1 DANIELA VERDUCCI La fioritura post-metafisica dell’essere nella teoresi di Francesco Totaro 1. Post-metafisica ed etica Il consolidarsi della condizione post-metafisica del pensiero, caratterizzata secondo Habermas dall’abbandono di quel «riferimento alla totalità che aveva contrassegnato la metafisica»1 e che nella teoria dell’essere in generale si annuncia come intenzione all’essere assoluto 2 o all’essere come intero,3 ha posto l’etica in una situazione paradossale: da un lato è sembrato che si configurarasse un primato dell’etica sulla metafisica al pari di quello vantato da Kant nella Critica della ragion pratica;4 ma dall’altro, l’etica si è trovata a tal punto priva di fondamenti da dover fronteggiare al suo interno la minaccia del relativismo di provocare, con il moltiplicarsi infinito di motivazioni e finalità equivalenti, la paralisi della prassi stessa o la sua implosione negli automatismi tecnico-naturalistici.5 Né sembra che al pericolo incombente possa far argine la crescente vitalità dell’intuizionismo morale,6 che esalta l’autonomia della moralità tanto da ipoteche metafisiche quanto da forme di riduttivismo naturalistico, ma non lascia scorgere ancora alcuna incontrovertibile base d’appoggio della sua prassi. J. Habermas ha ritenuto, del resto, che dopo Hegel non ci sia più stata «alcuna alternativa al pensiero post-metafisico»7 e che le trasformazioni prodottesi sia all’interno che all’esterno della metafisica abbiano tutte concorso all’attuale stato di generale «deflazionamento dell’extraquotidiano».8 Il pensiero dell’intero, in effetti, ha ormai perso la sua specifica efficacia unificante e di integrazione delle differenze né riesce più a padroneggiare le interdipendenze delle prestazioni teoriche dalle connessioni pratiche relative alla loro nascita e alla loro utilizzazione,9 le quali, invece, lo trascinano ‘in situazione’ e ‘in procedura’.10 Habermas ha reagito a tale «situazione problematica sorta dopo la metafisica»,11 concentrandosi sul fenomeno comunicativo del Verständigungshandeln o «agire d’intesa»;12 egli è stato così in grado di mostrare che «i soggetti capaci di parlare e di agire [...] si comprendono reciprocamente intorno a qualcosa nel mondo, sullo sfondo condiviso del mondo-della-vita»13 e che, dunque, anche nell’orizzonte intraquotidiano si danno intenzioni di interalità che salvano le esperienze dalla dispersione, le convogliano in una rete di costruttività né fanno rimpiangere il soggetto trascendentale.14 Tuttavia, l’agire-d’intesa resta per Habermas un «quasi-trascendentale»15 che manca «la presa teoricamente oggettivante» sul concreto mondo della vita che gli fa da sfondo e, per conseguire l’unificazione di «ciò che, con il decadimento delle immagini del mondo metafisiche e religiose, si è andato separando», si limita ad esibire la saldatura fattuale e contingente, che «la connessione esperienziale della prassi del mondo della vita» consente.16 Habermas rinuncia, dunque, ad interrogarsi sulle condizioni di possibilità di quella rifioritura dell’extraquotidiano nella teoresi, senza della quale, per non soggiacere alla dispersione dell’empirico nella casualità dell’esperienza quotidiana, non resta che ricorrere alla teoria dei sistemi - soprattutto temuta da Habermas17- che N. Luhmann ha elaborato, sviluppando, di concerto con la teoria dei sistemi viventi autopoietici di U. Maturana e F. Varela,18 l’ «idea di un processo universale che si compie secondo le differenze di sistema-ambiente» e in forza 2 dell’autoriproduzione di sistemi autoreferenziali, tra i quali «il genotipo del soggetto può essere facilmente incluso e riassorbito».19 2. Fioritura post-metafisica dell’essere In tale quadro habermasiano, all’etica non resta che continuare ad esercitarsi al modo depotenziato che già M. Scheler aveva individuato come caratteristico della modernità matura, allorchè aveva affermato: Da quando la filosofia smise di volgersi a ciò che è più alto e ultimo, anche l’etica si trovò costretta a distogliere lo sguardo dai fini ultimi dell’esistenza umana per volgerlo sulla valutazione