IL ROMANZO
Sistema solare Alpha Centaury, A.D. 2452. La Queen of the Stars viaggia tra i pianeti
Iber e Chirone al commando della giovane Sewen Riw. Lungo la rotta, scompare
Eugel, il migliore dei cy borg del questore Nwabudike Xoty r, ansioso di avviare lo
sfruttamento minerario del territorio. Per il questore non c’è dubbio, autrici del
misfatto sono le Amazzoni, una società utopica di sole donne che coltivano e
difendono strenuamente la libertà e l’indipendenza che le comunità di origine non gli
garantivano. Incantata dal racconto del questore, Sewen si sente visceralmente
attratta da quella singolare società, sospesa tra mito e realtà: perché rapire l’androide
Eugel? Quale segreto si nasconde dietro al mito delle Amazzoni?
L’AUTRICE
Maria Mezzatesta è nata a Palermo dove vive e lavora come medico. La scrittura è
la sua grande passione ed è autrice di numerosi racconti, per lo più gialli. Le figlie
delle Amazzoni è il suo primo romanzo.
Le figlie delle Amazzoni
di
Maria Mezzatesta
© 2014 Libromania S.r.l.
Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO)
www.libromania.net
ISBN 9788898562459
Prima edizione eBook giugno 2014
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Progetto grafico di copertina e realizzazione digitale NetPhilo S.r.l.
Qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale e indipendente dalla
volontà dell’autore.
Le figlie delle Amazzoni
A Salvo, Manuela e Alessandra
che mi hanno sempre sostenuta nella passione per la scrittura.
A tutte le donne vittime della violenza di genere.
CAPITOLO I
L’astronave Queen of the stars navigava nello spazio diretta verso
Chirone. La stria lattiginosa delle stelle splendeva come una collana
di diamanti in un sacco di carbone.
Era in viaggio da otto ore dopo la partenza dallo spazioporto di
Westalia sul pianeta Iber, e nell’equipaggio si avvertiva la stanchezza
mista all’eccitazione per l’arrivo.
Sul grande schermo della sala comandi si scorgeva la sagoma
tondeggiante del pianeta che, dopo una ventina di minuti, acquistò i
contorni nitidi di un globo bruno con sfumature azzurre.
Il comandante Sewen Riw fece chiudere il sarcofago ‒ recipiente
dove veniva ricavata l’energia per il viaggio attraverso la fusione tra
materia e antimateria ‒ e accendere i motori, impartendo gli ordini per
l’atterraggio; quindi sedette accanto a Warriace, il suo vice. Questi
terminò di bere un bicchiere d’acqua con esasperata lentezza e lo fece
scivolare nel cestino, poi si raddrizzò sulla poltrona facendo attenzione
agli ordini.
Gli assistenti tecnici e il mozzo iniziarono le manovre di aggancio
all’orbita del pianeta e, dopo pochi minuti, l’astronave iniziò la
discesa penetrando nell’atmosfera.
Apparve una moltitudine di colori, un arcobaleno dal rosa al grigio,
infine, un cielo fosco e rossastro.
“ Accidenti!” inveì Warriace, muovendosi sulla poltrona come
punto da mille spilli.
“ Che cosa c’è?” chiese Sewen.
“ Guarda!” L’uomo indicò una macchia rossa spiraliforme posta in
basso a destra sullo schermo. “ È una tempesta di sabbia, anche
piuttosto estesa, sullo spazioporto di Ys.”
Sewen si morse le labbra carnose, contrariata. Ordinò di virare nel
momento stesso in cui una voce impersonale e sintetica dalla torre di
controllo li avvertiva dell’impossibilità di atterrare, snocciolando le
coordinate per la nuova rotta.
“ Che idioti!” replicò Sewen. “ Potevano anche avvertirci prima.”
Warriace ridacchiò: “ Le tempeste di sabbia in questo periodo sono
abbastanza frequenti e impetuose”.
“ Sì? Come mai allora hanno costruito lo spazioporto in questa
zona?”
“ Non è l’unica incongruenza di Chirone. Aspetta di atterrare e
vedrai. Poi, c’è da dire che un posto qui vale l’altro, per quanto
riguarda le tempeste. Tu non sei mai stata sul pianeta: è inospitale e
selvaggio. Niente a che vedere con Iber.”
“ Sarà stato per questo che mi hanno offerto il comando di questo
catorcio e affidato la rotta!”
Un’espressione di soddisfazione illuminò il volto di Warriace, i
suoi occhi sporgenti e bovini ammiccarono in direzione della donna.
Era la frase che aspettava di sentire da lungo tempo. Aaron Warriace,
vicecomandante da diversi anni, si era visto soffiare l’incarico da
Sewen, più giovane di lui di dodici anni, novellina, appena uscita
dalla scuola ufficiali e, soprattutto, senza alcuna esperienza sul campo.
Gli bruciava essere stato ancora una volta lasciato al palo, ma poiché
era una persona introversa, non lo dava a vedere.
Warriace seguì con gli occhi il percorso, calcolò con lentezza la
rotta e fece dirigere l’astronave verso sud. Pigiò alcune icone sullo
schermo tridimensionale e intanto pensava a quando si sarebbe
presentata la sua occasione. Era tarchiato, con una pancia prominente,
quasi calvo se non per una piccola zazzera di capelli che gli contornava
la nuca come una corona di alloro. Una barbetta ispida gli incorniciava
le guance paffute e rosee, e le labbra sottili, quando sorrideva,
mettevano in mostra i canini sporgenti e aguzzi, che gli davano
un’aria vampiresca.
