Introduzione al corso di filosofia morale La filosofia morale è quella parte della filosofia che si occupa dell’agire dell’uomo, delle sue scelte, delle sue finalità e anche dei mezzi per raggiungerle. Si chiama anche filosofia pratica, appunto perchè il suo oggetto è la prassi, l’applicazione della ragione a tutte le circostanze della vita per poter conseguire il massimo bene per l’uomo (la vita buona o anche la felicità). Normalmente la si chiama anche etica. Non vi è infatti una particolare differenza semantica tra i due termini “etica” e “morale” che sono praticamente sinonimi ed usati indifferentemente dalla stragrande maggioranza dei filosofi. La differenza sta solo nella diversa provenienza linguistica: etica viene dal greco ethos che significa “comportamento, costume” (cfr. Aristotele), mentre morale viene dal latino mos, che significa peraltro la stessa cosa (cfr. Cicerone). C’è qualche eccezione, seppure cospicua. Hegel, per esempio, nella sua Filosofia dello Spirito, descrivendo lo sviluppo dialettico dello Spirito Oggettivo distingue tra moralità (Moralitat) ed eticità (Sittlichkeit), intendendo con il primo termine il complesso delle scelte morali relative alla libera soggettività del singolo individuo e con il secondo la piena realizzazione ed universalizzazione di tali scelte particolari nell’ambito delle istituzioni (famiglia- società civile – stato). C’è da rilevare, in proposito, che Hegel approfondisce e sviluppa una piccola differenza che in realtà esiste nell’etimo greco di ethos rispetto al latino mos. Ethos infatti significa in primo luogo “dimora”, cioè l’insieme delle consuetudini, tradizioni e costumi in cui l’individuo nasce, si sviluppa e vive. E’ evidente che con questa sottolineatura Hegel vuole marcare la differenza della sua etica rispetto all’autonomismo kantiano: la coscienza morale dell’uomo kantiano, che sceglie il bene soltanto in conformità con la legge morale che ha costitutivamente dentro di sé, appare ad Hegel astratta ed antistorica, incapace di dare il giusto rilievo al peso delle determinazioni prodotte nella coscienza dalle istituzioni, dagli ordinamenti e dalle leggi. Ma torniamo alla definizione di f.m. Scrive Antonio Da Re (Filosofia morale, Bruno Mondadori, Milano, 2008, introduz. p. XI): “La riflessione filosofica che ha per oggetto l’ambito della prassi umana, colta nella molteplicità delle sue espressioni, da quelle di carattere più personale a quelle più direttamente collegate all’esperienza giuridica e politica, viene solitamente definita filosofia morale o etica filosofica (a sua volta chiamata anche, più semplicemente, etica). Tra le due denominazioni la prima appare essere maggiormente affine alla tradizione culturale e accademica italiana, mentre la seconda si è imposta negli ultimi anni, a livello internazionale, con sempre maggior forza, e ha finito poi per essere ampiamente accolta anche nel nostro paese”. Definita così, in termini generali, la f.m. ed il suo oggetto, passiamo ad esaminare altre questioni preliminari. 1 Qual è il problema di fondo della f.m. ? La sua “questione capitale” come la chiama Maritain? Scrive appunto Jacques Maritain (in: Elementi di filosofia, Massimo, Milano, 1988, pp. 189–193) che la “questione capitale” a cui la filosofia pratica (così il Nostro definisce l’etica) deve rispondere è anzitutto quella di “sapere in che cosa consiste il fine ultimo o il Bene assoluto dell’uomo”. In secondo luogo deve studiare “gli atti mediante i quali l’uomo si rivolge verso il suo fine ultimo o se ne allontana”. Infine deve “scendere alla determinazione più particolare degli atti umani e delle loro regole”. Il filosofo neo-tomista prosegue poi indicando, in rapporto al problema del fine ultimo dell’uomo, tre grandi suddivisioni dell’etica: - La scuola di Aristotele (e dopo di lui San Tommaso) che insegna “che tutta la vita morale dipende dalla tendenza al bene sovrano dell’uomo o alla beatitudine e che l’oggetto in cui consiste tale beatitudine è Dio, Dio che noi dobbiamo amare non per noi ma per lui”. - Le scuole che condizionano gli atti umani ad un fine particolare : al piacere (edonismo: Aristippo /Epicuro) o all’utile (utilitarismo: Bentham/Stuart Mill) o allo Stato (Hegel e i sociologisti contemporanei) o all’umanità (Comte) o al progresso (Spencer) o alla simpatia (Hume/scuola scozzese) o alla pietà (Schopenhauer) o alla produzione del Sopra-uomo (Nietzsche). - Le scuole che pretendono che la virtù (stoicismo/Spinoza) o il dovere (Kant) bastino in sé, identificando la virtù con la felicità e sostenendo che la ricerca della felicità fine a se stessa sia sostanzialmente immorale. A )La posizione del pensiero di ispirazione cristiana Che la “questione capitale” della f.m. sia la ricerca del bene assoluto per l’uomo è cosa condivisa da tutta la f.m. di ispirazione cristiana. Facciamo qualche esempio. - La prof.ssa Sofia Vanni Rovighi sostiene che l’uomo ha un fine supremo da raggiungere, al quale orienta di fatto tutti i fini particolari che si propone di realizzare, e che questo fine consista ultimamente nel rendere concreta quell’idea divina che ha presieduto alla creazione dell’uomo da parte di Dio e che è all’interno di ogni coscienza. Quell’idea è appunto la pienezza dell’essere umano (plenitudo essendi), la sua perfezione – o , se si