undicesimo, 27. Cfr.
http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm
88
AGOSTINO
perdura l'attenzione, davanti alla quale corre verso la sua
scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente,
non è lungo, ma un lungo futuro è l'attesa lunga di un futuro;
così non è lungo il passato, inesistente, ma un lungo passato è
la memoria lunga di un passato. Accingendomi a cantare una
canzone che mi è nota, prima dell'inizio la mia attesa si protende verso l'intera canzone; dopo l'inizio, con i brani che vado consegnando al passato si tende anche la mia memoria.
L'energia vitale dell'azione è distesa verso la memoria, per ciò
che dissi, e verso l'attesa, per ciò che dirò: presente è però la
mia attenzione, per la quale il futuro si traduce in passato. Via
via che si compie questa azione, di tanto si abbrevia l'attesa e
si prolunga la memoria, finché tutta l'attesa si esaurisce,
quando l'azione è finita e passata interamente nella memoria.
Ciò che avviene per la canzone intera, avviene anche per ciascuna delle sue particelle, per ciascuna delle sue sillabe, come
pure per un'azione più lunga, di cui la canzone non fosse che
una particella; per l'intera vita dell'uomo, di cui sono parti tutte le azioni dell'uomo; e infine per l'intera storia dei figli degli
uomini, di cui sono parti tutte le vite degli uomini66.
Ma poiché la tua misericordia è superiore a tutte le vite, ecco
che la mia vita non è che distrazione, mentre la tua destra mi
raccolse nel mio Signore, il figlio dell'uomo, mediatore fra te,
uno, e noi, molti, in molte cose e con molte forme, affinché
per mezzo suo io raggiunga Chi mi ha raggiunto e mi ricomponga dopo i giorni antichi seguendo l'Uno. Dimentico delle
cose passate, né verso le future, che passeranno, ma verso
quelle che stanno innanzi non disteso, ma proteso,non con distensione, ma con tensione inseguo la palma della chiamata
celeste. Allora udrò la voce della tua lode e contemplerò le tue
delizie, che non vengono né passano. Ora imiei anni trascorrono fra gemiti, e il mio conforto sei tu, Signore, padre mio
eterno. Io mi sono schiantato sui tempi, di cui ignoro l'ordine,
66
Le Confessioni, libro undicesimo, 28. Cfr.
http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm
89
AGOSTINO
e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono
dilaniati da molteplicità tumultuose. Fino al giorno in cui, purificato e liquefatto dal fuoco del tuo amore, confluirò in te67.
67
Le Confessioni,libro undicesimo, 29. Cfr.
http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm
90
DA UN MONDO ALL’ALTRO
Il perché
di una
transizione
Con Agostino la filosofia classica si avvicina alla sua fine. Tradizionalmente questo momento viene indicato nel 529 d.C un secolo circa dopo la morte di Agostino, quando l'imperatore d'Oriente Giustiniano fa chiudere la scuola di Atene. Da tempo però nessun vero filosofo cercava di seguire il pensiero di Platone o di Aristotele. Ormai
l'impero romano di Occidente si è dissolto, sotto la pressione delle
popolazioni germaniche, e i centri culturali tradizionali sono andati
distrutti durante gli assedi o le ultime disperate battaglie delle legioni romane. Gli unici luoghi in cui si continuano a studiare e a
trascrivere i manoscritti del passato sono
i monasteri cristiani,
dietro l'esempio del celebre Vivarium in Calabria. La filosofia in Occidente entra in una
lunga fase di ibernazione: tranne pochissime
Rovine del Vivarium in Calabria.
eccezioni come il pen- Cfr.http://www.bboasicalabria.it/public/uploads/c5ccefac2ab0b5b
c295a6b83132896b8.jpg
siero del monaco irlandese Scoto Eriugena68 nel IX secolo, si può dire che nessuno più si
dedichi a questa attività per molti secoli. In questo lungo intervallo
si completa la gestazione di una civiltà nuova, non più disposta attorno alle acque del Mediterraneo ma diffusa dalle coste settentrionali di questo mare fino alle acque dell'oceano Atlantico, del mare
del Nord e del Baltico: la civiltà europea. Essa nasce dalla fusione di
più elementi:
 quello greco-romano ereditato dall'età classica
68
Giovanni Scoto Eriugena nato in Irlanda nel 810 circa e morto in Inghilterra dopo l'877, è stato un monaco, teologo, filosofo e traduttore irlandese,
è considerato uno dei più grandi filosofi altomedievali.