Sewen annunciò ai passeggeri che avrebbero atteso qualche ora in
più prima di atterrare informandoli della tempesta che imperversava su
Ys. Alle sue parole si udì un mormorio concitato, ma la donna staccò
l’archetto con il microfono e si sistemò la chioma ricciuta e fluente. I
capelli rossi le ricadevano sulle spalle, ampi e vaporosi, gli occhi
verdi con sfumature dorate sembravano sprigionare lampi accecanti.
Era in preda a un profondo stato d’inquietudine. Per la prima volta
comandava un’astronave e quell’imprevisto l’aveva spiazzata. Forse
sarebbe stato meglio atterrare nello spazioporto principale anziché in
uno secondario, probabilmente meno sicuro e fuori mano.
Le avevano comunicato l’ingaggio quindici giorni prima. Era
appena tornata da una settimana di vacanza in compagnia di Ethayli su
Walfan, un’isola tropicale: sole, mare, relax e notti bollenti.
L’immagine del viso di Ethayli la mise di buon umore: aveva
lineamenti regolari e l’espressione di un bambino imbronciato. Era
rimasta sorpresa, perché aveva terminato il corso per diventare ufficiale
appena due mesi prima. Aveva pensato che ci fosse sotto qualcosa di
poco chiaro e aveva espresso i suoi timori a Ethayli, che con la sua
espressione scanzonata, aveva fugato ogni perplessità.
In effetti, Sewen pensava che Queen of the stars fosse un nome
altisonante per un veicolo commerciale di medie dimensioni,
vecchiotto e sorpassato, che si limitava a fare la spola tra Iber e
Chirone, i due pianeti abitati del sistema stellare di Alpha Centauri.
Durante il periodo di addestramento, Sewen si era imbarcata nelle
grandi e sofisticate astronavi che collegavano Iber con le lune di
Alastor, Folo e Nesso, sedi dei più importanti centri scientifici del
sistema, ma non aveva mai fatto rotta su Chirone, né vi era mai stata
in vita sua, a causa delle poche attrattive del pianeta.
Aveva compiuto da poco trent’anni, un’età che considerava più che
appropriata per assumere il comando. Ricordò l’eccitazione e
l’orgoglio quando aveva indossato per la prima volta la tuta con lo
stemma dorato che mostrava la figura stilizzata di un centauro con una
clava nera, simbolo del suo grado. Aveva sperato in cuor suo che il
suo primo incarico sarebbe stato ineccepibile.
Sullo schermo apparve un cielo blu e, man mano che atterravano,
montagne grigie, tavolati bruni e color ocra, distese coltivate giallo
verde. Sui chip della calottina che indossava sulla nuca a destra,
scorgeva chiaramente la distanza che li separava dal punto di
atterraggio. L’immagine si materializzava in un ologramma sullo
schermo. L’astronave attraversò terreni incolti e insediamenti abitati
fino a dirigersi in una zona spoglia e deserta. Fece ridurre
ulteriormente la velocità e seguì i dati che snocciolava Warriace con
lentezza.
Sewen impartì gli ordini per l’atterraggio cercando di contenere
l’emozione. “ Aprire la valva trentanove” disse con voce quasi rauca, e
le parve un’eternità prima di udire il rullio dell’impianto che attivava
i quattro agganciatori. Prese un bicchiere d’acqua e lo vuotò.
“ Quattro agganciatori pronti” rispose il vice. Sewen si ravviò di
nuovo i capelli ramati, in un gesto quasi civettuolo.
La sua chioma vaporosa e ricciuta era la prima cosa che colpiva in
lei e pensava le conferisse un’aria esotica. Si era sempre considerata
una bella donna e aveva tutte le caratteristiche per definirsi tale. Era
alta un metro e ottanta, aveva un fisico proporzionato e sodo perché
praticava regolarmente esercizi ginnici, ma con una certa tendenza alla
pinguedine per via della debolezza per il cibo. Aveva un viso tondo
con lineamenti regolari su cui spiccavano grandi occhi verdi, labbra
atteggiate spesso in un’espressione di contrarietà.
La Queen dopo qualche minuto atterrò in una grande pista circolare,
sterrata. I quattro agganciatori la fissarono saldamente al terreno, i
motori tacquero e seguì un silenzio irreale. L’astronave d’acciaio era
giunta su Chirone viaggiando come uno strano uccello migratore da
un pianeta all’altro.
La nave trasportava un carico eterogeneo, oltre ai passeggeri. C’era
di tutto: da materiali per costruzioni a macchinari complessi, disparati
oggetti per uso domestico e industriale, piante, sementi, poi cyborg,
robot umanoidi, simulacri e passeggeri umani. Questi erano costituiti
per lo più da lavoratori, prestatori d’opera nelle miniere di cui il
pianeta era ricco, qualche commerciante e piccoli trafficanti in cerca di
fortuna.
Erano le tre del pomeriggio, ora locale, Passo del Diavolo, Nuova
Cydonia, Chirone.