vuole, la sua felicità, a patto naturalmente di intendere quest’ultima come la completa perfezione di un ente e non come uno stato materiale o psicologico particolare. Questo primato del fine sulla legge (Kant) rappresenta la caratteristica fondamentale dell’etica cristianamente intesa (cfr. Istituzioni di filosofia, La Scuola, Brescia, 1982, pp. 133-135). - Battista Mondin, dopo aver definito la f.m. come “lo studio dell’attività umana con riferimento al suo ultimo fine, che è la piena realizzazione dell’umanità”, passa a delineare le tre condizioni trascendentali dell’agire morale (che sono: la libertà, la coscienza e la norma morale) per concludere poi con la suddivisione delle morali in due grandi gruppi: le morali teleologiche, costruite sul principio del fine, e le morali 2 deontologiche, costruite sul principio del dovere. Al primo gruppo si ascrivono l’edonismo (Sofisti,Epicurei,Hobbes,Bentham,Freud), l’utilitarismo (Hume, Russell), l’eudemonismo (Aristotele, San Tommaso),l’etica dei valori (Hartmann, Scheler); mentre del secondo fanno parte lo stoicismo ed il formalismo kantiano. C’è però un terzo gruppo di filosofie morali che rifiuta qualsiasi principio assoluto dell’agire, sia esso un fine ultimo oppure il senso del dovere, sostenendo che le esigenze morali siano determinate dalle circostanze ambientali o da mere condizioni di fatto (relativismo/situazionismo). A tale gruppo appartengono sia i sofisti, gli scettici e i nominalisti, sia i marxisti e i neopositivisti (cfr. Introduzione alla filosofia, Massimo, Milano, 1987, pp.116-131). - Antonino Poppi, professore di f.m. all’Università di Padova, partendo dall’assunto che la f.m. sia parte integrante della grande domanda metafisica sul rapporto dell’uomo con il mondo e che perciò debba specificamente occuparsi “della sua vita, dei suoi desideri e preferenze, dell’orientamento e della norma della sua azione, del suo destino” e “rispondere all’umanissima e sempre risorgente domanda: come debbo vivere? Cosa devo fare? Come diventare migliore e più felice?”, assegna alla f.m. il compito di “cogliere l’azione umana e i diversi comportamenti e costumi che ne conseguono non tanto nella loro utilità immediata o nella perfezione esecutiva, quanto piuttosto nel perché del loro dirsi morali o immorali” (cfr. Per una fondazione razionale dell’etica, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1998, pp. 9-16). Più avanti, dopo aver citato S. Agostino (nulla est homini causa philosophandi, nisi ut beatus sit), sottolinea la priorità della ricerca del fine ultimo, sostenendo che “l’identificazione del fine ultimo dà senso e conferisce unità alla nostra vita incanalandone i singoli istanti ed i singoli atti verso quella duratura pienezza e quel trasalimento di gioia che viene chiamato beatitudine”, per concludere che “il nostro sommo bene non può essere riposto che in un bene trascendente e infinito, cioè solo in Dio” (ibid., pp.8088). - Per il filosofo scozzese (ma da tempo residente in USA) Alasdair MacIntyre, autore di un testo molto influente apparso nel 1981, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale (pubblicato in Italia nel 1987 per i tipi della Feltrinelli), la domanda fondamentale di una f.m. è : “che genere di persona devo diventare? In un certo senso, questa è una domanda ineludibile, perché in pratica ciascuna vita umana fornisce ad essa una risposta. Ma per le morali tipicamente moderne è una domanda cui ci si può accostare solo indirettamente. La domanda principale dal loro punto di vista verteva sulle regole: quali regole dovremmo seguire? E perché dovremmo rispettarle? E non sorprende che sia stata questa la domanda principale, se richiamiamo alla mente le conseguenze dell’eliminazione della teleologia aristotelica dal mondo morale” (tr.it. cit. p. 146). MacIntyre ritiene infatti che la morale occidentale abbia subito “una vera e propria catastrofe che ha colpito un patrimonio etico millenario” rappresentato dalla concezione aristotelica della vita buona e della virtù. Tale catastrofe è stata provocata dall’Illuminismo che “ha combattuto pervicacemente , e con successo, la visione aristotelica di una natura umana orientata teleologicamente, che va realizzata e coltivata attraverso la cura delle disposizioni virtuose”, spianando così la strada all’emotivismo, che ritiene “non sia possibile 3 fornire alcuna spiegazione razionale delle norme e dei principi morali; questi vengono considerati come mera espressione soggettiva e appunto emotiva delle diverse volontà soggettive”. Per il nostro A. questo progetto è miseramente fallito, come ha acutamente mostrato Nietzsche con la sua analisi fortemente decostruttiva dei concetti morali. Le domande dell’etica contemporanea, tutte concentrate sulle norme, sulle regole da osservare, sui requisiti di imparzialità, di impersonalità e di universalità, svelano, a fronte della critica nicciana, tutta la loro inconsistenza e la loro incapacità a ricostruire la filosofia morale su nuove basi, sfociando – a detta di MacIntyre – in un’alternativa che non ammette una terza possibilità: o Nietzsche (cioè l’impossibilità strutturale di un’etica delle regole) o Aristotele (l’etica delle virtù). Quest’ultima si fonda su di un “concetto funzionale di uomo, come essere dotato di una natura essenziale e di uno scopo