91
 quello germanico che scende da nord
 quello celtico che è dominante sulle coste bretoni e nelle isole
britanniche
 quello slavo che si diffonde a est.
Il cristianesimo
che unisce le
culture
Il fattore che rese possibile la fusione di queste culture diverse in
un unico mondo fu la presenza del Cristianesimo, che conquistò,
dapprima in modo superficiale poi dopo il Mille inmaniera più consapevole le coscienze degli abitanti di questa vasta regione che cominciava a pensarsi come «Europa». Naturalmente è impossibile indicare una data precisa, o anche solo un periodo sufficientemente
breve, per questo fenomeno L'assimilazione avvenne in fasi diverse
e con ritmi differenti, in alcune regioni con maggiore decisione che
in altre, e con minore o maggiore successo a seconda del prevalere
dell'uno o dell'altro fattore. Resta il fatto che sul largo crinale cronologico che spazia dal V al X secolo si attua una trasformazione decisiva, che trascina con sé tutte le altre: prima c'è il mondo classico e
mediterraneo, poi c'è il mondo europeo. Questo condizionerà anche la filosofia: dopo il lungo silenzio dell'alto Medioevo, essa riapparirà, ma trasformata.
Il ruolo
della
filosofia
araba
Per un lungo periodo quindi l'eredità della filosofia greca è sostenuta dai pensatori arabi. L'Islam infatti conquistando ampie porzioni
di quello che era stato l'Impero romano d'Oriente si è trovato di
fronte a una cultura completamente diversa dalla propria. Invece di
distruggerla, l’ha assimilata nei limiti del possibile: i grandi testi della
tradizione filosofica, in particolare Aristotele, sono tradotti in arabo
e quindi attentamente studiati. È solo grazie al lavoro dei copisti e
degli studiosi arabi che molti testi antichi sono riusciti a sopravvivere, dato che le corrispettive copie esistenti in occidente erano andate distrutte durante le invasioni germaniche. I due grandi nomi
della filosofia araba sono il persiano Ibn Sina69, che nel IX secolo
69
IbnSinā, più noto in occidente come Avicenna,nato aBalkh nel 980 e morto ad Hamadan nel giugno del 1037, è stato un medico, filosofo, matematico e fisico persiano.
92
studiò soprattutto il pensiero neoplatonico, e IbnRushd70 (latinizzato
in Averroè), un pensatore spagnolo del XII secolo che invece si concentrò su Aristotele.
Tre fasi
della filosofia in
Occidente
Quando la filosofia fa di nuovo la sua comparsa in Occidente, su
alcune tematiche ontologiche essa sembrerà rifarsi direttamente
alla fase finale delle filosofia classica, ma in realtà il suo senso stesso
è cambiato:


da un lato essa si sviluppa a stretto contatto con una teologia molto ricca e approfondita, con cui dialoga continuamente
dall'altro deve far proprio e fondare il nuovo atteggiamento
di dominio del mondo che caratterizza l'Europa e tutto l'Occidente.
Seguendo l'interpretazione del grande storico della filosofia francese Etienne Gilson71 si possono identificare tre fasi fondamentali:
1. La filosofia dei monasteri
Questi luoghi sono stati per secoli gli unici nei quali era sopravvissuta la cultura e i monaci sono stati gli unici o quasi a
continuare a studiare e a meditare. Non è quindi strano che
proprio qui a partire dall'XI secolo abbia cominciato a rifiorire la domanda filosofica sul senso dell'esistenza. Il pubblico
a cui si rivolgono le primissime opere che possiamo qualificare come «filosofiche» è comunque formato da persone
speciali, che avevano scelto di allontanarsi dalla vita di tutti
i giorni per concentrarsi sulla esperienza religiosa: le tematiche e le forme stesse di queste opere risentono inevita70
Averroè, nato a Cordova il 14 aprile 1126 e morto a Marrakech nel 10 dicembre 1198, è stato un filosofo, medico, matematico, giudice e giurisperito berbero, considerato, insieme al suo precursore Avicenna, il più influente filosofo islamico del Medioevo.
71
ÉtienneGilsonnato a Parigi nel 13 giugno 1884 e morto ad Auxerre nel 19
settembre 1978, è stato un filosofo e storico della filosofia francese di ispirazione cattolica.