Quando Sewen scese a terra massaggiandosi le cosce rattrappite e si
guardò intorno, pensò che la denominazione data al posto, il Passo
del Diavolo, fosse più che appropriata. Oltre la pista circolare di
atterraggio non si scorgeva che una distesa informe di sassi dalle più
varie dimensioni, poi dossi e crepacci immersi in una polvere
rossiccia, ramata, che ricordava il suolo di Marte.
Gli hangar avevano forme inconsuete: di curiose chiocciole per via
della forma a spirale, culminanti in lunghe punte di vetro opaco, di un
color tra il verde marcio e il marrone. Il terreno polveroso, ricoperto
dal leggero pulviscolo rossiccio, si alzava creando mulinelli e trombe
d’aria. Il cielo era di un colore indefinibile tra l’azzurro e il rossiccio e
vi splendevano i due soli vicini: la stella Alpha Centauri A era allo
zenit, mentre il sole Centauri B, più piccolo, era più basso verso
l’orizzonte. Se si riusciva a osservare il cielo a causa della troppa luce,
s’intravedeva un piccolo grumo biancastro: Proxima Centauri, il terzo
sole.
La luce intorno era abbagliante, i soli dardeggiavano infuocati e
facevano tremolare i contorni del paesaggio creando strani miraggi.
Sembrava che lunghe carovane percorressero in fila indiana le cime
delle colline, che in lontananza chiudevano la vista. L’aria era
terribilmente calda, secca e polverosa, e limitava la visibilità, per cui
Sewen indossò la tuta termica e la visiera scura con la cuffietta per i
capelli.
Da uno degli hangar a destra comparve un gruppetto di persone, che
materializzandosi d’improvviso tra la polvere, sembrarono strani
fantasmi. Si avvicinò un giovane alto e longilineo con un volto
pallido e butterato e un’espressione triste nel viso da bambino
cresciuto.
“ Benvenuto, comandante. Sono Cheven Loenze, incaricato di
presiedere alle operazioni di sbarco.”
La mano del ragazzo indugiò a lungo su quella di Sewen nel gesto
di saluto iberiano e anche l’espressione cambiò, assumendo quella di
un certo compiacimento misto a sorpresa. Dietro il giovane sbucarono
altri due uomini infagottati in tute climax lise che avanzavano con
movimenti lenti e goffi. Il primo era alto e corpulento con la
carnagione nerissima, occhi cisposi e grosse mani e le disse in un
iberiano scadente: “ Si metta comoda, capitano, ci vorranno alcune ore
per vuotare il carico”.
Vedendo l’espressione perplessa di Sewen, attivò il traduttore che
aveva al polso e ripeté quanto aveva detto prima.
“ Pensavo che l’astronave con il carico proseguisse nella serata per
Ys” rispose Sewen con evidente sorpresa.
L’uomo scosse il capo con vigore.
“ No, no. La tempesta di sabbia su Ys è in diminuzione, ma non è
cessata completamente e l’astronave potrebbe aver problemi. Il carico
sarà sbarcato e posteggiato negli hangar, mentre lei con l’equipaggio e
i passeggeri proseguirete nella serata con il deltano di linea. Dovrebbe
arrivare a momenti.”
“ Ah!” fece Sewen.
“ Faccia aprire i portelloni” ingiunse l’uomo.
Cheven Loenze la guardava stupito.
“ Quanto dista la città di Ys da qui?” chiese Sewen.
“ Be’, circa novecento miglia, no, Cheven?” rispose l’uomo di
colore.
“ Sì, sì certo” rispose il ragazzo. Poi, come scuotendosi, proseguì:
“ Ys è una città?” E rise.
“ Qui su Chirone non esistono città come quelle da cui venite”
precisò l’uomo di colore sghignazzando. “ A proposito, di dove
siete?”
“ Westalia.”
L’uomo, per tutta risposta, fischiò con sorpresa.
“ Dicono che sia la più bella città di Iber.”
“ Sì, è una bella città. Non so se sia la più bella e io potrei essere
di parte.”
“ Sarà bella senz’altro. Qui non ci sono città, ma deserti e ancora
deserti, infiniti e sconfinati, terre aride e brulle, piccoli insediamenti
umani. Solo a nord il territorio cambia” rispose l’uomo di colore,
mentre Cheven Loenze sospirava.
Sewen ordinò all’equipaggio di procedere con lo sbarco e seguì con
gli occhi l’apertura dei portelloni. Da quello principale, a prua, iniziò
a scendere il personale di bordo e via via i passeggeri, mentre da
quello posteriore iniziò lo scarico delle merci. Warriace fu il primo a
scendere, poi gli umani seguiti dai cyborg, gli androidi umanoidi con
il numero di matricola impresso sulla fronte, infine i simulacri. I
passeggeri umani erano circa trecento e mormoravano tra loro per il
contrattempo.
Dal primo gruppetto si avvicinò a Sewen un omone vestito con una
tuta nera e lunghi capelli grigi che gli ricadevano a ciocche sulle
spalle.
“ In quale posto dimenticato da Dio ci ha portati?”
Si guardò intorno, poi alzò la visiera e sputò per terra. Cheven
intercettò il gesto e si avvicinò.
“ Nell’ultimo hangar sulla destra c’è un locale di ristoro con bibite
fresche e cibo per rifocillarsi. È dotato di aria condizionata. Si sta bene
in attesa del deltano.”