determinante da realizzare: il riferimento alla funzione propria dell’uomo, al suo fine, è cioè incluso nella definizione di uomo” (cfr. Da Re, op. cit., pp. 248-253). - Molto interessante (anche se piuttosto complessa ed articolata) è la posizione di Giuseppe Abbà, salesiano, docente di filosofia morale presso l’Università Pontificia Salesiana, il quale ripropone la validità dell’etica tomista (e quindi condivide la tesi che la domanda principale di una vera f.m. sia: “quale modo di vivere è migliore e degno dell’uomo? Qual è la vita veramente buona che merita di essere vissuta? Come possiamo diventare migliori e vivere la miglior vita singolarmente e insieme?”) dopo un serrato confronto dialettico con tutte le altre impostazioni di f.m. (o “figure morali”, come preferisce chiamarle: “con questo termine intendo designare ciò per cui si diversificano le filosofie morali, cioè: l’impostazione, col suo tema, i suoi presupposti e le sue pretese di conoscenza; i principi e le conclusioni normative; la collocazione della filosofia morale rispetto alle altre discipline, filosofiche e non; l’area di problemi pratici privilegiata”). Vediamo in rapida sintesi il percorso del nostro Autore (cfr. Quale impostazione per la filosofia morale?, LAS, Roma, 1996). Partendo dall’assunto che la f.m. “sorge come riflessione sulla prassi per rispondere filosoficamente ai problemi pratici degli individui e delle società. Perciò la discussione circa la sua impostazione deve considerare le figure di etica non solo nella loro genealogia storica e nella loro identità filosofica, ma anche secondo la loro capacità di rispondere ai problemi pratici del presente” (p. 205), Abbà passa a descrivere la situazione della f.m. nell’età contemporanea come un perenne conflitto tra la figura antica dell’etica, intesa come “ricerca sul miglior modo di condurre la vita” (Aristotele e San Tommaso, che ne dà una visione cristianamente ispirata), e le quattro figure moderne, cioè impostate sul progetto di modernità: l’etica kantiana, l’etica hobbesiana, l’etica humeana e l’etica utilitaristica. Il conflitto nasce dal fatto che il “progetto della modernità” – a differenza di quello antico e cristiano – mira “ a introdurre nella vita sociale una specifica razionalità che, in qualsiasi modo venga intesa, esclude in ogni caso il ricorso all’autorità, alla tradizione, alla fede religiosa; include invece ragioni accessibili a tutti, condivisibili da tutti, valide per tutti. Inoltre il progetto della modernità fa affidamento su soggetti umani concepiti come individui indipendenti, svincolati da ogni legame sociale, 4 naturale o storico, da ogni fine normativo, e liberi di definire la propria identità , qualsiasi essa sia. Per individui simili la morale non è data, ma costruita; non è scoperta, ma progettata; non è imposta, ma optata. Infine il progetto della modernità riconosce valore a qualsiasi concezione di vita o a qualsiasi forma di cultura, purchè si adatti alle esigenze della razionalità e gli individui restino liberi di adottarla o di abbandonarla”(pp. 205-206). La divergenza più macroscopica consiste – per Abbà – nella diversa concezione del soggetto agente e nella scelta della prospettiva della prima o della terza persona. Le due questioni sono in realtà strettamente legate e consequenziali: “il punto di vista della prima o della terza persona è decisivo per determinare il genere di morale e la figura di etica ad esso appropriata. Ma a sua volta l’assunzione dell’uno o dell’altro punto di vista è subordinata alla concezione del soggetto agente: solo la concezione del soggetto autore si presta ad assumere il punto di vista della prima persona, mentre la concezione del soggetto radicalmente libero ed autonomo e quella del soggetto utilitario richiedono il punto di vista della terza persona per rendere ragione della rispettiva morale” (p. 235). Che cosa s’intende per prima persona è abbastanza chiaro: l’esperienza morale deve essere considerata come una pratica “eminentemente personale”, come un’attuazione delle capacità costitutive della persona. L’etica di Aristotele e quella di san Tommaso sono etiche costruite dal punto di vista della “prima persona”, perché considerano la vita buona un fine che ogni soggetto agente deve cercare di realizzare nella propria esistenza, attraverso una condotta di vita orientata a quel fine . L’etica della terza persona comincia ad imporsi quando – a partire da Giovanni Duns Scoto (1265-1308) – il soggetto viene esautorato a favore della legge, per cui la f.m. diventa “la ricerca sulla legge morale che i soggetti umani liberi sono obbligati ad osservare” (p. 83). La nuova scienza morale abbandona il problema pratico del soggetto agente, della prima persona, per adottare “il punto di vista o del legislatore o dell’osservatore, cioè della terza persona” (p. 96). La questione del soggetto agente è la seguente: “quale concezione del soggetto agente è richiesta dalla morale ed è più appropriata ad essa?” (p. 248). Abbà passa in rassegna i vari soggetti proposti dalle diverse figure morali – il soggetto utilitario (nato grazie alla diffusione dello scetticismo e alla perdita della capacità di verità da parte della ragione nell’età moderna), il soggetto delle passioni o del senso morale (Hume), il soggetto radicalmente libero e autonomo (Kant) – per arrivare alla conclusione che “il soggetto agente, così come se lo rappresentano le figure moderne di etica teologiche o filosofiche, sia esso utilitario o radicalmente libero o una combinazione dei due, non è appropriato alla morale” (p. 264). Infatti – continua – “queste figure di etica non consentono di capire chi noi siamo, trascurano qualcosa di essenziale in noi, stravolgono la nostra identità e ci alienano da noi stessi. Esse ritengono ovvio che noi siamo soggetti radicalmente liberi, autonomi e utilitari, mentre per la maggioranza delle figure premoderne di etica (platonica, aristotelica, stoica, neoplatonica, agostiniana, tomista) era invece ovvio che noi siamo soggetti aspiranti a un bene divino, trascendente l’umano” (pp. 265-266). 