QUADERNO DISPENSA DI FILOSOFIA Anno scolastico 2016-2017 Davide Pelo 4° B LA FILOSOFIA ELLENISTICA Il contesto storico La polis era fondamentale La filosofia ellenistica esprime il sostanziale mutamento che avviene nella società greca in seguito ad uno sconvolgimento politico. Per capire, quindi, il passaggio dalla filosofia greca classica a quella ellenistica è necessario analizzare il contesto storico nel quale avviene.La fase storica che viene indicata con il termine di «ellenismo» ha inizio con la morte di Alessandro Magno1 (323 a.C.) e termina indicativamente alla fine del II sec. d.C., quando l’Impero romano raggiunse il suo massimo sviluppo. In particolare tra il III e il II sec. a.C. assistiamo alla creazione e alla prima fase di sviluppo dei regni ellenistici, i quali influenzeranno il pensiero dei filosofi contemporanei.Infatti alla morte di Alessandro frana rapidamente i suo progetto politico-culturale di creare un grande stato unitario caratterizzato dalla fusione della civiltà greco-macedone e quella persiana. La lotta tra i successori dell’imperatore (diadochi) condusse alla creazione di tre grandi regni: il regno d’Egitto, Seleucide e di Macedonia più altri regni creatisi in seguito. In relazione a questi avvenimenti anche la dimensione politica delle città greche cambiò notevolmente. La polis, infatti, anche se non scomparve e mantenne parte della sua autonomia, non costituì più la struttura politica fondamentale, poiché fu soppiantata dal regno. Ciò portò in seguito ad una crescente perdita di importanza delle istituzioni cittadine, con tutte le conseguenze che ne derivarono nell’ambito della filosofia. Per la filosofia greca classica l’appartenenza alla polis e la partecipazione alla vita politica era un aspetto della vita tutt’altro che irrilevante. Tra i più grandi esponenti della filosofia grecaPlatone visse con l’obbiettivo della creazione di uno stato giusto e Aristotele sosteneva che l’uomo può essere felice solo all’interno di una comunità organizzata, la polis. Con la fine di questa istituzione viene meno 1 Alessandro III di Macedonia, universalmente conosciuto come Alessandro Magno, nato a Pella il 20 luglio 356 a.C. e morto a Babilonia l'11 giugno 323 a.C., è stato un militare macedone, re di Macedonia a partire dal 336 a.C., succedendo al padre Filippo II. 2 LA FILOSOFIA ELLENISTICA il fulcro della filosofia del tempo, quindi è necessario trovarne una nuova.Ma cosa significa trovare una nuova filosofia?La filosofia, in fondo, esprime un modo di vedere il mondo, un modo di vivere tipico della società che la sviluppa. Il problema fondamentale che i pensatori del tempo si pongono è come rendere la vita degna di essere vissuta ora che la polis non esiste più.È come cercare una nuova strategia di vita, un nuovo obbiettivo e insieme una nuova base su cui costruire la propria felicità. I promotori di questa filosofia Le soluzioni a questo problema esistenziale sono state diverse. Tra i maggiori pensatori promotori di questa nuova filosofia ci sono: Epicuro e la sua scuola (a Roma il suo seguace più importante è Lucrezio) Gli Stoici (l’esponente fondamentale è Zenone) GliScettici I Cinici Tra questi Epicuro e gli Stoici svilupparono due idee opposte, anche se siamo in grado di riconoscere alcuni aspetti in comune: L’importanzadell’etica. L’importanza del saggio. L’etica ebbe una grande importanza nella filosofia ellenistica dato che la filosofia era intesa come strumento per vivere meglio. Il saggio, invece, era inteso da entrambe le correnti come «colui che sa vivere», sottolineando l’aspetto pratico rispetto a quello teorico. Infatti il saggio non insegna con le parole, ma attraverso il suo esempio2. 2 Proprio per questo si diceva che egli deve essere felice anche nel toro di Falaride. 3 LA FILOSOFIA ELLENISTICA 4 EPICURO Vita e opere Epicuro visse tra il 341 e il 270 a.C. circa e viene considerato uno dei maggiori esponenti della filosofia ellenistica. Fu scrittore fecondissimo: Diogene Laerzio gli attribuisce circa 80 titoli. Purtroppo molto è andato perduto, anche se siamo in grado di ricostruire i punti fondamentali del suo pensiero grazie soprattutto a ciò che ci ha tramandato Laerzio nelle Vite dei filosofi. Ciò che ci è rimasto sono tre epistole: Busto ritraente Epicuro: Cfr.https://upload.wikimedia. org/wikipedia/commons/d/d6 /Epicurus_bust.jpg a Erodoto (sulla fisica), a Pitocle (sui fenomeni celesti), a Meneceo (sull’etica) e una raccolta di massime, le Massime capitali. Epicuro arrivò ad Atene alla fine del IV secolo. Essendo un meteco non poteva costruire in città e così acquistò in campagna una casa con un terreno, dove tenne le sue lezioni. A causa di questo la sua scuola venne chiamata il «giardino» di Epicuro.Il fatto che non insegni in città dimostra che si rifiuta di insegnare alle masse: preferisce insegnare solo a pochi alla volta, un piccolo numero di amici. Il suo programma filosofico La filosofia è, per Epicuro, una «medicina dell'anima»: è un fare, un'attività che mira al conseguimento di una condizione di benessere. Le sue prescrizioni sono condensate nelle quattro semplici proposizioni note come il «quadrifarmaco» («le quattro medicine»): 1. 2. 3. 4. Gli dei non sono da temere; la morte non è cosa di cui aver paura; il bene è facile a procurarsi; il male è facile da sopportare. 5 EPICURO La necessità di una terapia sorge dal fatto che gli uomini conducono per lo più un'esistenza infelice: più gravi delle malattie che aggrediscono il corpo sono le paure, i turbamenti, le false opinioni che gravano sull'anima. L’uomo comune, abituato a valori che gli sono stati consegnati dalla società, teme esageratamente ciò che in realtà non può arrecare un vero danno, e d'altro canto si consuma inutilmente nel desiderio di ciò che non può o non vale la pena di ottenere. L'uomo quindi va liberato da queste forme di schiavitù prima di tutto psicologica: è questo il vero, unico compito della filosofia, che gli deve indicare con chiarezza ciò che deve desiderare. Questo è il senso del conoscere: «se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e quella della morte e il non conoscere il confine dei piaceri e dei dolori - afferma Epicuro - non avremmo bisogno della scienza della natura» 3. Si può così comprendere il senso della violenta polemica «anticulturale» di Epicuro: quando egli esorta i suoi discepoli a «fuggire la cultura», intende riferirsi sia al sapere dei retori sia al sapere scientifico-matematico che non offrono una autentica soluzione al problema principale della vita: la ricerca dell'eudaimonia. Deve soddisfare due esigenze Per realizzare il suo programma la filosofia di Epicuro deve soddisfare due esigenze quasi opposte: 3 da un lato, deve ricondurre tutti i fenomeni all'interno del campo di esperienza dell'individuo. Il senso di questa operazione è quello di eliminare ogni elemento di trascendenza e di finalismo che, alludendo a un livello di realtà esterno e superiore all'uomo, ne limiti la capacita di perseguire liberamente il proprio fine (il confronto polemico sarà qui, in primo luogo, con Platone); Cfr. Massime capitali, XI. 6 EPICURO dall'altro deve anche evitare, al tempo stesso, il rischio di cadere nel relativismo e nello scetticismo, cioè di posizioni che escludono la possibilità di un riferimento oggettivo sia in campo gnoseologico (verità) che in campo morale (bene). La tensione tra queste due esigenze anima, con tutte le sue difficoltà, la dottrina epicurea. L'etica è il punto fondamentale Il tetrafarmaco Data l'impostazione pratica e operativa del suo pensiero, è ovvio che il suo «cuore pulsante» sia l'etica: la fisica e la gnoseologia rappresentano solo le premesse, o meglio lo studio delle condizioni alle quali è possibile l'etica. Ne deriva immediatamente un carattere tipico dell'insegnamento di Epicuro: più che svilupparsi in complessi ragionamenti, esso tende a focalizzarsi sui punti chiave, riassumendoli in proposizioni semplici e facili da ricordare. Il compito del discepolo infatti non è cercare nuove verità, ma assimilare quelle di Epicuro e, così facendo, trasformare la propria vita. Da qui anche la scelta di usare l'artificio letterario della epistola, che è breve, familiare, accattivante, facile da ricordare. Tra tutte le opere di Epicuro, l'unica dedicata all'etica che ci sia giunta è l'Epistola a Meneceo, che si sviluppa secondo le tesi del quadrifarmaco. Gli dei non sono da temere: Epicuro non nega l'esistenza degli dei: al contrario, quest'ultima è per lui un fatto addirittura evidente, dato che non si può avere una idea di qualcosa di cui non si sia fatta esperienza. Epicuro concepisce gli dei come composti di atomi, quindi corporei anch'essi, ma dotati della capacità di «rigenerarsi», quindi immortali. Perfettamente beati e imperturbabili, gli dei abitano gli spazi vuoti fra mondo e mondo, i cosiddetti intermundia, e non hanno nessuna possibilità di intervenire nei confronti dell'uomo: quindi non premiano né puniscono. L'opinione contraria, diffusa presso tutti i popoli, è solo una falsa superstizione. 7 EPICURO La morte non è da temere: Il secondo precetto del quadrifarmaco è sicuramente il più controverso, perché attacca direttamente il più radicato timore dell'uomo. Che però, sostiene Epicuro, è del tutto ingiustificato:morte e vita sono due termini tra loro totalmente contraddittori tra loro da un punto di vista logico, e quindi quando c'è l'uno non ci può essere l'altro. Chi è morto, dato che non può percepire nulla, non può neanche rendersi conto di essere morto, e tanto meno può soffrire per questa condizione. Di conseguenza è stolto preoccuparsi per qualcosa che, quando verrà, non modificherà in nulla le nostre percezioni. Questo secondo «farmacon» è direttamente legato alla concezione epicurea dell'anima. Per Epicuro l'anima è un corpo e come tutti i corpi, è costituita di atomi, sia pure particolarmente sottili e mobili: l'individuo è dunque un composto di anima e di «carne» (il corpo propriamente detto). Le funzioni della vita psichica (sensazioni, affezioni, pensiero) sono determinate dal movimento degli atomi dell'anima. La conseguenza di questa impostazione è che l’anima è mortale. Proprio per questo essa non ha la possibilità di percepire alcunché dopo la «morte». La discussione epicurea sulla morte si basa in ultima analisi sulla concezione logica rigidamente dualistica di Parmenide, che Epicuro riceve attraverso l'atomismo di Democrito e Leucippo. Per l'Eleate, essere e non essere sono due concetti contraddittori tali per cui non è possibile alcuno scambio né alcuna relazione tra essi. Vita e morte sono concepiti da Epicuro nello stesso modo: se c'è la vita, la morte è totalmente assente, ma quando arriva la morte, è la vita a essere completamente mancante. Il bene è facile da procurarsi: Con questo, è impostata la parte «negativa» dell'etica di Epicuro, che mira alla liberazione dalla superstizione e dall'angoscia. Si deve considerare ora la parte «positiva»: ciò che bisogna volere e fare per essere felici. Su questo punto l'affermazione più celebre di Epicuro è 8 EPICURO stata fonte di infiniti fraintendimenti. Essa infatti suona così: la felicità, che è l'obiettivo di ogni uomo, è il piacere fisico. Già durante la sua vita Epicuro si deve difendere da coloro che intendono questa frase nel senso che il saggio deve dedicare la sua vita ai godimenti fisici, in particolare il cibo e il sesso. Il senso del messaggio di Epicuro è esattamente l'opposto. Che cosa è infatti il piacere? La risposta di Epicuro è nettissima: è solo l'assenza del dolore (generato dal bisogno).Si tratta di una definizione negativa, in cui non viene detto cosa è propriamente il piacere, ma solo cosa non è. Questa definizione, attivata dalla logica dualistica di origine eleatica, permette a Epicuro la mossa successiva: il piacere viene raggiunto per il solo fatto che viene tolto il dolore, annullando il bisogno che aveva generato la sofferenza. Se esiste solo la coppia piacere-dolore, quando io rimuovo il dolore (la sofferenza generata dal bisogno) sono automaticamente nel piacere. Non solo, ma sono nel piacere al maggior grado possibile, e sono simile a un dio. Una immagine che non è di Epicuro ma può servire a raffigurare questo ragionamento è quella del secchiello riempito di sabbia. Quando viene raggiunto il colmo è inutile continuare ad aggiungere sabbia, che nel migliore dei casi è instabile e può cadere da un momento all'altro: il secchiello non diventa «più pieno».Il piacere si comporta in questo modo perché ha un limite, che è rappresentato dalla natura: superare i limiti che questa impone non aiuta minimamente a essere felici. L'idea di limite, che solo il logos riesce a cogliere nella natura, è perfettamente in linea con tutte le linee guida della cultura greca. Da qui nasce la triplice distinzione dei piaceri, tipica di Epicuro.Prima di tutto dobbiamo infatti distinguere i piaceri non naturali da quelli naturali. I piaceri non naturali nascono dal nostro rapporto con la società e non hanno nessun limite interno che ci permetta di dire: «Sì, ho raggiunto il mio obiettivo, dunque sono felice!». La ricchezza o la gloria, per esempio, non hanno un tetto massimo oltre al quale non si possa andare: per quanto grande la quantità di denaro che ho accumulato sarà sempre possibile averne di più, e quindi io non sarò mai soddisfatto. Ma anche i pia9 EPICURO ceri naturali (bere, mangiare e riposarsi) possono essere considerati sotto un profilo qualitativo, cercando una variazione infinita nel gusto che mi impedirà di arrivare al punto di dire: più oltre non è possibile andare. Sono quelli che Epicuro chiama «piaceri naturali non necessari». Solo se considero i piaceri naturali in sé, allora li posso pienamente soddisfare: se ho fame, io riesco a placarla anche con un pezzo di pane secco, e se io mi concentro solo sul semplice fatto di aver fame devo riconoscere che il pezzo di pane secco mi dà altrettanto piacere (ovvero rimuove altrettanto dolore) di un pranzo sontuoso. È questo che permette a Epicuro di affermare al termine della Epistola a Meneceo che chi segue i suoi precetti vivrà come un dio tra gli uomini: come un dio, infatti, non avrà bisogno di (quasi) nulla, perché quasi nulla ci chiede la natura. La natura mostra così che il piacere non è qualcosa che si aggiunga all'esistenza «da fuori», qualcosa che vada inseguito per mezzo della vita: il piacere è la vita, è l'esistenza stessa quando si sia riusciti a liberarla dal turbamento e dal dolore. Il piacere non è dunque altro che liberazione dal dolore: assenza di dolore fisico (aponia) e di turbamento spirituale (atarassia).L’infelicità nasce da una distorsione della prospettiva con cui si guardano le cose: è un difetto intellettuale. Per questo la filosofia, che è attività intellettuale, può liberare l'uomo nella sfera dei suoi comportamenti pratici e indicargli che è possibile un calcolo, una valutazione razionale, del piacere e del dolore, sul quale fondare le proprie scelte di vita. Il dolore è facile da sopportare: L'ultimo «farmacon» è problematico. La sofferenza può essere di due tipi, sostiene Epicuro: o è debole o è intensa Se è debole, è facile sopportarla (si pensi alle persone che si abituano a un mal di schiena ricorrente): se è intensa, dura poco e al limite 10 EPICURO conduce rapidamente alla morte, cioè all'annullamento della capacità di soffrire. Secondo la tradizione Epicuro stesso ha dato una prova di coerenza con la propria dottrina morendo per un attacco di calcoli ai reni dopo tre giorni di intense sofferenze affrontate con grande serenità. Tuttavia resta molto difficile accettare la possibilità di applicare concretamente questo precetto da parte delle persone normali. L'epistola a Meneceo Vediamo ora il testo dell'epistola a Meneceo: L'uomo cominci da giovane a far filosofia e da vecchio non sia mai stanco di filosofare. Per la buona salute dell'animo, infatti, nessun uomo è mai troppo giovane o troppo vecchio. Chi dice che il giovane non ha ancora l'età per far filosofia, e che il vecchio l'ha ormai passata, è come se dicesse che non è ancora giunta, o è già passata, I'età per essere felici. Quindi sia l'uomo giovane che il vecchio devono far filosofia: il vecchio perché invecchiando rimanga giovane per i bei ricordi del passato; il giovane perché, pur restando giovane d'età, sia maturo per affrontare con coraggio l'avvenire. E' bene riflettere sulle cose che possono farci felici: infatti, se siamo felici abbiamo tutto ciò che occorre; se non lo siamo, facciamo di tutto per esserlo. Dunque la felicità è la buona salute dell’anima che si ottiene attraverso la filosofia. Se non siamo felici tutto ciò che abbiamo non serve a niente. Metti in pratica le cose che ti ho sempre raccomandato e rifletti su di esse, perché sono i principi necessari fondamentali per una vita felice. Non si deve fare filosofia astratta, quindi bisogna seguire ciò che dice Epicuro. Gli dèi infatti esistono, ed è del tutto evidente la conoscenza che ne abbiamo; ma gli uomini attribuiscono agli dèi caratteristiche contrarie alla stessa idea che se ne fanno. Negare gli dèi in cui credono gli uomini, non è quindi empietà. Empietà è piuttosto attribuire agli dèi le idee che gli uomini comunemente se ne fanno, perché non sono idee 11 EPICURO corrette, ma gravi errori. Dall'idea che si fa degli dèi l'uomo trae i più gravi danni e vantaggi. Infatti gli dèi, che di continuo sono dediti alle loro virtù, accolgono i loro simili, mentre considerano estraneo tutto ciò che non è simile ad essi. Epicuro segue il materialismo atomistico ovvero l’idea ontologica che tutto ciò che esiste è solo la materia. Per un materialista è però difficile dire che esistano gli idei, ma secondo Epicuro essi vivono negli inter mundia, e non hanno a che fare nulla con noi. Inoltre per Epicuro dei sono i nomi poetici per le energie psichiche. Abìtuati a pensare che per noi uomini la morte è nulla, perché ogni bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di sensazioni. Quindi il capir bene che la morte è niente per noi rende felice la vita mortale, non perché questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perché toglie il desiderio dell'immortalità. Infatti non c'è nulla da temere nella vita se si è veramente convinti che non c'è niente da temere nel non vivere più. Ed è sciocco anche temere la morte perché è doloroso attenderla, anche se poi non porta dolore. La morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, ed è quindi sciocco lasciare che la morte ci porti dolore mentre l'attendiamo. Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci. Il secondo farmacon è molto difficile: abituati di pensare significa che devi fare uno sforzo per pensare di non avere paura della morte. Questo è fondamentale perché così facendo si toglie il desiderio dell’immortalità. Epicuro ragiona con una logica Parmenide: terzium non datur significa che i due termini sono contraddittori. Tra morte e vita trzium non datur. Per Epicuro inoltre l’anima non è immortale ma essa può solamente sopravvivere un poco in più rispetto al corpo ma poi sparisce. La maggior parte delle persone, però, fuggono la morte considerandola come il più grande dei mali, oppure la cercano come una libera- 12 EPICURO zione dai mali della vita. Il saggio invece non rifiuta la vita e non ha paura della morte, perché non è contro la vita ed allo stesso tempo non considera un male il non vivere più. Il saggio, così come non cerca i cibi più abbondanti, ma i migliori, così non cerca il tempo più lungo, ma cerca di godere del tempo che ha. È da stolti esortare i giovani a vivere bene ed i vecchi a morire bene, perché nella vita stessa c'è del piacere, ed è la stessa cosa l'arte di vivere bene e di morire bene. È qui presente una critica contro Platone: non dobbiamo considerare la morte un male. Dobbiamo inoltre ricordarci che il futuro non è interamente nelle nostre mani, ma in qualche modo lo è, anche se in parte. Quindi non dobbiamo aspettarci che si avveri del tutto, ma non dobbiamo neppure disperare che esso non si avveri affatto. Questa è una politica indiretta contro gli stoici e il loro mondo razionale. Le leggi scientifiche determinano ogni nostro atto allora qualunque cosa avvenga dobbiamo accettarlo, maEpicuro rifiuta questo esponendo la sua idea nel clinamen. Dobbiamo poi pensare che alcuni dei nostri desideri sono naturali, altri vani. E di quelli naturali alcuni sono necessari, altri non lo sono. E di quelli naturali e necessari, alcuni sono necessari per essere felici, altri per la buona salute del corpo, altri per la vita stessa. Una sicura conoscenza dei desideri naturali necessari guida le scelte della nostra vita al fine della buona salute del corpo e della tranquillità dell'animo, perché queste cose sono necessarie per vivere una vita felice. Infatti noi compiamo tutte le nostre azioni al fine di non soffrire e di non avere l'animo turbato. Ottenuto questo, ogni tempesta interiore si placherà, perché il nostro animo non desidera nulla che gli manchi, né ha altro da cercare perché sia completo il bene dell'anima e del corpo. Abbiamo infatti bisogno del piacere quando soffriamo perché esso non c'è. Quando non soffriamo, non abbiamo neppure bisogno del piacere. Il bene è l'assenza del dolore. Tramite questa definizione in negativo del piacere Epicuro non dice cosa sia veramente il piacere. 