“ Ah, sì...” mormorò l’uomo con voce sprezzante. “ E il deltano
quando arriverà?”
“ Tra due, massimo tre ore, intanto potete andare al bar.”
“ Speriamo bene. All’inizio avete detto che sarebbe arrivato in
pochi minuti, adesso parlate di tre ore” continuò l’uomo, poi trasse
una pipetta per il fumo da una tasca e tirò una boccata. Un intenso
odore dolciastro investì Sewen. L’uomo si unì al gruppo degli altri
passeggeri e si incamminò verso il bar, rassegnato al peggio.
Sewen controllò che l’intero personale fosse sceso a terra. Il suo
equipaggio era inconfondibile per la tuta climax azzurra che terminava
con un elastico legato alle caviglie, sopra gli stivaletti bianchi.
“ Finalmente la terra sotto i piedi” esclamò il navigatore,
incrociando Sewen, massaggiandosi una coscia, scortata da Warriace il
quale si dirigeva risoluto verso l’hangar di ristoro. Seguì il gruppo
dei passeggeri costituito in prevalenza da uomini di colore, poi
qualche bianco, indistinguibile dai simulacri. Quasi tutti gli uomini
erano calvi e portavano la calottina con i chip in bella mostra sulla
tempia destra.
Dalla parte opposta, dal portellone posteriore, dove stavano per
essere scaricate le merci, iniziarono a scendere i robot da fatica, dalle
forme varie e inconsuete: ragni dalle molte braccia, uccelli, poi i
possenti fanti azzurri, molto simili a grandi rinoceronti che
sollevavano la polvere rendendo l’aria ancora più fosca e poco visibile.
Sewen esaminò il posizionatore che aveva al polso, un bracciale
d’oro largo tre centimetri, provvisto di un display che forniva le
coordinate con la latitudine e la temperatura, oltre ad altre importanti
informazioni. In quel momento il termometro segnava quarantotto
gradi e senza la tuta climax sarebbe stato difficile sostare all’aperto.
Nel cielo, lo spettacolo offerto dalle stelle era meraviglioso.
Chirone ruotava intorno alla stella Cern B di Alpha Centauri, ed era
sotto l’influsso di due soli, al contrario di Iber, il pianeta da cui
proveniva, che ruotava intorno alla stella più piccola e lontana del
sistema, Proxima.
Sewen pensò che la sua prima missione come comandante si fosse
conclusa felicemente e decise di incamminarsi verso il bar, seguita
dallo sguardo voglioso di Cheven Loenze.
Proseguì a passo veloce, portandosi vicino all’uomo con la pipetta
che fumava e arrancava. Lo salutò e incrociò il suo sguardo. L’uomo
si era tolto la visiera, aveva gli occhi scuri, arrossati per via della
stanchezza e dell’aria polverosa. Con quella stazza, la tuta nera e
quegli occhi ardenti, somigliava a Lucifero.
“ Speriamo che arrivi presto il deltano” mormorò a denti stretti
l’uomo.
“ Non dovrebbe metterci molto” rispose Sewen con poca
convinzione.
“ Speriamo bene. Non vorrei cuocere e sciogliermi come un
ghiacciolo sotto i soli. Faccio spesso la spola, ricordo che una volta
sono rimasto qui ad aspettare il deltano più di sei ore.”
“ Addirittura! Come mai?”
“ Per via della tempesta, c’era tanta furia che nemmeno il deltano
riusciva a decollare da Ys.”
Dagli hangar, Cheven Loenze fece uscire i robot e i macchinari che
si affaccendarono intorno all’astronave per completare lo sbarco, poi
raggiunse Sewen.
“ Venga, capitano, le faccio strada.”
Il vecchio luciferino sospirò e proseguì dritto. Cheven ridacchiò, si
accese una sigaretta e guardò il fumo dissolversi nell’aria.
“ Così è la prima volta che viene su Chirone?” domandò il
giovane.
“ Sì.”
“ Il vecchio capitano Leythis che fine ha fatto?”
“ Non so, credo si sia ritirato, ma non ne sono certa.”
“ Il capitano ha comandato la Queen per tanti anni. In un certo
senso s’identificava con l’astronave, sono rimasto sorpreso nel vedere
lei, oggi. Leythis aveva i suoi anni, come l’astronave, d’altronde.”
Sewen stava per replicare, quando udì una voce irritata.
“ Ehi, Cheven, pensi di passare tutto il pomeriggio a spassartela?”
“ Vengo, vengo” rispose il giovane gettando la sigaretta a terra e
spegnendola con il piede. Poi, rivolgendosi a Sewen, aggiunse: “ Mi
scusi, ma come si suole dire, il dovere mi chiama”.
Sewen proseguì aggiustandosi la visiera ed entrò nell’edificio
settantuno B adibito a zona ristoro.
L’interno le apparve buio rispetto alla luce accecante dell’esterno e
faticò non poco prima di adattarsi. Sewen chiuse la pesante porta alle
spalle notando che l’ambiente era spazioso e poteva contenere diverse
centinaia di persone. Era rustico, con spesse mura di pietra chiara e
spigolosa, che la luce artificiale rendeva di un color giallo arancio.