5 La conclusione finale di Abbà è la seguente:”sembra proprio che la concezione tomista del soggetto agente sia quella in cui riusciamo a riconoscerci, a capire chi siamo; sembra che essa sia il miglior resoconto su noi stessi tra quelle che ci vengono proposte dalle diverse figure di etica” (p. 272). Se dunque la f.m. va correttamente impostata come “filosofia pratica della condotta umana in vista della vita buona”, ne consegue che la definizione più calzante di essa è “un insieme di ricerche che mirano a reperire e giustificare razionalmente i principi secondo i quali i soggetti umani devono regolare la loro condotta per realizzare una vita veramente buona, la miglior vita umana o il miglior genere di vita” (p. 314). B) Le altre posizioni Per altri autori la questione principale della f.m. è altra rispetto alla ricerca del bene assoluto per la persona e la riflessione morale si concentra su obbiettivi diversi. Utilizzo ancora, per comodità e per chiarezza espositiva, la tipologia suggerita da Abbà per illustrare le diverse opzioni che si oppongono all’etica della vita buona. - La f.m. come ricerca sulla legge da osservare Abbiamo già detto poco sopra (parlando dell’etica della terza persona) che questa “figura di f.m.” data dagli inizi del XIV secolo, per opera della riflessione di Giovanni Duns Scoto (1265-1308) e di Guglielmo di Ockham (1295-1350). Per questi filosofi la legge divina non è più solo un insegnamento impartito da Dio alla nostra coscienza per imparare a vivere secondo prudenza, sapienza e verità, ma diventa un comando perentorio della libera volontà divina che ci impone la pratica di certe azioni o il divieto di certe altre per poter conseguire la salvezza eterna. Esautorato così il soggetto agente ed emarginata la virtù dalla vita morale, la ricerca morale si avvia su di una strada ben diversa dall’etica antica (aristotelica e tomista) per concentrarsi interamente sulla conoscenza della legge morale da osservare. Questa direzione continua con Francisco Suarez (1548-1617) e con tutta la teologia casuista (o legalista) del ‘600 per sfociare poi nella moderna versione secolarizzata dell’etica della legge naturale. Con Ugo Grozio (1583-1645) la nuova base del consenso morale diventa la legge naturale, in forza di due importanti requisiti: la sua razionalità e la sua accessibilità da parte di tutti, indipendentemente dal credo religioso. Ma la sua piena e coerente realizzazione si manifesta solo nell’etica kantiana. Qui appare l’idea di una libera volontà “che accetta come legge solo la legge che essa dà a se stessa e che obbedisce a tale legge solo per il motivo che essa è legge” (p. 97). - La f.m. come ricerca delle regole per la collaborazione sociale Questa impostazione di f.m. ha il suo capostipite in Thomas Hobbes (1588-1679), il quale intende costruire l’etica come una “nuova scienza” centrandola sulla conoscenza delle vere cause della condotta umana, cioè le passioni, e delle leggi “secondo cui da quelle cause si possono produrre infallibilmente certi effetti nel comportamento umano” (p. 104). Così la morale diventa “scienza della 6 collaborazione sociale” , sulla base di una conoscenza naturale dell’uomo, dei suoi istinti, delle sue passioni e paure, della sua conflittualità e del suo desiderio di autoconservazione. Il riconoscimento della legge morale naturale come legge che regola la vita degli uomini in società si fonda su due premesse: da un lato la razionalità (intesa in senso strumentale, cioè come razionalizzazione dell’egoismo finalizzata a realizzare il fondamentale istinto dell’autoconservazione), dall’altro la contrattualità (il patto sociale stretto tra i sudditi, orizzontalmente, e con l’unico sovrano assoluto, verticalmente). Insomma: “nella versione hobbesiana la moralità è un’istituzione o convenzione stabilita da calcolatori razionali per migliorare la condizione umana a vantaggio di tutti tramite la collaborazione secondo regole di giustizia. Da questa convenzione e dalle sue regole sono definiti il giusto e il torto, il bene morale e il male morale” (p. 107). Tra le versioni contemporanee della morale hobbesiana ne spiccano due: - la versione neo-contrattualistica di John Rawls (1921-2002) - l’etica del discorso di Jurgen Habermas (1929). Rifacendosi, oltre che ad Hobbes, a Locke, Rousseau e soprattutto a Kant, l’americano John Rawls – nel suo famoso libro Una teoria della giustizia (Feltrinelli, Milano, 1982) – pensa che l’effettivo fondamento della morale non sia più il contratto sociale, ma le intuizioni comuni circa la