13 EPICURO Per questo motivo noi diciamo che il piacere è il principio ed il fine di una vita felice. Noi sappiamo che esso è il bene primo, connaturato con noi stessi, e da esso prende l'avvio ogni nostra scelta e in base ad esso giudichiamo ogni bene, ponendo come norma le nostre affezioni. Ma proprio perché esso è il bene primo ed è a noi connaturato, noi non ci lasciamo attrarre da tutti i piaceri; al contrario, ne allontaniamo molti da noi quando da essi seguano dei fastidi più grandi del piacere stesso. Allo stesso modo consideriamo molti dolori preferibili ai piaceri quando la scelta di sopportare il dolore porta con sé come conseguenza dei piaceri maggiori. Tutti i piaceri quindi che per loro natura sono a noi congeniali sono certamente un bene; tuttavia non dobbiamo accettarli tutti. Allo stesso modo tutti i dolori sono un male, ma non dobbiamo cercare di sfuggire a tutti loro. Queste scelte vanno fatte in base al calcolo ed alla valutazione degli utili. Per esperienza sappiamo infatti che a volte il bene è per noi un male ed al contrario il male è un bene. Consideriamo un grande bene l'indipendenza dai desideri non perché sia necessario avere sempre soltanto poco, ma perché se non abbiamo molto sappiamo accontentarci del poco. Siamo profondamente convinti che gode dell'abbondanza con maggiore dolcezza chi meno ha bisogno di essa e che tutto ciò che la natura richiede lo si può ottenere facilmente, mentre ciò che è vano è difficile da ottenere. Infatti, in quanto entrambi eliminano il dolore della fame, un cibo frugale o un pasto sontuoso danno un piacere eguale, e pane e acqua danno il piacere più pieno quando saziano chi ha fame. L'abituarsi ai cibi semplici ed ai pasti frugali da un lato è un bene per la salute, dall'altro rende l'uomo attento alle autentiche esigenze della vita; e così quando di tanto in tanto ci capita di trovarci nell'abbondanza, sappiamo valutarla nel suo giusto valore e sappiamo essere forti nei confronti della fortuna. Questa è l'essenza del pensiero epicureo: come va inteso il piacere? Il piacere è l’assenza di dolore. Il piacere del cibo, bere tanto, mangiare tanto, essere lussurioso, sono piaceri carnali legati al corpo. Epicuro però non è epicureo perché il piacere di cui parla è l’assenza del dolore. Nel testo epicureo egli dice di fare dei calcoli per decidere quale piacere sia più convenite seguire poiché bisogna sapere che un piacere eccessivo porta ad un dolore eccessivo. Un esempio di ciò potrebbe essere la dieta, che facciamo soffrendo per ottenere il piacere di essere più belli. Quello che devo fare è dunque un calcolo 14 EPICURO che però non è basato sui numeri ma sulle parole. È stato Socrate il primo a ragionare in questo modo. Il piacere è facile da ottenere, basta togliere il dolore, la fame, la sete, e il sonno. Abituati a godere del niente e se ti capita di avere di più poterai goderne meglio. Quando dunque diciamo che il piacere è il bene completo e perfetto, non ci riferiamo affatto ai piaceri dei dissoluti, come credono alcuni che non conoscono o non condividono o interpretano male la nostra dottrina; il piacere per noi è invece non avere dolore nel corpo né turbamento nell'anima. Epicuro è un uomo che controlla la propria natura e non ha bisogno d'altro e viene quasi come un dio. Infatti non danno una vita felice né i banchetti né le feste continue, né il godersi fanciulli e donne, né il godere di una lauta mensa. La vita felice è invece il frutto del sobrio calcolo che indica le cause di ogni atto di scelta o di rifiuto, e che allontana quelle false opinioni dalle quali nascono grandissimi turbamenti dell'animo. La filosofia ellenistica vuole essere una filosofia di vita che deve essere trasmessa con l’esempio. In questo modo è possibile raggiungere qualcosa di assoluto, nell’attimo stesso in cui tolgo la sofferenza. La strategia4 di Epicuro è quella di saper sfruttare la felicità. Ci deve essere un equilibrio tra danno e vantaggi. E adesso dimmi: pensi davvero che ci sia qualcuno migliore dell'uomo che ha opinioni corrette sugli dèi, che è pienamente padrone di sé riguardo alla morte, che sa sino in fondo che cosa sia il bene per l'uomo secondo la sua natura e sa con chiarezza che i beni che ci sono necessari sono pochi e possiamo ottenerli con facilità, e che i mali non sono senza limiti, ma brevi nel tempo oppure poco intensi? 4 La strategia è l'arte di saper sfruttare i risultati del combattimento. Mentre la tattica è l’arte di condurre un combattimento. 15 EPICURO Il consumismo dice il contrario di Epicuro ovvero che solo il consumare fa stare meglio. Il male o è molto intenso e allora dura poco5 oppure dura a lungo ed è facile da sopportare. Un uomo così ha imparato a sorridere di quel potere - il fato - che per alcuni è il sovrano assoluto di tutto: di fatto ciò che accade può essere spiegato non soltanto attraverso la necessità, ma anche attraverso il caso o in quanto frutto di nostre decisioni per le quali possiamo essere criticati o lodati6. Si crede che il fato sia qualcosa che ci vincola in maniera assoluta mentre Epicuro dice che non siamo legati al fato. Virtù è felicità La fisica di Epicuro Aretè (ciò che rende uomo l'uomo) e felicità (ossia il piacere, ovvero la capacità di vivere senza sofferenza) per Epicuro coincidono. Nell'affermare ciò il filosofo opera una sottolineatura particolare: non è possibile essere felici se non si è giusti ma, di converso, non si può essere giusti senza essere felici. Il bene non è, al modo platonico, un ideale trascendente: il bene è nella vita stessa. Ciascuno può averne una percezione immediata ed evidente: ogni individuo, infatti, distingue con chiarezza nell'affezione (pathos), ciò che per lui è bene, il piacere, e ciò che è male, il dolore. Dunque virtù, bene, felicità coincidono con il piacere: o, in altri termini, il piacere è criterio di distinzione fra bene e male. Epicuro formula cosi un'etica che si suole chiamare edonistica (da hedone, piacere).Anche se si manifesta nell'esperienza soggettiva dell'individuo, il criterio del piacere non è arbitrario: esso fornisce una norma oggettiva, perché il piacere stesso è connaturato all'uomo. Si tratta dunque di riportarsi alla natura, alla physis, sgombrando il campo da falsi timori e pregiudizi. Per Epicuro tutto è costituito da atomi, che sono particelle di materia con tanti ganci, che servono per unirsi tra loro per formare l’esistente. Gli atomi cadono dall’alto verso il basso (queste direzioni vanno considerate in senso «assoluto») fino a quando a un 5 Infatti si racconta che Epicuro abbia sofferto per pochi giorni prima di morire a causa di calcoli renali. 6 Cfr. http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/testi/epicuro1.htm 16 EPICURO certo punto subiscono un «clinamen» (deviazione) e, scontrandosi tra loro, cominciano ad aggregarsi. Col passare del tempo, gli aggregati formano i vari mondi, separati dagli «intermundia» di cui abbiamo già parlato. Non è del tutto chiaro se a subire un clinamen sia per Epicuro un solo atomo o più. Quello che è chiarissimo è che poiché gli atomi sono infiniti, anche i mondi sono infiniti. Questa tesi porta a un’evidente conseguenza: l’infinità dei mondi implica che ogni potenzialità dell’essere esiste attualmente (ossia non è una potenzialità), qualsiasi cosa che avvenga nel proprio mondo esiste già in un altro, e quindi non porta a un incremento reale dell’essere (e quindi non viola Parmenide), quindi non c’è niente che da essere va nel nulla. Il clinamen tuttavia resta fortemente problematico: da lato è necessario alla dottrina (altrimenti non sarebbe possibile la formazione dei mondi) ma dall'altro rappresenta la apparizione di qualcosa dal nulla, ciò che è vietato dall'adesione di Epicuro alle posizioni parmenidee. La scienza (lo studio della natura) per Epicuro serve solamente a togliere il turbamento dell’animo, non a conoscere la verità delle cose. La sua scienza ha uno scopo etico: se io conosco la causa di un fenomeno non lo temo. La cosa importante è dunque che la spiegazione di un fenomeno tolga il turbamento dell’animo, non che sia vera: da qui la tesi delle ipotesi plurime o della pluralità delle ipotesi. 17 LO STOICISMO Su cosa si basa Lo stoicismo nasce nel IV secolo, insieme all’epicureismo, e non a caso: stoicismo ed epicureismo danno risposte diverse a un bisogno uguale, ossia quello di dare un senso alla vita, che ha perso l’orizzonte di riferimento tradizionale (la polis).La soluzione stoica è opposta a quella epicurea. Al di là degli aspetti comuni (materialismo; opposizione a Platone e Aristotele per riscoprire gli autori preplatonici) ci sono differenze evidenti: secondo gli stoici tutto è determinato dal logos:niente è libero, tutto è necessario. Il cosmo è guidato da una necessità assoluta: ogni evento è quello che deve essere. La razionalità coincide quindi con la necessità e anche con la giustizia (la vecchia dea di Parmenide che ritorna).Si può scorgere qui facilmente è la concezione tradizionale greca portata all’estremo. Il compito dell’uomo deve essere quello di adeguarsi alla razionalità del cosmo, poiché questo è l’unica strategia per essere felici e ridurre le sofferenze. L'origine dello stoicismo La scuola stoica viene fondata intorno al 300 a.C. da Zenone di Cizio7 in Atene, nel «portico dipinto» (in greco stoà poikile, donde il nome «stoicismo»); l'ultimo grande rappresentante della scuola fu l'imperatore romano Marco Aurelio, morto nel 180 d.C.. Lo stoicismo si sviluppa dunque lungo un arco di cinque secoli: cinquecento anni durante i quali ha modo di condizionare profondamente la cultura del mondo mediterraneo, soprattutto perché viene adottata come filosofia (si potrebbe perfino dire come «ideologia») dalla classe dirigente dell'impero romano. Tuttavia, stranamente, ci sono arrivati ben pochi testi originali degli stoici più antichi e per ricostruire il loro pensiero dobbiamo far ricorso ai riassunti degli autori successivi. 7 Zenone di Cizionato a Cizo nel 336 - 335 a.C. e morto nella stessa nel 263 a.C., è stato un filosofogreco antico di origine fenicia e considerato il fondatore dello stoicismo. 18 LO STOICISMO Come era suddivisa la filosofia Fondamentale e poi canonica è la distinzione della filosofia in tre parti: logica (teoria della conoscenza) fisica (studio dell'essere fisico) etica La filosofia viene spesso paragonata dagli stoici a un frutteto in cui la logica è rappresentata dal muro che circonda e protegge gli alberi (la fisica), cioè le strutture teoriche che innalzano verso il cielo i rami carichi dei frutti dell'etica; oppure a un uovo, il cui tuorlo (l'etica) è circondato e sorretto dall'albume (la fisica) e dal guscio (la logica); o a un organismo: ossa e muscoli (logica), sangue e carne (fisica), anima (etica).L'idea chiave è che la filosofia è un sistema, un insieme di parti correlate e interdipendenti, nessuna delle quali può stare da sola; solo per necessità didattiche gli stoici ammettono che questi tre ambiti possano essere trattati separatamente.Come per l'epicureismo, il cuore pulsante della filosofia stoica è l'etica: tuttavia nello stoicismo il peso della «fisica» (cioè dello studio della totalità) è maggiore. La vita per gli stoici La concezione della vita degli stoici è espressa da Cleante8 con la metafora del cagnolino: un cagnolino legato a un carro, se tenta di fermarsi o di guardarsi in giro il guinzaglio lo tira con sé, quindi il cane non può fare quello che desidera se non vuole essere travolto, deve adeguarsi al movimento del carro e seguirlo. Questo significa che noi possiamo ribellarci al logos, ma in questo caso veniamo sconfitti, oppure comprimere i propri desideri e adeguarsi ad esso9. Per sopravvivere (l'unico obiettivo realistico nel nuovo mondo ellenistico) bisogna sacrificare la corporeità e ridurre e comprimere i propri desideri.Una seconda metafora molto utilizzata dagli stoici è 8 Cleante nato ad Asso nel 330 a.C. e morto nella stessa nel 232 a.C. circa, è stato un filosofogreco antico, esponente dello stoicismo. 9 Bisogna raggiungere l'apateia in latino apatia, ovvero assenza di passioni che sono ilmale. 19 LO STOICISMO quella dell’attore: dobbiamo renderci conto che noi non siamo altro che attori di un «dramma» (la vita stessa, in realtà) scritto dal Logos e interpretare al meglio la parte che ci è stata assegnata. O forse il tuo fastidio è ancheper la sorte che, nell'ordine universale, ti viene assegnata10? Gli stoici ammettono e teorizzano dunque la scissione tra l’io profondo e il ruolo che ci è stato assegnato dal destino: per sopravvivere questo è il prezzo da pagare. L’intuizione che la barriera della necessità del destino sia invalicabile è talmente greca che la ritroviamo alla base delle tragedie (hybris è il peccato che consiste nel tentare di andare al di là dei limiti). Cosa è la felicità? La felicità per gli stoici consiste nel non desiderare, o meglio nel nascondere nella profondità della coscienza i nostri desideri. Se gli epicurei ci suggeriscono di vivere lasciandoci portare dal mare dell’esistenza, gli stoici ci suggeriscono di irrigidirci una volta che abbiamo scorto la razionalità del disegno del logos e di resistere alle ondate della passione e del desiderio (della paura, della sofferenza...).La strategia stoica vede il punto decisivo nella lotta contro le passioni, che vanno estirpate come se fossero delle vere malattie. Sii come il promontorio, contro cui si infrangono incessantemente i flutti: resta immobile, e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque11. Le passioni sono male poiché sono irrazionali. Solo la lotta contro le passioni permette di resistere alla vita, anche nelle situazioni peggiori. Se i nostri desideri tentano di opporsi alle onde del destino vengono travolti, non bisogna quindi aspirare solo al controllo di esse, ma vanno distrutte. L'obiettivo degli stoici, la apatia (assenza di passioni), è molto più radicale di quello degli epicurei, la atarassia (controllo delle passioni). 10 11 Cfr. A me stesso di Marco Aurelio, libro quarto, 3. Cfr. A me stesso di Marco Aurelio, libro quarto, 49. 20 LO STOICISMO In realtà l’unica cosa che ci può veramente rendere felici, l’unico modo che abbiamo di realizzarci, in un mondo dominato da necessità esterne, su cui non abbiamo alcun potere, è proprio la facoltà di scegliere il bene e di agire in modo conforme alla ragione, indipendentemente dal risultato parziale delle nostre azioni, che non dipende solo da noi. La forza dell’uomo sta nella coerenza col proprio ideale di bene: è la sua libertà di scegliere ciò che è bene12. Il saggio Per essere saggi dovremmo compiere solo atti razionali, ma anche gli stoici ritengono che questo sia impossibile: solo Socrate (forse) ci è riuscito. La conseguenza paradossale è che il messaggio degli stoici più antichi è irrealizzabile sul piano pratico e che quindi non si può «diventare» stoici attraverso un processo graduale. Una metafora molto usata dagli stoici per visualizzare questo concetto è quella dell’uomo che annega, il quale va a fondo sia che abbia sopra di sé solo una spanna d’acqua o mille metri di oceano. Non c’è una via di mezzo tra l’essere saggi e l’essere stolti: quindi è impossibile un’educazione. Lo stoicismo romano cambierà questa conclusione, difatti loro adatteranno lo stoicismo che in principio era troppo radicale, e quindi non aveva trovato un particolare apprezzamento. La fisica stoica La concezione stoica del mondo fisico rimanda consapevolmente al naturalismo presocratico, in particolare a Eraclito, subendo al tempo stesso la forte influenza delle dottrine platoniche e aristoteliche che vuole criticare. Gli stoici concepiscono il cosmo, intendendo con questo termine la totalità dell'esistente, come un immenso organismo vivente. Vitale e pulsante in ogni sua parte, i cui processi dinamici sono governati da un principio unitario di organizzazione 12 La felicita consiste nell’essere virtuosi ovvero nell’essere razionali. Si tratta di cambiare la nostra vista adattandoci alla realtà del cosmo. Cfr. Gli stoici e la vitrùtesto tratto da Hadotdi Michela Giangualano, 1.4:http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiaantica/giangualan o.pdf 21 LO STOICISMO che essi chiamano logos, o pneuma, o fuoco. Tale principio è immanente alla realtà e inseparabile da essa: il tentativo stoico è dunque quello di spiegare il mondo nei termini di un rigoroso immanentismo, escludendo il ricorso a principi o forme trascendenti. Esiste un unico piano dell'essere: quello della corporeità. Tutto ciò che esiste è corpo; anche la divinità, anche l'anima, anche il vizio e la virtù sono corpi. Reale è infatti solo ciò che agisce o subisce un'azione, e solo ciò che è corporeo può agire o patire. Perciò solo il corpo esiste. Ritroviamo dunque nella natura, nel tutto corporeo, l'operare di due principi fondamentali: l'uno attivo, l'altro passivo. La distinzione, che richiama la coppia aristotelica di materia e forma, vale a spiegare il divenire della physis (intesa, al modo presocratico, come totalità della realtà) e l'esistenza di enti qualitativamente determinati. Rispetto alla fisica atomistica, che è discontinua e corpuscolare, abbiamo quindi una prima fondamentale differenza: quella stoica è una fisica del continuo, che postula la divisibilità fisica all'infinito ed esclude l'esistenza di indivisibili ultimi (atomi).La materia, sostanza priva di qualità, riceve forma a opera di un principio attivo corporeo che è dagli stoici identificato nel Fuoco (con esplicito richiamo a Eraclito). Si tratta del Fuoco creatore, di un soffio caldo (pneuma) che pervade e anima tutte le cose. Il pneuma non è altro, potremmo dire, che la dimensione fisica del logos che ordina il mondo. Entrambi coincidono con Zeus, la divinità, la cui esistenza ci è accertata dall'essere una nozione naturale comune a tutti i popoli della terra e dall'ordine, bellezza e perfezione della natura. La divinità e l'intelligenza immanente al mondo, il «fuoco intelligente» ed eterno, «artefice» di tutto, compenetra di sé ogni parte del cosmo. Il pneuma contiene le «ragioni seminali» (spermatikoilogoi), cioè i semi generatori di tutte le cose, grazie alle quali la materia si differenzia e si qualifica nella varietà delle forme individuali e si determinano i processi di generazione, vita e corruzione degli enti. Il pneuma genera nel tutto come nelle singole parti una tensione (tonos), una forza di coesione che conferisce unità e vita alle piante, agli animali, alle pietre stesse. Ogni corpo è compenetrato dal pneuma: non esiste tra un corpo e l'altro, o all’interno di ciascun corpo, il vuoto, perché, se così fosse, il principio attivo non potrebbe tra22 LO STOICISMO smettersi a tutte le cose. Una volta fissata l'immanenza del logos alla vita del cosmo e identificato l'ordine razionale con l'intelligenza divina, si ricavano due principali conseguenze. In primo luogo tutto ciò che accade ha una causa, anche ove non sia possibile scorgerla. Ogni evento è inserito in una catena causate che lo determina in modo assoluto: ciò che è non poteva essere altrimenti e ciò che sarà è già compreso in modo necessario nell'ordine del tutto. A questa legge causale assoluta gli stoici, riutilizzando in senso nuovo un termine fondamentale nella tradizione culturale greca, danno il nome di fato, o destino, definito da Crisippo13 come «La serie inviolabile delle cause». In secondo luogo dall'ordine causale concepito come piano intelligente seguono di necessità la perfezione del mondo e la sua organizzazione in vista del bello e del bene. Il mondo è perfetto, nel senso che non manca di nulla: ogni essere è concatenato con gli altri e con il tutto (gli stoici chiamano simpatia questa corrispondenza universale); ha un fine e una destinazione precisa che realizza la bellezza e l'armonia dell'insieme. Il cosmo è dunque retto da una provvidenza divina che va intesa non come l'esplicarsi della volontà di un dio personale e trascendente, al modo giudaico-cristiano, ma come l'operare, immanente al mondo stesso, della razionalità divina. Questa visione deterministica e finalistica si trova, evidentemente, agli antipodi dell'atomismo epicureo. Una delle principali critiche che gli stoici muovevano a Epicuro era proprio quella di avere introdotto il clinamen, il moto di declinazione spontanea degli atomi, postulando così un movimento privo di causa che infrange la catena causale necessaria a spiegare l'ordine degli eventi. D'altra parte, il finalismo di questa visione si contrappone al meccanicismo atomistico, che concepiva gli enti e i fenomeni come formazione e dissoluzione di aggregati in seguito a processi puramente meccanici e privi di intenzionalità. Tale visione meccanicistica risulta inaccettabile per gli stoici, che accolgono su questo punto fondamentale l'istanza teleologica presente nel platonismo e nell'aristotelismo: i processi naturali sono inseriti in un piano d'ordine razionale che assegna ai singoli enti una funzione e uno sviluppo finalizzati all'equili13 Crisippo di Soli nato a Soli nel 281 a.C./277 a.C. e morto ad Atene nel 208 a.C./204 a.C., è stato un filosofo e matematico greco antico. 