La vita e le opere di Demostene costituiscono una sola cosa con le vicende di Atene e della Grecia. Sono vicende drammatiche all'interno delle quali egli appare sempre di più come un eroe tragico che va incontro al suo destino di morte. Nacque ad Atene nel 384. Il padre morì quando lui aveva sette anni e l'esperienza lo segnò. Atene dopo la grande depressione seguita alla guerra del Peloponneso stava conquistando posizione su posizione, mentre altre città mordevano il freno sotto il duro dominio spartano, altre tra cui Tebe, stringevano alleanza con lei, dando vita alla seconda Lega marittima. Fin da ragazzino Demostene voleva diventare un oratore e un uomo politico. Il primo passo su questa via fu segnato dai discorsi tenuti appena raggiunta la maggiore età contro i propri tutori che si erano impadroniti dell'eredità paterna. Seguirono anni di intenso lavoro come logografo, un'attività redditizia che intraprese però non per denaro ma per passione, per perfezionare la sua preparazione personale e introdursi gradualmente nella vita pubblica. L'ultimo passo fu compiuto con la composizione di alcuni discorsi per processi politici. Da una politica di non ingerenza a una politica di intervento La guerra sociale era finita male e la seconda Lega marittima era andata via via dissolvendosi. L'opposizione interna già da tempo scalpitava nei confronti del gruppo democratico al potere. Nel 355 il gruppo democratico al potere fu travolto dagli attacchi concentrici e dagli scandali. Subentrò un governo che faceva capo a Eubulo, espressione degli interessi dei ceti possidenti e dei circoli culturali conservatori. Demostene entrò direttamente nel dibattito in corso con il discorso Sulle simmorie (354), che nonostante alcune apparenti contraddizioni si inserisce nella linea politica di Eubulo. Facendo leva su voci di massicci preparativi di guerra della Persia, i gruppi democratici battuti alimentavano la psicosi di un'imminente invasione della Grecia. Proponevano una guerra preventiva. Il popolo sovreccitato voleva subito la lotta armata contro il nemico ereditario. Demostene non era convinto dell'imminente attacco e neppure che il vero nemico della Grecia fosse il Gran Re. Pensava che sarebbe stato un grave errore assumer il ruolo di aggressore e illudersi che tutto si sarebbe concluso rapidamente. Sostenne la necessità di un rafforzamento della flotta mediante la riforma delle simmorie cioè dei gruppi di cittadini tenuti ad accollarsi l'onere della costruzione delle navi; propose che, date le difficoltà economiche in cui versavano i ricchi, il numero dei cittadini obbligati alla contribuzione fosse elevato da 1200 a 2000. Le prime avvisaglie di un mutamento si notarono già nell'orazione Per i Megapolitani (353) che affrontava i problemi dei rapporti fra le città egemoni della Grecia: Atene, Sparta e Tebe. L'occasione fu offerta dalla richiesta degli ambasciatori di Megalopoli, città dell'Arcadia, di un'alleanza difensiva contro Sparta, che minacciava la loro autonomia. Gli interessi di Atene esigevano di schierarsi accanto ai Megalopolitani. La proposta fu bocciata ma Demostene ripropose il problema nell'orazione Per la libertà di Rodi (351). Essi erano stai i primi a staccarsi dalla Lega marittima su istigazione del re di Caria, Mausolo. Questi, venuti ad Atene, avevano riconosciuto il loro errore e chiesto di rinnovare l'antica alleanza. Mentre la maggior parte degli Ateniesi voleva abbandonarli al loro destino. Demostene prese le loro difese per un preciso calcolo: vi scorgeva un'occasione da non perdere per risalire la china. Dietro i Rodii altri sarebbero tornati all'ovile e Atene avrebbero a poco a poco riacquistato l'antica influenza. La proposta fu ancora una volta bocciata. La rottura con Eubulo appariva ormai evidente: era impossibile collaborare con gli amici di un tempo ed era necessario fare appello direttamente al popolo. Filippo di Macedonia: il nemico mortale Intanto si affacciava sempre più minaccioso sulla scena della Grecia Filippo di Macedonia. Demostene scagliò allora la Prima Flippica (351) per ammonire gli Ateniesi a sfruttare il momento propizio che la sorte offriva piuttosto che cullarsi nella vana speranza che