C’era una grande quantità di tavoli e sedie di legno ed era
piacevolmente fresco. Il banco era di legno, collocato al centro del
locale, rivestito in okite bicolore: bianco e wengé, con un’intera parete
colma di bibite e liquori.
Quasi tutti i passeggeri e l’equipaggio avevano preso posto ai
tavoli e bevevano bibite fresche, parlottando e ridendo: l’aria era piena
del loro chiacchiericcio. Sewen andò al banco e ordinò una norda con
ghiaccio. La bibita azzurra le fu servita in un bicchiere alto e lungo
con una cannuccia. Si dissetò e, mentre stava per raggiungere il tavolo
dell’equipaggio, si fermò a osservare un singolare ologramma in un
angolo che mostrava il sistema stellare di Alpha Centauri. Accanto era
posizionata l’immagine in scala della vicina costellazione Cassiopea,
con la sua caratteristica forma a zig zag, in cui era possibile
distinguere il Sole e i suoi pianeti (o meglio, Sol, come veniva
denominato nel linguaggio scientifico).
Alpha Centauri era riprodotta fedelmente in scala con le tre stelle
che la componevano: la più bella e più grande, Cern A, con i dodici
pianeti di cui otto gassosi e quattro rocciosi che avevano il nome
mitologico dei quattro cavalli di Plutone. Poi la stella B, più piccola,
con i suoi dieci pianeti di cui quattro rocciosi: Elato, Pilenore, Orius
e Chirone. E infine, lontana dalle altre due, il piccolo sole Proxima
Centauri con i tre pianeti Euritione, Reco e Iber.
Di fronte alla magnificenza del sistema stellare di Alpha Centauri, il
sistema solare con i suoi nove pianeti appariva insignificante. Guardò
la Terra, il piccolo pianeta grigio-blu vicino a Marte e lo trovò banale.
Eppure era da lì che tutti loro provenivano, giunti su quei nuovi
mondi circa trecentocinquanta anni prima. Le stelle erano molto simili
al sole. Il membro principale, Cen A, era una stella con le stesse
caratteristiche del sole, una nana gialla, ma più massiccia del dieci per
cento e con un diametro maggiore di circa il ventitré per cento. Cen
B, più piccola, era una nana arancione, con una massa del dieci per
cento meno e con un raggio minore del quattordici percento. Infine, la
stella lontana e piccola: Proxima Centauri, chiamata così per via della
vicinanza al sistema solare.
Intorno alle tre stelle ruotavano venticinque pianeti. Solo due però
dei venticinque possedevano le caratteristiche per lo sviluppo della
vita ed erano dotati di acqua e di un’atmosfera ricca di uno strato di
ozono capace di bloccare le radiazioni ultraviolette, molto simili alla
terra. I due pianeti erano Chirone e Iber che distavano tra loro circa
quattordicimila unità astronomiche e la Queen of the stars, grazie alle
sue rotte commerciali, ne garantiva il collegamento.
L’umanità era arrivata circa trecentocinquanta anni prima e con il
calendario terrestre era il 2452.
L’esplorazione era iniziata nel 2115 e nelle sue prime fasi, dalla
Terra e dalle stazioni spaziali del sistema solare, erano stati utilizzati
dei micro razzi capaci di viaggiare alla velocità della luce, vettori non
più grandi di una monetina, in grado di lanciare minuscoli satelliti.
Le nano sonde, grandi come granelli di polvere, erano state capaci di
fornire alla Terra tutte le informazioni concernenti la composizione del
sistema solare di Alpha Centauri. Una volta conosciute le possibilità
di vita che offrivano i pianeti, fu costruita la prima astronave, grande
come una città, chiamata la Dream of Noè che permise agli uomini di
raggiungere Iber, dove è tuttora conservata nel museo storico di
Westalia. Su Iber, gli uomini, oltre a una vita vegetale e animale
sviluppata e con caratteristiche simili a quelle terrestri, trovarono la
razza intelligente indigena, i mantrix, dalla quale furono accolti con
benevolenza.
Su Chirone, invece, prettamente desertico, le condizioni meno
favorevoli non si prestarono a veri insediamenti umani, ma furono
abitate solo alcune zone prevalentemente del nord, come Nuova
Cydonia.
Sewen ignorava quasi tutto del pianeta, aveva letto qualcosa prima
di intraprendere quella missione, senza approfondire. Sapeva che era
ricco di giacimenti minerari e che gli insediamenti umani erano
sparuti e sorgevano intorno alle miniere. La razza indigena era
costituita da ominidi molto arretrati: i tenebrum, chiamati così per via
del colore scuro della carnagione. I tenebrum avevano la pelle dura e
spessa, per questo erano anche conosciuti come uomini coccodrillo.
“ Capitano!” Una voce alta e stridula la scosse dalle sue riflessioni.
“ Venga a sedere con noi” diceva il navigatore alzando una mano da un
tavolo, dall’altra parte del locale.
“ Sì, vengo.”
I sei membri del suo equipaggio erano seduti insieme, discorrendo
fra loro. I due uomini dall’aria scanzonata seduti vicino a Warriace
erano Syleg Dehano, un uomo di colore addetto all’impianto di
alimentazione, e Sadek Zehan, vice commissario di bordo. Le due
donne erano il mozzo addetto alle macchine e all’atterraggio,
Dorodery Lyehol, poi l’altro assistente tecnico addetto alla
navigazione, Cristall Faerdh. Infine c’era l’ingegnere di bordo Zywec
Amyh.