23 LO STOICISMO brio dinamico del tutto. L’uomo occupa, all'interno di questa totalità, una posizione privilegiata: la concezione stoica della natura è caratterizzata da un marcato antropocentrismo. L'essere mostra una struttura scalare determinata dai diversi gradi di forza e di purezza del pneuma. L’uomo è composto di anima e di corpo. Anche la psicologia stoica, come quella epicurea, non ammette la separatezza dell’anima. L'anima dell'uomo è parte dell'anima del mondo, del pneuma; dunque essa è corporea, vive in stretta interazione con il corpo e, con la morte, abbandona l'organismo, rifluendo nell’anima universale, cosmica, di cui è parte. Il bene, il dovere e la felicità Disponiamo ora degli elementi necessari a collocare l'etica stoica nel quadro del sistema. Occorre tuttavia accennare al fatto che la fisica stoica suscita diversi problemi e difficoltà che gli avversari non mancarono di sottolineare sin dall'inizio. Il principale tra questi, direttamente attinente al tema dell'etica, nasce dall'esclusione di ogni elemento di contingenza dalla visione stoica del cosmo (contingenza che invece trovava spazio nell'epicureismo a opera della teoria del clinamen).Il caso, per gli stoici, non esiste: esso è solo il nome che si da a ciò che non si riesce a spiegare. Ma se tutto avviene per necessità (una necessità che riguarda il futuro tanto quanto il passato e il presente), non sembra aprirsi alcuno spazio per la libertà dell'uomo, nessuna possibilità di scelta, e dunque la stessa vita morale risulta svuotata di ogni significato. Ogni agire è equivalente a tutti gli altri; cade la possibilità stessa della valutazione e del giudizio morale. La scelta mortale Ogni essere vivente mostra una tendenza fondamentale all'autoconservazione, ad appropriarsi ciò che gli giova, a rifiutare ciò che lo danneggia. Nell'uomo questa capacità di valutare è pienamente consapevole e si manifesta nella formulazione di concetti di valore: l'individuo, se riceve un'educazione adeguata, diviene capace di operare riflessivamente e di scegliere in vista del bene. Oggetto della scelta morale e il logos stesso: utile e buono in massimo grado è ciò che consente all'uomo di realizzare la sua natura di essere razionale e ne permette lo sviluppo; male è ciò che è di ostacolo a que24 LO STOICISMO sto; indifferente tutto quanto non porta né vantaggio né danno morale. Dal momento che il bene consiste nella realizzazione della natura razionale dell'uomo, questi è portato per natura a fare il bene (e questo un principio fondamentale dell'etica stoica). Il principio sovrano dentro di noi, quando si trovi conforme a natura, ha verso gli eventi una disposizione tale,che può sempre facilmente mutarla in relazione a ciò che è possibile e concesso. Infatti non ama alcuna materia definita,ma segue, con riserva, il suo impulso ai fini più alti, e di quello che gli si oppone fa materia per sé, come il fuoco,quando fa suo ciò che vi cade dentro - un lumicino ne sarebbe spento: il fuoco vivo, invece, in un istante siimpadronisce di ciò che gli si getta sopra, lo consuma e proprio di qui trae alimento per divampare ancora più alto14. Da dove nasce la possibilità del male morale? La risposta degli stoici radicalizza l'intellettualismo socratico: il male è una perversione del logos dell'uomo, che lo rende incapace di valutare correttamente (per esempio, si scambia il piacere che accompagna talune azioni con il fine delle azioni stesse o, sotto l'influenza delle opinioni dominanti, si considera la ricchezza un bene, inseguendola affannosamente). Senza di te, o Dio, non si fa niente sulla terra, Né nel divino etere del cielo, né nel mare, Tranne che quel che ordiscono i malvagi nella loro follia15. Ma tu sai riportare gli estremi alla misura, Ordinare quel che é senz'ordine, e i tuoi nemici ti divengono amici. Perché tu hai armonizzato così bene insieme il bene e il male che vi é per ogni cosa una sola Ragione eterna16, quella che fuggono e abbandonano i perversi tra i mortali, disgraziati, che desiderano senza sosta il possesso dei (pretesi) beni, e non badano alla legge universale di Dio, né l'ascoltano, mentre, se le obbedissero con intelligenza 14 Cfr. A me stesso di Marco Aurelio, libro quarto, 1. Come si ammette che allora esista il male? Se l’assoluto sostiene tutto allora Dio ha voluto anche il male? I malvagi proprio per questo vengono definiti folli ovvero allontanati dal logos. 16 La soluzione al problema è quella eraclitea ovvero che il male e il bene sono le due facce di un qualcosa di superiore. 15 25 LO STOICISMO avrebbero una nobile vita; da se stessi si gettano, insensati, da un male all'altro; questi, spinti dall'ambizione, alla passione delle contese; quelli, volti al guadagno, senza alcun principio; altri, sfrenati nella licenza e nei piaceri del corpo, (Insaziabili) vanno da un male all'altro e fan di tutto perché succeda loro proprio il contrario di quel che desiderano. Ah! Zeus, benefattore universale, dai cupi nembi, signore della folgore, salva gli uomini dalla loro funesta ignoranza17; dissipa questa, o padre, lungi dalle loro anime; e concedi loro di scorgere il pensiero che ti guida per governare tutto con giustizia, affinché, onorati da te, ti rendiamo anche noi grande onore, cantando continuamente le tue opere, come si conviene ad un mortale, poiché né per gli uomini é più grande privilegio né per gli dèi, di cantare per sempre, nella giustizia, la legge universale18. Quando il pathos, la passione, prevale sui logos, viene dato l'assenso a rappresentazioni false di ciò che è buono e utile. Le passioni sono dunque vere e proprie malattie dell’anima, che richiedono un'adeguata terapia. Non viene riconosciuta a esse alcuna funzione positiva, ancorché sussidiaria e subordinata, nella ricerca della vita felice. Non si tratta perciò di limitarle, di governarle con l'esercizio della ragione, ma di estirparle: l'ideale del saggio stoico si fonda sull'apatia (apatheia), l'eliminazione delle passioni, l'«impassibilità».Quest'etica è, nel suo impianto generale, caratterizzata da un accentuato rigorismo: fra bene e male, virtù e vizio, saggezza e stoltezza non vi sono gradazioni intermedie. L'etica stoi17 Qui ha inizio la preghiera finale, considerata una delle migliori di Cleante: gli uomini si comportano male perché non conoscono cosa sia il bene, sono ignorati, e questa è la summa dell’etica greca. 18 Inno a Zeus di Cleante. L'Inno a Zeus dello stoico Cleante é una delle più elevate preghiere dell'antichità. Lo Zeus di Cleante non é la personificazione di una forza cieca ma la legge universale che tutto amministra con giustizia: giusta é la sua potenza. Non c'é l'odio biblico per i malvagi e per i nemici: il fulmine, simbolo del la sua potenza, può ferire ma anche guarire. I malvagi possono rinsavire dalla loro "follia" e i nemici "divengono amici". In fondo la loro colpa principale é l'ignoranza. E proprio questo chiede con insistenza Cleante al suo Dio potente ma misericordioso: Salva gli uomini dalla loro funesta ignoranza. Cfr.http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiaantica/cleante.htm 26 LO STOICISMO ca conduce tuttavia un'accurata analisi dei comportamenti pratici, che risente della lezione aristotelica e consente di attenuare il rigorismo della dottrina (è un punto importante per comprenderne lo straordinario successo nella società romana). Esistono, ai due estremi dell'ampia gamma dei comportamenti possibili, le azioni moralmente perfette e le azioni assolutamente viziose ed errate: nel mezzo, si collocano le azioni «medie», coincidenti in gran parte con il comportamento ordinario dell'individuo, le quali, anche se non realizzano la perfezione morale, sono tuttavia convenienti alla natura dell'uomo e, in quanto tali, preferibili. Vi sono cose e comportamenti che, sebbene sia erroneo considerare belli, sono tuttavia valori positivi, degni di essere scelti (per esempio ingegno, salute, bellezza, ricchezza). Posto che il male è sempre contro natura, le azioni secondo natura ammettono dunque una gradazione al proprio interno: ciò che distingue l'azione perfetta da quella semplicemente conveniente non è né il contenuto né il risultato, ma l'intenzione che la determina, il grado di "purezza" razionale che esprime. Ora, nella categoria delle azioni medie rientra gran parte dei cosiddetti doveri sociali e morali, cioè i contenuti della morale comune: onorare i genitori, servire la patria, occuparsi del buon funzionamento della collettività. Il concetto stoico del dovere rappresenta dunque l'anello di congiunzione fra etica e politica. Immagine tratta dal film di Charlie Chaplin:Tempi moderniCfr.https://jacopopaoletti.files.wordpress.com/2016/04/tempimoderni-charliechaplin.jpg 27 LO STOICISMO Il panteismo Gli stoici sono i primi panteisti, ossia sono i primi ad identificare l’assoluto con il cosmo, i panteisti cioè per così dire «vivono in paradiso», perché tutto ciò che è è necessario, e quindi il meglio che possa esistere. Ciò che è razionale è necessario e viceversa, e quindi tutto quello che avviene nel cosmo deve essere così, non possiamo fare nulla per cambiarlo, per sopravvivere dobbiamo costringerci a comprendere che ciò che i sensi vogliono va contro la ragione, e deve quindi essere abbandonato. Il panteismo è una delle soluzioni possibili al problema di dare un senso all’esistenza: il mondo è assoluto, e quindi necessario e razionale. Tutto ciò che avviene,avviene giustamente: lo verificherai, se osservi con attenzione. Non dico soltanto nel senso che avviene in giusta conseguenza, ma nel senso che avviene secondo giustizia e come per opera di qualcuno che assegna quanto spetta secondo il merito19. Lettere a Lucilio Le Epistulaemorales ad Lucilium (Lettere morali a Lucilio) sono una raccolta di 124 lettere (suddivise in 20 libri) scritte da Lucio Anneo Seneca20 al termine della sua vita. L'opera venne scritta negli anni del disimpegno politico, tra il 62 e il 65, ed è giunta a noi incompleta. Questo epistolario costituisce un caso unico nel panorama letterario latino, sebbene Seneca abbia tratto l'idea di comporre lettere filosofiche da Platone e da Epicuro. È un'opera sulla quale v'è una discussione se siano davvero lettere inviate da Seneca a Lucilio o siano una finzione letteraria, ma probabilmente si tratta di un epistolario reale, dato che in varie lettere si chiede una risposta dell'amico. Rispetto alla tradizione epistolare, rappresentata in particola- 19 20 Cfr. A me stesso di Marco Aurelio, libro quarto, 10. Lucio Anneo Seneca, in latino Lucius Annaeus Seneca, anche noto come Seneca o Seneca il giovanenato a Corduba il 4 a.C. e morto a Roma nel 65 è stato un filosofo, drammaturgo e politico romano, esponente dello stoicismo. 28 LO STOICISMO re da Cicerone, il filosofo distingue le lettere filosofiche dalla comune pratica epistolare21. Analizziamo ora alcune di queste lettere: Comportati così , Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così , come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto. 2 Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va. 3 Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire22. Prima lettera: il tema principale è il tempo, cosa particolare per la filosofia antica. La maggior parte della vita la buttiamo nell'irrazionalità delle passioni, mentre altra parte del tempo la buttiamo nel non far nulla. In realtà dunque perdiamo tutto il tempo nel fare ciò che non dovremmo. È il nostro stesso esistere che ci sfugge tra le mani dunque è come se morissimo ogni giorno. 21 Cfr.https://it.wikipedia.org/wiki/Epistulae_morales_ad_Lucilium Prima lettera: cfr. http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/SenecaLettereLucilio.pdf 22 29 LO STOICISMO Lo spazio surroga il tempo, il tempo è come se fosse spazio, perché è solo così che noi umani possiamo dominarlo, ma Seneca non può pensarlo così perché non c'era ancora la scienza, però gli viene istintivo dire che il futuro è davanti a noi come se fosse spazialmente davanti a noi. Noi siamo portati istintivamente a pensare che il futuro stia davanti a noi, ed è quello che dice anche lui, però al contempo dice che la morte è dentro di noi visto che al contempo sto vivendo ma anche morendo. Niente ci appartiene solo il tempo è nostro, possiamo vivere senza molte cose ma non senza il tempo perché noi siamo il tempo. Mi scrivi che hai dato a un tuo amico delle lettere da consegnarmi; mi inviti poi a non discutere con lui di tutto quello che ti riguarda, poiché tu stesso non ne hai l'abitudine. Così nella stessa lettera affermi e poi neghi che quello è tuo amico. Se usi una parola specifica in senso generico e lo chiami amico come noi chiamiamo "onorevoli" tutti quelli che aspirano a una carica pubblica, oppure salutiamo con un "caro" chi incontriamo, se il nome non ci viene in mente, lasciamo perdere23. Il tema principale è l'amicizia, poiché dopo la fine della politica i rapporti sociali vengono meno e restano solo le amicizie. Mi chiedi che cosa secondo me dovresti soprattutto evitare? La folla. Non puoi ancora affidarti a essa tranquillamente. Quanto a me, ti confesserò la mia debolezza: quando rientro non sono mai lo stesso di prima; l'ordine interiore che mi ero dato, in parte si scompone. Qualche difetto che avevo eliminato, ritorna. Capita agli ammalati che una prolungata infermità li indebolisca al punto di non poter uscire senza danno: così è per me, reduce da una lunga malattia spirituale. 2 I rapporti con una grande quantità di persone sono deleterî: c'è sempre qualcuno che ci suggerisce un vizio o ce lo trasmette o ce lo attacca a nostra insaputa. Più è la gente con cui ci mescoliamo, tanto maggiore è il rischio. Ma non c'è niente di più dannoso alla 23 Seconda lettera: cfr. http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/SenecaLettereLucilio.pdf 30 LO STOICISMO morale che l'assistere oziosi a qualche spettacolo: i vizi si insinuano più facilmente attraverso i piaceri. 3 Capisci che cosa intendo dire? Ritorno più avaro, più ambizioso, più dissoluto, anzi addirittura più crudele e disumano, poiché sono stato in mezzo agli uomini. Verso mezzogiorno sono capitato per caso a uno spettacolo; mi attendevo qualche scenetta comica, qualche battuta spiritosa, un momento di distensione che desse pace agli occhi dopo tanto sangue. Tutto al contrario: di fronte a questi i combattimenti precedenti erano atti di pietà; ora niente più scherzi, ma veri e propri omicidi. I gladiatori non hanno nulla con cui proteggersi; tutto il corpo è esposto ai colpi e questi non vanno mai a vuoto. 4 La gente per lo più preferisce tali spettacoli alle coppie normali di gladiatori o a quelle su richiesta del popolo. E perché no? Non hanno elmo né scudo contro la lama. Perché schermi protettivi? Perché virtuosismi? Tutto ciò ritarda la morte. Al mattino gli uomini sono gettati in pasto ai leoni e agli orsi, al pomeriggio ai loro spettatori. Chiedono che gli assassini siano gettati in pasto ad altri assassini e tengono in serbo il vincitore per un'altra strage; il risultato ultimo per chi combatte è la morte; i mezzi con cui si procede sono il ferro e il fuoco. 5 E questo avviene mentre l'arena è vuota. "Ma costui ha rubato, ha ammazzato". E allora? Ha ucciso e perciò merita di subire questa punizione: ma tu, povero diavolo, di che cosa sei colpevole per meritare di assistere a questo spettacolo? "Uccidi, frusta, brucia! Perché ha tanta paura a slanciarsi contro la spada? Perché colpisce con poca audacia? Perché va incontro alla morte poco volentieri? Lo si faccia combattere a sferzate, che si feriscano a vicenda affrontandosi a petto nudo." C'è l'intervallo: "Si scanni qualcuno, intanto, per far passare il tempo." Non capite nemmeno questo, che i cattivi esempi si ritorcono su chi li dà? Ringraziate gli dei perché insegnate a essere crudele a uno che non può imparare24. Senatores probi viri senatus mala bestia, ovvero: i senatori sono buoni uomini, il senato è una cattiva bestia. Singole persone sono buone ma se vengono messe insieme possono diventare cattive. Quando stanno insieme le soglie dell'attenzione cambiano e diventano quasi come invasate. Io divento disumano perché incontro gli 24 Lettera sette: cfr. http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/SenecaLettereLucilio.pdf 31 LO STOICISMO uomini e questo è un paradosso. Un paragone possibile è il divertimento nelle arene dove si vedeva uccidere le persone. Inoltre dice che l'anima è qualcosa che va curata come il corpo come diceva Epicuro. Seguite questa sana e salutare regola di vita: concedete al corpo solo quanto basta a mantenerlo in salute. Bisogna trattarlo con una certa durezza perché non disobbedisca alla mente: il cibo deve estinguere la fame, il bere la sete, i vesti devono proteggere dal freddo, la casa difendere dalle intemperie. Non importa se è stata costruita con zolle o con marmo variegato di importazione: sappiate che un tetto di foglie copre bene quanto uno d'oro. Ornamenti e fregi ottenuti grazie a inutili fatiche, disprezzateli tutti; pensate che nulla è straordinario tranne l'anima e per un'anima grande nulla è grande." 6 Dico queste cose a me stesso, le dico ai posteri; e non mi rendo più utile secondo te che se mi presentassi come difensore in giudizio o imprimessi il sigillo ai testamenti o mettessi gesto e voce a servizio di un candidato senatoriale? Credimi, fa di più chi sembra che non faccia niente: si cura nello stesso tempo delle faccende divine e di quelle umane25. Il corpo deve ricevere il minimo per rimanere in vita e non servono cibi prelibati o ingenti quantità di cibo come diceva Epicuro. 25 Lettera otto: cfr. http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/SenecaLettereLucilio.pdf 32 L'ASTRONOMIA L'esperienza originaria Se una notte serena e senza luna un viaggiatore andando per boschi e colline trovasse un punto di osservazione alto e aperto, lontano dalle luci delle città, e si fermasse e alzasse gli occhi, assisterebbe ad uno dei più grandi ed emozionanti spettacoli della natura: il cielo stellato si aprirebbe davanti ai suoi occhi come uno scrigno pieno di pietre preziose. Stelle grandi e piccole, scintillanti come cose vive, così numerose da non poter essere contate (nessuno crederebbe che le stelle visibili a occhio nudo sono solo seimila circa), riempirebbero la notte buia, sullo sfondo della Via Lattea, una vaga luminescenza che taglia diagonalmente il cielo. Se il nostro viaggiatore potesse fermarsi abbastanza a lungo nel suo luogo di osservazione potrebbe anche costatare che gli innumerevoli punti luminosi nel cielo non stanno fermi e immobili, ma si spostano maestosamente e misteriosamente tutti insieme, come obbedendo a una forza se- Cfr.http://www.nationalgeographic.it/fotografia/2011/05/18/foto/fotografie_spazio_notte338350/2/#media greta, con un lento moto da est verso ovest che li fa sorgere a oriente e a tramontare a occidente. Gli uomini hanno sempre avuto sotto gli occhi questo spettacolo notte dopo notte, fin dai tempi della preistoria. Essi, a partire da un certo momento, cominciarono a interpretarlo come l'effetto di un'immensa sfera trasparente ma rigida su cui erano incastonati gli astri, considerati spesso come divinità. Alcuni di essi, le stelle, non modificavano mai la loro posizione relativa muovendosi sempre insieme; altri invece, in particolare il sole e la luna, 33 L’ASTRONOMIA si spostavano su questo sfondo grandioso come in una cavalcata senza fine. I primi furono i greci I primi greci condividevano queste idee di base e avevano imparato a usare il cielo per scopi pratici, senza porsi troppi problemi sul piano teorico. Ulisse per esempio tornando verso Itaca, usa le stelle per orientarsi, mentre Esiodo26, l'altro grande poeta greco arcaico, le sfrutta come «calendario» per i lavori agricoli. Nasce l'astronomia Le cose cominciarono a cambiare quando sulle coste della Ionia, nell'attuale Turchia, nacque la filosofia. I primi pensatori, nel loro sforzo di fornire una spiegazione razionale di tutta la realtà, costruirono tra il VI e il V secolo a.C. le prime interpretazioni «scientifiche» del cielo, ottenendo alcuni interessanti risultati: Talete (VI secolo a.C.) per esempio riusciva già a prevedere le eclissi, mentre Parmenide (VI-V secolo) intuì che la terra è sferica ed Empedocle (V secolo) spiegò le eclissi col passaggio della luna davanti al sole. Agli inizi del IV secolo si era formata un'immagine abbastanza precisa del cosmo: la Terra, sferica, era immobile al centro, mentre le stelle venivano trascinate attorno alla Terra da un'immensa sfera che compiva un giro completo al giorno ruotando attorno ai poli, dando così l'impressione che gli astri «sorgessero» e «tramontassero». Sullo sfondo delle stelle si muovevano il Sole, la Luna e gli altri pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno). Ma qui cominciavano i problemi. Prima del telescopio, inventato da Galilei27 nel 1610, fare astronomia poteva significare solo studiare le posizioni degli astri e i loro spostamenti. A occhio nudo infatti è impossibile distinguere un pianeta da una stella: entrambi appaiono come un semplice puntino luminoso, anche se alcuni pianeti (per esempio Marte) possono presentare notevoli cambiamenti di luminosità. L'unica vera differenza 26 Esiodo nato adAscra nel VIII secolo a.C. e morto nella stessa nel VII secolo a.C. è stato un poeta greco antico, le cui opere sono fatte risalire al periodo tra la fine dell'VIII secolo e l'inizio del VII secolo a.C. 27 Galileo Galilei nato a Pisa il 15 febbraio 1564 e morto ad Arcetri l'8 gennaio 1642 è stato un fisico, astronomo, filosofo e matematico italiano, considerato il padre della scienza moderna. 