il pericolo fosse scomparso. Dovevano anzi assumere l'iniziativa. Gli Ateniesi non si mossero e Filippo attaccò Olinto (349), importante città greca della penisola Calcidica. Era chiaro che il re mirava a fare del suo paese una grande potenza e che Atene avrebbe dovuto misurarsi con lui. Demostene pronunciò allora le tre Olintiche. Riecheggiando motivi già presenti nella Prima Filippica ma resi più drammatici dall'incupirsi della situazione e dall'urgenza delle scelte, proponeva un intervento immediato prima che fosse troppo tardi, per terra e per mare. Gli ultimi fatti erano presentati come occasione (kairós) offerta dalla divinità agli Ateniesi per riscuotersi dallo stato di apatia e di torpore in cui erano piombati. Demostene cercò prima di tutto di demolire l'immagine del monarca mettendo a nudo le sfrenatezze della sua vita privata e della sua corte; poi attacco la sua tanto decantata potenza presentandola più come frutto dell'inerzia degli altri che di un reale valore. Questa volta le speranze di successo per Atene erano migliori perché lo stesso gruppo al potere con a capo Eubulo e il partito pacifista erano favorevoli a un intervento in difesa di Olinto. Senonché l'antico contrasto riesplose subito sull'entità e sui modi dell'intervento. Demostene arrivò a proporre la trasformazione della cassa dei theoriká, cioè dei fondi messi a disposizione dallo stato perché tutti i cittadini potessero assistere agli spettacoli pubblici nelle grandi festività in una cassa per la guerra: la proposta non fu approvata. Olinto cadde nel 358 e le fiorenti città della penisola Calcidica furono distrutte: Demostene faceva parte della delegazione mandata a chiedere la pace. Atene alla fine dovette accettare la pace di Filocrate (346) che portava Filippo a sedere tra i membri dell'anfizionia di Delfi e a rafforzare il suo ruolo di arbitro nella lotta tra le poleis. Con il discorso Sulla corrotta ambasceria (343) Demostene accusò Eschine di essersi lasciato corrompere dall'oro macedone, durante il negoziato di pace. Eschine rispose con un discorso dal medesimo titolo con il quale accusava Filocrate e lo stesso Demostene: Eschine si salvò, Filocrate fu costretto ad andare in esilio. Il partito di Eubulo stava perdendo autorevolezza, era la voce di Demostene a dominare e a ottenere consensi crescenti. Filippo estendeva la sua influenza sulle regioni del nord. In questa atmosfera di preguerra nacque la Terza Filippica (341) la più bella e la più innovativa sul piano della concezione politica. Dopo che la potenza di Filippo si era manifestata nel suo minaccioso e incessante moto di espansione l'angusta politica di Atene appariva ormai superata. Nessuna polis poteva sperare di salvarsi da sola, perché il nemico era troppo potente. Se c'era una possibilità di salvezza doveva per forza scaturire da una unità del tempo e da una lotta comune. Per Demostene il nemico da battere era proprio quel Filippo che il vecchio retore aveva di recente eletto a guida della sua spedizione contro la Persia. Questa volta Demostene non rimase inascoltato: varie città strinsero alleanza con Atene. Nella quarta filippica Demostene esortò i Greci a riconoscere la nuova realtà storica e a deporre il tradizionale atteggiamento di ostilità nei confronti dell'impero persiano. Venne mandata un ambasceria al Gran Re per sollecitare un patto contro il comune nemico, ma la missione fallì. Anche i Tebani voltarono le spalle ai Macedoni e si unirono agli altri Greci. Il grandioso flash-back dell'orazione Sulla Corona A Cheronea tramontò l'ideale politico della polis e il sogno di libertà di Demostene svanì per sempre. Eschine nel 330 tentò di mettere sotto accusa la sua politica nell'orazione Contro Ctesifonte, un tale che aveva proposto di onorare Demostene con una corona d'oro per i servigi resi alla polis, egli salì di nuovo sulla tribuna e replicò con l'orazione Sulla Corona, un'appassionata difesa della sua vita e del suo operato oltre che uno dei capolavori dell'oratoria. Eschine è sempre l'odiato antagonista inferiore per condizione sociale spregevole, pronto a vendere la patria per l'oro macedone. Eschine aveva creduto di celebrare un facile trionfo sul nemico caduto e