Lo scopo perseguito in queste due lezioni è quello di fornire una

Lezione 15-16 novembre 2010
PROF. ALFONSO GIORDANO
ASPETTI GEOECONOMCI DEL MONDO: OLTRE LE VECCHIE DICOTOMIE
PREMESSA
Lo scopo perseguito in queste due lezioni è quello di fornire una panoramica dei processi storici e
delle relative conseguenze prodotte sul sistema internazionale sul finire del bipolarismo. In
particolare, in un corso come "Geografia dell'incertezza e dell'informazione" si è ritenuto
fondamentale illustrare come il passaggio dall‟internalizzazione alla globalizzazione e l‟entrata di
nuovi attori sempre più influenti sulla scena internazionale siano nozioni indispensabili per capire il
complesso rapporto che esiste tra l‟analisi del territorio, i fenomeni politici e la diffusione (ed
eventuali distorsioni) delle informazioni che le riguardano, spesso caratterizzate da un alone di
incertezza.
Con il superamento delle vecchie dicotomie (Nord-Sud o Centro – Periferie, così come interpretate
da teorie e schemi esposti in classe e nelle slides) le relazioni internazionali non sono più
appannaggio dei singoli Stati, ma sono determinate e a loro volta condizionano le azioni dei nuovi
protagonisti della scena internazionale, quali organizzazioni internazionali e sovra-nazionali,
multinazionali, ONG, etc. Le relazioni internazionali sono diventate sempre più complesse, si sono
ampliate e velocizzate e il coinvolgimento di nuovi attori ha comportato nuove interdipendenze che
rendono lo scenario internazionale sempre più incerto. In altre parole, il crollo del blocco sovietico
ha determinato la fine di un sistema mondiale basato su due superpotenze e due sistemi economici e
conseguentemente la fine o per lo meno l‟allentamento delle rispettive aree di influenza, portando
quindi ad un sistema mondiale multiforme e difficile da interpretare e quindi, ancora una volta,
incerto. Risulta dunque importante avere nuovi strumenti di lettura per poter interpretare e
comprendere l‟attuale sistema-mondo e i possibili scenari futuri, anche in riferimento agli strumenti
di informazione e al loro ruolo nella comunità internazionale. In particolare, il sistema di
informazione è cresciuto in quantità, in fruibilità e in diffusione, ma allo stesso tempo è diminuita la
sua sistematicità. L‟elevato afflusso di informazioni a cui oggi siamo esposti e la possibilità di
accedere a più fonti (non sempre attendibili) rischia di confondere gli utenti, in quanto non provvisti
dei corretti strumenti di lettura degli attuali eventi. Pertanto, in queste lezioni si è inteso fornire gli
schemi interpretativi adatti per poter interpretare correttamente il complesso sistema di
interdipendenze globali, attraverso l‟esame degli eventi storici, la loro evoluzione, i protagonisti
internazionali di questo processo e i possibili, seppur incerti, scenari futuri.
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1. Dall’internazionalizzazione alla globalizzazione
Il concetto di globalizzazione è emerso per la prima volta attorno al 1960 quando lo studioso
canadese Marshall McLuhan coniò il termine “villaggio globale”1 per descrivere l‟impatto delle
nuove tecnologie delle comunicazioni sulla vita sociale e culturale. I due termini dellʹenunciato si
contraddicono a vicenda, il “villaggio” esprime qualcosa di piccolo, mentre “globale” sta a
significare l‟intero pianeta. Le due scale geografiche estreme naturalmente contrapposte si ritrovano
unificate. La globalizzazione può essere definita come un processo (o un insieme di processi)
consistente in una trasformazione nell‟organizzazione spaziale delle relazioni e delle transazioni
sociali che produce flussi e reti transcontinentali o interregionali di attività, interazioni e potere. In
via generale, si può sostenere che la globalizzazione consiste nell‟accumulo di legami tra le
principali regioni del mondo e tra svariati ambiti di attività: più che un singolo processo, essa
implica almeno quatto diversi tipi di cambiamento:
‐ essa estende attività sociali, politiche ed economiche attraverso le frontiere politiche, le regioni e i
continenti;
‐ intensifica la dipendenza reciproca con il progressivo aumento dei flussi di commercio,
investimenti, finanza, migrazione e cultura;
‐ accelera il mondo: l‟introduzione di nuovi sistemi di trasporto e comunicazione implica un più
rapido movimento di idee, beni,informazioni, capitali e persone;
‐ determina un maggiore impatto degli eventi remoti sulla nostra vita.
Quando si parla di globalizzazione si fa riferimento in genere a quella di natura economica, ciò
anche perché i suoi effetti sono maggiormente evidenti. Gli ambiti nei quali, a livello economico, il
fenomeno globalizzante si manifesta riguardano sia la sfera dell‟economia reale (cioè la produzione,
distribuzione e consumo di beni e servizi) che quella dell‟economia finanziaria (monete e capitali).
Questo fenomeno è però in atto da secoli e non è affatto una novità degli ultimi decenni.
L‟interconnessione tra varie aree del mondo è sempre esistita ed è nata appunto sin dai primi
movimenti di persone con i relativi traffici. Questa interconnessione è stata tradizionalmente
chiamata “internazionalizzazione”. La globalizzazione però è molto probabilmente qualcosa di
diverso e di più rispetto all‟internazionalizzazione sia per quanto riguarda gli attori coinvolti, che
per l‟intensità del processo e, infine, per l‟estensione geografica.
La globalizzazione coinvolge, infatti, oltre che gli Stati‐nazione (l‟internazionalizzazione prevedeva
invece relazioni tra “nazioni”), anche altri soggetti non statuali quali le multinazionali (o
1
MCLUHAN M. (1964), Understanding Media: The Extensions of Man, Routledge, London
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transnazionali), le Organizzazioni Internazionali, le ONG ecc. Il processo di globalizzazione è
inoltre più intenso in quanto maggiormente pervasivo nella vita dell‟individuo (toccando diversi
aspetti della vita umana, non solo quello economico quindi) ed enormemente più rapido (si pensi
alle tecnologie dell‟informazione quali internet). Infine, la globalizzazione comporta una estensione
geografica maggiore perché giunge in aree del pianeta prima non interessate dal fenomeno
dell‟internazionalizzazione, rendendole così parte del sistema.
Tabella 1: Internazionalizzazione e globalizzazione
Fonte: Adattata da Conti S., Dematteis G., Lanza C., Nano F. (2006), Geografia dell’economia
mondiale, UTET, Torino, pag. 194
Tre fattori su tutti hanno contribuito alla “esplosione” della globalizzazione:

Il mutamento della situazione geopolitica ed economica verificatosi alla fine degli anni 80‟;

L‟evoluzione tecnologica;