34 L’ASTRONOMIA osservabile a occhio nudo tra le stelle e i pianeti è che questi ultiminel corso del tempo si spostano rispetto alle stelle28. Questo vuol dire che se si osserva tutti i giorni più o meno alla stessa ora un pianeta si vedrà che nel corso di qualche settimana esso si sposta rispetto alle stelle che lo accompagnavano all'inizio del periodo delle osservazioni. I pianeti Si potrebbe pensare che, esattamente come le stelle fisse, anche gli «astri erranti» (cioè i pianeti) siano trascinati attorno alla Terra da una loro sfera. Purtroppo un'osservazione condotta per qualche tempo, anche senza strumenti sofisticati, mostra subito che il moto di questi astri non si lascia spiegare in modo così semplice. Esso infatti è molto irregolare: non solo i pianeti nel corso dei mesi sembrano rallentare o accelerare, ma in certi periodi sembrano addirittura fermarsi rispetto allo sfondo delle stelle fisse e tornare indietro (oggi questo fenomeno è detto «moto retrogrado»). 28 La parola «pianeta» deriva non a caso da un verbo greco che significa «vagabondare». 35 L’ASTRONOMIA Queste anomalie finirono ben presto al centro dell'attenzione di quanti studiavano la natura, e cercare di darne una spiegazione fu il compito principale, anche se non l'unico, che si assunsero gli astronomi greci. Noi oggi possiamo sorridere delle soluzioni che essi proposero: non dobbiamo però dimenticare che sono stati necessari 36 L’ASTRONOMIA secoli per accettare una realtà (il Sole immobile con al Terra e i pianeti che gli girano attorno) che è in totale contrasto con quello che i sensi ci mostrano. Bisogna anche considerare che fin quando ci si ferma all'aspetto cinematico del problema, ossia quando si considerano solo i movimenti, come facevano i greci, senza considerare le forze in gioco (livello dinamico), il sistema eliocentico (col Sole al centro del sistema solare) e quello geocentrico (con la Terra al centro) sono perfettamente equivalenti. Si verifica insomma su scala enormemente maggiore lo stesso fenomeno che noi tutti sperimentiamo quando, per esempio, ci troviamo su un treno in stazione e guardando fuori dal finestrino non riusciamo a stabilire se è il nostro treno che si muove o quello accanto che si muove in senso contrario.Gli astronomi greci, quindi, hanno diritto a molte attenuanti. Essi, rispetto ai colleghi egiziani e soprattutto babilonesi che in quel periodo avevano raggiunto notevoli risultati nel campo dell'osservazione dei fenomeni celesti, avevano un formidabile vantaggio: potevano disporre degli strumenti di calcolo forniti dai primi sviluppi della geometria scientifica, nata proprio in quegli stessi decenni. Secondo la tradizione sarebbe stato il grande filosofo Platone a porre per la prima volta in termini chiari ed espliciti il problema di come spiegare i moti dei pianeti usando solo moti circolari e uniformi. Anche se oggi gli storici della scienza dubitano che le cose siano andate così, questa prescrizione ebbe un'importanza enorme per la storia della scienza, perché condizionò tutta la storia dell'astronomia fino a Keplero29 (inizi XVII secolo), il primo che introdusse le ellissi per descrivere le orbite dei pianeti. Lo stesso Copernico per esempio, che pure rovesciò l'altro postulato dell'astronomia classica (la terra posta al centro dell'universo), continuò a usare moti circolari uniformi. L'idea di poter e dover usare solo moti circolari e uniformi era dovuta a ragioni in parte filosofiche e in parte religiose, in quanto il cerchio è simbolo della perfezione e il moto circolare uniforme è quello che si avvicina di più all'immobilità divina. Nell'antichità la 29 Giovanni Keplero nato ad Weil derStadt il 27 dicembre 1571 e morto a Ratisbona il 15 novembre 1630 è stato un astronomo, astrologo, matematico e teologo evangelico tedesco, che scoprì empiricamente le omonime leggi che regolano il movimento dei pianeti. 37 L’ASTRONOMIA prima teoria astronomica completa e coerente con questi principi fu formulata dal matematico Eudosso di Cnido30, che studiava presso l'Accademia di Platone. La teoria di Eudosso In base alla sua teoria, un pianeta si comporta come se fosse incastonato su un punto dell'equatore di una sfera di immense dimensioni. Questa sfera però, a differenza della visione ormai tradizionale, fa parte di un gruppo di sfere aventi tutte lo stesso centro, ossia la Terra (per questo la teoria è nota come «omocentrica»). Ogni sfera ha un'inclinazione e una velocità di rotazione diverse, e le trasmette meccanicamente alle sfere più piccole che stanno al suo interno (le sfere infatti sono pensate come se fossero connesse le une alle altre tramite i loro assi di rotazione). Il movimento del pianeta, visto dalla Terra che è al centro della sfera, è il risultato del moto di tutte le sue sfere. Eudossoin particolare aveva scoperto che se due di queste sfere ruotano in direzione opposta l'una rispetto all'altra il pianeta percorre una curva particolare a forma di otto (detta «ippopede» perché assomiglia alle pastoie dei cavalli, ma che in effetti è una lemniscata sferica, risultante dell'intersezione di una sfera e di un cilindro che la tocchi internamente in un solo punto). 30 Eudosso di Cnido nato aCnido nel 408 a.C. e morto nella stessa nel 355 a.C. è stato un matematico e astronomo greco antico, cui sono attribuiti risultati di grande importanza, fondamentali per il costituirsi della matematica come scienza. 38 L’ASTRONOMIA Tale curva assomiglia molto alle traiettorie disegnate in cielo dai pianeti e perciò serviva ottimamente allo scopo diEudosso: egli infatti non voleva tanto spiegare come sono fatti realmente i cieli, quanto descrivere con buona approssimazione i movimenti degli astri usando solo moti circolari uniformi. Il sistema omocentrico era complicato ma soprattutto presentava anche delle difficoltà insormontabili. La più grave era il fatto che i pianeti, in particolare Marte, cambiano periodicamente luminosità, come se la loro distanza dalla terra cambiasse con la stessa frequenza (e noi oggi sappiamo che in effetti è proprio così). La teoria di Eudosso invece prevedeva che i pianeti fossero sempre alla stessa distanza dalla Terra e quindi, per usare la terminologia di oggi, non poteva risolvere questa anomalia o, per usare quella greca, non riusciva a «salvare i fenomeni». Come teoria astronomica perciò dovette essere rapidamente abbandonata dagli specialisti.Tuttavia, prima che potesse essere sostituita da qualcosa di più convincente, apparve sulla scena il grande filosofo Aristotele (seconda metà IV sec. a.C.), che non trovando niente di meglio inglobò la teoria delle sfere omocentriche nella sua cosmologia. Aristotele, a differenza di Eudosso, voleva spiegare la natura e perciò interpretò le sfere omocentriche come se fossero delle realtà fisiche, realmente esistenti. Con lui il cosmo diventò un immenso e affascinante meccanismo, che si muoveva secondo uno schema ordinato e meraviglioso. La fisica di Aristotele, dopo un periodo di oblio, fu riscoperta dagli arabi e poi trasmessa a tutto il mondo occidentale come «il» sapere sulla natura e sul cosmo. Per molti secoli Aristotele rappresentò l'autorità somma nel campo della conoscenza della natura: fu attraverso di lui che la teoria di Eudosso, nata come strumento matematico, condizionò la cosmologia, la filosofia e in ultima analisi la visione del mondo per i successivi duemila anni circa. Oltre Eudosso Gli astronomi che vennero dopo Aristotele si comportarono invece esattamente come gli scienziati moderni: dal momento che il sistema di Eudosso poneva dei problemi che non poteva risolvere, essi cercarono altre soluzioni, completamente diverse. L'unico aspetto che rimase costante fu il fatto che venivano previsti solo moti circolari e uniformi. Nel corso del III secolo a.C. si diffusero così 39 L’ASTRONOMIA due nuovi modelli geometrici per interpretare il moto dei pianeti: quello detto «epicicloidale» e quello detto a «eccentrico». Nel primo, il pianeta ruota a velocità costante su un cerchio, detto appunto «epiciclo», il cui centro si sposta a sua volta su un cerchio più grande detto «deferente» con al centro la terra. Cfr.http://www.astronomia.com/wp-content/uploads/2010/07/moto-pianeta-esterno-tolomeo.jpg Nel secondo, il pianeta ruota su un cerchio il cui centro è spostato all'esterno della Terra. Non è noto chi abbia introdotto questi modelli. Essi sono equivalenti da un punto di vista geometrico e ottengono entrambi lo scopo di far variare la distanza dei pianeti dalla Terra (rendendo ragione della loro variazione di luminosità) riuscendo anche a giustificare il moto retrogrado dei pianeti. Non si trattava però di una descrizione della «realtà», come se nel cielo esistessero veramente delle specie di gigantesche «manovelle», ma solo di ipotesi introdotte per giustificare il movimento dei pianeti. In effetti, anche a causa dello scarso numero di osservazioni che gli astronomi avevano a disposizione, i due sistemi riuscivano a interpretare i fenomeni osservati in modo convincente, e apparivano perciò una conferma del presupposto secondo cui il moto fondamentale fosse quello circolare e uniforme. L'astronomia ellenistica Nel periodo ellenistico (323-146 a.C.) l'astronomia greca migliorò notevolmente rispetto a quella babilonese o egizia perché seppe sfruttare lo sviluppo della geometria, in particolare la sua sistemazione in un tutto organico e coerente a opera di Euclide. Fu questo 40 L’ASTRONOMIA fatto che permise agli scienziati greci di ottenere alcuni dei loro risultati più notevoli. Per esempio Aristarco31, vissuto nel II sec. a.C., riuscì a progettare un sistema per determinare la distanza della Luna rispetto alla Terra: secondo i suoi calcoli essa era pari a 40 diametri terrestri (il valore corretto è circa 30,5). Esaminando poi le osservazioni condotte durante le eclissi aveva determinato anche la distanza tra la Terra e il Sole, dichiarandola pari a 760 diametri terrestri (qui Aristarco fu tradito dai suoi strumenti di osservazione: il valore corretto è circa 20 volte maggiore).L'astronomo che sfruttò al meglio le possibilità offerte dallo strumento matematico, introducendo per la prima volta l'uso delle funzioni trigonometriche e usando il calcolo per prevedere la posizione dei pianeti, fu Ipparco di Nicea32. Usando abilmente alcune osservazioni effettuate durante le eclissi di Sole e di Luna migliorò notevolmente la stima della distanza Terra-Luna (che fissò in un intervallo tra 29,5 e 33,6 diametri terrestri circa, ossia praticamente uguale a quello reale). Compilò uno dei primi cataloghi di stelle al mondo e mentre effettuava questo lavoro si accorse che le stelle modificano lentamente la loro posizione rispetto agli equinozi (ossia i punti sulla volta celeste in cui l'equatore celeste e l'eclittica si intersecano): è il fenomeno oggi noto come «precessione degli equinozi», una delle scoperte più importanti di tutta l'astronomia antica. Per dare un'idea dell'accuratezza delle osservazioni di Ipparco basti dire che questo lentissimo movimento è inferiore a 1° ogni cento anni. Tolomeo Tutte le conoscenze e i risultati dell'astronomia ellenistica confluirono nell'opera del più grande astronomo dell'antichità, Claudio Tolomeo, vissuto ad Alessandria d'Egitto tra 130 e il 175 d.C. La sua opera più famosa, universalmente nota col nome arabo di Almagesto, rimase il punto di riferimento in campo astronomico fino al XVII 31 Aristarco di Samo nato a Samo nel 310 a.C. circa e morto nella stessa nel 230 a.C. circa, è stato un astronomo greco antico. 32 Ipparco di Nicea, noto anche come Ipparco di Rodi o semplicemente Ipparco nato a Nicea nel 200 a.C. e morto a Rodi nel 120 a.C., è stato un astronomo, astrologo e geografo greco antico, noto principalmente per la scoperta della precessione degli equinozi. 41 L’ASTRONOMIA secolo. La rappresentazione dei moti celesti raggiunse in questo libro un notevole grado di complessità. Tolomeo infatti scelse di combinare insieme sia il modello a epicicli sia quello a eccentrici, in modo da usare gli epicicli per rappresentare alcune variazioni di velocità dei pianeti e gli eccentrici per rappresentarne altre. Tuttavia questo accorgimento non era ancora sufficiente per giustificare alcuni dati ricavati da certe osservazioni. Per poter includere anche questi dati Tolomeo fu costretto a formulare un'ulteriore ipotesi: il moto del pianeta è uniforme non rispetto alla Terra, da cui noi lo osserviamo, e neppure rispetto all'eccentrico (che era, ricordiamolo, il centro del cerchio su cui si muoveva il centro dell'epiciclo), ma rispetto a un terzo punto, detto «equante», simmetrico alla Terra rispetto all'eccentrico. Cfr.http://www.vialattea.net/spaw/image/astronomia/tolom1.gif I dati calcolati accettando questo postulato concordavano molto bene con i dati ricavati dall'osservazione di quasi tutti i pianeti (meno Marte: non a caso sarà proprio studiando la sua orbita che Keplero formulò all'inizio del Seicento le sue famose leggi sul moto dei pianeti). Di fatto il moto risultante da questi artifici introdotti «ad hoc» (cioè inventati per giustificare specifici risultati forniti dalle osservazioni) era molto simile a un ellisse, che è, come sappiamo oggi, l'orbita vera. Tolomeo però non poteva svincolarsi dal «paradigma scientifico» della sua epoca e continuò a sentirsi obbligato a usare solo moti circolari uniformi per descrivere le traiettorie dei pianeti. Nessuno scienziato dell'antichità o del medioevo riuscì a superare i risultati di Tolomeo. Tuttavia la sua teoria, come ogni teoria scientifica, era destinata a essere «falsificata» da un fatto che essa non 42 L’ASTRONOMIA riusciva a spiegare. Questo avvenne agli inizi del XVII secolo e segnò l'inizio di una nuova fase della storia dell'astronomia. Il moto di Marte Per accorgersi di questo moto irregolare dei pianeti non basta dare un'occhiata frettolosa in cielo e neppure osservare la volta stellata per una sola notte: in questo caso infatti quello che si osserverebbe sarebbe solo il moto diurno comune a tutti gli astri. Per accorgersi del fatto che i pianeti sono davvero «astri erranti» è necessario effettuare una serie di osservazioni alla stessa ora: solo così infatti ci si accorge che la posizione degli astri cambia in modo non uniforme. E' importante capire che il moto che l'immagine presenta non è il movimento del pianeta nel corso di una sola Moto del pianeta Marte: notte (in questo caso si muo- Cfr.http://www.astronomynotes.com/nakedeye/animations/ret rograde-anim.htm verebbero anche le stelle) ma la ricostruzione che si ottiene segnando a intervalli di una settimana la posizione del pianeta rispetto alle stelle delle costellazioni in cui si trova.Il pallino rosso che si sposta è Marte (ogni pallino indica la posizione del pianeta a distanza di una settimana), i pallini neri di varie dimensioni sono le stelle e le linee che uniscono alcune stelle indicano le costellazioni, indicate col nome scientifico latino. Il SomniumScipionis Il SomniumScipionis è il racconto di un sogno di Scipione Emiliano33 (protagonista di questo trattato ciceroniano), ospitato in Numidia dall'anziano re Masinissa, alleato dell'Africano. In questo sogno, racconta l'Emiliano, gli era apparso il nonno adottivo Scipione 33 Publio Cornelio Scipione Emiliano, detto anche Africano minore nato nel 185 a.C. e morto a Roma nel 129 a.C., è stato un militare e politico romano. 43 L’ASTRONOMIA 34 l'Africano : costui gli aveva predetto le sue glorie future e la sua morte prematura, mostrandogli però successivamente una visione delle sfere celesti e spiegando che il premio riservato dagli dèi alle anime degli uomini politici virtuosi sarebbe stato l'immortalità dell'anima e una dimora eterna nella Via Lattea. Affermando l'immortalità dell'anima e l'esistenza di un premio celeste per le buone azioni degli uomini, così come di un aldilà, Cicerone espone, inoltre, rifacendosi a stoici ed aristotelici, la sua visione del cosmo, in cui nella Via Lattea trovano pace le anime che hanno in vita operato per il bene dello Stato35. All'interno di quest'opera troviamouna visone del mondo molto reale e affine a quella moderna provata scientificamente. Da qui, a me che contemplavo l'universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano, tra l'altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene36; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l'astro che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa37. I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni Blue dot, foto scattata alla terra dalla sonda Voyager 1ad una distanza di 6 miliardi di kilometri risalente al 1990 scattata.Cfr.https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commo ns/7/71/PaleBlueDot.jpg 34 Publio Cornelio Scipione nato a Roma nel 236 a.C. e morto a Liternum nel 183 a.C., noto anche come Scipione l'Africano, è stato un politico e militare romano, appartenente alla gens Cornelia. 35 Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Somnium_Scipionis 36 Poiché si trovava nell'altro emisfero terrestre. 37 Ovvero la Luna. Il fatto che la luna brillasse di luce riflessa ci dice molto delle conoscenze di cui erano già in possesso a quei tempi. 44 L’ASTRONOMIA della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo(la terra è cosipiccola che il nostro desiderio di potenza in realtà non era nulla, un puntino microscopico nell’immensità del cosmo)38. Blue Marble è una famosa fotografia della Terra scattata il 7 dicembre 1972 dall'equipaggio dell'Apollo 17. 38 SomniumScipionis, 16. Cfr.http://www.classicitaliani.it/dante1/somnium.htm 45 CRISTIANESIMO Rapporto tra fede e ragione... ...termini contrapposti Prima di tutto occorre affrontare il rapporto tra fede e ragione, spesso interpretato in maniera scorretta a causa di una serie di preconcetti sulla natura di queste due realtà. Secondo il sentire comune moderno, formatasi durante la Riforma protestante luterana e sviluppatosi XVII secolo in un contesto dualista dal punto di vista gnoseologico e antropologico, la fede sarebbe essenzialmente un sentimento irrazionale: chi crede, deve sentire dentro di sé un «qualcosa» (descrivibile, almeno in prima approssimazione, come la «presenza» di Dio o il «sentimento» di Dio) che lo rende in qualche modo diverso dagli altri (i non credenti).In parallelo a questa interpretazione, sempre per la comune opinione occidentale moderna la ragione si ridurrebbe essenzialmente a una qualche forma di capacità di calcolo (che sia esso matematico o puramente logico) e quindi in ultima analisi si identifica con la razionalità scientifica. È evidente che tra una fede e una ragione concepiti in questo modo non è possibile alcun rapporto, e tanto meno alcuna collaborazione. Ragione e fede sono interpretati come due termini opposti e non complementari. Io devo scegliere: se voglio essere un credente devo rinunciare all'uso della mia ragione, se invece voglio usare la mia razionalità per organizzare la mia vita devo rinunciare al sentimento della fede. Secondo la Chiesa cattolica delle origini, invece, le cose stanno in modo completamente diverso: la fede è prima di tutto una esperienza che rinnova il significato di tutta l'esistenza e che nasce dall'incontro con il Cristo all’interno della comunità dei suoi fedeli; la ragione d'altro canto viene intesa in senso classico come la capacità di manifestare l’essere e quindi la possibilità per l'essere di manifestarsi. In questo modo i rapporti tra fede e ragione si configurano in termini non conflittuali: non è più necessario scegliere tra la razionalità e il sentimento, ma i due principi possono convivere pacificamente e anzi aiutarsi a vicenda. 