che il corso della storia aveva clamorosamente smentito. Ma il popolo ateniese a testimonianza della passione con cui negli ultimi anni si era stretto al suo capo e aveva lottato per la libertà, non fu con lui, ma con Demostene. Eschine, non avendo ottenuto neanche un quinto dei voti, preferì abbandonare Atene. La vita di Demostene, invece, ebbe ancora qualche sussulto. Nel 324 era fuggito da Babilonia l'infedele tesoriere di Alessandro, Arpalo, con un'enorme somma di denaro e si era rifugiato in Atene. Qui il tesoro fu posto sotto sequestro e la sua custodia affidata a Demostene; ma quando fu eseguito il controllo, ci si accorse che metà della somma era scomparsa. La commissione di inchiesta nominata per accertare le responsabilità accusò Demostene di essersi appropriato di 20 talenti. Seguì il processo e Demostene fu condannato a un'ammenda di 50 talenti, non per appropriazione di denaro ma per mancata custodia. Finito in prigione perché non poteva pagare, riuscì a fuggire. Dall'esilio ritornò trionfalmente, quando la Grecia alla notizia della morte di Alessandro, si levò in armi contro l'oppressore macedone. Fu per l'ultima volta l'anima della resistenza. Poi fuggì nell'isola di Cauria, al largo dell'Argolide, si diede la morte con il veleno. Era l'autunno del 322. Iperide, il compagno di tante battaglie, era caduto poco prima. Ammiratori e detrattori Per la tradizione classicistica antica che riconosceva nella polis e nelle sue istituzioni la cifra peculiare della civiltà greca, Demostene è stato l'ultimo sfortunato alfiere della democrazia e della libertà greca. Droysen, lo scopritore dell'Ellenismo, presenta Filippo e Alessandro come grandi personaggi che sapevano precorrere un'epoca, e Demostene nel suo ostinato attardarsi intorno a strutture e valori provinciali superati dal tempo, ne esce invece rimpicciolito; veniva riscoperto Isocrate, l'oratore che aveva capito Filippo, caldeggiando l'ideale panellenico e la spedizione contro la Persia. Oggi la tendenza prevalente è quella di valutare Demostene non in rapporto agli sviluppi della civiltà ellenistica ma all'interno del suo ambiente e del suo tempo, proprio come ateniese e come greco. Demostene si è reso subito conto della grandezza di Filippo e della pericolosità del suo espansionismo. Con un realismo però ben maggiore di quello di Isocrate, Demostene non si è fatto mai delle illusioni sulle intenzioni di Filippo. Sapeva che non avrebbe potuto essere il benefattore dei Greci senza esserne il re, senza provocare la fine di quella civiltà delle poleis a cui dai tempi di Esiodo era indissolubilmente legata l'anima della Grecia. La figura di Demostene idealizzata e idoleggiata assurge ben presto a valore di simbolo e a lui si richiamano attraverso i secoli personaggi famosi nella loro lotta in difesa della libertà e della civiltà: ricordiamo Cicerone, che dà il nome di Filippiche ai suoi infuocati discorsi contro Antonio, o Clémenceau che con il suo Démosthène (1926) cerca di risvegliare la Francia contro le mire egemoniche dei "barbari" Tedeschi. Non scritte per essere lette in particolari circoli culturali, ma per essere pronunciate, effettivamente davanti alle turbolente assemblee della Pnice, travolgono il pubblico con l'impetuosità del pathos, la deinótes (terribilità) demostenica e con un linguaggio corposo e colorito, che va diritto allo scopo. Le esigenze della verità, le sottigliezze delle argomentazioni, gli artifici retorici passano in secondo piano; grande importanza assumono invece per screditare gli avversari, la deformazione caricaturale e l'insulto; per sollecitare il popolo, il rimbrotto e l'esortazione. Ma il fascino maggiore dell'opera demostenica deriva dall'ombra che sulle conclamate certezze provoca l'incombere di un cupo destino, la tuche, che nei primi discorsi appare come l'occasione favorevole che basta afferrare a poco a poco e soprattutto nel discorso Sulla Corona assume l'aspetto di una divinità che abbandona l'uomo in balia di eventi senza senso. L'esito delle azioni umane è nelle mani degli dei; ma questi ultimi consentono a un barbaro di opprimere un popolo che difende la sua terra e la sua libertà; e allora tutto diventa incomprensibile.