Lo sviluppo della telematica degli ultimi decenni.
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Con la fine della Guerra Fredda ed il crollo delle economie pianificate e dei connessi sistemi
socio‐politici (avvenuto simbolicamente con la caduta del Muro di Berlino nel 1989) - che
caratterizzavano l‟Europa orientale e una parte dell‟Asia - insieme all‟apertura della Cina
all‟economia di mercato, ha favorito l‟imporsi di un unico tipo di sistema economico, basato sul
libero commercio tra gli stati. Così gli intensi scambi di capitali e di merci, che già riguardavano
buona parte della Terra, si sono estesi a tutto il pianeta. L‟affermazione della globalizzazione è stata
poi favorita anche da altri due fattori e cioè l‟evoluzione tecnologica e lo sviluppo della telematica.
L‟evoluzione della tecnologia ha permesso la messa a punto di sistemi di trasporto molto più veloci,
facilmente accessibili e poco costosi, così da rendere sempre più conveniente e rapido lo
spostamento delle persone e delle merci da un capo all‟altro del mondo. Lo sviluppo della
telematica (telecomunicazioni legate all‟informatica) ha visto un progresso tale da permettere lo
scambio di un enorme volume di informazioni, in tempo reale, fra i popoli di tutti i paesi della
Terra. Pertanto, la riduzione delle distanze e le più strette interrelazioni fra tutti i Paesi del mondo
che ne conseguono, impongono un nuovo modo di porsi nei confronti dei grandi problemi
contemporanei. Gli squilibri demografici, la mobilità delle persone, l‟organizzazione del lavoro,
l‟inquinamento ambientale, il tipo di risorse utilizzate e la questione della loro esauribilità sono temi
che non possono essere considerati separatamente nelle singole entità territoriali. Il modo nel quale
questi temi saranno affrontati da un gruppo di paesi, ma anche da un singolo Stato, avrà
ripercussioni su tutti gli altri.
2. Le teorie interpretative dei sistemi economici mondiali
L‟interpretazione del sistema economico mondiale in chiave, “globale” si deve allo sociologo e
storico e americano Immanuel Wallerstein e alla sua teoria detta dell‟economia‐mondo, la cui prima
elaborazione risale al 19746. Alla base della teoria di Wallerstein c‟è l‟idea che l‟organizzazione
degli spazi geografici derivi da lungo processo storico basato non tanto su singoli Stati, quanto
invece
su
costruzioni
sociali
più
vaste
e
articolate
munite
di
una
propria
base
“economico‐materiale” e culturale indipendente, tali cioè da costruire dei veri e propri “mondi”, che
egli chiama appunto “sistemi‐mondo”. I sistemi‐mondo possono essere suddivisi in due tipologie:
gli imperi‐mondo e le economie‐mondo. Gli imperi‐mondo si caratterizzano come sistemi
particolarmente gerarchizzati in senso verticale, dove il momento politico primeggia su quello
economico e il cui funzionamento è fondato su meccanismi di produzione della ricchezza di tipo
“ridistribuitivo‐tributario” e sull‟espansionismo territoriale. La ridotta elasticità interna e l‟elevata
conflittualità esterna è allo stesso tempo un punto di forza e di debolezza di questi sistemi. Le
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economie‐mondo sono invece agglomerati di tipo orizzontale, dove non esiste un centro o un unico
vertice politico, ma dove risaltano piuttosto fattori e legami di ordine culturale, sociale ed
economico di rilevanza territoriale più vasta rispetto a quella governabile da un‟entità politica.
Tradizionalmente le economie‐mondo pre‐moderne si sono frequentemente sviluppate intorno alle
grandi vie dʹacqua (ad es.: il Mediterraneo, il Golfo Persico, l‟Oceano Indiano), ma anche alle
grandi arterie commerciali terrestri, mostrando, tuttavia, anch‟esse una accentuata instabilità
intrinseca e tendendo perciò a trasformarsi o ad essere inglobate in imperi o a disintegrarsi.
Un mutamento radicale avviene con l‟affermarsi dell‟economia‐mondo europea, che a tutti gli
effetti rappresenta le origini del sistema economico mondiale odierno. Si tratta del risultato di un
processo plurisecolare che inizia nell‟Europa nel XVI secolo, quando, in concomitanza con
l‟espansione coloniale seguita alla scoperta dell‟America, prende forma il capitalismo mercantile, la
cui peculiarità consiste nella capacità di espandersi in modo praticamente illimitato attraverso la
diffusione e l‟allargamento del mercato. Differentemente da quanto accade nelle altre
economie‐mondo, il nuovo sistema usa i meccanismi dell‟accumulazione del capitale per infilarsi in
ogni spazio dell‟economia sociale, e riesce ad assorbire le aree esterne (imperi‐mondo, altre
economie‐mondo, minisistemi), arrivando a creare sulla fine del XIX secolo uno spazio economico
unico sulla Terra. Un successo di tale rilevanza non è spiegabile se non si prende in considerazione
anche un‟altra peculiarità dell‟economia‐mondo capitalistica: la sua capacità, cioè, a funzionare e a
consolidarsi attraverso la separazione tra sfera economica e sfera politica. In tal modo la nuova
economia‐mondo si è potuta sviluppare non solo evitando la sua trasformazione in un
impero‐mondo, ma anche ottenendo vantaggio dall‟esistenza di più centri politici, potendo anzi
utilizzare le discontinuità politico‐territoriali e le varietà di modalità operative locali come fattori di
ulteriore espansione.
3. Sviluppo Sostenibile e Impatto ambientale
L‟aumento della popolazione mondiale in relazione alle risorse ha sollevato, non solo in tempi
recenti, discussioni legate alla capacità di portata del Pianeta. Questa è data capacità di un ambiente
(o ecosistema, o pianeta) e delle sue risorse di sostenere un certo numero di individui. Esiste una
quantità massima di popolazione che un dato ambiente può sopportare, superata la quale le sue
capacità di sostenere future generazioni sono messe a repentaglio. Il limite della capacità di carico
di un territorio non è fisso, ma può innalzarsi con l‟introduzione di nuove tecnologie in grado di
accrescere la capacità produttiva dell‟ambiente.
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Fra i più noti studiosi che si sono dedicati al rapporto popolazione‐risorse rientra l‟inglese Thomas
Malthus, che nel 1798 pubblicò il suo “Saggio sui principi della popolazione”. La sua analisi si basa
sull‟ipotesi che la ʺla popolazione ha la costante tendenza ad aumentare al di là dei mezzi di
sussistenzaʺ. La soluzione avanzata da Malthus per evitare il collasso mondiale consiste in un
rigoroso controllo delle nascite, basato sull‟astensione dal matrimonio e dalle pratiche sessuali.
Negli anni ʹ60 e ʹ70 del 1900 il pensiero di Malthus fu ripreso e rielaborato dai neomalthusiani, che
ammonivano sulle disastrose conseguenze derivanti dalla crescita della popolazione e
dell‟esaurimento delle risorse. Nel 1968 il biologo americano Paul Ehrlich pubblicò un volume dal
titolo “The population bomb”, nel quale prevedeva di lì a dieci anni l‟inevitabile morte per fame di
milioni di persone.
La maggiore attenzione agli evidenti problemi ambientali ha fatto evolvere il dibattito sulla
ricchezza del mondo industrializzato e sul divario nei consumi delle risorse da un piano spesso
eccessivamente moralista a quello di reali questioni di sopravvivenza del Pianeta. L‟attenzione sulla
portata di carico della Terra ha come corollario una riflessione sull‟attuale sistema economico
prevalente e sulla sua capacità di soddisfare i bisogni della popolazione attuale senza nulla togliere
alle generazioni future. In altri termini la capacità di portata è data da:
– la grandezza della popolazione di riferimento;
– l‟attività economica, i suoi ritmi e il consumo di risorse pro capite;
– la tecnologia usata per mantenere quell‟attività, quei ritmi e quei
– consumi;
– la quantità di risorse disponibili.
Fra gli indici ideati più recentemente per misurare l‟impatto e la richiesta umani nei confronti della
natura vi è l‟Impronta ecologica. Questo indice statistico ideato dal WWF mette in relazione il
consumo umano di risorse naturali con la capacità della Terra di rigenerarle. In pratica, rappresenta
ʺil pesoʺ che ogni popolazione ha sullʹambiente. Tre fattori determinano l‟Impronta di un Paese:
popolazione, consumi pro capite e quantità di risorse necessarie a sostenere quei consumi. Il calcolo
dell‟Impronta ecologica, in definitiva, può determinare se una nazione, una regione o il mondo
intero sta o meno vivendo entro i propri limiti ecologici.
Più articolato è l‟Indice di Sostenibilità Ambientale ESI sviluppato dalla Yale University e dalla
Columbia University in collaborazione con il Forum economico mondiale e il Centro comune di
ricerca della Commissione europea. LʹESI è un indice aggregato che si propone di valutare la
capacità delle nazioni di proteggere il proprio ambiente nei prossimi decenni, tenendo conto di una
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serie di variabili di tipo socio‐ economico, ambientale ed istituzionale. LʹESI dovrebbe dare gli
strumenti per una razionale politica ambientale, e fornire unʹalternativa al PIL e allʹIndice di
Sviluppo Umano nella misura del progresso di un paese. Ad un alto valore dellʹindice
corrispondono i paesi che hanno maggiore probabilità di mantenere il proprio ambiente in buone
condizioni nel lungo periodo.
§ 3.1 segue: Lo sviluppo sostenibile dell’ecosistema “uomo - terra” come paradigma per il 21°
secolo
Il rapporto Brundtland ha ispirato, comunque, importanti conferenze delle Nazioni Unite,
documenti di programmazione economica e legislazioni, sia nazionali che internazionali, e qualsiasi
discussione effettuata in questi ultimi anni su temi economici e/o ecologici2.
Il concetto di “sviluppo sostenibile” è stato dunque assurto come paradigma di una crescita
economica, culturale e sociale rispettosa dei tempi della natura e delle generazioni future. Va detto
che gli stati – ma anche le culture, i gruppi, gli individui ‐ interpretano il concetto di “sviluppo