giustizia. Contro ogni forma di utilitarismo, Rawls sostiene il primato del giusto sul bene ed immagina una “posizione originaria” in cui i vari soggetti razionali – in una supposta situazione di equità e di eguaglianza, ignari delle proprie differenze (il cosiddetto velo di ignoranza) – scelgano i principi fondamentali di un’ etica pubblica da applicare alle istituzioni fondamentali della società. Questi principi di giustizia si riducono a due: il principio di libertà, che è il più importante e fondamentale, e il principio della equa distribuzione delle risorse (tenendo conto della presenza dei “meno avvantaggiati”). Secondo Abbà questa posizione di Rawls ha riscosso tanto successo in quanto “si presenta come la soluzione particolarmente appropriata al problema pratico tipico delle odierne società democratiche pluraliste: il problema di reperire un’etica pubblica per la pacifica convivenza e la vantaggiosa collaborazione tra persone che perseguono diverse concezioni del bene e della vita buona” (p. 123). Anche l’etica di Jurgen Habermas (cfr. Etica del discorso, Laterza, Bari, 2000) punta all’imparzialità del punto di vista morale, ma Habermas critica Rawls perché il suo punto di partenza – la cosiddetta “posizione originaria” – è un semplice artificio che finisce col rendere i presupposti della sua etica totalmente fittizi ed infondati. Basta tener presente – sostiene Habermas – la situazione reale, nella quale con la semplice “prassi argomentativa” è già possibile guadagnare l’imparzialità di un punto di vista. Infatti, quando gli uomini vogliono comunicare fra di loro rispettano implicitamente certe condizioni di validità del discorso (H. ne cita quattro: comprensibilità, verità, veridicità e giustezza) che finiscono inevitabilmente coll’avere un’indiretta valenza morale. L’etica discorsiva “richiede ai partecipanti alla discussione di giustificare argomentativamente le proprie posizioni, di riconoscere gli altri attori dell’interazione comunicativa, di trattarli su un piano di 7 uguaglianza e pariteticità, ovvero, in definitiva, di dar vita al procedimento dell’argomentazione morale” (Da Re, op.cit., p. 243). Oltre alla correttezza della prassi argomentativa, il procedimento dell’argomentazione morale richiede anche un “paradigma comunicativo”, cioè – come spiega sempre Da Re – occorre che preliminarmente “siano prese in considerazione le pretese e gli interessi di tutti i soggetti coinvolti nel discorso” sulla base del principio D (accordo di tutti i partecipanti sulla validità delle norme del discorso) e successivamente si adotti il principio U (principio di universalizzazione: “le norme morali sono valide quando gli effetti e le conseguenze secondarie possono essere accettati da tutti gli interessati senza costrizione”). Conclude Da Re su Habermas: “E’ proprio riconoscendo le pretese di validità universale della comunicazione che l’etica discorsiva si legittima come etica universale, capace di trascendere la particolarità del punto di vista di determinate civiltà e culture” (cfr. op.cit., pp. 242-248). - La f.m. come spiegazione del comportamento umano Questa figura morale fa capo a David Hume (1711-1776) che, con il suo Trattato sulla natura umana del 1740, intende la f.m. come una vera e propria scienza della natura dell’uomo, del tutto indipendente da ogni religione o metafisica ma basata sulla osservazione e sul metodo sperimentale come le altre scienze della natura. L’etica di Hume è totalmente descrittiva: infatti si limita a spiegare il comportamento morale ricorrendo esclusivamente a fatti della natura umana, riscontrabili grazie all’osservazione empirica. L’uomo di Hume – scrive Abbà – è “di fatto un uomo che si trova ad avere certi moventi naturali che lo inclinano ad un comportamento morale. Non c’è bisogno di spiegare tale comportamento ricorrendo a Dio, non c’è bisogno di chiedersi perché l’uomo è fatto così, né c’è bisogno di cercare giustificazioni per la morale” (p. 131). Tra le passioni, che secondo Hume sono la vera causa dell’agire umano, spicca la simpatia, quella che consente il passaggio da un comportamento non–morale a quello morale. Grazie alla simpatia l’individuo esce dal suo isolamento e comunica con le passioni degli altri “sentendo in sé le stesse passioni che altri sentono verso lo stesso oggetto e quindi lo stesso piacere o la stessa pena” (p. 133). Tra quanti ripropongono oggi le tesi di Hume cito Eugenio Lecaldano, professore di f.m. all’Università di Roma, che in un recente libro (Prima lezione di filosofia morale, Laterza, Bari, 2010) sostiene che “alla radice della moralità c’è una peculiare capacità sentimentale degli esseri umani, istintiva e originaria, e questa spiegazione sentimentalistica della moralità come fatto primario della nostra natura comporta che la sensibilità morale non può essere certo acquisita attraverso discorsi o ragionamenti” (op.cit., p. 9). Rifacendosi alle “due spiegazioni naturalistiche non razionalistiche più compiute della moralità: quella filosofica offerta da Hume e quella biologica ed evoluzionista presente nelle opere di Charles Darwin” (p. 25), il Lecaldano muove critiche radicali (cfr. pp. 17-24) sia all’etica teologica (quella che fa discendere la morale direttamente da un comando divino) sia a quella naturalistica (la morale iscritta nella natura