46 CRISTIANESIMO Punti di vista della religione Contributi alla filosofia Se infatti la fede è prima di tutto un modo per riorganizzare la visione della totalità a partire dall'incontro con il Cristo, per svolgere questo compito ha bisogno di concepire l'uomo come «apertura al mondo», proprio come sostiene la tradizione classica quando interpreta il pensiero come manifestazione dell'essere. Lo stesso incontro con il Cristo è una «manifestazione» del divino, sia pure del tutto particolare. Viceversa dal punto di vista della ragione intesa come apertura alla totalità la fede è un potenziamento e insieme un approfondimento, dato che essa nasce dall'incontro di «qualcosa» che la ragione da sola non poteva né prevedere né immaginare. Non a caso, la Bibbia per esprimere l'esperienza della fede ricorre molto spesso all'immagine dell'amore, inteso come non come semplice sentimento interiore e solipsista ma come la scoperta e l'apertura all'Altro da sé. Le principali tematiche che il Cristianesimo introduce nella filosofia sono riunibili in due coppie: il tema della persona e della libertà il tema dell’esistenza e della creazione. Il tema della persona nasce agli inizi del IV secolo da una problematica squisitamente teologica, ovvero la necessità di parlare un Dio «uno e trino», come afferma il Credo niceno, senza dover ammettere l’esistenza di tre divinità distinte. Questo punto fondamentale della dottrina cattolica offre un ovvio bersaglio polemico ai nemici del Cristianesimo, perché sembra negare nel modo più plateale possibile il principio di non contraddizione, fondamento del pensiero umano: è facile capire quindi perché, non appena è possibile per i cristiani elaborare una organica riflessione teologica, esso viene posto al centro della loro attenzione. La risposta ruota attorno al concetto di «persona», che a Maschere teatrali della tragedia. Cfr: quanto pare fu introdotto per la 47 http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons /3/3c/Roman_masks.png CRISTIANESIMO prima volta nella teologia da Tertulliano39.La parola viene dal latino, dove indica la maschera teatrale che ha il compito non solo di rendere facilmente identificabili i personaggi ma anche di amplificare la voce dell'attore grazie alla sua forma particolare. La «persona» nella teologia cattolica Nella teologia cattolica la nozione di «persona»serve per indicare gli «attori»della storia della salvezza, così come si ricavano dalla tradizione consolidatasi nelle Scrittura: il Padre, il Figlio e lo Spirito. Il principio fondamentale dell'antropologia cristiana però, affermato fin nel libro del Genesi (versetto ventisette), sostiene che:«Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»: se Dio è «persona», quindi, anche l'uomo lo sarà. La caratteristica fondamentale della persona divina è la libertà, intesa come libero arbitrio. Dio infatti non può essere costretto da qualcosa o qualcuno che gli sia esterno a fare o a non fare qualcosa. Se così fosse non sarebbe più Dio, perché non sarebbe più il fondamento e il vertice del mondo, ciò al di là o al di sopra del quale non c'è più nulla. Dio è libero nel senso che non esiste una causa esterna a lui che lo possa obbligare a fare o a non fare qualcosa. Allo stesso modo l'uomo è libero perché nulla di esterno a lui, nemmeno Dio, può obbligarlo a fare o non fare qualcosa. La seconda caratteristica della persona divina è l'amore, inteso come Trinità, celebre icona di Andrej Rublev. capacità di donazione di sé all'altro. Cfr.http://upload.wikimedia.org/wikipedia /commons/0/0b/Angelsatmamre-trinityrublev-1410.jpg Nell'icona russa di Andrej Rublev40 è raffigura per mezzo di tre angeli, simili a quelli che visitarono Sara,la 39 Quinto Settimio Fiorente Tertulliano nato a Cartagine nel 155 circa e morto nella stessa nel 230 circa, è stato uno scrittore romano e apologeta cristiano, fra i più celebri del suo tempo. 40 Andrej Rublëv, nato a Mosca nel 1360 e morto nella stessa il 29 gennaio1430, è stato un pittorerusso, considerato il più grande pittore di icone. È venerato come santo dalla Chiesa ortodossa. 48 CRISTIANESIMO trinità. Questi angeli sono seduti attorno ad un tavolo quadrato con un lato vuoto che sembra invitare lo spettatore a sedersi al tavolo e a partecipare alla fede. L'antropologia cristiana Si delineano già alcune caratteristiche tipiche della antropologia cristiana prima di tutto in contrapposizione alla antropologia greca. Quest'ultima si basava sulla nozione di «psychè», cioè di principio vitale immateriale che deve essere ammesso per giustificare il fatto che il corpo umano «vive»: come abbiamo appena detto, l'antropologia cristiana si basa sul concetto di «persona». L'antropologia greca, nonostante qualche accenno in senso contrario, rimane fondamentalmente legata al cosiddetto intellettualismo etico di Socrate. Cosa sosteneva Socrate... Questi sosteneva che l’uomo fa necessariamente ciò che la ragione gli mostra come buono, e perciò non compie il male volontariamente. Il problema etico si risolve in un problema gnoseologico: se riesco a far conoscere veramente a un uomo cosa è il bene per lui, egli certamente lo farà. Se non lo fa, significa semplicemente che nonostante le sue eventuali affermazioni in contrario egli non ha ancora capito in modo autentico cosa sia il bene per lui. L'accento è messo sulla conoscenza. ...al contrario i cristiani Al contrario i teologi e i pensatori cristiani, come per esempio S. Paolo, amano ripetere: «Video meliora proboque, sed deteriora sequor» (Vedo le cose migliori e le approvo, ma segue lo peggiori), che in realtà una citazione dalle Metamorfosi di Ovidio (la frase è pronunciata da Medea per descrivere il suo dramma interiore). Non serve capire con l'intelletto cosa è il bene e quindi cosa dovrei astrattamente fare. Quello che conta veramente è ciò che decido liberamente di fare, e la mia libertà si spinge al punto che io posso anche decidere di rifiutare l'evidenza del bene, che invece per i greci dovrebbe condurmi all'assenso. L'accento è messo sulla volontà. Rapporto tra cultura greca ed ebraica L'antropologia cristiana si fonda sulla visione biblica dell'uomo, che a sua volta assorbe ed esprime una serie di concetti e di valori tipicamente semitici. Tuttavia questa concezione, molto diversa da 49 CRISTIANESIMO quella greca, si mescola in modo inestricabile e ambigua con quest'ultima prima ancora dell'avvento del Cristianesimo. L'occasione e la causa di questa evoluzione è la traduzione della Bibbia dall'ebraico al greco per la comunità ebraica di Alessandria di Egitto, dove c'era una maggioranza di neoconvertiti che non conoscevano l'ebraico. La traduzione viene affidata a una commissione di 70 saggi, da cui prende il nome con cui è attualmente nota (la «Bibbia dei Settanta»). Anche in questo caso ci concentreremo solo sui punti che possono interessare direttamen-te la filosofia e in particolare la antropologia. Versione bilingue moderna della Bibbia (in greco e in ebraico) Nella Bibbianon esiste una unica parola per indicare l'«uomo»: ne esistono invece almeno quattro, che sono nefěs, bâsâr, ruah e leb. Ciascuna di esse indica non una parte dell'uomo, ma l'uomo stesso nella sua completezza sebbene considerato da un particolare punto di vista. Nefěs indica l'uomo considerato dal punto di vista dei bisogni essenziali e dell'indigenza, cioè della mancanza di ciò che serve per vivere: quindi talvolta indica la parte anatomica che meglio simboleggia questo aspetto dell'uomo, e cioè la gola. Bâsâr indica la carne nel senso più ampio del termine, tanto che viene usata anche per indicare gli animali o, tra le parti del corpo, indica quella legata alla riproduzione sessuale. Tuttavia 50 CRISTIANESIMO prevale il senso per il quale l'uomo, nel suo complesso, è impotente quando rinuncia all'amicizia con Dio. Viceversa ruah indica proprio la potenza di Dio e dell'uomo quando accetta il piano che Dio ha su di lui Infine leb indica la razionalità dell'uomo intesa in un senso molto ampio, dato che comprende sia il sentimento, la ragione e la volontà. È fondamentale capire che per la cultura ebraicosemitica la conoscenza si ottiene non con la ricerca intellettuale, ma con l'ascolto. È per questo che la sede del leb è il cuore, non il cervello. Difficoltà nella traduzione Il problema è che queste parole non hanno corrispondenti esatti né in greco né in latino e a maggior ragione in italiano. I saggi che traducono la Bibbia dei Settanta devono quindi compiere delle scelte difficili, che condizioneranno poi tutto il modo di interpretare l'esperienza religiosa ebraico - cristiana. Nefeš quindi viene tradotto con psychè e poi con anima, bâsâr con soma e quindi con caro, ruah con pneuma tradotto poi in latino con spiritus e infine leb con kardia e poi cor.Ma le parole usate nella cultura greca esprimono principi tipici della cultura greca e completamente diversi da quelli ebraici: psyché è il principio vitale del movimento, che deve in qualche modo unirsi al soma, il corpo fisico che lasciato a se stesso non può vivere. Il senso viene così modificato Il solo fatto di usare queste parole ha modificato il senso stesso del testo biblico, introducendovi una interpretazione dualistica della vita che era del tutto assente nella versione originaria. In particolare, la psyché di Platone è intrinsecamente immortale ed è pienamente se stessa solo quando si libera del corpo; al contrario, la nefeš ebraica è talmente unita al corpo che la Bibbia non parla mai di immortalità dell'anima ma solo di resurrezione dei corpi. Un'idea differente di Dio Questo però non basta a far comprendere e condividere la nuova dottrina ai Greci, i quali non possono accettare né che Dio si possa fare uomo, né l'idea che l'amore possa essere un moto spontaneo del superiore (Dio) nei confronti dell'inferiore (l'uomo).Non a caso 51 CRISTIANESIMO nella mitologia greca le divinità si uniscono alle donne solo mediante la forza o l’inganno. Al contrario nell’episodio dell’Annunciazione cristiana l'angelo chiede a Maria il suo consenso. Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso,assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra;e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre41. "Annuncizione" del Beato Angelico (Museo del Prado, Madrid) 41 Cfr. Inno cristologico (fil 2,6-11). 52 CRISTIANESIMO Annunciazione di Leonardo (Museo degli Uffizi) 53 PLOTINO Chi è Plotino? È uno degli autori più difficili e importanti della storia della filosofia e il suo pensiero emerge nei luoghi più impensati. Il suo pensiero rappresenta una delle possibili opzioni ontologiche e metafisiche nella rilettura della realtà. Dal punto di vista culturale Plotino42 rappresenta la risposta greca al cristianesimo, che rappresentava una sfida mortale, e costituisce di fatto una sintesi di tutta la filosofia ellenica, in particolare di Aristotele e Platone.Al centro della riflessione di Plotino è il problema Plotino nella scuola di Atene di Raffaello Sanzio. Cfr.http://www.parlandosparlando.com/wpdell'essere: quale struttura content/uploads/2013/10/Scuola-di-Atene-PlotinoRaffaello.jpg esso abbia, come possano conciliarsi unità e molteplicità, immobilità e movimento, eternità e tempo. 42 Plotino nato a Licopoli nel 203/205 e morto a Minturno nel 270 è stato un filosofogreco antico. È considerato uno dei più importanti filosofi dell'antichità, erede di Platone e padre del neoplatonismo. 54 PLOTINO L'ontologia Plotino parte da Aristotele, che aveva notato la coestensione del concetto di essere e unità: questo significa che là dove c’è essere c’è unità, e viceversa dove c’è unità c’è essere. Posso dire che qualcosa esiste solo perché questo si presenta come qualcosa di unitario. Plotino fa l’esempio del gregge o dell’esercito: diciamo che un gregge e un esercito esistono quando vediamo un gruppo di pecore o di uomini. Ma se uno dei due insiemi si disperde non esiste più ma le ciò che lo formava sì: le pecore per essere chiamate gregge e i soldati per essere chiamati esercito devono formare un’unità, se no non esistono più come tale. Il passo successivo è di carattere platonico: da dove viene l’unità alle cose? La risposta è: dalla partecipazione all’Unità in quanto tale. Plotino introduce la parola Uno (Hen) come concetto ontologico. Le cose esistono perché sono une, e questa unità deriva dalla partecipazione con l’unità in quanto tale, con l’Uno in sé. 55 PLOTINO Ma cosa possiamo dire dell'Uno in sè? Se l’Uno deve essere davvero uno, non deve avere in sé nessuno forma di molteplicità. Deve essere assolutamente uno, puro, inscindibile, indiveniente, eterno. Non deve avere al proprio interno nessuna forma di molteplicità, nemmeno la più piccola. Questo ci costringe però, paradossalmente, a non poter ammettere nessuna qualità dell'Uno. Infatti se noi diciamo: L’uno è bello, oppure L’uno è immodificabile o addirittura L’uno è unitario aggiungiamo all’Uno qualcosa, poiché se il «bello» è in qualche modo «dentro» l’Uno (dato che predico l'aggettivo «bello» dell'Uno) allora l'Uno è «due», cioè una molteplicità, dato che deve essere insieme «uno» e «bello».In altre parole se l'Uno deve essere concepito come totalmente unitario allora di esso non possiamo propriamente dire nulla. La stessa parola uno è contraddittoria L'uno come Ipostasi Plotino è così rigoroso nel trarre le conseguenze della sua impostazione da affermare che l'Uno non è causa, non è il bene, non è il pensiero, non è l'essere, non è propriamente nemmeno Dio e a rigor di termini non può neanche venir definito come Uno: esso possiamo dire solo ciò che non è. («lo stesso nome «Uno» non significa altro che la negazione della molteplicità e, dunque, solo indirettamente lo designa43»).In questo modo Plotino diventa l'iniziatore di quella che verrà chiamata in seguito «teologia negativa» [clicca qui per un approfondimento] Il suo fondamento è totalmente trascendente, ossia totalmente al di là di quello che noi possiamo conoscere. È qualcosa che esiste, ma in un modo tale che noi non possiamo parlarne se non per ana43 Enneadi, V,6,5 56 PLOTINO logie e simboli. Plotino per descrivere questa situazione inventa una parola nuova: l’Uno è ipostasi, cioè ciò che esiste in modo autonomo.L'Uno è la «categoria delle categorie», la «forma delle forme» (o la «forma senza forma») in cui possiamo scorgere l'idea platonica di bene; è la fonte perenne da cui ogni cosa scaturisce e verso cui tende a tornare.L'Uno è (se vogliamo utilizzare una terminologia religiosa) un «dio senza nome». Esso rappresenta una delle immagini più astratte della divinità che mai siano state concepite, ben lontano sia dal demiurgo platonico (sottoposto alle idee) e dal «creazionismo» del Dio ebraico - cristiano (che vuole creare il mondo e che lo ama).L'Uno di Plotino non «crea», propriamente parlando, qualcosa che è «altro da lui», cioè un mondo distinto dall'Uno stesso (come invece avviene nella tradizione ebraico - cristiana) ma si autopone liberamente, essendo infinita potenza che necessariamente si espande. Le altre Ipostasi Nella cultura greca è impensabile che i principi ontologici opposti (ovvero «essere» e «non essere») possano entrare direttamente in contatto. Per questo Plotino introduce una seconda ipostasi, detta Nous (pronuncia: «nus», «Spirito»), che corrisponde esattamente al mondo delle idee platoniche e che serve ad attenuare l'abisso vertiginoso che separa l'Uno dal mondo delle cose che noi vediamo. Ma nemmeno il Nous basta a spiegare il mondo delle cose, caratterizzato dalla trasformazione e dal divenire (caratteristiche opposte a quelle del Nous): perciò Plotino recupera la nozione di Anima del mondo (anima mundi), anch'essa derivata da Platone. Le tre Ipostasi Esistono quindi tre ipostasi: Uno, Nous o Spirito e Anima. L'Uno, suprema potenza, è centro di un processo di «irradiazione» (perilampsis) che è essenzialmente una autocontemplazione di sé da parte dell'Uno: non esiste propriamente nulla al di fuori dell'Uno, che l'Uno possa in qualche modo contemplare. Grazie a questo processo l'Uno «non esce da sé» ma «produce in sé» la sovrabbondanza d'essere di cui è portatore. Con ciò non si depotenzia, non si sminuisce, non cambia ma, semplicemente, «è ciò che dev'essere». 57 PLOTINO L’uno è tutte le cose e non è nessuna di esse: infatti il principio di tutto non è il Tutto; Egli è il tutto, in quanto il tutto ritorna a Lui; e cioè nell’Uno non si trova ancora, ma vi si ritroverà. Egli infatti è perfetto perché nulla cerca e nulla possiede e di nulla ha bisogno; e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera un’altra cosa. Ma l’Essere così generato si volge a Lui e tosto ne è riempito e, una volta nato, guarda a se stesso e questa è l’Intelligenza. E così l’Essere, essendo simile a Lui, genera ciò che gli è affine, riversando fuori la sua grande potenza; ma anche questa è un’immagine di Colui che, prima di lui manifestò la sua potenza. Questa forza che procede dall’Essere è l’Anima, ma questa diviene, mentre l’Intelligenza è immobile, poiché anche l’Intelligenza nacque mentre Colui che è prima di lei persiste nella sua immortalità44. L'uno come emanazione Per descrivere questo processo produttivo Plotino usa una serie di efficaci immagini metaforiche (ricordiamo che propriamente parlando noi non dovremmo dire nulla dell'Uno). Una delle più efficaci è l'immagine della luce che s'irradia in ogni direzione senza, per questo, veder diminuito il proprio splendore. Cfr.http://xnoybis.org/preview/gallery/5_02_08_12_9_20_29.png Il nous come indebolimento Dall'Uno, dunque, prima ipostasi, procede la seconda ipostasi, il Nous (o «Spirito»). Il processo di irradiazione è un processo di moltiplicazione e insieme per così dire di «indebolimento» della po44 Enneadi, V 2, 1, Bompiani 2004, pag. 815 58 PLOTINO tenza contemplatrice originaria, che resta qualitativamente la stessa (come la luce, che allontanandosi dal centro di emissione si indebolisce pur restando se stessa).Il Nous pensa se stesso ed è, nello stesso tempo, ciò che viene pensato: l'attività del pensiero richiede uno sdoppiamento del soggetto, che si rende «oggetto» a se stesso. L'anima si fa materia Dal Nous insieme «pensante» e «pensato» (oppure «conoscente» e «conosciuto») procede la terza ipostasi, l'Anima, che, pur continuando a partecipare della vita del Nous e quell'Uno, si fa materia, mondo e corpo, in quanto è una ulteriore moltiplicazione e frammentazione dell'unica e medesima energia contemplatrice originaria.L'Anima occupa una posizione intermedia tra mondo intelligibile e mondo sensibile: essa, da un lato, si volge verso il Nous e quindi partecipa della vita dell'Uno, cogliendo la luce delle idee; dall'altro, come Anima del mondo, produce, ai suoi estremi confini, la materia dell'universo fisico (è dunque physis) e, infine, si specifica nei singoli corpi viventi (come «anima individuale»). Le Ipostasi come un fuoco Per descrivere il rapporto tra le tre ipostasi Plotino tra l'altro la metafora del fuoco: la fiamma viva corrisponde all'Uno, perché è calore e luce insieme. Poi, come attorno al fuoco c’è una zona con luce e calore, così attorno all'Uno esiste il Nous. Infine c’è un’area molto più grande in cui si vede il fuoco ma non si sente il calore, e questa fascia corrisponde all'Anima. Il mondo che noi vediamo è l’ultimo segno del fuoco, è l’uno indebolito dai passaggi. Cfr.https://c2.staticflickr.com/4/3072/2750329080_3837accbf2.jpg 59 PLOTINO Panteismo acosmista Questo significa che l’Uno esprime una trascendenza assoluta, è totalmente al di là di quello che noi possiamo intuire. Questa è la risposta greca alla visione ebraico - cristiana. Nella bibbia c’è infatti un passo del profeta Isaia che dice “tu es deus absconditus” (tu sei un dio nascosto). L’esperienza religiosa ebraico - cristiana parla di un Dio trascendente, altro dal mondo. Plotino risponde dicendo che è vero, ciò da cui tutto inizia è totalmente trascendente. L’unità deve derivare da un’unità fondamentale, priva di tutte le caratteristiche, per cui non può essere detto e colto. Se tutto è prodotto dall’energia dell’uno, allora ogni cosa è una forma di questo Uno. Per Plotino è l’Uno che, grazie alla sua energia, produce il mondo. L’Uno è ciò da cui deriva tutto il resto: in qualche modo "è" anche tutto il resto. Plotino rappresenta una delle varianti del panteismo, ossia di quella posizione filosofica per la quale c'è identità tra il "fondamento" e il "mondo". La caratteristica del panteismo di Plotino è di essere un "panteismo acosmista": il mondo (cioè il cosmo) non ha una sua vera consistenza ontologica. Le cose esistono solo come proiezioni, in qualche modo, dell'Uno, come se fossero solo degli ologrammi. L’immagine che nel medioevo è usato per rappresentare questo è quella del raggio che colpisce un cristallo: il raggio di luce è sempre uguale a sé, eppure è diverso, si indebolisce come intensità, diventa colorato (ossia "altro da sè", in qualche modo). Cfr.https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/59/Optical-dispersion.png 60 PLOTINO La teologia negativa L’Uno deve produrre il mondo, ma questo processo non può essere che necessario: il dio di Plotino non sarebbe se stesso se non producesse il mondo.Per questo è sbagliato parlare di creazione a proposito di Plotino, perché questo implicherebbe ammettere nell'Uno la possibilità di non produrre il mondo e allo stesso tempo la volontà (libera) di portarlo all'esistenza. Per Plotino: Dio+mondo>Diomondo Per la tradizione ebraicocristiana: Dio+mondo = Diomondo Questo significa che se il Dio cristiano avesse deciso di NON creare il mondo, la "quantità totale" di realtà sarebbe rimasta la stessa: l'Uno di Plotino è in qualche modo costretto a produrre il mondo, invece, perché altrimenti non sarebbe neppure se stesso. Il punto debole della posizione di Plotino è che anche lui finisce, contro le proprie intenzioni, per ammettere almeno una forma di dualismo: quella tra l’Uno e la necessità che gli impone di costituire il mondo. Plotino riprende esplicitamente il passo di Platone (alla conclusione dell'allegoria della caverna) in cui il sole (idea del bene) viene reinterpretato come Uno, come il bene che sta al di là delle eide. Il nostro pensiero è infatti legato al mondo delle idee, quando parliamo 61 PLOTINO facciamo riferimento alle eide platoniche. La parola esprime la connessione che il pensiero ha colto tra l’oggetto sensibile e l’eidos.L’Uno è al di sopra del livello cui si collocano sia il pensiero sia le parole: perciò è “ineffabile”, ossia indicibile. La prima parte dell’anima è in alto, vicina alla cima, eternamente soddisfatta e illuminata, e rimane lassù; l’altra parte, che partecipa della prima, in quanto ne partecipa procede eternamente, vita dalla vita; essa è infatti attività che si diffonde in ogni luogo ed è presente ovunque45. Dio non può essere descritto La materia e il male Plotino afferma infatti che se noi cogliessimo davvero l’Uno (l’assoluto, il fondamento di tutto il resto) lo trasformeremmo in una cosa tra le cose, ossia tradiremmo la sua più autentica natura. Se Dio esiste sicuramente non è una cosa tra le cose, non può essere paragonabile a nulla. Ma siccome le nostre parole e pensieri arrivano al massimo al livello delle eide platoniche non siamo in grado di cogliere il fondamento: non resta che la via della teologia negativa. Tutti coloro che hanno dichiarato di aver avuto una esperienza mistica, ossia di aver contemplato direttamente l’assoluto, e che poi hanno tentato di descriverlo, hanno detto: "è niente" (oppure: "è buio", oppure ancora, "è luce nella quale non si distingue nulla"). L'esperienza di Dio viene spesso descritta come "notte", "assenza", "buio": anche se è un’esperienza dolcissima, non può essere descritto con le parole che si usano normalmente. Le parole semplicemente non bastano e quindi si finisce per descrivere Dio con termini negativi, dicendo ciò che Dio non è, ossia si costruisce una teologia negativa. Il "niente" di cui i mistici parlano va inteso come un "ni-ente", ossia un "non-ente", una realtà diversa dalle cose che ci circondano (che sono gli enti). Si ammette che non si può dire quello che dio è, ma ci di deve accontentare di dire solo quello che non è. La materia, dunque, non è che l'ultimo esito del processo di irradiazione dell'Uno, è il margine d'ombra al limitare della luce, è man45 Enneadi, III 8, 5, 513. 