sostenibile” nel modo che più si adatta ai propri bisogni. Così alcuni enfatizzano la sostenibilità
economica per aumentare il loro livello di consumi, altri la sostenibilità ambientale per proteggere
specie a rischio. Sintetizzando, possiamo identificare tre aspetti universalmente riconosciuti come
sfaccettature del concetto di “sviluppo sostenibile:
- Sviluppo sostenibile della natura: non consumare risorse più velocemente di quanto esse non
possano rinnovarsi.
- Sviluppo sostenibile dell‟economia: lavoro per tutti e sempre più elevati standard di vita.
- Sviluppo sostenibile della società: pari opportunità di vita per tutti.
4. Le rappresentazioni della strutturazione dello spazio globale
Il sistema economico e politico mondiale così come è strutturato oggi non è, come abbiamo visto
quando si è accennato all‟economia‐mondo capitalistica, un “dato” naturale scaturente da
un‟evoluzione più o meno lineare del mondo nel suo complesso o dall‟incontro autonomo di civiltà,
culture, formazioni politiche ed economiche diverse. Il sistema mondiale corrente è soprattutto il
frutto della prevalenza su scala globale di un unico modello di organizzazione socio‐economica e
politica, il “modello europeo”, o, più generalmente, “occidentale”, che nel corso del suo processo
2 Agenda 21 nel 1992, Protocollo di Kyoto nel 1997, Dichiarazione del Millennio nel 2000
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d‟affermazione ha destrutturato, assorbito, omogeneizzato e riorganizzato in modo strumentale a sé
ogni altra realtà preesistente o “diversa”. Tale evoluzione ha attraversato vari periodi, ciascuno dei
quali ha lasciato un proprio segno di riconoscimento sugli assetti mondiali attuali.
Fino a tutto il XVII secolo è l‟Europa che vede lo sviluppo del sistema capitalistico. I fenomeni
economici vengono organizzati secondo una bipartizione fra uno spazio interno europeo, con
colonie americane comprese, e uno spazio esterno extraeuropeo. E‟ quindi il sistema europeo con le
sue dipendenze coloniali ad assistere ad una polarizzazione dello spazio. Il centro del sistema si
colloca dapprima in Spagna, successivamente nell‟Europa nordoccidentale, dove si formano le
precondizioni dell‟economia industriale fondata sul libero lavoro (Nord Francia, Inghilterra, Paesi
Bassi). La periferia è invece fatta dall‟Europa orientale e dall‟America a dominazione iberica, poi
anche da quella anglofrancese, dove a prevalere sono le attività primarie, e quelle agricola ed
estrattiva, basate più che altro sul lavoro forzato e sulla schiavitù. La semiperiferia comprende la
Francia meridionale, l‟Italia settentrionale, poi anche Svezia, il Brandeburgo‐Prussia, dove
primeggiano la mezzadria e forme intermedie di lavoro. La guerra dei trent‟anni, conclusa nel 1648,
decreta, insieme con la nascita del sistema degli Stati, anche il manifestarsi del primo conflitto tra le
potenze centrali per l‟egemonia sulla nuova economia‐mondo. Il sistema europeo si estende poi
gradualmente tra il XVIII e il XIX sul resto del mondo, assorbendo dentro il proprio circuito
economico gli spazi esterni (gli imperi persiano, cinese e ottomano, il subcontinente indiano, il
Sudest asiatico, l‟Africa Sub‐Sahariana), e ciò sia direttamente quali colonie di sfruttamento, sia
indirettamente in qualità di partner commerciali, ultimando così il proprio sistema di colonie di
popolamento (Australia, Nuova Zelanda). Viene proiettata in questo modo su scala globale anche la
polarizzazione dello spazio geografico venutasi a formare in Europa nei precedenti due secoli e
testata nelle colonie e semicolonie d‟oltremare dell‟area atlantica fin dal „600 mediante il cosiddetto
“commercio triangolare”. Le relazioni tra centro e periferia traslate fuori dall‟Europa vengono
organizzate a partire dal principio fondato sul binomio dominanza - dipendenza, che prevede una
subordinazione e riconversione sempre più forti delle strutture socio‐economiche delle periferie
extra‐europee secondo le esigenze proprie dei mercati e dei processi produttivi delle metropoli
continentali (economia di piantagione, monocoltura, fornitura di manodopera ecc.). A questo
vigoroso meccanismo non si sottraggono neppure le ex‐colonie americane, che si allacciano, come
gli Stati Uniti, ai processi di trasformazione economica in atto nella madrepatria al fine di
convergere verso il centro del sistema mondiale, oppure come l‟America Latina, non riuscendo però
a venir fuori dalla loro situazione di subalternità e restando quindi confinate in uno spazio
marginale. L‟europeizzazione del mondo si universalizza e in qualche modo si rende indipendente a
partire dalla rivoluzione industriale inglese a cavallo tra „700 e „800, passando attraverso la
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rivoluzione francese dell‟89, arrivando fino al ʹ900 avanzato. L‟organizzazione politica degli spazi
geografici si uniforma al modello di Stati nazione di matrice europea, mentre il modo di concepire
la produzione industriale diffonde il lavoro salariato, eliminando o assimilando ogni forma residua
forma “altra” di organizzazione del lavoro. I rapporti gerarchici centro‐periferia restano
sostanzialmente immutati nel corso del tempo. A cambiare sono invece la collocazione dei poli
economici centrali e le relazioni egemoniche tra gli Stati al potere. Fino all‟inizio del „900 tocca
all‟Europa nordatlantica il ruolo cardine dell‟economia‐mondo, in un primo momento sotto il
faticoso condominio franco‐britannico, successivamente sotto l‟egemonia della sola Gran Bretagna,
focolaio della rivoluzione industriale. Negli anni „70 dell‟800 si affacciano però alla ribalta nuovi
concorrenti: la Germania e, per la prima volta un paese non europeo, gli Stati Uniti. La lotta per il
predominio provoca, come noto, due guerre mondiali e si risolve con lo spostamento del centro di
gravità del mondo al di fuori dell‟Europa, per l‟appunto negli Stati Uniti. La nuova egemonia
statunitense garantisce quanta anni circa di stabilità in Europa, a fronte del prezzo di una crescente
conflittualità col nuovo antagonista eurasiatico, l‟URSS. Quando dopo il 1991 questa conflittualità
bipolare viene meno, le altre conflittualità si moltiplicano sia in periferia, sia al centro, in Europa,
ma soprattutto tra centro (in Nord) e la periferia (il Sud). Contemporaneamente si assiste alla
crescita di un nuovo colosso economico, il Giappone, e di quello demografico, la Cina. Ciò, in un
certo senso, preannuncia lo spostamento del centro in una nuova area, quella del Pacifico.
Il mondo ha visto quindi, nelle sue diverse fasi storiche il prevalere di questa o quell‟altra visione
politica, socio‐economica, culturale e/o ideologica. Ogni campo disciplinare ha cercato di
interpretare queste visioni secondo le proprie peculiarità di indagine scientifica. Le discipline
geografiche, in linea con quanto premesso all‟inizio di questa trattazione, prediligono un approccio
allo stesso tempo sistemico, cioè tenendo conto delle diverse componenti del quadro d‟insieme, e
concreto, a partire quindi dagli elementi realmente verificabili sul territorio. Avvalendosi della sua
modalità principe di indagine, e cioè l‟analisi spaziale (i fatti umani, così come si manifestano in
relazione allo spazio terrestre) e multiscalare, la geografia tende a dare dello spazio globale una (o
più) rappresentazioni della sua struttura. Ciò avviene in genere gerarchizzando lo spazio e
verificandone le posizioni, le differenze, e le variazioni. Dovendo rappresentare lo spazio, il
discorso geografico si esprime quindi anche attraverso immagini e metafore (ma anche con
indicatori quantitativi) che per quanto semplificanti la realtà delle cose, possono mettere in luce
elementi nuovi, far rilevare relazioni non considerate prima, porre in evidenza continuità e rotture.
Come fatto rilevare poco prima, anche la metafora proposta dall‟immagine Nord‐Sud tende a
semplificare la realtà dei fatti: è facile far rilevare che non tutti i paesi in via di sviluppo si trovano
nella parte sud del mondo. Così come la tradizionale prospettiva interpretativa dei rapporti tra
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economie a livello di sistema mondiale basata sul dualismo centro‐periferia è discutibile3. La realtà
è molto più articolata e complessa: ci sono infatti paesi non ricchi appartenenti al sud del mondo
che non sono affatto periferici e che partecipano attivamente ai cicli produttivi e, allo stesso tempo,
paesi del centro che rischiano l‟esclusione. Tuttavia, pur con tutti i limiti descrittivi della realtà, una
immagine aiuta a contestualizzare i concetti teorici e a calarli nella probabile realtà. Le
rappresentazioni geografiche hanno quindi tentato di descrivere le gerarchie politico ed economiche
mondiali, che nell‟arco degli ultimi cinquant‟anni sono venute in parte mutando. All‟epoca del
bipolarismo prende forma la ripartizione geopolitica del pianeta in Primo, Secondo, Terzo e Quarto
mondo. A partire dagli anni „80 del Novecento il problema Nord‐Sud emerge come disequilibrio
principale degli assetti geo‐economici mondiali. Nell‟ultimo decennio del secolo, con il collasso del
mondo comunista appaiono nuove gerarchie. Occorre notare infine che il legame tra
rappresentazioni e teorie non è univoco e lineare: se per un verso è evidente che alcune
rappresentazioni riflettano le ideologie, le teorie e gli orientamenti politici nelle quali vengono alla
luce e si sviluppano, è più difficile stabilire se e quando le immagini geografiche abbiano fornito
spunti per la formulazione di teorie e ideologie.
§ 4.1 segue: Una lettura politico‐ideologica: la metafora dei Quattro Mondi
I termini “sottosviluppo” e “Terzo Mondo” fanno parte del gergo politico della fase iniziale della
Guerra Fredda, essendo comparsi per la prima volta a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta del