delle cose come legge naturale che l’uomo può cogliere in forza della sua costituzione razionale) sia infine all’etica razionalistica (quella che fa derivare “la moralità direttamente dalla peculiare facoltà razionale di 8 cui solo gli esseri umani sono dotati e che permette loro di cogliere quei principi morali, assoluti e universali, dotati effettivamente di verità”). In questa prospettiva la morale non si colloca più sul “piano dell’enunciazione di principi assoluti o della predicazione di norme universali, ma come una sensibilità che permette di orientarsi nel giudicare e valutare ciò che gli altri esseri umani stanno facendo e di sottoporre a continuo esame le nostre stesse scelte” (p.15). La “questione capitale” della f.m. (per tornare alla domanda iniziale di questo paragrafo) secondo questo punto di vista “si caratterizza per il fatto di privilegiare le questioni pratiche concernenti le condotte degli esseri umani che incidono sulla vita umana, animale e vegetale” (p. 4) e la sua definizione diventa quella di “un’area della riflessione umana che indaga sistematicamente la condotta umana in quanto capace di distinguere tra azioni da approvare e azioni da disapprovare, secondo criteri etici che vanno pubblicamente discussi e giustificati” (p. 5). - La f.m. come scienza per la produzione di un buon stato di cose Il processo storico e teorico che ha portato alla formazione di questa “figura morale” è così descritto da Abbà: “Il processo iniziò con una radicale trasformazione dell’etica da parte dei riformatori protestanti; continuò con un’interpretazione utilitaria della legge divina e della legge morale naturale da parte di teologi del clero anglicano e presbiteriano; sfociò in una concezione della morale del tutto indipendente non solo da Dio, ma anche dall’idea d’una legge morale, da parte di filosofi secolari” (op.cit. p. 141). E’ con Jeremy Bentham (1748-1832) che l’utilità viene assunta decisamente come il principio fondamentale dell’agire umano. Essa ha il vantaggio di poter essere misurata, di essere quantificabile e perciò empiricamente verificabile. E’ di Bentham l’idea piuttosto singolare di una vera e propria aritmetica morale, cioè di un calcolo preciso delle conseguenze delle nostre azioni in modo tale da poter “massimizzare” il piacere e “minimizzare” il dolore. John Stuart Mill (1806-1873) si rifà all’utilitarismo di Bentham, ma ne corregge sia l’ edonismo quantitativo, sostenendo l’importanza della qualità dei piaceri (meglio essere un Socrate malato che un maiale soddisfatto), sia l’impostazione individualistica, sottolineando che il “parametro utilitarista” richiede il sacrificio di sé, la donazione agli altri e la promozione della felicità altrui (la regola d’oro di Gesù: amare il prossimo come noi stessi). Nel corso del tempo l’utilitarismo classico si è trasformato in conseguenzialismo: il termine fu coniato da G.E.M. Anscombe nel 1958 proprio per sottolineare come la valutazione degli atti umani si fondi sul principio delle conseguenze che essi producono. Le conseguenze non sono però da considerare isolatamente ed episodicamente, ma come “un vero e proprio stato di cose nel mondo e nella sua storia, costituito da beni oggettivi, indipendentemente dal piacere dei soggetti o dal fatto che essi siano beni per i soggetti” (Abbà, op.cit., p. 171). Su questa scia si muove G.E. Moore (1873-1958), uno dei padri della filosofia analitica inglese del Novecento, autore dell’influente Principia Ethica del 1903. Moore parte dalla dimostrazione dell’infondatezza della pretesa di definire il bene propria dell’etica tradizionale, sia nella versione naturalistica sia in quella metafisica. 9 Il bene è invece “indefinibile” perché è una nozione semplice, non scomponibile attraverso l’analisi logica, come per esempio “il giallo”: ciò significa che non può essere spiegato a chi già non sappia che cosa è. Le principali teorie etiche sono – a detta di Moore – inviluppate nella “fallacia naturalistica”, cioè nella pretesa di definire il bene come un oggetto di natura (etica naturalistica) oppure come una realtà soprasensibile (etica metafisica). Il bene invece è conosciuto immediatamente dal soggetto in forma intuitiva, attraverso il metodo che Moore chiama dell’isolamento assoluto (ciò che è buono può essere conosciuto solo a patto di essere separato dalle cose o dallo stato di cose alle quali inerisce e giudicato di per sé, aprioristicamente). Va detto anche che il tema della “fallacia naturalistica” di cui Moore parla lo collega alla cosiddetta legge di Hume, cioè all’errore logico – denunciato appunto dal filosofo scozzese – del passaggio dal piano dell’essere (is) a quello del dover essere (ought), vale a dire dalla semplice descrizione fattuale alla prescrizione normativa. Infine l’atteggiamento conseguenzialista di Moore si può cogliere bene da questa sua affermazione: “Tutte le leggi morali si riducono all’asserzione che certe specie di azioni avranno effetti buoni”. Concludiamo questa parte con un’ultima penetrante osservazione di Abbà: “Ciò che ha consentito l’imporsi ed il diffondersi della concezione utilitaria del soggetto umano è lo scetticismo sulla capacità umana di verità e di verità circa Dio”. Persa infatti la capacità di verità, la ragione perde la sua egemonia, si dissolve e si indebolisce. In