62 PLOTINO canza e privazione di bene. Ma, si badi, non è, propriamente, il male. Il male, infatti, sta nella rinuncia dell'anima a percorrere la strada che riconduce all'Uno, il male è la "scelta" di rimanere nelle tenebre, il male è assenza di misura, indeterminatezza, instabilità, passività, non essere: esso, in definitiva, «non è sostanza»46. Ma se la materia rappresenta «il confine dell'anima» ed è l'ultimo effetto della cosmica irradiazione dell'Uno, allora si deve concludere che i corpi stanno dentro le anime . Da questo primato dell'anima sul corpo nasce l'orrore del nostro filosofo per la tesi cristiana della resurrezione dei corpi, destinata a diventare uno dei dogmi centrali della nascente religione. Dunque anche le anime? [tutt’insieme come l’Essere-Intelligenza] Sì, anche le anime, poiché ciò che fu detto “divisibile nei corpi” è tuttavia indivisibile per sua natura; i corpi invece sono estesi e l’essenza di anima è presente in essi: o meglio, sono i corpi che vengono generati in essa; e poiché quell’essenza si manifesta in ogni loro parte fino al limite della loro divisibilità, essa fu considerata “divisibile”. In realtà che essa non sia suddivisa nelle parti del corpo, ma sia intera da per tutto lo rende manifesto l’unità e l’effettiva indivisibilità della sua natura47. Il percorso di ritorno all'Uno Plotino, abbiamo visto, sostiene che se noi cogliessimo davvero l’Uno (l’assoluto, il fondamento di tutto il resto) lo trasformeremmo in una cosa tra le cose, ossia tradiremmo la sua più autentica natura. Se Dio esiste sicuramente non è una cosa tra le cose, non può essere paragonabile a nulla. Ma siccome le nostre parole e pensieri arrivano al massimo alle eide platoniche non siamo in grado di percepirlo. Per Plotino la possibilità di cogliere l’Uno è legata a un lungo processo di purificazione interiore, paragonabile a quello del Simposio platonico (alla scala di eros). Questo processo di purificazione è un progressivo abbandono della molteplicità, si devono abbandonare gradualmente tutte le forme di molteplicità che si conoscono.Il 46 Enneadi, I, 8, 3. 47 Enneadi, VI 4, 4, 1123. 63 PLOTINO motto è Afelepanta, cioè spogliati di tutto, della corporeità, della molteplicità di sensi e idee. Bisogna dunque risalire verso il Bene, che è ciò a cui tende ogni anima. Chi l'ha visto, sa cosa voglio dire, e in che senso esso è bello. Come Bene, è desiderato e il desiderio tende verso di lui; ma lo si raggiunge solo risalendo verso la regione superiore, piegandosi verso di lui e spogliandosi dei vestiti indossati nella discesa. Nello stesso modo chi sale ai santuari dei templi deve purificarsi, deporre i suoi vecchi abiti e avanzare nudo; e infine, abbandonato lungo questa salita tutto ciò che è estraneo a Dio, può guardare da solo a solo nel suo isolamento, nella sua semplicità e purezza, l'Essere da cui tutto dipende, verso cui tutto guarda, perché è l'essere, la vita e il pensiero; perché è causa della vita, dell'intelligenza e dell'essere48. Al termine del processo si arriva a una contemplazione ineffabile dell’Uno, ossia a un’esperienza mistica (termine della riflessione filosofica). Questa posizione plotiniana verrà apprezzata dai filosofi cristiani, che vedranno in lui una conferma della loro esperienza religiosa. Noi siamo già immersi in Dio (nell’uno, nell’energia contemplatrice dell’Uno che si è indebolita passaggio per passaggio):dobbiamo solo riconoscerlo. Espandendosi l’energia dell’uno si moltiplica, indebolendosi, ma rimanendo sempre se stessa. Il senso della nostra vita è renderci conto di ciò e risalire la corrente, dobbiamo tornare all’esperienza originaria e abbandonare la molteplicità. Quello che dobbiamo fare è un’opera di conversione: dobbiamo cambiare il nostro punto di vista, se guardiamo verso l’esterno vediamo solamente il nulla. Se invece cambiamo punto di vista vediamo quello che c’è sempre stato ma che non siamo stati in grado di vedere, cioè l’Uno. Cosa ci scrive Plotino Queste intuizioni vanno tutte insieme: se si immagina l’assoluto come qualcosa di trascendente, di completamente altro, il senso della nostra vita non può essere altro che un avvicinamento a que- 48 Enneadi, libro primo, 6.7. 64 PLOTINO sto; ci saranno quindi dei livelli sempre maggiori da raggiungere, devi avvicinarti un passo alla volta. L'anima dell'uomo, dunque, vive nell'incerto confine tra luce e tenebre, al limitare di quell'Uno-tutto di cui anch'essa e parte: vive, ma «francamente - scrive Plotino - il vivere quaggiù e tra le cose della terra non è che crollo ed esilio e perdita di ali». Perché se «l'Uno, immune com'è da alterità, non aspira a noi, noi sì aspiriamo a Lui [...] e in Lui sta il nostro benessere; già il semplice esserne lontani significa esistere in uno stato di minorità. [...] Inoltre la vita vera è solo lassù; poiché la vita dell'oggi, ch'è vita senza Dio, è solo un'orma di vita [...] e quando invece fissiamo in Lui lo sguardo, solo allora noi approdiamo al nostro termine e al nostro riposo [...] perché la vita di lassù è forza operante dell'Intelletto: essa genera gli dei nel riposante contatto con Lui, genera bellezza, genera giustizia, genera virtù. [...]»49. Esiste una scala di valori Ma come realizzare questa unione con Dio, questo ritorno all'Uno da cui tutto ha origine e in cui tutto trova il proprio fine? C'e una sorta di parallelismo tra «la via in giù» (che porta dall'Uno all'Anima individuale dell'uomo) e «la via in su» (che riporta l'Anima all'Uno): esiste una specie di scala di valori (come esiste una scala di ipostasi) che permette di ripercorrere il cammino verso l'Uno. I gradini di questa metaforica scala sono la pratica della virtù, la contemplazione della bellezza e lo studio della filosofia. La virtù è purificazione, liberazione dall'esteriorità e dalla corporeità; la contemplazione della bellezza permette di cogliere la manifestazione dell'Uno nell'ordine e nell'armonia delle cose; nella filosofia, infine, si ha l'intuizione intellettuale del mondo intelligibile. Per avvicinarsi a dio non occorre «credere», è necessario «comprendere».L'anima dell'uomo, dunque, attraverso questa serie di conquiste (morali, estetiche, intellettuali), arrivata al punto più alto della consapevolezza di sè, si libera e raggiunge lo stato in cui è possibile l'estasi (ekstasis: uscita da sè). Nell'estasi, essa gode direttamente dell'Uno e della sua pienezza di vita. 49 Enneadi, VI, 9; 8-9. 65 AGOSTINO Chi è Agostino? Agostino (354-430 d.C) è un pensatore di importanza fondamentale nella storia dell'Occidente. È un filosofo cristiano che si trova a vivere alla fine dell'impero romano e assiste al crollo della più grande civiltà del mondo antico. Infatti, anche se la storiografia (solo quella italiana, però) indica nel 476 d.C (deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre) l'atto finale dell'impero, nella coscienza dei contemporanei di gran lunga più traumaAgostino in un dipinto di Antonello da Messina. tica fu la presa di Roma da parte dei Cfr.https://upload.wikimedia.org/wikipedi goti di Alarico nel 410, quando Ago- a/commons/9/9e/Antonello_da_Messina _009.jpg stino era ancora vivo. Il suo pensiero si pone quindi come un «pensiero della fine», ma insieme rappresenta la base sulla quale ripartirà nei secoli successivi la filosofia cristiana. La seconda, essenziale caratteristica del pensiero agostiniano è la sua insistenza sulla interiorità. La ricerca filosofica coincide con la ricerca esistenziale del significato della vita e viceversa la vita è essenzialmente ricerca. Vita e filosofia non sono staccate: la ricerca filosofica non è qualcosa di astratto ma è rivolto al raggiungimento della felicità, che però coincide con l'incontro con Dio. L’esperienza dell'uomo infatti si attua nella tensione fra due poli, l'inquietudo, che è mancanza, desiderio, e la beatitudo, che è pienezza, appagamento. In una delle sue opere più importanti, le Confessioni, Agostino scrive: «ero divenuto un enigma angoscioso (magna quaestio) per me stesso»50. La ricerca della felicità parte mettendo in disolo nell'incontro con Dio. 50 Confessioni, IV, 4, 9 66 AGOSTINO 67 AGOSTINO La vita Agostino nacque a Tagaste (l'odierna SoukAhras, in Algeria) nel 354. Come molti giovani africani della sua condizione, Agostino aveva una sola possibilità di ascesa sociale: una cultura superiore che aprisse la via all'avvocatura, alla carriera amministrativa e politica, all’insegnamento nelle cattedre imperiali. Agostino studiò prima a Tagaste, poi a Madaura, infine a Cartagine, dove studiò con grande successo la retorica. Tuttavia Agostino vive una prima crisi alla lettura di un testo di Cicerone per noi perduto, l'Ortensio, in cui Cicerone, muovendo dal tema tradizionale della felicità, mostrava che quest'ultima non può essere trovata nelle ricchezze, nei piaceri, negli onori, ma solo nella sapientia, la saggezza che è verità, conoscenza delle cose umane e divine. La lettura di questo testo fece scoprire ad Agostino, la filosofia intesa non come adesione all'una o all'altra setta filosofica, ma come ricerca della verità. In questo periodo la madre Monica, fervente cristiana, cerca inutilmente di avvicinarlo alla sua fede: Agostino trovò un ostacolo insormontabile nello stile della Bibbia, troppo lontano dalla raffinatezza ciceroniana. A Cartagine Agostino conviveva con una ragazza da cui ebbe un figlio nel 372 (Agostino aveva solo 18 anni). La morte del padre lo privò del sostegno economico e quindi dovette tornare a Tagaste per aprire una scuola. 68 AGOSTINO In quegli anni, all'inizio del mio insegnamento nella città natale, mi ero fatto un amico, che la comunanza dei gusti mi rendeva assai caro. Mio coetaneo, nel fiore dell'adolescenza come me, con me era cresciuto da ragazzo, insieme eravamo andati a scuola e insieme avevamo giocato; però prima di allora non era stato un mio amico, sebbene neppure allora lo fosse, secondo la vera amicizia. Infatti non c'è vera amicizia, se non quando l'annodi tu fra persone a te strette col vincolo dell'amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato . Ma quanto era soave, maturata com'era al calore di gusti affini! Io lo avevo anche traviato dalla vera fede, sebbene, adolescente, non la professasse con schiettezza e convinzione, verso le funeste fandonie della superstizione, che erano causa delle lacrime versate per me da mia madre. Con me ormai la mente del giovane errava, e il mio cuore non poteva fare a meno di lui. Quando eccoti arrivare alle spalle dei tuoi fuggiaschi, Dio delle vendette e fonte insieme di misericordie, che ci rivolgi a te in modi straordinari ; eccoti strapparlo a questa vita dopo un anno appena che mi era amico, a me dolce più di tutte le dolcezze della mia vita di allora51. Chi può da solo enumerare i tuoi vanti , che in sé solo ha conosciuto?. Che facesti tu allora, Dio mio? Imperscrutabile abisso delle tue decisioni ! Tormentato dalle febbri egli giacque a lungo incosciente nel sudore della morte. Poiché si disperava di salvarlo,fu battezzato senza che ne avesse sentore. Io non mi preoccupai della cosa nella presunzione che il suo spirito avrebbe mantenuto le idee apprese da me, anziché accettare un'azione operata sul corpo di un incosciente.La realtà invece era ben diversa. Infatti migliorò e uscì di pericolo; e non appena potei parlargli, e fu molto presto, non appena poté parlare anch'egli, poiché non lo lasciavo mai, tanto eravamo legati l'uno all'altro, tentai di ridicolizzare ai suoi occhi, supponendo che avrebbe riso egli pure con me, il battesimo che aveva ricevuto mentre era del tutto assente col pensiero e i sensi, ma ormai sapeva di aver ricevuto. Egli invece mi guardò inorridito, come si guarda un nemico, e mi avvertì con straordinaria e subitanea franchezza che, se volevo essere suo amico, avrei dovuto smettere di parlare in quel modo con lui. Sbalordito e sconvolto, rinviai a più tardi tutte le mie reazioni, in attesa che prima si ristabilisse e acquistasse le forze 51 Le Confessioni, libro quarto, 4.7. Cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm 69 AGOSTINO convenienti per poter trattare con lui a mio modo. Sennonché fu strappato alla mia demenza per essere presso di te serbato alla mia consolazione. Pochi giorni dopo, in mia assenza, è assalito nuovamente dalle febbri e spira52. Nel frattempo però aveva conosciuto la setta dualistica dei manichei, che in un primo momento gli sembrò soddisfare la sua sete di verità. La concezione manicheaè rigidamente dualistica: un dio del bene lotta perennemente contro un dio del male; l'uomo è composto di un'anima e di un corpo, concepiti anch'essi come elementi contrapposti e sempre in lotta; tutto ciò che è legato al corpo, in particolare la sessualità, è male. Nell'orbita di questa religione razionalistica, che non si presenta come incompatibile con il cristianesimo, ma anzi pretende di esserne l'autentica espressione, Agostino resterà nove anni, dal 373 al 382, insegnando grammatica e retorica con crescente successo, prima a Tagaste, poi a Cartagine, quindi a Roma. Tuttavia la fiducia di Agostino nel manicheismo si indebolì nel corso degli anni per la sempre più evidente incapacità di questa dottrina di risolvere sia i problemi di fisica sia quelli, ben più importanti, dell'esistenza umana. Dopo un decisivo incontro con l'esponente più in vista della setta, Fausto, che non riuscì a risolvere i dubbi di Agostino, questi cominciò ad abbandonare il manicheismo. Nel 383 Agostino va a Roma e qui si avvicina alle correnti accademiche scettiche. Si trattava in teoria di filosofi eredi dell'Accademia platonica che però ormai sapevano solo esprimere una critica corrosiva di ogni certezza esaltando il dubbio e la sospensione del giudizio. Sul piano biografico, l'anno che Agostino trascorse a Roma fu caratterizzato da malessere e disagio. Tuttavia le amicizie dell'ambiente manicheo si rivelarono preziose procurandogli un incontro con il prefetto della capitale, Simmaco, il quale gli conferì una cattedra vacante di retorica a Milano, nel 384. Il soggiorno a Milano fu una svolta fondamentale nella vita di Agostino, sia sul piano esistenziale, sia su quello filosofico. Inizialmente cercò di inserirsi nella società milanese con una serie di mosse strategiche (per esempio si 52 Le Confessioni, libro quarto, 4.8. Cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm 70 AGOSTINO fece catecumeno della chiesa ambrosiana e ripudiò la donna amata in vista del matrimonio con una donna dell'alta società), ma l'ansia di verità continuava a tormentarlo. Due erano i problemi cruciali: l'antropomorfismo della Bibbia e l'esigenza di svincolarsi dal materialismo. La soluzione venne dal vescovo di Milano Ambrogio. Ambrogio non era un provinciale autodidatta come Agostino: era di illustre famiglia senatoria, conosceva il greco e la filosofia greca, in particolare quella neoplatonica, padroneggiava la letteratura. In questo modo poté fornire le risposte che Agostino cercava: una interpretazione allegorico-simbolica della Bibbia, da una parte, e la sinergia tra cristianesimo e neoplatonismo dall'altro. Che cosa trovò Agostino nel neoplatonismo? In primo luogo, una filosofia radicalmente antimaterialistica, in cui pensare quel superamento del materialismo che egli giudicava necessario sul piano religioso non meno che su quello filosofico. In secondo luogo, una impostazione del problema del maleche gli consentì di svincolarsi dal dualismo manicheo. Infine, un percorso di ricerca della verità che si rivolge non all'esterno;ma all'interno, in cui l'anima, nella luce di Dio, ritrova in se stessa sè e Dio: «accolsi il consiglio di tornare in me stesso e con la tua guida entrai nel mio mondo interiore»53. La conversione definitiva al cristianesimo ebbe luogo nell'estate del 386, aprendo tutta l'esistenza di Agostino a una nuova prospettiva che si concretizza in una serie di importanti opere filosofiche. Nel 387 riceve il battesimo dalle mani di Ambrogio e ritorna a Tagaste. Sapienza e felicità Per Agostino la felicità è lo scopo della conoscenza. Il modo che lui ha di concepire l’uomo non è quello astratto di Cartesio, che si limita a dire che l’uomo è una cosa che pensa, Agostino dice che l’uomo è una persona che si apre al mondo in diverse direzioni, l’amore è questo tendere a, ma questo tendere a, aprirsi a è quello che noi chiamiamo conoscenza.È sbagliato concepire l’anima umana come divisa tra intelletto e sentimento. Il sentimento è il colore 53 Confessioni, VII, 10, 16 71 AGOSTINO della conoscenza. Io devo desiderare di conoscere prima di conoscere, e io desidero ciò che amo. Senza questo desiderio non c’è vera conoscenza. La concezione dell’anima è conoscenza come una realtà polimorfa, che è essenzialmente apertura all’essere. C’è una ripresa in chiave cristiana dell’eros. Il simposio diceva questo, che la spinta verso la conoscenza è una spinta erotica, se non siamo mossi da questa energia non si va da nessuna parte, ma si impara meccanicamente. Descrizione nei Soliloquia L'essenziale del programma e del metodo di ricerca agostiniano è delineato con chiarezza nei Soliloquia: «Dio e l'anima: questo desidero conoscere. - Nulla più? - Assolutamente nulla»54. In questa dichiarazione vi è, in primo luogo, l'esclusione della conoscenza del mondo esterno dalla direttrice principale della ricerca: essa sarà tutt'al più una tappa di un percorso che conduce alla vera scienza dell'anima e di Dio. In secondo luogo, vi è posta la coincidenza, dal punto di vista metodologico, tra conoscenza di sé è conoscenza di Dio: solo a partire da sé - nella tradizione che congiunge il nosci te ipsum socratico con Plotino - l'uomo può giungere alla verità, all'Uno, a Dio. L'anima è il luogo dell'incontro con la verità: L'anima e la verità «Non andare fuori di te, ritorna in te stesso» (Noli foras ire, in te ipsum redi). La verità dimora nell'uomo interiore (in interiore homine habitat veritas)come avevano già intuito Socrate e Platone. E «se scoprirai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricorda, quando trascendi te stesso, tu trascendi l'anima razionale. Tendi pertanto la donde s'accende il lume stesso della ragione»55. Dal mondo esterno all'interiorità dell'anima, alla verità trascendente: 54 SoliloquiaI, 2, 7. De vera religione, XXXIX, 72 55 72 AGOSTINO è questo l'itinerario, di evidente impianto platonico, che conduce alla conoscenza di Dio. Ciò che spinge l'uomo a intraprendere questo itinerario è il desiderio di essere felice, «beate vivere»: è questo il problema fondamentale di Agostino uomo e di Agostino filosofo. Nulla est homini causa philosophandi, nisi ut beatussit, (non c’è nessuna ragione per l’uomo di fare filosofia se non essere felice) dirà Del De civitate Dei. In questa finalizzazione della conoscenza alla felicità Agostino è pienamente erede della filosofia ellenistica, come pure nell'identificazione tra felicità, beatitudo, e sapientia. Dall'Hortensius Agostino ha imparato che la felicità non può consistere nell'appagamento dei propri desideri, quali che siano. La felicità è sì un possesso che appaga un desiderio, ma perché sia autentica occorre che il bene voluto sia veramente tale: occorre quindi conoscere quale sia il vero bene. Ma questo movimento è rivolto non alla sola conoscenza del bene, ma al possesso, al godimento di esso: dunque nella ricerca è implicata in modo decisivo la volontà. L'attenzione posta da Agostino sulla volontà costituisce una novità di grande rilievo; la volontà è, per Agostino, quella forza che non solo produce le azioni, ma interviene in modo determinante nella conoscenza: per conoscere alcunché, occorre volerlo. E si vuole ciò che si ama: si cerca per trovare ciò che si ama. L'amore dunque è il motore fondamentale. Il punto di partenza della riflessione di Agostino è l’anima. Bisogna abbandonare l’esteriorità a favore dell’interiorità, e in questa ritrovare Dio. La frase che riassume questa impostazione è celeberrima: in te ipsum rede (torna in te stesso). La ricerca di Dio Ma come è possibile che Dio sia presente nella propria coscienza? Per spiegare questo lui riprende la reminiscenza di Platone, ossia il ricordo delle eide: le idee