Novecento. La denominazione “Terzo Mondo” fu coniata nel 1952 dal demografo e economista
francese Alfred Sauvy in un articolo del giornale “L‟Observateur”, nel quale la situazione politica
mondiale dell‟epoca è paragonata a quella della Francia pre‐rivoluzionaria. Il parallelismo che
Sauvy fa rilevare riguarda la situazione della società francese alla vigilia della Rivoluzione, ripartita
com‟era in “tre stati”, l‟ultimo dei quali, il “Terzo stato”, che includeva la massa della popolazione,
sarebbe insorto e avrebbe preso il sopravvento, come sempre secondo Sauvy, il mondo si poteva
frazionare in “Tre Mondi”, l‟ultimo dei quali, il Terzo appunto, comprendente i due terzi
dell‟umanità, sarebbe stato destinato a sollevarsi e imporre un nuovo ordine internazionale.
A partire da tale parallelismo, il Primo Mondo era assimilato con le vecchie e nuove potenze
coloniali (potenza “neocoloniale” erano considerati gli Stati Uniti), e più in generale, con i paesi a
regime di economia di mercato, vale a dire capitalistica. Il Secondo Mondo era composto
dall‟insieme dei paesi socialisti, in parte appartenenti al blocco sovietico. Il Terzo Mondo, infine,
3
Per una critica al modello centro-periferia si veda VANOLO A. (2006), Geografia economica del sistema-mondo. Territori e reti
nello scenario globale, UTET, Torino.
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radunava la massa dei paesi ex coloniali e dei movimenti di liberazione nazionale, in prevalenza
presenti in Asia e in Africa, accomunati oltre che dalla posizione economica e politica di
subalternità, dal fatto di non identificarsi in nessuno dei primi due mondi.
Nel corso degli anni, la distinzione fra i Tre Mondi ha assunto una connotazione più marcatamente
economica e, correlata col termine “sottosviluppo” nella sua versione meno dura e più politically
correct di “in via di sviluppo”, fu recepita dalle stesse organizzazioni internazionali. L‟espressione
“Primo Mondo” diventò così equivalente di paesi industrializzati a economia di mercato (Market
Economies), quella “Secondo Mondo” continuò a individuare i paesi socialisti a economica
pianificata (Central Planned Economies), e quella “Terzo Mondo” cominciò a collimare con i paesi
in via di sviluppo, sigla PVS (Developing Economies). Ma vi è da aggiungere il “Quarto Mondo”,
che viene in effetti viene visto come il “quarto stato” della Francia pre‐rivoluzionaria, che non esiste
a livello nominale, ma che, di fondo, segnala di fatto il mondo degli esclusi.
L‟espressione compare per la prima volta sulla stampa negli anni „70 per indicare la porzione più
misera dei paesi del Terzo Mondo, i paesi sottosviluppati veri e propri, quasi del tutto, se proprio
non del tutto, privi di risorse naturali di qualche rilievo o di capacità industriali.
§ 4.2 segue: Una visione economico‐sociale: lo schema Nord‐Sud
La ridefinizione delle gerarchie mondiali odierne, lette non più tanto in chiave politico‐ideologica,
quanto piuttosto in una prospettiva economicosociale, si deve a una Commissione dell‟ONU
presieduta dall‟ex cancelliere dell‟allora Germania Ovest, Willy Brandt, le cui conclusioni sono
sintetizzate nell‟ormai conosciuto Rapporto sullo sviluppo mondiale, edito nel 1980 sotto il titolo
emblematico Nord/Sud. L‟argomento chiave del Rapporto è incentrato sulla rottura ancora più
profonda e radicale che si è venuta ad aggravare negli ultimi decenni all‟ombra della
contrapposizione Est‐Ovest e mentre tutti i commentatori internazionali erano concentrati su questo
confronto. Questa nuova divisione, suscettibile di compromettere in maniera irreversibile gli
equilibri mondiali, è quella che contrappone i paesi ricchi e industrializzati dell‟emisfero Nord e il
resto del mondo che è invece costretto soventemente a vivere ai limiti della sussistenza, che è
caratterizzato da una crescita economica lentissima, se non stazionaria, ed è appesantito da profondi
problemi demografici, etnici e socio‐culturali. Nella visione proposta dal Rapporto Brandt, il Nord
del mondo comprende non solo i paesi avanzati dell‟emisfero nord geograficamente inteso
(l‟America settentrionale, Messico escluso, l‟Europa, inclusa l‟URSS, e il Giappone), ma anche
alcuni paesi industrializzati dell‟emisfero sud, come lʹAustralia, la Nuova Zelanda. In questa
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visione, la parte sud del mondo finisce col coincidere con la vasta area del sottosviluppo comunque
essa venga classificata (paesi in via di sviluppo, Terzo e Quarto Mondo).
In ogni caso, ancora oggi, questo schema rappresenta un utile paradigma di riferimento per
analizzare le grandi dinamiche geoeconomiche globali. Lo schema Nord‐Sud ha infatti il merito di
mettere in luce le distorsioni connaturate ai meccanismi di fondo che caratterizzano lo sviluppo
economico mondiale: dominio delle economie più forti (quelle identificate come “centro”), scambio
ineguale tra paesi ricchi e paesi poveri (un rapporto che va sempre peggiorando), indebitamento in
aumento e costante impoverimento dei paesi più deboli. Tuttavia, come ogni modello a carattere
descrittivo‐generalista, corre il rischio, se non rinnovato e adattato ai continui mutamenti della
complessa realtà di oggi, di perdere in capacità esplicativa e rendere più confusa l‟analisi dei
processi che vuole interpretare.
§ 4.3 segue: La Triade e i paesi emergenti e in transizione
Di recente nuovi elementi tendono a ridisegnare la fisionomia geoeconomica e politica del mondo.
Da un lato, vi è da segnalare la tradizionale versione interpretativa che individua nella cosiddetta
“Triade”, formata da USA, Unione Europea e Giappone, i paesi dominanti sullo scacchiere
internazionale. Si tratta di una definizione utilizzata spesso nel commercio internazionale per
indicare appunto il trittico dei paesi/aree più industrializzate del mondo: il primo gruppo è
rappresentato dagli Stati Uniti, il secondo dai paesi dellʹEuropa Occidentale (sostanzialmente l‟UE)
e il terzo gruppo è rappresentato dal Giappone. Sono in pratica le classiche potenze economiche
“occidentali”, che nel mercato globale vengono identificate in raffronto ad altri gruppi economici
indiscutibilmente più deboli oppure ad altri nuovi gruppi economici emergenti, sui quali gruppi
economici però, grazie al suo potere politico ed economico la Triade proietta la sua grande
influenza. Per altro verso però, si ha un graduale ma durevole processo di differenziazione e
riallocazione delle gerarchie interne ai paesi che fanno parte del cosiddetto del Terzo Mondo (si
pensi per esempio a Israele, che da tempo viene annoverato tra i paesi industriali). D‟altra parte, un
processo per alcuni aspetti analogo sta avvenendo nei paesi dell‟emisfero nord, le cosiddette
“economie in transizione”, investiti dalla turbolente situazione post‐comunista.
Relativamente al Terzo Mondo, mentre si estende la lista dei paesi più poveri del Quarto Mondo
(che va detto, sono meno poveri che in passato, ma più poveri in relazione ai più ricchi), va notato
però che stanno anche man mano emergendo almeno tre categorie di Stati i cui livelli di sviluppo si
avvicinano a quelli delle economie più avanzate. Questi risultati sono incoraggianti fino al punto
tale che si può arrivare a configurare quello che si potrebbe definire, il Nord del Sud del mondo.
Lezione 15-16 novembre 2010
Una prima categoria di questi paesi riguarda gli Stati a rendita petrolifera (Algeria, Arabia Saudita,
Bahrein, Brunei, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Iran, Iraq, Indonesia, Kuwait, Libia, Oman, Nigeria,
Venezuela ecc.).
Una seconda categoria è quella denominata come “nuovi paesi industriali” o NIE (Newly
Industrialized Economies), così chiamati a partire dalla metà degli anni ʹ80. Si tratta delle “quattro
tigri” dellʹAsia orientale (Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e Singapore), tutte caratterizzate da
sostenuti ritmi di crescita economica e da una intensa presenza sul mercato internazionale. Alla
stessa categoria, pur con tassi di crescita meno brillanti, sono da ascrivere anche Filippine,
Indonesia, Malaysia e Thailandia, definiti dalla stampa di settore come i “quattro dragoni“ del
Sud‐Est asiatico. Il paese senza dubbio a più rapida industrializzazione dell‟Asia, ma anche del
mondo, è la Cina, con un tasso di crescita costantemente a due cifre per oltre un decennio e in
procinto di ricoprire un ruolo leader mondiale non solo in campo economico ma anche
politico‐strategico.
La terza categoria di paesi emergenti è parecchio variegata, comprendendo Stati di grandi
dimensioni che dispongono di una forte base agricola e/o mineraria e di un apprezzabile apparato
industriale (per es.: Argentina, Brasile, India, Messico e Sudafrica), o che si trovano in una fase di
decollo industriale più o meno avanzato (Bangladesh, Egitto, Pakistan, Turchia), piccoli Stati con
reddito elevato (Cile, Uruguay), ma anche mini‐stati e dipendenze con un pronunciato sviluppo nel
settore terziario legato alle agevolazioni fiscali (Bahamas, Bermuda, Isole Cayman, Antille
Olandesi), al turismo (Maurizio, Seicelle, Trinidad e Tobago) o ad altri settori (Macao, Swaziland).
Una delle relativamente recenti classificazioni per tipo di paesi è quella inerente i BRIC e cioè:
Brasile, Russia, India, Cina. Questi paesi condividono una grande popolazione (Russia e Brasile
oltre il centinaio di milioni di abitanti, Cina e India oltre il miliardo di abitanti), un immenso
territorio, abbondanti risorse naturali strategiche e, cosa più importante, sono stati caratterizzati da
una forte crescita del PIL e della quota nel commercio mondiale, soprattutto nella fase iniziale del
XXI secolo.
5. Gli indicatori quali-quantitativi dei divari territoriali
Un buon metodo per orientarsi nel continuo mutare delle situazioni geo-economiche di questʹinizio