questo depotenziamento della ragione si apre la possibilità “di concepire il soggetto umano come essenzialmente utilitario e di trasformare l’utilitarismo in sistema di spiegazione e di legittimazione prima diffuso, poi dominante e generalizzato”. Però c’è un …ma: “che il soggetto umano non riesce a restar chiuso in una ragione puramente strumentale, non riesce a rimanere utilitario e a fare a meno della pretesa di verità”. Tutto ciò rilancia inevitabilmente la domanda etica e spinge alla ricerca di regole che siano indipendenti da desideri e interessi del singolo, mettendo in primo piano quel problema che si credeva dissolto per sempre: il problema dei fondamenti dell’agire morale (cfr. op.cit., pp. 251-254). La f.m. è una scienza descrittiva o normativa? L’esperienza morale è un fatto o un valore? La scelta dell’uno o dell’altro di questi due termini alternativi determina il costituirsi dell’etica come scienza descrittiva o come scienza normativa. Il mio antico professore di f.m. all’Università di Bologna negli anni ‘60, Felice Battaglia, si poneva questa questione nel suo libro Linee sommarie di dottrina morale (Patron, Bologna, 1962), distinguendo i due diversi tipi di approccio alla tematica morale. Il primo prende in considerazione l’agire del singolo o di interi gruppi umani come un semplice dato di fatto, senza necessariamente risalire al principio ispiratore, ai valori ideali che guidano l’azione. Lo si può definire – come già aveva fatto Kant – “scienza dei costumi” (Sittenlehre). A questo gruppo appartengono tutti quei filosofi 10 contemporanei (come per esempio i neopositivisti o giuristi come il Kelsen) che ritengono i valori inconoscibili e gli ideali morali “del tutto soggettivi, irrazionali, legati all’emotivo ed in esso segnati” (p. 20). La società è dunque la matrice di ogni determinazione morale e la f.m. si riduce pertanto a una conoscenza descrittiva che appartiene al regno della sociologia (come insegnava del resto il positivismo classico: cfr. per esempio il Durkheim). Questo punto di vista, scrive Battaglia, nega “alla radice il valore per il fatto, il giudizio di valore per il giudizio di fatto, per cui, escluso ogni principio, la morale non è che un complesso di posizioni fattizie, che nell’insieme costituiscono una situazione che si tratta di analizzare e di descrivere, di chiarire nelle componenti e nei termini suoi” (p. 21). La morale invece “non si risolve nelle condizioni che le sono date…Per quanto largo, efficiente, decisivo sia il condizionamento sociale, l’azione non ne è determinata, anzi, in quanto tale, essa è irriducibile alle presupposte condizioni, si colloca in un ordine suo, come in una nuova realtà oltre l’antica, una realtà morale che non è davvero quella fisico-biologica, ambientale e sociale” (pp. 23-24). Ciò fa quindi della f.m. una conoscenza “non descrittiva o analitica, bensì affatto normativa o valutativa” (p. 27). Anche se il Battaglia si affretta a precisare, per quanto riguarda il suo personale punto di vista, che “la realtà morale è realtà non di meri principi o di puri valori, ma dei principi e dei valori nel cimento, nel confronto, con tutti i dati della natura e della vita, della società, in una sintesi di condizione e di valori”(p. 28). Il suo legame con l’idealismo (seppure superato nella sua appartenenza allo spiritualismo cristiano) traspare nella sottolineatura che “la morale vive di una tensione continua tra il condizionamento e i valori, tra resistenze e ideali” e nella descrizione del processo morale come qualcosa che si pone “tra un residuo e un valore, tra un ostacolo ed un impegno, tra una resistenza frapposta e un dovere assolto, tra l’arazionale o irrazionale e un assunto di razionalizzazione” essendo “la vera e genuina moralità consapevole del suo interno limite, in quanto si muove tra il condizionamento, le resistenze, gli ostacoli, nel confine preciso di un residuo, e un valore mai esaurito, mai soddisfatto nell’impegno, sempre riemergente ed eccedente” (pp. 29-30). Anche Antonino Poppi non ha dubbi: “L’etica non è una scienza descrittiva, bensì normativa. Pur muovendo da un’attenta ricognizione e osservazione dell’operare umano, sia strumentale-produttivo (poiein: fare, produrre), sia attivo-perfettivo (prattein: agire, occuparsi), essa tende a un giudizio valutativo della prassi, ne esprime cioè il valore di bene o di male che questa racchiude, fornendo così un sapere non tecnico-sperimentale, bensì assiologico e direttivo verso ciò che l’uomo deve compiere per realizzarsi pienamente come uomo” (op.cit., p. 18). Per contro, in gran parte del pensiero contemporaneo, il problema morale viene totalmente assorbito nell’ambito di ricerche storico-sociologiche, politico-ambientali o tecnicoscientifiche, secondo un metodo puramente descrittivo e generalizzante. Per cui: “l’etica viene ad essere piuttosto come una etologia, o una “scienza dei costumi”, con il compito di rilevamento statistico-sociologico dei comportamenti, delle valutazioni e dei sentimenti morali di una data società, l’enucleazione delle loro costanti e variabili, mentre il giudizio della loro normalità o devianza viene formulato in base 11 alla loro conformità o meno all’atteggiamento dei più in un dato contesto sociale, in una certa epoca. In linea con il positivismo scientista che