vengono messe nell’anima da Dio, non c’è nulla di intermedio. Per Agostino Dio è quindi verità, poiché è lui che ci dà le idee al momento della nostra nascita. Il fondamento di questo è il recupero del platonismo. In ogni filosofia cristiana è cruciale la dimostrazione dell’esistenza di Dio, ma per Agostino questa non è così fondamentale: la verità esiste, se si dimostra questo è dimostrata anche l’esistenza di Dio. 73 AGOSTINO La polemica contro gli scettici Gli scettici erano gli Accademici, cioè gli eredi nominali della scuola platonica. In realtà questi pensatori avevano ormai abbandonato completamente le posizioni del loro fondatore e sostenevano posizioni scettiche ossia affermavano che la verità non esiste). Agostino contesta il loro scetticismo con una serie di argomenti, alcuni dei quali banali, altri di estrema importanza. Abbiamo prima di tutto una serie di argomenti dialettici, ripresi dalla tradizione classica: a) non è vero che non esistono verità certe: per esempio esistono le verità della matematica e della geometria b) se anche non è possibile essere certi di verità fattuali, tuttavia occorre ammettere la verità di proposizioni disgiuntive (se io dico: «questa cosa o è bianca o è non bianca» pronuncio una frase che è sicuramente vera, anche se non so se la cosa in questione sia bianca oppure no) c) dal fatto che la conoscenza sensibile sia imprecisa, non si può ricavare l'impossibilità della conoscenza vera: quello che i sensi attestano è sempre vero nel campo delle apparenze, l'errore consiste nell'estenderne il valore di verità al campo dell'intellegibile d) Lo scetticismo in realtà si autocontraddice. Se infatti lo scettico afferma: «non esiste la verità», con ciò stesso afferma l'esistenza almeno di questa verità. Nessuna di queste confutazioni è particolarmente originale. Di estrema importanza invece è un'argomentazione originale che Agostino sviluppa in diverse opere, con formulazioni leggermente diverse, e che viene normalmente indicata come Cogito agostiniano per la similitudine che presenta con una analoga argomentazione anch'essa nota come «Cogito» e presentata oltre mille anni dopo dal filosofo francese Descartes. Il cogito La nuova argomentazione chiama in causa la certezza che l'uomo ha di se in quanto soggetto pensante e vivente. Nessuna di queste confutazioni è particolarmente originale. Di notevole rilievo, invece, un'argomentazione che Agostino sviluppa, in diverse formulazioni e in diverse opere, e che chiama in causa la certezza che l'uomo ha di 74 AGOSTINO sé in quanto soggetto pensante e vivente. Qualunque argomentazione scettica non può indebolire la verità di questa consapevolezza. Delle molte formulazioni che ne dà Agostino, la più sintetica è forse quella contenuta nel De civitate Dei: «Se mi inganno, sono (si fallor, sum). Infatti chi non è, non può nemmeno ingannarsi». Poniamo che abbiano ragione gli scettici, ossia non esiste la verità: questo significa che io mi inganno sempre. Ma anche se io mi ingannassi sempre, una cosa è sempre vera: che io sono. Almeno la mia esistenza è certa: questo però basta a sconfiggere lo scetticismo, perché non è più vero che non esistono verità. Tuttavia, a differenza di quanto farà Cartesio, Agostino articola in modo più complesso il suo argomento distinguendo livelli diversi: Ordine e conoscenza 1°livello: la mia semplice esistenza è certa 2° livello: io però, proprio mentre eseguivo il cogito, sono cambiato, perché sono passato da una posizione di errore (quella in cui pensavo che nulla esiste di vero) a una posizione in cui riconosco che la verità esiste. Questo significa che io non solo esisto, ma sono anche vivo. 3° livello: questa trasformazione però avviene a livello della consapevolezza, e la vita di cui stiamo parlando non è biologica, ma coscienziale: io quindi esisto nella forma della vita e vivo nella forma della coscienza. Dunque esisto, vivo, sono consapevole/cosciente. Nell'esperienza che il soggetto pensante fa di se stesso, quindi, esso conosce di esistere e di vivere. Con ciò, egli definisce anche la propria collocazione nell'ordine gerarchico del tutto: infatti anche la pietra è, anche l'animale è e vive, ma solo l'uomo è, vive e conosce. Nella conoscenza si manifestano dunque la specificità e la superiorità della creatura umana. La conoscenza è attività propria dell'ani75 AGOSTINO ma, anche al livello della sensazione. Quest'ultima ha luogo attraverso una modificazione degli organi di senso, ma non appartiene al corpo: sentire non est corporis sed animae per corpus, ovvero la sensazione è un'esperienza che l'anima compie attraverso il corpo, utilizzando il corpo come suo strumento. In generale, l'anima dà vita al corpo: nella sensazione, essa rivolge alle modificazioni degli organi di senso un'attenzione, intentio, che dà luogo alla rappresentazione. Senza questa attività dell'animo non vi è sensazione. Ma «la facoltà più eccellente dell'animo umano non è quella con cui esso sente le realtà sensibili bensì quella con cui le giudica»56. I parametri di giudizio non possono derivare dal mondo esterno, che è molteplice e mutevole, ma devono essere reperiti dall'anima entro se stessa. Ciò è del tutto evidente quando si pensa alla conoscenza intellettiva delle verità matematiche e geometriche: queste hanno una certezza e una stabilità ben superiori a quelle della conoscenza sensibile. L'anima non ricava certamente tali verità dagli oggetti d'esperienza, anzi se ne serve per giudicarli; ma, d'altra parte, tali verità non possono neppure essere prodotte dal pensiero umano, mutevole e soggetto all'errore. Occorre dunque che tali verità esistano indipendentemente dalla scoperta che di esse viene fatta: nel numero si esprime l'ordine perfetto e immutabile di un tutto che trascende l'uomo. Vi sono dunque rationes aeternae, analoghe alle eide platoniche, che fungono da forme e modelli in base ai quali opera la mente umana. Tali verità sono superiori alla ragione, indipendenti da essa: se così non fosse, non sarebbe possibile alcuna scienza né comunicazione intersoggettiva. Le rationes aeternae però non costituiscono un modo autonomo: sono nell'anima umana perché Dio ce le ha messe. È Dio il maestro interiore nel quale e dal quale impariamo tutto ciò che sappiamo: Dio è la luce che illumina l'anima e le permette di comprendere la verità. Agostino rielabora qui la tradizione platonica: ha presente il paragone tra il Bene e il Sole istituito da Platone e quello tra l'anima, che riflette la luce divina, e la luna, che riflette la luce solare, formulato da Plotino. 56 De vera religione, XXIX, 53. 76 AGOSTINO Il problema del male Il problema del male è contenuto nel libro VII delle Confessiones. Il mondo sembra inabitato dal male. Una posizione creazionista come quella del cristianesimo è in difficoltà quando affronta questo tema, perché non riesce a spiegare perché Dio avrebbe dovuto creare il male. Si Deus est, undemalum? è il quesito che riassume la questione. Se Dio - assolutamente buono, onnisciente e previdente - ha creato tutte le cose, qual è l'origine del male? Da dove vengono il dolore, la violenza, il peccato che attraversano la vita dell'uomo? La soluzione manichea al male La soluzione manichea, che elevava il male a principio contrapposto al Bene e in lotta con questo, si è rivelata fallace: in primo luogo, essa inficia l'onnipotenza e l'incorruttibilità di Dio; in secondo luogo, essa priva l'uomo di ogni libertà. La soluzione di Agostino comincia distinguendo il problema in due aspetti: male morale e male ontologico. Ma anch'io ormai sostenevo e credevo fermamente la tua intangibilità, inalterabilità e immutabilità totale, Dio nostro, Dio vero, creatore non solo delle nostre anime ma altresì dei nostri corpi, né soltanto delle nostre anime e corpi, ma di tutti gli esseri e di tutte le cose. Non mi era invece chiara e palese l'origine del male; tuttavia vedevo che, comunque fosse, la sua ricerca non avrebbe dovuto costringermi a credere mutabile un Dio immutabile, se non volevo divenire io stesso ciò che cercavo. Procedevo dunque tranquillamente, sicuro della falsità delle loro asserzioni e aborrendoli di tutto cuore, poiché li vedevo intenti a cercare l'origine del male quando erano essi medesimi colmi di malizia, tanto da ammettere piuttosto che la tua sostanza possa subire, ma non la loro fare il male. Mi sforzavo di vedere ciò che udivo sulla libera determinazione della volontà come causa del male che facciamo, e l'equità del tuo giudizio come causa di quello che subiamo, ma non riuscivo a scorgerla chiaramente. Tentavo di spingere lo sguardo della mia mente fuori dall'abisso, ma vi ricadevo di nuovo; ripetevo i tentativi, ma ricadevo di nuovo e di nuovo. Una cosa mi sollevava verso la tua luce: la consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. In ogni atto di consenso o rifiuto ero certissimo di essere io, non un al- 77 AGOSTINO tro, a consentire e rifiutare; e di trovarmi in quello stato a causa del mio peccato, lo capivo sempre meglio. Invece, degli atti che compivo mio malgrado mi riconoscevo vittima piuttosto che attore e li giudicavo non già una colpa, bensì una pena inflittami da te giustamente, non esitavo ad ammetterlo considerando la tua giustizia. Ma a questo punto mi chiedevo: "Chi mi ha creato? Il mio Dio, vero? che non è soltanto buono, ma la bontà in persona. Da chi mi viene dunque il consenso che dò al male e il rifiuto che oppongo al bene? Accade così per farmi scontare giusti castighi? Ma chi ha piantato e innestato in me questo, virgulto d'infelicità, se sono integralmente opera del mio dolcissimo Dio? E se fossi creatura del diavolo, donde viene a sua volta il diavolo? Se anch'egli diventò diavolo, da angelo buono che era, per un atto di volontà perversa, questa volontà maligna che doveva renderlo diavolo donde entrò anche in lui, fatto integralmente angelo da un creatore buono? ". Queste riflessioni tornavano a deprimermi, a soffocarmi, ma non riuscivano a trascinarmi fino al baratro di quell'errore ove nessuno ti confessa, preferendo assoggettare te al male, che crederne l'uomo capace 57. Il male morale e ontologico La risposta di Agostino al male morale è che esso deriva dalla libertà che Dio ha concesso. L’uomo può scegliere anche di seguire un male che vedere e riconosce essere tale. Il male ontologico, ossia la negatività delle cose, appare molto più difficile da spiegare, perché non sembra possibile evitare di accusare Dio del male nel mondo. La risposta di Agostino è di stampo neoplatonico: noi interpretiamo come male quello che è semplicemente una forma e un aspetto del bene. Dal punto di vista ontologico significa che il male non ha una sua positività, addirittura si potrebbe dire che non esiste affatto. Tale non esistenza va intesa in senso metafisico e ontologico, non in senso fattuale: del male, infatti, si fa continua esperienza. Ma il male -dice Agostino - «non è una sostanza, perché se fosse una sostanza sarebbe un bene»58. Esso non ha realtà ontologica; non appartiene all'ordine dell'essere, ma a quello del nonessere. Il male è privazione, venir meno del bene; è il negativo, pen57 Le Confessioni, libro settimo, 3. Cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm 58 Confessioni, libro settimo, 12. 78 AGOSTINO sabile solo come deficienza, mancanza del positivo inerente alla natura di un essere. Non vi è dubbio, per esempio, che la cecità sia male: ma la cecità stessa, in quanto tale, non esiste; esiste solo in quanto mancanza della vista, in quanto venir meno della capacita di vedere. Cercavo l'origine del male cercando male e non vedendo il male nella mia stessa ricerca. Davanti agli occhi del mio spirito ponevo l'intero creato, tutto ciò che ne possiamo scorgere, ossia la terra, il mare, l'aria, gli astri, gli alberi, gli animali mortali, e tutto ciò che ci rimane invisibile, ossia il firmamento celeste sopra di noi, tutti gli angeli e tutti gli spiriti che lo abitano, spiriti che la mia immaginazione distribuiva pure in vari luoghi, quasi fossero corpi; così feci del tuo creato un'unica massa enorme, ove spiccavano secondo il loro genere i corpi, sia veri e reali, sia spirituali, resi arbitrariamente corporei dalla mia immaginazione, e feci enorme questa massa, non quanto era effettivamente, perché non potevo concepirlo, ma quanto mi piacque immaginare, però finita in tutte le direzioni, avvolta e penetrata da ogni parte da te, Signore, che pure rimanevi in tutti i sensi infinito, come un mare che si stenda dovunque e da dovunque per spazi immensi infinito, un unico mare che contenga nel suo interno una spugna grande a piacere, però finita e ripiena evidentemente in ogni sua parte del mare immenso. Così concepivo la tua creazione, finita e ripiena di te infinito. Dicevo: "Ecco Dio, ed ecco le creature di Dio. Dio è buono, potentissimamente e larghissimamente superiore ad esse. Ma in quanto buono creò cose buone e così le avvolge e riempie. Allora dov'è il male, da dove e per dove è penetrato qui dentro? Qual è la sua radice, quale il suo seme? O forse non esiste affatto? Perché allora temere ed evitare una cosa inesistente? Se lo temiamo senza ragione, è certamente male il nostro stesso timore, che punge e tormenta invano il nostro cuore, e un male tanto più grave, in quanto non c'è nulla da temere, eppure noi temiamo. Quindi o esiste un male oggetto del nostro timore, o il male è il nostro stesso timore. Ma da dove proviene il male, se Dio ha fatto, lui buono, buone tutte queste cose? Certamente egli è un bene più grande, il sommo bene, e meno buone sono le cose che fece; tuttavia e creatore e creature tutto è bene. Da dove viene dunque il male? Forse da dove le fece, perché nella materia c'era del male, e Dio nel darle una forma, un ordine, vi lasciò qualche parte che non mutò in bene? Ma anche questo, perché? Era forse impotente l'onni- 79 AGOSTINO potente a convertirla e trasformarla tutta, in modo che non vi rimanesse nulla di male? Infine, perché volle trarne qualcosa e non impiegò piuttosto la sua onnipotenza per annientarla del tutto? O forse la materia poteva esistere contro il suo volere? O, se la materia era eterna, perché la lasciò sussistere in questo stato così a lungo, attraverso gli spazi su su infiniti dei tempi, e dopo tanto decise di trarne qualcosa? O ancora, se gli venne un desiderio improvviso di agire, perché con la sua onnipotenza non agì piuttosto nel senso di annientare la materia e rimanere lui solo, bene integralmente vero, sommo, infinito? O, se non era ben fatto che chi era buono non edificasse, anche, qualcosa di buono, non avrebbe dovuto eliminare e annientare la materia cattiva, per istituirne da capo una buona, da cui trarre ogni cosa? Quale onnipotenza infatti era la sua, se non poteva creare alcun bene senza l'aiuto di una materia non creata da lui?". Questi pensieri rimescolavo nel mio povero cuore gravido di assilli pungentissimi, frutto del timore della morte e della mancata scoperta della verità. Rimaneva tuttavia saldamente radicata nel mio cuore la fede nella Chiesa cattolica del Cristo tuo, signore e salvatore nostro. Certo una fede ancora rozza in molti punti e fluttuante oltre il limite della giusta dottrina; però il mio spirito non l'abbandonava, anzi se ne imbeveva ogni giorno di più 59. Il tempo Un'altra analisi di straordinaria importanza è quella della temporalità, che si trasforma in uno studio sull'anima. Nelle Confessiones Agostino spiega che alcuni catecumeni erano venuti a chiedere cosa faceva Dio prima di aver creato il tempo. Agostino, a differenza di altri, riconosce che la domanda in sé è giusta, e richiede una risposta altrettanto seria. Appare subito chiaro però che non è semplice definire cosa è il tempo, una esperienza apparentemente così semplice: con una frase diventata famosissima, Agostino riconosce che se nessuno mi chiede cosa sia il tempo, so cosa è, ma nel momento in cui qualcuno mi chiede di spiegarlo non so farlo. Perché ci sia il tempo è essenziale la consapevolezza del passato e del futuro; nel semplice movimento degli oggetti naturali (il movimento del sole, l’acqua che cade da una cascata, le lancette dell’orologio) questa è 5959 Le Confessioni, libro settimo, 5. Cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm 80 AGOSTINO del tutto assente. Questa consapevolezza viene raggiunta in Agostino da una semplice considerazione linguistica: tutti noi parlanti siamo immersi da sempre in un ambiente comunicativo orale che prevede l’uso di tempi verbali per descrivere un’azione presente (cioè che si svolge nel momento in cui parlo), un’azione futura (che si svolgerà appunto in un momento futuro, successivo a quello in cui sto parlando) e un’azione passata (che si è già svolta nel momento in cui parlo). I problemi nascono quando svolgiamo, come fa Agostino riflettendo sulle profezie (che gli interessano particolarmente dal punto di vista religioso), una semplice considerazione: noi parliamo del futuro, ma il futuro non esiste ancora; parliamo del passato, ma il passato non esiste più. Nessuno può sostenere che Giulio Cesare, di cui posso descrivere le gesta, esista in questo momento; così come nessuno può sostenere che esista in questo momento il XXIII secolo. Apparentemente, solo il presente di salva da questa condizione di non essere. Questa situazione è già abbastanza problematica: il tempo, considerato inizialmente come qualcosa di molto semplice, si dimostra composto in parte di «essere» (il presente) e di «non essere» (il passato e il futuro).Ma subito anche il tempo presente si dimostra problematico: che cosa infatti è davvero «presente»? Non certo l’anno che stiamo vivendo, osserva Agostino, visto che non tutti i mesi che lo compongono sono presenti tutti insieme; ma nemmeno il singolo mese, la singola settimana o il singolo giorno sono «presenti» tutti insieme alla nostra coscienza. Una volta iniziato questo processo di smascheramento delle certezze del senso comune è impossibile fermarsi: neppure una singola ora è davvero «presente», dato che è composta di sessanta minuti, ciascuno dei quali è composto da sessanta secondi. Ogni volta che noi compiamo questa operazione di suddivisione, un solo secondo può essere quello davvero «presente». Ma in realtà l’operazione va ripetuta all’infinito: per quanto piccola sia l’unità di misura che stiamo considerando, sempre sarà possibile distinguere in essa una suddivisione in presente-passato-futuro. Mai troveremo un «presente puro», un «istante» che noi siamo in grado di cogliere con uno sguardo definitivo, un «atomo» temporale indivisibile che funga da «mattone» per tutto il resto del tempo. E tuttavia la realtà del tempo rimane 81 AGOSTINO innegabile. Negare il fluire dal futuro verso il passato sarebbe semplicemente folle. Come si esce da questo paradosso? Il tempo è nell'anima La tesi di Agostino è che se il tempo non è nel mondo esterno, esso è (deve essere) nell’anima. Cioè: il «tempo» esterno, quello dell’orologio, non è affatto tempo. Quello che si vede guardando (oggi, naturalmente, non ai tempi di Agostino!) le lancette dell’orologio è semplicemente un movimento, per essere esatti un «moto locale» (ossia uno spostamento che avviene nello spazio).Il movimento (che è sempre nello spazio) è una condizione Orologio a sabbia sec. XVII del tempo, non è il tempo. L’orologio riper- Museo nazionale della scienza Leonardo corre con un moto identico gli stessi spazi, la e della tecnologia da Vinci materia torna ad assumere gli stessi rapporti. È come se io facessi una somma, e poi alterassi l’ordine degli addendi: la somma è la stessa. Ma come fa il tempo a essere nell’anima? Che cosa differenzia in modo così decisivo la coscienza dalle cose? La coscienza, abbiamo visto, va intesa prima di tutto come un aprirsi verso l'essere. Ma a questo punto, nota Agostino, bisogna ammettere che esistono tre modi distinti di aprirsi verso l'essere: laprotensioneverso il futuro (che non esiste ancora) la ritenzione del passato (che non esiste più ma è ancora presente alla coscienza) l'attenzione verso il presente, che raccoglie in unità tutti i momenti. La dimensione temporale del futuro è strettamente legata all’esperienza della libertà. Avere un futuro significa infatti aprirsi a un essere solo potenziale che implica l'esistenza della libertà: se fosse tutto già stabilito saremmo solamente parte di un meccanismo. L’uomo può, è vero, ridurre questo suo moto di protensione e riten82 AGOSTINO zione fino a vivere completamente nell’attimo presente, ma così si cesserebbe di vivere da uomo. Il senso della storia Se la coscienza è veramente un essere presente anche del passato si capisce infine l’importanza della storia. La coscienza è un modo di esistere: non è un lampo puntuale, ma una aprirsi all’essere temporale. Agostino è uno dei primi filosofi a cercare di costruire una «filosofia della storia» sistematica. È spinto a ciò dalle condizioni storiche in cui vive: egli assiste alla fine del mondo classico (simboleggiata dalla presa di Roma da parte dei Visigoti nel 410) e non può non riflettere sulla necessità di cercare un significato a quella che gli appare come una catastrofe terribile. La sua ultima opera, la Città di Dio, rappresenta questo sforzo Agostino prima di tutto si muove all'interno di una concezione del tempo lineare, tipicamente cristiana, del tutto diversa da quella greca che invece è ciclica. Per i greci le cose possono cambiare ma in ultima analisi la totalità deve restare immutata, come aveva intuito Parmenide all'inizio della filosofia ellenica: il divenire fa apparire e scomparire dei contenuti che però in qualche modo permangono anche dopo che sono usciti dal nostro orizzonte di consapevolezza e che quindi potranno riapparire identici, in un futuro lontanissimo da noi, all'infinito. Per la visione cristiana questa concezione è inammissibile perche implicherebbe che il sacrificio del Cristo debba ripetersi infinite volte. Verrebbe meno il carattere di amorosa gratuità del gesto con cui il Figlio ha scelto di farsi carne e di morire per noi: Gesù sarebbe solo una specie di marionetta nelle mani di una «necessità» che, in perfetto spirito greco, sarebbe ancora la vera dominatrice della storia. Il secondo punto centrale della visione agostiniana della storia è che nel mondo si intrecciano in modo inestricabile due «città», o meglio due «civitates»60. Esse sono formate rispettivamente da coloro che rifiutano Dio e da coloro che lo accettano. Sono loro a essere la «civitas Dei» del titolo. Solo alla fine della storia, nel momento del giudizio finale di Dio, sarà possibile distinguere veramente i due gruppi e stabilire chi apparteneva a ciascuno di essi. 60 Parola latina che indica la città come insieme dei suoi abitanti. 