L’ingegnere era un uomo bello. Quasi la perfezione secondo i
canoni iberiani. Alto e magro, aveva bellissimi occhi azzurro grigi che
ricordavano il colore di certi laghi incassati tra le colline delle isole
del nord, i capelli azzurri portati corti, l’ovale del viso perfetto, i
modi misurati e compassati.
“ Solo una norda, capitano?” fece Syleg Dehano. “ Sembrerà strano,
ma su questo postaccio c’è un ottimo ozir, ben trattato, veramente
buono.”
“ Dice?” replicò sorpresa.
Dehano, per tutta risposta, chiamò il ragazzo del banco e ordinò
una pinta di ozir con del ghiaccio a parte. Sewen sedette al tavolo e
trovò la bevanda ottima, con quel misto inconfondibile di dolce e
amaro, e si complimentò per la scelta.
“ Alla sua, Capitano! E ai suoi successi futuri” rispose l’uomo
alzando il bicchiere seguito da quasi tutti gli altri.
“ A lei non piace?” chiese Sewen all’ingegnere di bordo notando il
bicchiere vuoto.
“ No. Non amo le bibite alcoliche” fu la laconica risposta.
“ Suvvia, un goccetto appena!” replicò Dehano.
L’uomo stava per rispondere, quando li raggiunse Cheven Loenze
con un’espressione preoccupata.
“ Posso parlarle, capitano?” disse il giovane.
“ Di cosa si tratta? Può dire senza problemi.”
“ Si tratta di una cosa... ehm... un po’ riservata.”
Sewen guardò il suo equipaggio.
“ Scusatemi, torno tra un attimo.”
Si alzò e seguì il giovane facendo la gincana tra i tavoli.
Davanti alla porta, il ragazzo si fermò grattandosi i capelli neri,
cortissimi e lisci, ammiccando con gli occhi, anch’essi neri. Portava
la calottina con i chip sulla tempia destra. Solo in quel momento
Sewen notò una barba lunga di qualche giorno.
“ Allora?” disse con impazienza. “ Che cosa c’è, Cheven?”
“ È successa una cosa... singolare. Manca uno dei robot umanoidi.”
“ In che senso manca?”
“ Sì, sì” rispose il giovane aprendo la porta.
Fuori c’era il piccolo gruppetto degli addetti al servizio dello
spazioporto con alcuni robot umanoidi.
“ Ah! Ecco il capitano!” fece l’uomo di colore, il responsabile. “ I
robot mi hanno informato della scomparsa di uno di loro.”
“ Non capisco come possa sparire un robot” esclamò Sewen
perplessa. Il vento si era alzato ancora di più e soffiava impetuoso
impedendo la vista.
“ Possiamo parlare al chiuso in ufficio” propose Cheven.
Tutti convennero e si spostarono all’interno di uno dei locali
centrali.
Entrarono in un ambiente spoglio il cui unico arredo era costituito
da un grande tavolo di vetro opaco scheggiato e sedie di pelle
sintetica. Cheven tirò fuori alcune bibite fresche da un congelatore.
Il gruppetto degli androidi raccontava che erano scesi dal portellone
posteriore, dietro ai grandi fanti azzurri. Il servizio di sicurezza aveva
dato loro disposizioni di dirigersi all’edificio tredici, dove avrebbero
atteso il deltano. L’edificio era distante un paio di chilometri per cui
si erano incamminati alla spicciolata senza far caso gli uni agli altri,
anche a causa della scarsa visibilità. Una volta arrivati, avevano subito
notato la scomparsa dell’androide, ma avevano atteso ancora qualche
minuto prima di dare l’allarme.
“ Non capisco, i robot umanoidi non sono tutti provvisti di
congegni wireless?” chiese Sewen. “ Come mai non riuscite a mettervi
in contatto?”
“ Sì, capitano, siamo tutti dotati di posizionatori e in contatto
reciproco, ma l’androide scomparso non lo è più, si è disattivato.”
“ Disattivato?” Sewen guardò con espressione meravigliata i robot.
“ Oppure... è stato disattivato” rispose uno di loro, il MPVR 2547,
con fattezze maschili.
“ Chi può avere interesse a disattivare un robot? Credo che una cosa
del genere presupponga una certa competenza, insomma, non tutti ne
sarebbero capaci!”
“ Certo, signora” rispose l’androide. “ È proprio così.”
Il caposervizio annuì.
“ Ci è parsa strana tutta la faccenda, perciò l’abbiamo chiamata.”
Cheven le offrì una bibita fredda e rimase a guardarla.
“ Mi chiami Warriace” fece Sewen dopo una lunga pausa, rivolta a
Cheven.
Quest’ultimo fece un cenno di assenso e uscì.
Lei rimase a osservare i robot umanoidi, che rimasero in silenzio
fino all’arrivo di Warriace.
“ Non capisco cosa sia accaduto...” fece quest’ultimo con la sua
voce strascicata, entrando nel locale e grattandosi la barbetta.
“ Potresti andare sulla Queen a prendere l’ologramma con le
informazioni sul carico e sui passeggeri?”
“ Sì, certo” rispose torturandosi la barbetta con aria interrogativa.