secolo è quella di considerare i criteri analitici più elementari di classificazione proposti dalle
organizzazioni internazionali. Il dato di base più comunemente utilizzato dalle principali
organizzazioni internazionali è quello del reddito pro capite in termini di Prodotto nazionale lordo
(PNL) in dollari USA.
Lezione 15-16 novembre 2010
La Banca Mondiale ha classificato i paesi del mondo in quattro classi di reddito secondo i seguenti
parametri: paesi a basso reddito; paesi a reddito medio basso; paesi a reddito medio alto; infine
paesi ad alto reddito. Sempre secondo la Banca Mondiale, le prime tre classi si ascriverebbero alla
categoria dei paesi in via di sviluppo (PVS), con l‟avvertenza però che “ciò non comporta
necessariamente che i paesi che fanno parte del gruppo non siano entrati in fase di sviluppo, né che i
paesi che ne sono esclusi siano pienamente sviluppati”.
Pur considerando questi limiti, la ripartizione per classi di reddito conferma sostanzialmente e in
qualche modo specifica maggiormente a trent‟anni di distanza i risultati del Rapporto Brandt. A
tutt‟oggi una cinquantina di paesi che potremmo definire “benestanti” (ad alto reddito), con solo il
15% della popolazione mondiale, posseggono il 78% delle risorse mondiali. Tra i restanti paesi,
metà della popolazione (vale a dire oltre il 40% sul totale) continua ad essere ai limiti della
sussistenza (cioè a basso reddito), un terzo (il 35% del totale) inizia a superare il livello dei consumi
primari (reddito medio basso), mentre il restante 10% della popolazione mondiale accede o sta
finalmente accedendo ai consumi di massa e ad una economia industriale (reddito medio alto).
Un indicatore di sviluppo macroeconomico molto usato e realizzato nel 1990 dalle Nazioni Unite, è
l‟Indice di Sviluppo Umano (HDI‐Human development index)4. È stato utilizzato dalle Nazioni
Unite a partire dal 1993, affiancandolo al PIL (Prodotto Interno Lordo), per valutare la qualità della
vita nei paesi membri. In precedenza, veniva utilizzato soltanto il PIL, indicatore di sviluppo
macroeconomico che rappresenta il valore monetario dei beni e dei servizi prodotti in un anno su un
determinato territorio nazionale, ma che si basa quindi esclusivamente sulla crescita, non tenendo
conto del capitale (soprattutto umano e naturale) che invece è rilevante nei processi di crescita.
Questi parametri macroeconomici stimano esclusivamente il valore economico totale o una
distribuzione media del reddito. In sostanza, un cittadino molto ricco fa ricadere, nel calcolo così
effettuato, la sua ricchezza su molti poveri falsando in tal modo il livello di vita di questi ultimi. Si è
cercato quindi, mediante l‟Indice di Sviluppo Umano, di tener conto di altri e differenti fattori, oltre
al PIL pro‐capite, che non potevano essere posseduti in modo rilevante da un singolo individuo,
come l‟alfabetizzazione e la speranza di vita. La scala dellʹindice è in millesimi decrescente da 1 a 0
e si suddivide in paesi ad alto sviluppo umano (indice compreso tra 1 e 0,800), paesi a medio
sviluppo (indice compreso tra 0,799 e 0,500), paesi a basso sviluppo (indice compreso tra 0,499 e
0).
4 http://hdr.undp.org/en/
Lezione 15-16 novembre 2010
6. Attori globali e interdipendenze territoriali
L‟attuale scenario mondiale vede operare molteplici soggetti, tutti fortemente interdipendenti tra di
loro: nessuno degli attori, siano Stati, multinazionali o organizzazioni sovra‐statuali, può nei fatti
agire isolatamente. Ma questo sistema così integrato e interagente è al suo interno lacerato da
drammatici squilibri. Interdipendenza e squilibrio non sono però elemento distintivo esclusivo del
mondo contemporaneo: ciò che è nuovo è il fatto che non si riferiscono solo alle relazioni tra alcuni
elementi, ma investono il sistema mondo nel suo complesso. Si tratta allora di capire quali sono i
principali attori che operano nello scenario mondiale e come interagiscono e si influenzano
vicendevolmente.
§ 6.1. segue: Stati, gerarchie sistemiche e geopolitica economica
Il sistema politico ed economico mondiale si basa in primo luogo sulle relazioni internazionali tra
Stati, è quindi innanzitutto un sistema di Stati. Il termine “internazionale” fa però diretto riferimento
al rapporto tra nazioni. E‟ bene non confondere il significato diverso discendente dai termini
“Stato”, “Nazione” e “Stato nazionale”. Perché si possa parlare di Stato c‟è bisogno della presenza
di almeno tre elementi:
1) un territorio dai confini più o meno riconosciuti, nell‟ambito del quale si stanzia,
2) una popolazione residente in maniera permanente, e
3) una sovranità esercitata su entrambi, appunto dallo Stato. Lo Stato è quindi un concetto di natura
giuridico‐politico‐territoriale.
Diversamente dallo Stato, la nazione è un gruppo umano che però può anche non coincidere con la
popolazione che si colloca nel territorio controllato dallo Stato. Mentre “popolazione” esprime una
dimensione sostanzialmente quantitativa, la nazione ha una caratteristica principalmente qualitativa:
è cioè un insieme di persone che si riconosce in comuni valori quali cultura, religione, lingua,
tradizioni ecc. Se lo Stato è la modalità dominante dell‟organizzazione politica contemporanea, lo
Stato nazionale, è la forma ideale nella quale Stato e nazione tendono a coincidere; è cioè una
nazione che ha il proprio Stato e non vi sono al suo interno gruppi minoritari troppo numerosi che
ambiscono a forme di autonomia più o meno marcate5. Ciò fa pensare al fatto che possano esistano
nazioni senza Stato (come per esempio i Kurdi) e Stati multinazionali (la Svizzera, il Belgio).
Al fine di comprendere l‟interrelazione tra gli Stati è possibile confrontando i valori riguardanti i
primi dieci Stati in termini di superficie e popolazione con gli analoghi valori degli ultimi
5
DE BLIJ H.J., MURPHY A.B. (2002), Geografia umana, cultura, società, spazio, Zanichelli, Bologna
Lezione 15-16 novembre 2010
microstati. Il divario è tanto più vistoso se si assume come parametro discriminate quello delle
dimensioni demografiche. Al riguardo possono bastare un paio di dati: il 60% della popolazione
planetaria si concentra in 10 Stati che contano oltre cento milioni di abitanti (Cina, India, USA,
Indonesia, Brasile, Pakistan, Russia, Bangladesh, Giappone e Nigeria), i quali occupano un
territorio pari al 40% della superficie abitata del globo. Ma ciò che realmente mette in evidenza la
forte gerarchizzazione del sistema di Stati odierno è dato dalle statistiche relative al Prodotto
Nazionale Lordo (PNL) delle dieci principali potenze economiche del mondo. Questi dieci Stati da
soli incidono per oltre il 70% sul prodotto lordo mondiale complessivo. Ci sono quindi tutti gli
elementi per identificare il gruppo di Stati dominante sul sistema mondo: le 8 maggiori potenze
industriali (USA, Giappone, Cina, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada), le cinque
potenze militari munite di armamento atomico, il cosiddetto “club nucleare” (USA, Russia, Francia,
Regno Unito e Cina), che sono in sostanza le stesse potenze vincitrici del secondo conflitto
mondiale e che, in quanto tali, sono anche i massimi decisori politici nell‟ambio delle relazioni
internazionali nella loro qualità di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell‟ONU dotati
di diritto di veto.
Oggi stiamo assistendo a una trasformazione politica che potrebbe essere tanto rilevante quando lo
fu la creazione degli Stati‐nazione: il legame esclusivo tra geografia e potere politico sta fortemente
mutando. La nostra nuova era è testimone della diffusione di strati di autorità entro e oltre le
frontiere politiche. Nuove istituzioni hanno collegato gli stati sovrani tra di loro trasferendo inoltre
la sovranità in luoghi situati al di là dello Stato‐Nazione. Sono sorte cosi Istituzioni di
regolamentazione sovranazionale e internazionale, così come Organizzazioni Regionali (dalle Aree
di Libero Scambio alle Unioni Economiche) che hanno influenza, spesso determinante, sulle
decisioni degli Stati e in alcuni casi incidono (come nel caso dell‟UE) direttamente sulla vita dei
loro cittadini all‟interno delle frontiere degli stessi Stati. Si è sviluppato un corpus di leggi regionali
e internazionali su cui si fonda un sistema nascente di governo globale, di natura sia formale che
informale, suddiviso in diversi strati. Il diritto internazionale ne è così uscito rafforzato e
maggiormente diffuso. Gli Stati, infatti, ne debbono sempre più tener conto su un crescente numero
di argomenti: i crimini contro l‟umanità, le questioni ambientali, i diritti umani. Tali leggi, inoltre,
sono sostenute non solo dalle Istituzioni internazionali preposte ma da un numero crescente di
Organizzazioni non Governative (ONG) transnazionali che fanno sentire la propria voce. Inoltre, le
multinazionali, principale vettore della globalizzazione economica, sono spesso indicate quali mezzi
di dominio degli Stati, ma anche come maggiori concorrenti degli Stati stessi arrivando ad avere
fatturati superiori ai bilanci statali.
Lezione 15-16 novembre 2010
Per tutte queste ragioni, molti autori hanno parlato di “fine della storia” 6, “fine dello
Stato‐nazione”7,“fine della geografia”8. Questa trasformazione della politica internazionale non
implica la morte dello Stato‐nazione. Gli Stati ‐ soprattutto alcuni, come sopra individuato ‐ restano
comunque i principali attori dell‟arena internazionale sia in campo politico che in quello
economico9. Dopo una prima fase caratterizzata dalla cessione di parti di sovranità da parte di molti
Stati (comunque mai toccando la sfera militare e di politica estera) e di forte slancio alla
cooperazione multilaterale, gli Stati hanno riacquistato molte delle loro prerogative. Ciò è avvenuto
anche in conseguenza del mutato clima internazionale in termini di sicurezza (soprattutto per i tristi
eventi del settembre 2001).