83 AGOSTINO Schematizzazione della concezione greca e cristiana della vita Il tempo nelle Confessiones Nell' undicesimo libro delle Confessioni Agostino disquisisce riguardo al tempo. Questo testo è relativamente facile e molto bello da leggere ma è molto difficile da studiare poiché Agostino scrive "di getto", senza fare revisioni e riletture, creando così un testo poco controllato e formalizzato. Non sono forse pieni della loro vecchiezza quanti ci dicono : "Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti, continuano, stava ozioso senza operare, perché anche dopo non rimase sempre nello stato primitivo, sempre astenendosi dall'operare? Se si sviluppò davvero in Dio un impulso e una volontà nuova di stabilire una creazione che prima non aveva mai stabilito, sarebbe ancora un'eternità vera quella in cui nasce una volontà prima inesistente? La volontà di Dio non è una creatura, bensì anteriore a ogni creatura, perché nulla si creerebbe senza la volontà preesistente di un creatore. Dunque la volontà di Dio è una cosa sola con la sua sostanza. E se nella sostanza di Dio qualcosa sorse che prima non v'era, quella sostanza viene chiamata erroneamente eterna. Che se poi era volontà eterna di Dio che esistesse la creatura, come non sarebbe eterna anche la creatura?61. Qui viene posta la domanda: "cosa faceva Dio prima di creare?". Prima però bisogna specificare cosa sia il tempo. 61 Le Confessioni, libro undicesimo, 10. Cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm 84 AGOSTINO Ecco come rispondo a chi chiede: "Cosa faceva Dio prima di fare ilcielo e la terra". Non rispondo come quel tale, che, dicono, rispose, eludendo con una facezia l'insidiosità della domanda: "Preparava la geenna per chi scruta i misteri profondi". Altro è capire, altro è schernire. Io non risponderò così. Preferirei rispondere: "Non so ciò che non so", anziché in modo d'attirare il ridicolo su chi ha posto una domanda profonda, e la lode a chi diede una risposta falsa. Invece dico che tu, Dio nostro, sei il creatore di ogni cosa creata; e se col nome di cielo e terra s'intende ogni cosa creata, arditamente dico: "Dio,prima di fare il cielo e la terra,non faceva alcunché". Infatti, se faceva qualcosa, che altro faceva, se non una creatura? Oh, se io sapessi quanto desidero con mio vantaggio di sapere, allo stesso modo come so che non esisteva nessuna creatura avanti la prima creatura62! Agostino cerca di spiegare cosa sia il tempo ma il compito gli è reso difficile perche lui scrive e prega al contempo. Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l'hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo. Cos'è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare altri. Cos'è dunque il tempo? Se nessuno m'interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non 62 Le Confessioni,libro undicesimo, 12. Cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm 85 AGOSTINO esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere 63. Non esiste un tempo nel quale Dio non ha fatto nulla perche è egli stesso che ha creato il tempo. Ma Agostino non è pienamente in grado di spiegare cosa sia il tempo, perche esistono livelli della nostra esperienza così profondi che non si possono spiegare a parole. Insisti, spirito mio, e fissa intensamente il tuo sguardo. Dio è il nostro aiuto, egli ci fece, e non noi. Fissa il tuo sguardo dove albeggia la verità. Ecco, immagina che una voce, corporea, cominci a risuonare, risuona, risuona ancora, ed ecco cessa, è già tornato il silenzio, la voce è passata, non c'è più voce ormai. Era futura, prima di risuonare, e non si poteva misurarla, perché non era ancora, come non si può ora, perché non è più. Si poteva misurarla quando risuonava, perché allora era, in modo che si poteva misurare. Ma anche allora non era ferma, perché andava, passava. O proprio per questo invece si poteva? Passando, infatti, si estendeva per un certo spazio di tempo, durante il quale si poteva misurarla, poiché il presente non ha nessuna estensione. Ammesso dunque che in quel frangente poteva essere misurata, eccoti ora una seconda voce, che cominciò a risuonare e risuona tuttavia con tono uniforme, senza alcuna variazione. Misuriamola finché risuona, poiché, appena avrà cessato di risuonare, sarà ormai passata e non sarà più, in modo che si possa misurare! Misuriamola, presto, e indichiamone la durata. Ma sta risuonando ancora: non si può misurarla, se non partendo dall'inizio della sua esistenza, ossia dal momento in cui cominciò a risuonare, e giungendo alla fine, ossia al momento in cui cessa. Gli intervalli si misurano appunto da un certo inizio e a un certo fine; quindi una voce non ancora finita non può essere misurata, non si può dire quanto sia lunga o breve, né dire se sia uguale a un'altra, o semplice o doppia o comunque diversa rispetto a 63 Le Confessioni, libro undicesimo, 14. Cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm 86 AGOSTINO un'altra. Ma una volta finita non sarà più. Come si potrà misurarla allora? Eppure misuriamo il tempo: non quello che non è ancora, né quello che non è più, né quello che non si estende in durata, né quello che non ha limiti; cioè non lo misuriamo né futuro, né passato, né presente, né passante; eppure lo misuriamo, il tempo64. Deus creator omnium: in questo verso si alternano otto sillabe brevi e lunghe: le quattro brevi, cioè la prima, terza, quinta e settima, semplici rispetto alle quattro lunghe, cioè la seconda, quarta, sesta e ottava. Di queste ultime ognuna dura un tempo doppio rispetto a ognuna delle prime, come annuncio mentre le pronuncio, e come è, secondo che ci fanno intendere manifestamente i sensi. Come manifestano i sensi, io misuro la sillaba lunga mediante la breve, sentendo che la lunga ha una durata doppia della breve. Ma una sillaba risuona dopo un'altra; se prima è la breve, la lunga dopo, come trattenere la breve? e come applicarla sulla lunga per misurarla e trovare cosicché ha una durata doppia, se la lunga comincia a risuonare soltanto quando la breve cessò di risuonare? e la stessa sillaba lunga la misuro quando è presente, mentre non la misuro che finita? Ma quando è finita è passata. Cosa misuro dunque? Dov'è la breve, che uso per misurare? dov'è la lunga, che devo misurare? Entrambe risuonarono, svanirono, passarono, non sono più. Eppure io misuro e rispondo, con tutta la fiducia che si ha in un senso esercitato, che una è semplice, l'altra doppia, in estensione temporale, s'intende: cosa che posso fare solo in quanto sono passate e finite. Dunque non misuro già le sillabe in sé, che non sono più, ma qualcosa nella mia memoria, che resta infisso.È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L'impressione che le cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il 64 Le Confessioni,libro undicesimo, 27. Cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm 87 AGOSTINO loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio in termine di estensione temporale? Anche senza impiego della voce e delle labbra noi percorriamo col pensiero poemi e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l'estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato65. Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è, e come crescerebbe il passato, che non è più, se non per l'esistenza nello spirito, autore di questa operazione, dei tre momenti dell'attesa, dell'attenzione e della memoria? Così l'oggetto dell'attesa fatto oggetto dell'attenzione passa nella memoria. Chi nega che il futuro non esiste ancora? Tuttavia esiste già nello spirito l'attesa del futuro. E chi nega che il passato non esiste più? Tuttavia esiste ancora nello spirito la memoria del passato. E chi nega che il tempo presente manca di estensione, essendo un punto che passa? Tuttavia 65 Le Confessioni,libro undicesimo, 27. Cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm 88 AGOSTINO perdura l'attenzione, davanti alla quale corre verso la sua scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente, non è lungo, ma un lungo futuro è l'attesa lunga di un futuro; così non è lungo il passato, inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato. Accingendomi a cantare una canzone che mi è nota, prima dell'inizio la mia attesa si protende verso l'intera canzone; dopo l'inizio, con i brani che vado consegnando al passato si tende anche la mia memoria. L'energia vitale dell'azione è distesa verso la memoria, per ciò che dissi, e verso l'attesa, per ciò che dirò: presente è però la mia attenzione, per la quale il futuro si traduce in passato. Via via che si compie questa azione, di tanto si abbrevia l'attesa e si prolunga la memoria, finché tutta l'attesa si esaurisce, quando l'azione è finita e passata interamente nella memoria. Ciò che avviene per la canzone intera, avviene anche per ciascuna delle sue particelle, per ciascuna delle sue sillabe, come pure per un'azione più lunga, di cui la canzone non fosse che una particella; per l'intera vita dell'uomo, di cui sono parti tutte le azioni dell'uomo; e infine per l'intera storia dei figli degli uomini, di cui sono parti tutte le vite degli uomini66. Ma poiché la tua misericordia è superiore a tutte le vite, ecco che la mia vita non è che distrazione, mentre la tua destra mi raccolse nel mio Signore, il figlio dell'uomo, mediatore fra te, uno, e noi, molti, in molte cose e con molte forme, affinché per mezzo suo io raggiunga Chi mi ha raggiunto e mi ricomponga dopo i giorni antichi seguendo l'Uno. Dimentico delle cose passate, né verso le future, che passeranno, ma verso quelle che stanno innanzi non disteso, ma proteso,non con distensione, ma con tensione inseguo la palma della chiamata celeste. Allora udrò la voce della tua lode e contemplerò le tue delizie, che non vengono né passano. Ora imiei anni trascorrono fra gemiti, e il mio conforto sei tu, Signore, padre mio eterno. Io mi sono schiantato sui tempi, di cui ignoro l'ordine, 66 Le Confessioni, libro undicesimo, 28. Cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm 89 AGOSTINO e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati da molteplicità tumultuose. Fino al giorno in cui, purificato e liquefatto dal fuoco del tuo amore, confluirò in te67. 67 Le Confessioni,libro undicesimo, 29. Cfr. http://www.augustinus.it/italiano/confessioni/index2.htm 90 DA UN MONDO ALL’ALTRO Il perché di una transizione Con Agostino la filosofia classica si avvicina alla sua fine. Tradizionalmente questo momento viene indicato nel 529 d.C un secolo circa dopo la morte di Agostino, quando l'imperatore d'Oriente Giustiniano fa chiudere la scuola di Atene. Da tempo però nessun vero filosofo cercava di seguire il pensiero di Platone o di Aristotele. Ormai l'impero romano di Occidente si è dissolto, sotto la pressione delle popolazioni germaniche, e i centri culturali tradizionali sono andati distrutti durante gli assedi o le ultime disperate battaglie delle legioni romane. Gli unici luoghi in cui si continuano a studiare e a trascrivere i manoscritti del passato sono i monasteri cristiani, dietro l'esempio del celebre Vivarium in Calabria. La filosofia in Occidente entra in una lunga fase di ibernazione: tranne pochissime Rovine del Vivarium in Calabria. eccezioni come il pen- Cfr.http://www.bboasicalabria.it/public/uploads/c5ccefac2ab0b5b c295a6b83132896b8.jpg siero del monaco irlandese Scoto Eriugena68 nel IX secolo, si può dire che nessuno più si dedichi a questa attività per molti secoli. In questo lungo intervallo si completa la gestazione di una civiltà nuova, non più disposta attorno alle acque del Mediterraneo ma diffusa dalle coste settentrionali di questo mare fino alle acque dell'oceano Atlantico, del mare del Nord e del Baltico: la civiltà europea. Essa nasce dalla fusione di più elementi: quello greco-romano ereditato dall'età classica 68 Giovanni Scoto Eriugena nato in Irlanda nel 810 circa e morto in Inghilterra dopo l'877, è stato un monaco, teologo, filosofo e traduttore irlandese, è considerato uno dei più grandi filosofi altomedievali. 91 quello germanico che scende da nord quello celtico che è dominante sulle coste bretoni e nelle isole britanniche quello slavo che si diffonde a est. Il cristianesimo che unisce le culture Il fattore che rese possibile la fusione di queste culture diverse in un unico mondo fu la presenza del Cristianesimo, che conquistò, dapprima in modo superficiale poi dopo il Mille inmaniera più consapevole le coscienze degli abitanti di questa vasta regione che cominciava a pensarsi come «Europa». Naturalmente è impossibile indicare una data precisa, o anche solo un periodo sufficientemente breve, per questo fenomeno L'assimilazione avvenne in fasi diverse e con ritmi differenti, in alcune regioni con maggiore decisione che in altre, e con minore o maggiore successo a seconda del prevalere dell'uno o dell'altro fattore. Resta il fatto che sul largo crinale cronologico che spazia dal V al X secolo si attua una trasformazione decisiva, che trascina con sé tutte le altre: prima c'è il mondo classico e mediterraneo, poi c'è il mondo europeo. Questo condizionerà anche la filosofia: dopo il lungo silenzio dell'alto Medioevo, essa riapparirà, ma trasformata. Il ruolo della filosofia araba Per un lungo periodo quindi l'eredità della filosofia greca è sostenuta dai pensatori arabi. L'Islam infatti conquistando ampie porzioni di quello che era stato l'Impero romano d'Oriente si è trovato di fronte a una cultura completamente diversa dalla propria. Invece di distruggerla, l’ha assimilata nei limiti del possibile: i grandi testi della tradizione filosofica, in particolare Aristotele, sono tradotti in arabo e quindi attentamente studiati. È solo grazie al lavoro dei copisti e degli studiosi arabi che molti testi antichi sono riusciti a sopravvivere, dato che le corrispettive copie esistenti in occidente erano andate distrutte durante le invasioni germaniche. I due grandi nomi della filosofia araba sono il persiano Ibn Sina69, che nel IX secolo 69 IbnSinā, più noto in occidente come Avicenna,nato aBalkh nel 980 e morto ad Hamadan nel giugno del 1037, è stato un medico, filosofo, matematico e fisico persiano. 92 studiò soprattutto il pensiero neoplatonico, e IbnRushd70 (latinizzato in Averroè), un pensatore spagnolo del XII secolo che invece si concentrò su Aristotele. Tre fasi della filosofia in Occidente Quando la filosofia fa di nuovo la sua comparsa in Occidente, su alcune tematiche ontologiche essa sembrerà rifarsi direttamente alla fase finale delle filosofia classica, ma in realtà il suo senso stesso è cambiato: da un lato essa si sviluppa a stretto contatto con una teologia molto ricca e approfondita, con cui dialoga continuamente dall'altro deve far proprio e fondare il nuovo atteggiamento di dominio del mondo che caratterizza l'Europa e tutto l'Occidente. Seguendo l'interpretazione del grande storico della filosofia francese Etienne Gilson71 si possono identificare tre fasi fondamentali: 1. La filosofia dei monasteri Questi luoghi sono stati per secoli gli unici nei quali era sopravvissuta la cultura e i monaci sono stati gli unici o quasi a continuare a studiare e a meditare. Non è quindi strano che proprio qui a partire dall'XI secolo abbia cominciato a rifiorire la domanda filosofica sul senso dell'esistenza. Il pubblico a cui si rivolgono le primissime opere che possiamo qualificare come «filosofiche» è comunque formato da persone speciali, che avevano scelto di allontanarsi dalla vita di tutti i giorni per concentrarsi sulla esperienza religiosa: le tematiche e le forme stesse di queste opere risentono inevita70 Averroè, nato a Cordova il 14 aprile 1126 e morto a Marrakech nel 10 dicembre 1198, è stato un filosofo, medico, matematico, giudice e giurisperito berbero, considerato, insieme al suo precursore Avicenna, il più influente filosofo islamico del Medioevo. 71 ÉtienneGilsonnato a Parigi nel 13 giugno 1884 e morto ad Auxerre nel 19 settembre 1978, è stato un filosofo e storico della filosofia francese di ispirazione cattolica. 93 bilmente delle peculiari caratteristiche dell'ambiente in cui vedono la luce. Il rapporto tra fede e ragione, la possibilità di aprirsi a Dio e di dimostrare la sua esistenza saranno gli argomenti centrali. 2. La filosofia nelle città Nel XII secolo le città sono ormai ricche abbastanza per attrarre non solo mercanti e artigiani ma anche gli intellettuali. Essi appartengono ancora nell'orbita ecclesiastica (sono tutti chierici) ma non provengono più necessariamente solo da un ambito monastico. I vescovi sono infatti tenuti a organizzare presso la propria sede di residenza delle «scholae» per la formazione dei chierici e dei sacerdoti. In questi nuovi ambienti, a contatto con il vivace mondo delle città, anche le tematiche trattate cambiano: in particolare, la riflessione sulla conoscenza e sulla logica diventano il centro di gravità della filosofia. 3. La filosofia delle università Nel XIII secolo la grande novità è la nascita delle «universitates magistrorum et studentorum». Si tratta di associazioni che in qualche modo ricalcano le corporazioni medievali: sono persone che si mettono insieme spinte dal desiderio di studiare e di conoscere. Ovunque queste persone si incontrano (e possono incontrarsi nei luoghi più strani), lì c'è la «universitas». Solo in un secondo momento le autorità cittadine assegnano alle universitates delle sedi fisse. Nelle università si studiano apertamente i classici del passato e nel campo della filosofia e della teologia si cercano di realizzare grandi sintesi enciclopediche (le summae). 94 INDICE LA FILOSOFIA ELLENISTICA ................................................................. 2 EPICURO.............................................................................................. 5 LO STOICISMO .................................................................................. 18 L'ASTRONOMIA................................................................................. 33 CRISTIANESIMO PLOTINO ........................................................................................... 54 AGOSTINO......................................................................................... 66 DA UN MONDO ALL’ALTRO .............................................................. 91 95 INDICE ANALITICO Felicità .... 3; 9; 12; 16; 17; 25; 67; 69; 72; 74 Fisica ....... 5; 7; 24; 27; 29; 40; 71 A Amicizia ....................... 20; 52; 70 Amico .......................... 18; 20; 70 Amore . 48; 49; 52; 70; 72; 74; 91 Anima ....5; 6; 7; 8; 12; 13; 14; 15; 22; 24; 27; 31; 45; 52; 58; 60; 63; 64; 65; 66; 71; 72; 73; 74; 77; 81; 83; 91 Aristotele .......... 2; 23; 40; 55; 56 Astronomia 35; 38; 41; 42; 43; 44 I Infelice ...................................... 6 Infelicità ............................ 11; 79 Ipostasi .................. 58; 59; 60; 66 L B L’essere ............................. 26; 47 L’Uno ... 56; 57; 58; 61; 62; 63; 64 Logica .................. 8; 9; 13; 24; 95 Logos ..... 9; 23; 24; 25; 27; 29; 30 Bibbia .............. 48; 51; 52; 69; 72 M C Male 5; 13; 14; 15; 16; 17; 19; 25; 29; 30; 31; 50; 64; 71; 72; 78; 79; 80 Manichea ................................ 78 Cielo ... 24; 30; 34; 35; 40; 41; 44; 85; 86 Cristianesimo .................... 47; 96 Cristiano .......... 28; 49; 58; 62; 67 P D Dimostrazione ......................... 74 Dio.. 9; 11; 15; 28; 58; 61; 62; 63; 66; 71 Panteismo ......................... 33; 61 Platone . 6; 13; 18; 23; 38; 52; 55; 58; 62; 73; 74; 77 Psyché ..................................... 52 E R Eide ................. 62; 63; 64; 74; 77 Ragionamento ........................... 9 Religione ............... 64; 71; 73; 77 F S Fede .... 47; 48; 50; 69; 70; 81; 95 Felice ...2; 3; 9; 12; 13; 14; 16; 31; 74 Saggio ........................ 3; 9; 13; 31 Sfera ................ 11; 34; 35; 36; 39 Socrate .................. 15; 26; 50; 73 Stelle ....................................... 34 96 T Terra... 35; 36; 38; 39; 40; 41; 42; 43 Tempo .... 3; 7; 13; 16; 17; 19; 20; 21; 22; 26; 36; 55; 60; 62; 81; 83; 84; 85; 86; 87; 88; 89 97