Ritornò dopo una decina di minuti. Sewen aprì il visore per gli
ologrammi e costatò che i robot partiti da Westalia erano sette, e
quindi ne mancava uno: MPR 21347, conosciuto anche come Eugel.
Pigiò un tasto del visionatore e apparve l’immagine in tre dimensioni
del cyborg: aveva fattezze vagamente femminili, era alto e magro e più
che somigliare a una donna sembrava un ermafrodito con occhi e
capelli scuri.
I sette cyborg si erano imbarcati allo spazioporto di Westalia ed
erano rimasti seduti per tutta la durata del viaggio fino allo sbarco. Di
Eugel si erano perse le tracce durante il tragitto per raggiungere
l’edificio tredici.
“ Esaminiamo l’astronave e gli edifici intorno, Eugel probabilmente
ha avuto un guasto, qualche problema” disse Sewen.
I cyborg e gli uomini del servizio convennero, si divisero in due
gruppi e iniziarono le ricerche. Warriace con un piccolo gruppetto
setacciò l’astronave mentre lei rimase ad aspettare, in attesa di notizie.
I due gruppi tornarono dopo un’ora di perlustrazioni senza il
cyborg.
“ Non ci rimane che dare un’occhiata intorno allo spazioporto, non
dovrebbe essere difficile scorgerlo in questo deserto” esclamò Sewen.
“ Noi dobbiamo completare lo sbarco e proseguire con le
operazioni” replicò il caposervizio sbuffando. “ Nella serata è previsto
l’atterraggio dell’astronave della Weland Corporation. Per le prossime
dieci, dodici ore, Ys sarà inagibile.”
Sewen e Warriace si guardarono con un sorriso d’intesa. C’era
poco da sperare in un altro aiuto degli uomini di servizio.
“ Okay” esclamò Sewen. “ A questo punto non voglio trattenervi
oltre” disse rivolta agli uomini del servizio. “ Mentre voi potete
continuare le ricerche. A proposito, siete tutti insieme?” chiese
rivolgendosi ai cyborg.
“ Sì, e tutti destinati alle stesse mansioni lavorative presso le
miniere di Nwabudike Xotyr.”
Gli uomini del servizio si allontanarono e Sewen divise i cyborg in
due gruppetti; quindi chiamò Cheven chiedendo se poteva usare un
elano, un piccolo velivolo volante che ricordava i vecchi elicotteri di
una volta. Il ragazzo si rabbuiò.
“ Capitano, non posso assolutamente darle un elano, è contrario alla
prassi.”
Anche Warriace era restio nel continuare le ricerche, si trascinava
sulle gambe per l’evidente stanchezza.
“ Se dovessimo applicare le procedure sempre...” diceva intanto
Sewen a Cheven, che sospirò.
“ Vedrò di fare qualcosa più tardi, se i cyborg nel frattempo non
l’avranno trovato.”
Due ore dopo, Sewen uscì da sola con un vecchio elano da uno
degli hangar periferici, decisa a sorvolare la zona intorno, perché anche
i cyborg erano tornati dalla perlustrazione senza Eugel.
Lasciato lo spazioporto, il paesaggio non cambiava: si
susseguivano massi, dirupi battuti dal vento, più avanti colline dalle
cime seghettate, canyon arsi e brulli. Intorno, per miglia, non si
scorgevano costruzioni o persone. L’elano viaggiava a pochi metri dal
suolo e in quello squallore non era difficile scorgere qualcosa o
qualcuno. Oltre le colline, il paesaggio finalmente cambiava. La
polvere rossa lasciava il posto a un pietrisco più denso, di colore
grigio, con colline bianche, abbaglianti, che sembravano di vetro
triturato; poi apparve una regione di grandi canyon che acquistavano,
man mano che ci si allontanava, colori iridescenti: dal rosa al violetto
con sfumature bluastre. La presenza di qualche ciuffo di vegetazione
faceva presagire la presenza di corsi d’acqua.
Dopo qualche miglio, infatti, apparve un fiume che scorreva placido
e sinuoso come un serpente colorato, perché rifletteva i colori
cangianti delle colline intorno. Su queste notò anfratti e grotte, e
pensò che avrebbero potuto costituire un rifugio, un luogo ideale per
chiunque intendesse far perdere le proprie tracce.
Qualcuno che aveva problemi con la legge, pensò, certamente non
un robot umanoide disattivato. Perché avrebbe dovuto nascondersi?
Che pensiero sciocco! E com’era stata sciocca a fare quella
perlustrazione!
Era stanca e frustrata, pensò di scendere al suolo per riposarsi.
Posteggiò il velivolo in una spianata e si diresse verso il fiume. Tolse
gli stivaletti, arrotolò la tuta alle ginocchia e s’immerse nell’acqua
fresca. Il fondale era ghiaioso e camminò per un buon tratto, l’acqua
era bassa. Alzò lo sguardo sulle cime delle colline e sui soli alti:
l’aria era immobile, il cielo azzurro con poche nuvole bianche e nel
silenzio si udiva soltanto il sommesso scorrere dell’acqua. Mentre si
rinfrescava, qualcosa attirò la sua attenzione: sulla collina di fronte, a
un’altezza approssimativa di una decina di metri, notò un bagliore che
riluceva come uno specchio su una sporgenza. S’incuriosì, uscì
dall’acqua e s’inerpicò per raggiungerla. Si arrampicò attaccandosi alle
fenditure e alle irregolarità del terreno. Il fianco era accidentato e
mentre procedeva udì un sibilo: un grosso sasso le scivolò accanto e
la colpì di striscio sul braccio.