Lo Stato, secondo l‟analisi economica oggi prevalente, riveste tre principali funzioni: allocare le
risorse (se il mercato è in difficoltà), ridistribuzione (politica fiscale e di trasferimento) e
stabilizzazione (provvedimenti congiunturali contro sottoccupazione o inflazione). Dal punto di
vista internazionale, la totale apertura delle frontiere alle merci estere può costituire un pericolo per
alcuni settori, incapaci di sostenere una concorrenza di tale portata. Una delle preoccupazioni dello
Stato è in effetti quella di tutelare i settori più deboli, e garantire l‟indipendenza nazionale nei
settori considerati strategici. In questo senso molto spesso lo Stato si trova ad ostacolare il processo
di globalizzazione. Alcuni studiosi privilegiano i comportamenti del libero mercato con questo
intendendo un ruolo minimo dello Stato, mentre altri sostengono che la figura centrale nelle
relazioni economiche internazionali non è il mercato bensì lo Stato. In ogni caso è ormai evidente
che lo Stato deve confrontarsi con nuovi attori e nuovi processi presenti sulla scena internazionale,
tanto che si parla di relazioni transnazionali, cioè al di là degli Stati. Questi nuovi attori e nuovi
processi invece di sostituire il mondo familiare degli Stati, lo avvolgono e lo complicano. C‟è
necessità quindi di analizzare i nuovi attori intervenuti, a cominciare da uno dei più potenti e
presenti: le multinazionali.
§ 6.2. segue: Imprese internazionali, multinazionali, transnazionali e globali
L‟altro grande attore della scena economica mondiale contemporanea è costituito dalle quelle
società che genericamente vengono chiamate “multinazionali”. Si tratta di imprese o gruppi di
imprese, di grandi dimensioni, che operano direttamente o attraverso consociate in più paesi, in
genere di diversi continenti, e che in virtù del loro peso economico - finanziario, sono in grado di
6 FUKUYAMA F. (1992), La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano.
7 OMHAE K. (1996), La fine dello Stato nazione e la crescita delle economie regionali, Baldini e Castoldi, Milano.
8 VIRILIO V. (1997), “Fin de l’histoire, ou Fin de la Géographie? Un monde surexposé”, Le Monde Diplomatique, Août.
9 Vedasi GILPIN R. (2009), Economia politica globale. Le relazioni economiche internazionali nel XXI Secolo, Egea-Bocconi
Editore, Milano.
Lezione 15-16 novembre 2010
influenzare
le
scelte
politico
economiche
di
Stati
e
organizzazioni
internazionali10.
L‟organizzazione tipo più semplice di una multinazionale prevede un centro direttivo o una società
madre, solitamente localizzata in un paese industrializzato, ove si concentrano le risorse finanziarie,
le conoscenze tecniche, le decisioni strategiche, ma anche i profitti, e una concatenazione di filiali
estere e/o partecipazioni ad altre società. Mentre, l‟impresa internazionale è fondamentalmente di
carattere commerciale, non impianta (a differenza della multinazionale) stabilimenti produttivi
all‟estero, ma si limita all‟acquisto di materie prime e alla vendita dei beni ottenuti dalla loro
trasformazione dovunque ci sia richiesta.
Un‟altra denominazione che si suole dare ad imprese che operano avendo sedi all‟estero è quella di
“transnazionale”. Con questo termine si vuole indicare quel raggruppamento privato di interessi che
opera in diverse nazioni e continenti e che può anche avere una sede centrale in una sola nazione,
ma senza che per questo vi siano precise identità o vincoli nazionali. In altre parole, la differenza
risiederebbe nel legame più o meno marcato con la nazione di origine dell‟impresa: più forte nella
multinazionale, meno, fino all‟estinzione, in quella transnazionale. Un buon metodo per valutare
questo fenomeno di sradicamento nazionale è dato dal calcolo dell‟indice di transnazionalità,
costituito dalla media dei seguenti tre rapporti:
1) investimenti esteri su investimenti totali (nazionali e stranieri);
2) vendite estere su vendite totali;
3) occupati esteri su occupati totali.
Più il valore dell‟indice si avvicina a 100 più l‟impresa si può considerare transnazionale (e quindi
con meno vincoli nazionali). Quando l‟impresa perde totalmente il suo rapporto con il paese di
origine (cioè si verifica una transnazionalità molto spinta) si può invece parlare di impresa
“globale”. Una impresa globale è sempre più concentrata a cercare alleanze e a stipulare accordi di
cooperazione in molte parti del pianeta. Si riscontra una maggiore flessibilità che rimette in
discussione le gerarchie di verticali di comando e di organizzazione della produzione. Le affiliate
aumentano di numero, non rappresentano più unità di secondo livello e diventano sempre più
autonome formando un sistema a rete diffuso su tutti i continenti. La produzione può quindi
avvenire contemporaneamente in diversi paesi, mentre le fasi di fornitura possono essere affidate a
imprese indipendenti operanti a scale geografiche differenti. Altra caratteristica è data dalla
presenza congiunta di produzioni altamente specializzate (e destinate a servire determinati mercati)
e di altre molto standardizzate. Una impresa globale considera infatti il mercato mondiale come un
10 Per statistiche e dati su Multinazionali (TNCs - Transnational Corporations) e Insvestimenti diretti esteri (FDI – Foreign Direct
Investments) vedasi il sito dell‟UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development):
http://www.unctad.org/Templates/Page.asp?intItemID=4976&lang=1
Lezione 15-16 novembre 2010
unico mercato, intende vendere a tutti lo stesso prodotto e può capitare che “sfidi” il potere degli
Stati così come la loro possibilità di intervento. Un elemento peculiare è dato dal fatto che l‟impresa
globale investe de‐localizzando la propria produzione dove i costi sono più bassi. Difatti, in un
mercato dominato dalla globalizzazione non è più il prodotto a fare la differenza, ma il fattore
lavoro che è difficile da spostare al contrario del capitale che è mobile. Il processo produttivo viene
frammentato così che ogni stadio venga localizzato nel paese che dà il maggiore vantaggio
comparato in termini di costo del lavoro più basso. Vi è comunque da notare che la localizzazione
geografica continua a rivestire un ruolo importante. Infatti, capacità e infrastrutture di uno specifico
contesto geografico continuano a limitare le possibilità delle imprese nel muoversi in totale libertà.
Nonostante il carattere sempre più “globale” di queste imprese, continuano a persistere differenze
nelle modalità operative, nello stile di management e in quello di impresa. Segno che non si tratta di
organizzazioni totalmente indipendenti dalla situazione socio‐economica (cioè dal contesto
territoriale) in cui operano e hanno sede: i caratteri culturali insomma continuano a contare.
Diversi fattori hanno contribuito all‟espansione delle multinazionali. Un primo necessario fattore è
stato dato dall‟apertura delle frontiere e dal nuovo clima politico che si è instaurato in ambito
mondiale: il ritorno al libero scambio istituzionalizzato dal GATT (General Agreement on Tariffs
and Trade) nel 1947, la creazione di zone di integrazione economica, la fine della divisione del
mondo tra capitalismo e socialismo che ha portato ad uno spazio economico mondiale
essenzialmente regolato dal mercato. Altro essenziale fattore è quello del raggiungimento di alcuni
progressi tecnici che ha permesso l‟abbattimento dei costi di trasporto e di comunicazione.
Determinante altresì è stato il controllo delle materie prime che ha portato le imprese multinazionali
a localizzarsi geograficamente in prossimità delle riserve. La localizzazione geografica entra in
ballo anche per quanto inerisce la prossimità ai grandi mercati di sbocco, inizialmente solvibili solo
nei paesi tradizionalmente sviluppati ma recentemente presenti anche all‟Asia e all‟America Latina.
La pura logica del maggior profitto ottenuto abbassando i costi salariali ha portato al fenomeno
della delocalizzazione, cioè dello spostamento di interi stabilimenti nei paesi emergenti dell‟Asia,
dell‟America Latina o dell‟Europa orientale, dove i salari per lavori non qualificati o semiqualificati
sono almeno 10 volte inferiori a quelli dei paesi sviluppati. Ciò se da un lato ha contribuito alla
diminuzione delle spese (e quindi ad un maggior profitto per l‟impresa) e al miglioramento della
competitività del prezzo dei prodotti, ha portato in evidenza il problema della perdita di milioni di
posti di lavoro nei paesi sviluppati in conseguenza della detta delocalizzazione. In un contesto
caratterizzato da una già elevata mobilità umana accentuatasi proprio grazie alla globalizzazione, la
delocalizzazione industriale provocherebbe nei paesi sviluppati (che subiscono lo smantellamento di
industrie con la conseguente perdita di posti lavoro) un ritorno alle migrazioni, almeno in certe
Lezione 15-16 novembre 2010
classi sociali toccate da detta delocalizzazione. Nei paesi in via di sviluppo invece, la presenza delle
multinazionali, oltre alle già citate inique condizioni di lavoro, porterebbe a fenomeni di internal
displacement (migrazioni interne forzate) che investono popolazioni locali o indigene, successivi
all‟acquisto da parte delle multinazionali di territori (per presenza di risorse o anche per questioni
localizzative) ove queste popolazioni vivevano. Alle multinazionali sono addebitate, oltre che lo
sfruttamento della manodopera locale, il saccheggio delle ricchezze di questi paesi tramite un
mercato delle materie prime a costi bassissimi, l‟imposizione delle loro strategie ai paesi dove
vanno ad impiantarsi riducendone in questo modo la sovranità, l‟esportazione di un merchandising
culturale che distruggerebbe l‟individualità dei diversi paesi tramite dei “prodotti globali” imposti a
dei “consumatori globali”.
Coloro che invece sono favorevoli, al contrario, ritengono che le multinazionali siano fondamentali