l’ha formulata (cfr. A.Comte, E. Durkheim, ecc.), la filosofia morale è riportata qui a una funzione sociologica, aritmeticamente quantificabile, assai lontana dalla concezione classica in cui il problema del bene o del valore morale degli atti umani era problematizzato nella tensione razionale verso un fondamento necessario e universale di umanità, fungente da criterio valutativo trascendente le espressioni empiriche” (p. 17). Concludiamo con il tomista Joseph de Finance che definisce l’etica come “scienza categoricamente normativa degli atti umani, secondo la luce naturale della ragione” ed aggiunge: “L’etica è la scienza di quel che l’uomo deve fare per vivere come deve, per essere quel che deve diventare, affinché raggiunga il suo valore supremo, affinché realizzi nella sua natura quel che si presenta come la giustificazione della sua esistenza, ciò verso cui e per cui egli esiste. In due parole: l’etica è una scienza categoricamente normativa” (cfr. Etica generale, Tipografia Meridionale, Cassano Murge (BA), 1989, pp. 13-14). Il problema del metodo Dopo tutto quello che siamo andati via via dicendo, risulta chiaro che il metodo dell’etica non può essere deduttivo, come quello usato nella logica, e neppure avere il rigore e la precisione di quello di certe discipline teoretiche – come per esempio la matematica o anche la metafisica – che hanno per oggetto realtà immutabili, astratte, necessarie, eterne. Se l’etica, come abbiamo detto, è un sapere che attiene alla prassi ed il cui contenuto è fornito dai comportamenti umani, credo che non dobbiamo spendere troppe parole per ricordare quanto questi siano complessi, mutevoli, legati all’arbitrio dei soggetti agenti, alla molteplicità delle situazioni, al pluralismo delle opinioni, al diverso peso dei condizionamenti… Già Aristotele ricordava che in ogni ricerca dobbiamo pretendere tanta precisione quanta ne permette la natura dell’oggetto indagato (cfr. Etica nicomachea, I, 3: “Non bisogna cercare la medesima precisione in tutti i ragionamenti.. ma bisogna accontentarsi di additare il vero in modo approssimativo e sommario, e parlando di cose che accadono per lo più e da esse argomentando, trarre conclusioni di ugual natura… E’ proprio dell’uomo colto, infatti, ricercare in ogni genere quel tanto di precisione che comporta la natura dell’argomento. Applaudire un matematico perché parla eloquentemente sarebbe come domandare delle dimostrazioni ad un oratore”). Scartato allora il metodo scientifico-sperimentale, per via della natura specifica dell’oggetto dell’etica, rivolgiamoci al territorio della filosofia. Poppi parla di “metodo dialettico e comunicativo”, ma ne individua due livelli. Per quanto riguarda l’etica applicata, scrive: “Questa forma di razionalità pratica, che procede con metodo dialettico-induttivo, è quella specifica dell’etica, rivolta alla scoperta e alla determinazione della verità della prassi, cioè della bontà morale delle nostre intenzioni e delle nostre scelte” (p. 23). Ma per quanto riguarda la determinazione dei principi primi, più universali e fondativi della moralità della 12 prassi, occorre che la f.m.si rivolga alla ragione teoretica e alla metafisica, in quanto qui si tratta “dell’essenza dell’uomo e della sua teleologicità, che non è una realtà arbitraria e mutevole” (p. 24). Rimangono tagliati fuori, per opposti motivi, da un lato il metodo teologico (perché si appoggia sull’autorità della parola divina) e dall’altro il metodo sociologico (perché appiattisce il comportamento umano sul fatto). Risultano del pari insufficienti le ricognizioni storico-descrittive, legate alla modalità della biografia letteraria, della tecnica psicanalitica, dell’inchiesta o dell’intervista di tipo giornalistico, a causa della “superficialità della loro impostazione analitica e dell’insufficienza della tipizzazione risolutiva proposta, generalmente dedotta dal comune sentimento morale di una data società” (p. 26). Abbà, dal canto suo, propone un metodo di lavoro articolato e graduale, che parte dalla “pratica morale” così come essa è colta dalla letteratura poetica, narrativa e drammatica (questo punto di partenza, proprio della filosofia antica e del pensiero cristiano, è preferibile “perché accosta la pratica morale da un punto di vista interno ad essa, cioè dal punto di vista del soggetto che è autore della pratica e attore mediante la pratica”: è la prospettiva, come abbiamo già visto, dell’etica della prima persona). Da questo piano narrativo e drammatico che permette di esplorare le “possibilità pratiche dell’agente umano nel mondo, nell’intreccio con le persone, di fronte a Dio” si sale, con un tesoro di consapevolezza sull’uomo come soggetto agente, al piano dell’elaborazione filosofica, mettendosi alla ricerca dei principi noetici che ispirano il comportamento umano ed operando criticamente le prime verifiche degli stessi. Il lavoro del filosofo morale prosegue poi con l’identificazione della domanda principale che innerva il discorso etico e permette di determinare le varie e diverse “figure morali”. Compiute in modo accurato e scrupoloso le necessarie ricognizioni storiche sulle varie “figure” si entra poi nel confronto sistematico e dialettico con esse per pervenire finalmente alla proposizione della propria impostazione morale (cfr. op.cit.). 13