“ Chi c’è?” gridò.
Nessuno rispose e la sua eco si perse in lontananza. Si rincuorò e
dedusse che il sasso fosse franato dalla cima. Così, si avvicinò alla
scheggia luminosa che aveva intravisto. Era un pezzo di lamiera di
forma cilindrica grande quanto un uovo. Pensò a qualche parte interna
di un cyborg comune, niente a che vedere con Eugel. Si girò per
scendere quando, più in basso, notò un’ombra: il respiro le si bloccò
tra i polmoni. Si affrettò. Una volta scesa, vide a pochi metri,
sull’argine del fiume, come materializzata dal nulla, una donna alta, in
carne, anziana, vestita di nero. Per la sorpresa, non sapendo cosa dire,
borbottò un saluto in iberiano. La donna rispose nella stessa lingua e
alzò il braccio. Sewen pose la mano sopra quella della donna e si
presentò.
“ Io sono Mydari Arath” replicò l’altra laconica.
“ Stavo facendo un giro di perlustrazione con l’elano, cerco un
robot umanoide.”
“ Ah!” fece l’altra semplicemente. Aveva un viso schiacciato,
inespressivo e occhi simili a quelli di una volpe: piccoli, neri e
lucenti.
“ Un robot umanoide” ripeté Sewen. “ Mi chiedevo se l’avesse
visto.”
Trasse dalla tasca un piccolo schermo con un visualizzatore, pigiò
un’icona e mostrò l’ologramma di Eugel. L’immagine si materializzò
e la donna lo esaminò con interesse, memorizzando il numero di
matricola.
“ No, non abbiamo visto robot in giro, nemmeno persone. Vero,
Hirae?”
Un’altra voce fece eco. Una donna comparve dall’ansa risalendo il
fiume. Era molto più giovane dell’altra, alta e magra e con una strana
acconciatura che occupava metà della testa, mentre l’altra metà era
completamente calva. I capelli erano azzurro scuri, crespi e ricciuti.
Aveva un volto ovale diafano con il mento allungato e grandi occhi
azzurri chiari e languidi.
“ Ci stavamo rinfrescando dopo una giornata di lavoro” continuò
Mydari. “ Siamo geologhe e stavamo esaminando il territorio per fare
degli studi, abitiamo in una regione vicina, Amazzonis. La conosce?”
“ No. Io sono il capitano dell’astronave Queen of the stars. Siamo
atterrati al Passo del Diavolo e dopo l’arrivo si sono perse le tracce di
Eugel.”
“ Capitano dell’astronave?” Il volto di Mydari mostrò un minimo
d’interesse.
Hirae intanto esaminava l’ologramma di Eugel.
“ Un androide umanoide scomparso? Strano, noi comunque non
abbiamo visto nessuno qui intorno. Se siete atterrati al Passo del
Diavolo, direi che è abbastanza lontano da qui.”
“ Sì, in effetti è lontano, più di trecento miglia, ma ho pensato che
un robot come Eugel potesse aver percorso centinaia di chilometri.
Come potete vedere si tratta di un androide di ultima generazione,
destinata a dirigere una miniera di proprietà di Nwabudike Xotyr.”
“ Oh! Sì, lo conosciamo” rispose Mydari.
“ Davvero?”
“ E chi non conosce Xotyr? Qui è il deus ex machina” rispose.
“ Forse è proprio per questo che è scappato, per salvarsi dalle sue
grinfie” fece Hirae ridendo, ma Mydari la fulminò con lo sguardo.
“ Se ci capitasse di incontrarlo, vi faremo avere notizie” concluse
asciutta.
“ Grazie, queste sono le mie credenziali.”
Diede il numero del suo posizionatore e si congedò.
Ritornò indietro e mentre proseguiva per lo spazioporto pensava
alle due donne che aveva incontrato. Avevano qualcosa d’inconsueto,
di strano. Non aveva notato strumenti o macchine nelle loro
vicinanze. Che cosa facevano in mezzo al deserto? Se poi vivevano in
una regione diversa da Cydonia, su Amazzonis, se non aveva capito
male il nome, come mai si trovavano così distanti e apparentemente
sole in mezzo al nulla?
Sewen ebbe la sensazione che, in qualche modo, fossero implicate
nella sparizione di Eugel, anche se la sua era solo un’impressione
senza fondamento.
Tornò allo spazioporto che era l’imbrunire. Posteggiò l’elano
nell’hangar sotto lo sguardo inquieto di Cheven.
Warriace sbuffava.
“ Sei stata via molto tempo, cosa hai fatto? E poi per nulla.”
“ Ho perso un po’ di tempo a cercare. A questo punto non rimane
che fare un rapporto al questore, una volta arrivati a Ys.”
“ Una soluzione a cui potevi arrivare prima, non trovi?”
“ Okay, Aaron, hai ragione, come sempre. Qui a che punto siamo?”
“ La Queen sta per essere posteggiata, i primi passeggeri sono già
partiti con il primo elano e l’altro sta arrivando.”