al processo di crescita economica mondiale e che lo loro strategie possano accelerare lo sviluppo di
numerosi paesi sottosviluppati. Gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) delle multinazionali farebbero
pervenire nei paesi poveri reddito e quindi sufficiente risparmio, nonché conoscenze tecnologiche
adeguate, risorse finanziarie e capitali fissi, sotto forma di tecnologie e di conoscenze indispensabili
per lo sviluppo economico. Allo stesso modo le multinazionali eserciterebbero un ruolo positivo
sullo sviluppo del commercio di questi paesi con l‟estero, favorendo la crescita delle esportazioni, e
quindi la riduzione del deficit commerciale e di conseguenza l‟incremento delle importazioni.
L‟apertura al commercio internazionale, la comparsa di un sistema economico e sociale similare a
quello dei paesi occidentali svilupperebbero nella popolazione nuovi comportamenti sociali e
demografici, connessi all‟aspirazione a una maggiore libertà individuale e alla democrazia. Secondo
questa visione quindi le multinazionali parteciperebbero non solo allo sviluppo economico ma
anche a quello politico.
§ 6.3 segue: Istituzioni internazionali e regolamentazione multilaterale
Oltre agli Stati e alle multinazionali, altri attori con differenti pesi e ruoli occupano la scena politica
ed economica globale. Tra questi, vanno annoverate le Istituzioni e organizzazioni internazionali,
tanto quelle che operano su scala planetaria (come l‟ONU), che quelle a livello regionale (per es.
l‟UE), sia quelle che hanno obiettivi specifici (la CECA – Comunità Europea del Carbone e
dell‟Acciaio), che generali (l‟Unione Africana). Queste organizzazioni possono essere poi
classificate in:
a) intergovernative, quando gli accordi sono soprattutto il frutto di rapporti tra governi (è il caso
della maggior parte delle Organizzazioni Internazionali propriamente dette);
Lezione 15-16 novembre 2010
b) sovranazionali, quando operano al di sopra dei governi e le cui decisioni incidono direttamente
sulla vita dei cittadini appartenenti agli Stati che aderiscono all‟organizzazione (applicabile per ora
alla sola Unione Europea);
c) transnazionali, quando ad agire sono organizzazioni al di là degli Stati, come è tipicamente il
caso delle ONG, Organizzazioni appunto non Governative (per es. Amnesty International).
Alle istituzioni internazionali spetta il compito di controllare il processo di globalizzazione e dare
supporto ai paesi il cui inserimento nell‟economia mondiale risulta problematico, non solo per i
paesi stessi ma anche per il sistema economico nel suo complesso. Per quello che qui interessa, le
istituzioni particolarmente rilevanti ai fini della comprensione dei sistemi economici internazionali
sono l‟Organizzazione Mondiale del Commercio, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca
Mondiale. L‟Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), nata nel 1994 dagli accordi di
Marrakech, subentrando al GATT, ha l‟obiettivo di consentire lo sviluppo del commercio
internazionale di beni e servizi. I paesi membri hanno accettato di aprire le proprie frontiere ai
prodotti esteri e, in generale, di non sovvenzionare le proprie esportazioni.
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) è stato creato nel 1944, a seguito dellʹentrata in vigore
degli accordi della Conferenza di Bretton Woods, con il compito di evitare disordini monetari nel
periodo del primo dopoguerra. Successivamente, negli anni ‟80 il FMI ha assunto un mandato
differente. Da allora, infatti, la sua funzione è principalmente quella di gestire l‟indebitamento dei
paesi in via di sviluppo e di aiutare i paesi emergenti, nel caso di crisi finanziarie. Tali aiuti devono
tuttavia sottostare ad alcune condizioni: gli Stati devono accettare i provvedimenti che il FMI
impone loro. Massiccia riduzione della spesa pubblica, austerità monetaria, apertura a merci e
capitali esteri, chiusura delle imprese meno redditizie, privatizzazioni, sono tutte disposizioni che
contribuiscono ad indebolire ulteriormente economie già impoverite dal debito o dalla fuga di
capitali esteri. Per queste ragioni il FMI è spesso oggetto di numerose critiche.
La Banca Mondiale (più correttamente definita Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo
Sviluppo) è un organismo internazionale dell‟Organizzazione delle Nazioni Unite, istituito il 27
dicembre 1945, insieme con il Fondo Monetario Internazionale. Essa riunisce vari organismi che
accordano prestiti e aiuti ai paesi in via di sviluppo. Dalla fine degli anni ‟90 la Banca Mondiale ha
avviato alcuni progetti che non solo tenevano conto dei fattori sociali, ma facevano riferimento a
intermediari più vicini alle popolazioni di quanto non fossero i governi locali. La portata della
globalizzazione, quindi, sembra oggi essere il risultato di diversi fattori, non tutti favorevoli ad una
apertura incondizionata. Se, da un lato, i grossi produttori (come le multinazionali) mirano ad
organizzare processi produttivi su scala mondiale, sperando nel minor numero di restrizioni
Lezione 15-16 novembre 2010
possibile, gli Stati, ed in una certa misura gli organismi internazionali, operano in modo da porre dei
limiti alle leggi di mercato. I paesi in via di sviluppo, tuttavia, non possono considerarsi al riparo
dalle conseguenze talvolta implicate dagli spostamenti di capitale e di persone e le regioni più
svantaggiate rimangono sostanzialmente estranee ai guadagni generati dalla liberalizzazione degli
scambi commerciali.
§ 6.4. segue: Forum internazionali e global governance
Accanto alle Istituzioni/Organizzazioni internazionali, gli Stati intrattengono relazioni, oltre che a
livello bilaterale, anche attraverso dei Forum di cooperazione più o meno formalizzati. Spesso
queste forme di cooperazione nascono anche in conseguenza della incapacità delle Istituzioni
internazionali ad operare concretamente ed incisivamente. Normalmente la cooperazione è allargata
solo ad alcuni Stati: quelli più ricchi e influenti e altri rilevanti in alcuni settori o momenti storici.
Una delle formule più conosciute è quella del cosiddetto G8, una sigla che sta ad indicare le riunioni
dei capi di governo dei paesi più industrializzati. In questi incontri vengono decise le linee di
condotta generali da tenere nell‟ambito delle principali questioni internazionali. Il G8 è nato nel
1973, anno della prima crisi petrolifera, inizialmente tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e
l‟allora Germania Occidentale, per poi diventare nello stesso anno G5 con l‟aggiunta del Giappone,
e allargarsi nel 1976 divenendo G7 a Italia e Canada. Dal 1997 ha partecipato anche la Russia,
facendo così riscontrare la usuale denominazione di G8. I temi trattati hanno riguardato
naturalmente l‟economia, ma anche ambiente, terrorismo, droga, conflitti regionali.
Da alcuni anni si assiste al prodursi di geometrie variabili nella partecipazione del numero degli
Stati ai Forum: dal G20 al G2. Il G20 è stato creato nel 1999, dopo una successione di crisi
finanziarie per favorire l‟internazionalizzazione economica e la concertazione tenendo conto delle
nuove economie in sviluppo. Esso riunisce perciò i 19 paesi più industrializzati (quelli dell‟ex‐G8 in
primis) con l‟Unione Europea. Il G20 rappresenta i due terzi del commercio e della popolazione
mondiale, oltre al 90% del PIL mondiale. Del G20 fanno parte, oltre i G8, Australia, Arabia
Saudita, Argentina, Brasile, Cina, Corea del Sud, India, Indonesia, Messico, Sudafrica, Turchia. Il
G2 si svolge invece tra Stati Uniti e Cina e rappresenta il rapporto privilegiato tra i 2 grandi Stati. Il
rapporto si è affermato nel corso del 2009 con la contemporanea sostituzione del G20 al G8. Il
rapporto è indotto ‐ anche ‐ dalla situazione economica mondiale e da quella reciproca dei 2 Stati:
infatti la Cina è il principale creditore degli Stati Uniti. Inoltre, i numeri parlano chiaro: gli Stati
Uniti sono il 4° Stato del mondo per superficie e il 3° per numero di abitanti; la Cina è il 3° Stato
del mondo per superficie e il 1° per numero di abitanti.
Lezione 15-16 novembre 2010
Va detto anche che la messa in pratica delle decisioni concordate rimane però minima e si limita a
definire una linea di orientamento per i governi nazionali, le imprese multinazionali e le
organizzazioni internazionali.
§ 6.5 segue: Zone di integrazione economica e logiche di prossimità geografica
Tra le economie nazionali e l‟economia mondiale si pongono dei blocchi regionali che sono ormai
divenuti attori a pieno titolo dell‟interscambio globale. I blocchi regionali, detti anche zone di
integrazione economica, riguardano aree geografiche nelle quali gli Stati decidono, attraverso un
processo fatto di accordi successivi, la creazione di zone di libero scambio, più o meno vaste e
caratterizzate dalla soppressione delle tariffe doganali tra i paesi membri. Non si tratta comunque di
un fenomeno recente. Già nel 1834, infatti, per iniziativa della Prussia, venne creato lo Zollverein,
che riuniva diversi Stati tedeschi sotto forma di unione doganale. Nel 1944, Belgio, Lussemburgo e
Paesi Bassi posero, a loro volta, le basi per un‟unione doganale: il Benelux. Nel marzo 1957 venne
siglato il Trattato di Roma, che portò alla creazione della Comunità Economica Europea (CEE). I
paesi europei non sono i soli però a cercare la costituzione di sinergie tra i sistemi economici
nazionali, come testimonia la nascita del NAFTA‐North American Free Trade Association, appunto
nel Nord America. Anche i paesi del Sud del mondo cercano di adottare strategie di accordi
doganali ed economici. Tra queste si può citare il MERCOSUR (Mercato Comune Sudamericano) o
l‟ASEAN (Association of Southeast Asian Nations).
.Attualmente l‟economia maggiormente integrata è l‟Unione Europea e la sua zona Euro. Il grado di
integrazione economica può essere categorizzato in sei stadi:

Area di commercio preferenziale;

Area di libero scambio;

Unione doganale;

Mercato comune;

Unione economica e monetaria;

Integrazione economica completa.
Il primo passo verso l‟integrazione economica è quindi costituito dalla costituzione di una area di
commercio preferenziale, che è un blocco commerciale che dà accesso preferenziale ad alcuni
prodotti provenienti da determinati paesi. Ciò si ottiene riducendo i dazi, ma non abolendoli
completamente. Un altro metodo per dare accesso preferenziale è tramite la fissazione di quote
riservate ad alcune tipologie di merci di certi paesi. Un esempio di area di commercio preferenziale
Lezione 15-16 novembre 2010
è quella formata dall‟Unione Europea e i paesi ACP (Africa‐Caraibi‐Pacifico). Le aree di
commercio preferenziale sono stabilite tramite accordi commerciali. Può essere definita come la
forma più debole di integrazione economica.
Il secondo stadio dellʹintegrazione economica è dato dall‟area di libero scambio che riguarda un ben
definito gruppo di paesi che hanno concordato di eliminare dazi, quote e preferenze tariffali su molti
(o addirittura su tutti) i beni tra di loro scambiati, i membri di una area di libero scambio non hanno
la stessa politica doganale verso i paesi non membri.
L‟unione doganale, terzo livello di integrazione economica, rappresenta un tipico esempio di
accordo di commercio preferenziale (su base regionale) tra paesi. Vengono abbattute le barriere
commerciali che impediscono la libera circolazione delle merci e viene istituita una tariffa doganale
esterna comune.
Il mercato unico è un‟unione doganale con politiche comuni sulla regolamentazione dei prodotti,
dei tre fattori di produzione (terra, capitale e lavoro) e di impresa. L‟obiettivo è quello di favorire la
semplificazione dei movimenti di capitale, lavoro (e quindi persone), beni e servizi tra i paesi
membri. A volte si distingue il mercato unico come la forma più integrata del mercato comune. In
modo comparativo il mercato unico è più incentrato nel rimuovere le barriere fisiche (confini),
tecniche (standard) e fiscali tra gli stati membri. Tali barriere impediscono la libertà di movimento
dei quattro fattori di produzione.
Una unione economia e monetaria è un mercato unico con una moneta comune. Si stabilisce tramite
un accordo commerciale ed è il quinto stadio dellʹintegrazione economica. L‟integrazione
economica completa costituisce lo stadio finale dell‟integrazione economica. A seguito di una
integrazione economica completa, le unità economiche integrate hanno poco o trascurabile controllo
sulla politica economica, posseggono una unione monetaria totale e una armonizzazione fiscale
completa o quasi completa. L‟integrazione economica completa è più comune all‟interno di un
paese che non tra istituzioni sovranazionali. Inoltre, l‟integrazione economica generalmente tende a
precedere l‟integrazione politica. E‟ evidente che questi processi si attivano soprattutto tra paesi che
hanno convenienza ad integrarsi sia vista la complementarietà delle loro economie, sia sulla base
della prossimità geografica. Paesi cioè che sono vicini non solo territorialmente (non c‟è comunque
bisogno che ci sia sempre una stretta continuità territoriale) ma anche dal punto di vista
socio‐politico. Si tratta cioè di aree culturali con caratteristiche assimilabili e potenzialmente
integrabili. L‟integrazione economica permette di passare dal fenomeno della “regionalizzazione” al
processo del “regionalismo”.
Lezione 15-16 novembre 2010
La regionalizzazione riguarda un fenomeno spontaneo che crea spazi economici transnazionali tra
regioni e paesi senza che ci sia una formale organizzazione. La regionalizzazione è cioè basata su
forti relazioni commerciali tra due o più paesi che aumentano le loro transazioni di beni e servizi
per ragioni di prossimità geografica. Il regionalismo invece, è un progetto governativo di tipo
top‐down che necessita di una base di consenso delle popolazioni coinvolte, e procede attraverso
negoziazione e dialogo intergovernativo, nel tentativo da parte degli Stati di creare meccanismi
formali per affrontare argomenti di interesse transnazionale. La creazione di questi accordi formali
tende a costituire spazi economici (e come abbiamo visto, successivamente anche politici) integrati
di cooperazione. Si tratta, in sostanza, di una delle risposte degli Stati all‟incedere della
globalizzazione.
I blocchi regionali sono ormai presenti, a diverso livello di integrazione, in tutto il pianeta. Alcuni
sono fortemente operativi e protesi verso gradi di integrazione sempre più intensa, altri restano
accordi solo sulla carta. In ogni caso, si configurano come attori importanti dei sistemi economici
mondiali riguardando diversi settori commerciali, liberalizzando gli scambi e permettendo la libera
circolazione di merci, capitali e persone.
§ 6.6 segue: Città globali e territori locali
In tempi di sempre maggiore interconnessione planetaria, le città, alcune città, stanno assumendo
sempre più nuove funzioni in qualità di nodi della rete di collegamenti mondiali. Con la
globalizzazione, la città, espressione di un luogo fisico posizionato in una parte della Terra e nel
quale si localizzano le attività umane, diventa un attore globale. La città globale è quindi un
concetto teorico per studiare le città come luoghi di intersezione tra globale e locale. In via generale,
una città globale o città mondiale corrisponde ad un concetto di città con una serie di caratteristiche
nate grazie all‟effetto della globalizzazione e alla costante crescita dell‟urbanizzazione.
Sommariamente, alcuni criteri per definire una città globale sono:

fama a livello internazionale della città. Un esempio è il riconoscimento del nome;

influenza e partecipazione ad eventi internazionali e aspetti di importanza mondiale come,
per esempio, la realizzazione di grandi eventi sportivi, politici o sociali ed essere sede di
organismi internazionali;

essere centro di una grande conurbazione e possedere una popolazione abbastanza grande
nell‟area metropolitana;

essere dotata di un aeroporto che funzioni da ʺhubʺ internazionale, e avere un gran numero
di connessioni aeree con le grandi città del mondo;
Lezione 15-16 novembre 2010

possedere un avanzato sistema di trasporti dentro la città ed essere ben collegati con altre
città;

avere un‟infrastruttura avanzata nel settore delle telecomunicazioni;

denotare caratteri cosmopolitici;

avere un ambiente culturale proprio, grazie allʹesistenza di festival cinematografici, eventi
musicali, gallerie dʹarte ecc.;

essere sede di diverse imprese multinazionali e importanti per il commercio mondiale.
Durante il XX Secolo, Londra Parigi e New York sono state considerate le tre principali città del
mondo, città che esercitavano nel resto del globo una grande influenza. Secondo Saskia Sassen11,
una delle principali studiose del fenomeno, oggi vi sono tre città globali: New York, Tokyo e
Londra (con l‟esclusione di Parigi, quindi). Le tre città globali sarebbero città connesse globalmente
ma disconnesse localmente, fisicamente e socialmente, al punto che non avrebbe più senso parlare
per loro di città. Nel sistema economico mondiale, le città globali sono quindi il centro di snodo per
commerci, finanza, attività bancarie, innovazioni e sbocchi di mercato. Le città globali quindi
rappresentano una componente strategica dell‟economia mondiale e servono ad identificare
territorialmente i processi di potere scaturiti dalla ristrutturazione economica
§ 6.7 segue: Attori informali: ONG, lobby economiche e reti globali
Gli attori informali si possono distinguere in tre categorie:
1) associazioni o gruppi di associazioni, genericamente chiamate ONG (Organizzazioni Non
Governative) che si fanno portavoce delle istanze della società civile nelle diverse sedi
internazionali (Amnesty International, Federazione della Croce Rossa, Médecins sans Frontières,
Greenpeace International, WWF);
2) lobby (gruppi di pressione) economiche che rappresentano gli interessi del mondo degli affari
presso Stati e organizzazioni governative internazionali (associazioni imprenditoriali di settore, la
rete internazionale delle Camere di Commercio il Trans Atlantic Business Dialogue, ma anche le
varie mafie e le associazioni criminali internazionali a scopo di lucro);
3) reti globali che si riferiscono a relazioni fatte di contatti più o meno istituzionalizzati tra categorie
di persone che hanno comuni interessi professionali o esigenze sociali.
11 SASSEN S. (2003), Le città nell‟economia globale, Il Mulino, Bologna.
Lezione 15-16 novembre 2010
Gli ambiti di attività delle associazioni internazionali espressione della società civile sono di varia
natura: sociale, religiosa, umanitaria, professionale, tecnica ecc., e coprono tra i più disparati campi,
dalla tutela dell‟ambiente, a quella della pace, dalla protezione dellʹinfanzia e della terza età, alla
difesa della donna, della persona, e così via.
Nelle reti globali, che hanno avuto un grosso sviluppo grazie alle tecnologie dell‟informazione e
della comunicazione, si possono includere quelle che hanno in comune interessi professionali come
per esempio: esperti in varie materie fondamentali per l´economia globale delle multinazionali;
giudici che hanno a che fare con un numero crescente di regole e di divieti internazionali che
richiedono un certo grado di standardizzazione transfrontaliera; ricercatori universitari e dei centri
di ricerca su temi specifici; funzionari di polizia incaricati di scoprire i flussi finanziari che
foraggiano il terrorismo. Un alto tipo di rete globale riguarda invece quella dei lavoratori e degli
attivisti politici con scarse risorse, che comprende settori importanti della società civile globale, reti
diasporiche, comunità e famiglie di immigrati transnazionali.
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