93
bilmente delle peculiari caratteristiche dell'ambiente in cui
vedono la luce. Il rapporto tra fede e ragione, la possibilità
di aprirsi a Dio e di dimostrare la sua esistenza saranno gli
argomenti centrali.
2. La filosofia nelle città
Nel XII secolo le città sono ormai ricche abbastanza per attrarre non solo mercanti e artigiani ma anche gli intellettuali. Essi appartengono ancora nell'orbita ecclesiastica (sono
tutti chierici) ma non provengono più necessariamente solo
da un ambito monastico. I vescovi sono infatti tenuti a organizzare presso la propria sede di residenza delle «scholae» per la formazione dei chierici e dei sacerdoti. In questi
nuovi ambienti, a contatto con il vivace mondo delle città,
anche le tematiche trattate cambiano: in particolare, la riflessione sulla conoscenza e sulla logica diventano il centro
di gravità della filosofia.
3. La filosofia delle università
Nel XIII secolo la grande novità è la nascita delle «universitates magistrorum et studentorum». Si tratta di associazioni che in qualche modo ricalcano le corporazioni medievali:
sono persone che si mettono insieme spinte dal desiderio di
studiare e di conoscere. Ovunque queste persone si incontrano (e possono incontrarsi nei luoghi più strani), lì c'è la
«universitas». Solo in un secondo momento le autorità cittadine assegnano alle universitates delle sedi fisse. Nelle
università si studiano apertamente i classici del passato e
nel campo della filosofia e della teologia si cercano di realizzare grandi sintesi enciclopediche (le summae).
94
INDICE
LA FILOSOFIA ELLENISTICA ................................................................. 2
EPICURO.............................................................................................. 5
LO STOICISMO .................................................................................. 18
L'ASTRONOMIA................................................................................. 33
CRISTIANESIMO
PLOTINO ........................................................................................... 54
AGOSTINO......................................................................................... 66
DA UN MONDO ALL’ALTRO .............................................................. 91
95
INDICE ANALITICO
Felicità .... 3; 9; 12; 16; 17; 25; 67;
69; 72; 74
Fisica ....... 5; 7; 24; 27; 29; 40; 71
A
Amicizia ....................... 20; 52; 70
Amico .......................... 18; 20; 70
Amore . 48; 49; 52; 70; 72; 74; 91
Anima ....5; 6; 7; 8; 12; 13; 14; 15;
22; 24; 27; 31; 45; 52; 58; 60;
63; 64; 65; 66; 71; 72; 73; 74;
77; 81; 83; 91
Aristotele .......... 2; 23; 40; 55; 56
Astronomia 35; 38; 41; 42; 43; 44
I
Infelice ...................................... 6
Infelicità ............................ 11; 79
Ipostasi .................. 58; 59; 60; 66
L
B
L’essere ............................. 26; 47
L’Uno ... 56; 57; 58; 61; 62; 63; 64
Logica .................. 8; 9; 13; 24; 95
Logos ..... 9; 23; 24; 25; 27; 29; 30
Bibbia .............. 48; 51; 52; 69; 72
M
C
Male 5; 13; 14; 15; 16; 17; 19; 25;
29; 30; 31; 50; 64; 71; 72; 78;
79; 80
Manichea ................................ 78
Cielo ... 24; 30; 34; 35; 40; 41; 44;
85; 86
Cristianesimo .................... 47; 96
Cristiano .......... 28; 49; 58; 62; 67
P
D
Dimostrazione ......................... 74
Dio.. 9; 11; 15; 28; 58; 61; 62; 63;
66; 71
Panteismo ......................... 33; 61
Platone . 6; 13; 18; 23; 38; 52; 55;
58; 62; 73; 74; 77
Psyché ..................................... 52
E
R
Eide ................. 62; 63; 64; 74; 77
Ragionamento ........................... 9
Religione ............... 64; 71; 73; 77
F
S
Fede .... 47; 48; 50; 69; 70; 81; 95
Felice ...2; 3; 9; 12; 13; 14; 16; 31;
74
Saggio ........................ 3; 9; 13; 31
Sfera ................ 11; 34; 35; 36; 39
Socrate .................. 15; 26; 50; 73
Stelle ....................................... 34
96
T
Terra... 35; 36; 38; 39; 40; 41; 42;
43
Tempo .... 3; 7; 13; 16; 17; 19; 20;
21; 22; 26; 36; 55; 60; 62; 81;
83; 84; 85; 86; 87; 88; 89
97
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