morale di azioni in cui sembrano avviarsi condizioni di vita moralmente auspicabili. Allora, dall’eroe, capace di far procedere con un’impresa la cultura e l’umanità, lo sguardo è caduto su quelle masse che, incapaci di formare in modo libero e creativo gli scopi della loro vita, li trovano fissati in solidi ordinamenti e nei bisogni della situazione culturale vigente.20 Una simile prassi, ridotta a mera procedura esecutiva di valutazioni pre-stabilite – e perciò impotente ad assolvere al suo compito proprio di ricercare «un di più di essere» che, colmando «lo scarto ontologico tra essere per noi ed essere per sé», procuri incremento di essere nel soggetto agente e, per suo tramite, nell’essere tutto21 – risulta, però, del tutto inadeguata per chi, come Francesco Totaro, si trovi ad affrontare i problemi del depauperamento antropologico causato dal nuovo fenomeno dell’ “alienazione da lavoro”,22 di cui egli stesso è stato scopritore, sia pure avvalendosi delle aperture concettuali di H. Arendt, A. Gorz e dello stesso J. Habermas.23 Se, infatti, rispetto alla alienazione-nel-lavoro di marca marxiana e marxista, sembra possibile effettuare un’«operazione di restauro dell’ordine dei fattori»24 e di “rovesciamento” etico che, riportando l’attore sociale e lo sviluppo della sua soggettività al centro del sistema produttivo e di lavoro,25 promuoverebbe l’assunzione di comportamenti individuali e sociali26 tali da porre rimedio culturale e materiale all’espropriazione, subita dal lavoratore, dei risultati del suo lavoro e della sua stessa attività, ridotta a merce, una simile prassi di giustizia distributiva non è affatto sufficiente a conseguire «riequilibrio antropologico»27 in presenza di alienazione-da-lavoro. Quest’ultima comporta «un cambiamento di sostanza degli ingredienti antropologici»28 in quanto è l’intero antropologico che qui si “aliena” nella sola dimensione dell’essere-lavoratore,29 «plasmandosi - e spesso in modo pienamente volontario e consensuale - soltanto in funzione del rendimento lavorativo con l´esclusione di ciò che è gratuito o superfluo rispetto ad esso».30 Il recente diffondersi delle patologie lavorative del workaholism,31 del burn-out32 e di quella «corrosione del carattere» (corrosion of character), che R. Sennet ha individuato quale conseguenza della movenza lavorativa instabile del New Capitalism,33 documenta egregiamente che l’alienazione-da-lavoro «non consiste nel patire la separazione e il rovesciamento, nel lavoro, tra l’ordine dei mezzi e l’ordine dei fini», come nel caso dell’alienazione-nel-lavoro, implicando, molto più radicalmente, che la «dilatazione di fatto della sfera strumentale o tecnico-funzionale»34 sia completamente introiettata fino a esautorare l’autonoma attività finalizzatrice del soggetto e ad estraniare quest’ultimo da quella facoltà di attingere al «regno dei fini» (Reich der Zwecke),35 che costituisce la stessa dignità umana. L’alienazione-da-lavoro toglie, dunque, all’uomo che lavora – e oggi ci concepiamo tutti come lavoratori – il respiro stesso dell’essere, consegnandolo al ritmo ansimante, perché in perenne deficit di ossigeno ontologico, della successione mezzo-fine-mezzo, cieca al senso, propria 3 dell’esecutività lavorativa e del connesso pensiero breve36 funzionale all’organizzazione tecnica del lavoro. In più, tale erosione lavoristica della capacità pratica dell’uomo di prefiggersi scopi di incremento ontologico, oltre che di esecuzione produttiva, svilisce il lavoro stesso, che mentre conquista “avere”, si priva di “essere”,37 cioè decade ontologicamente, auto-fagocitando quella stessa efficacia antropologicamente e cosmicamente positiva, che ne aveva determinato la moderna enfatizzazione ad «asse trascendentale della comprensione e della trasformazione della realtà». 38 Per questo, dove l’alienazione-da-lavoro si è instaurata, vana è diventata la movenza etica volta a ristabilire la giusta misura tra i fattori dell’umano, contemplativo, attivo, lavorativo; né innalzare il vessillo del quasi-trascendentale Verständigungshandeln habermasiano, pur con tutta l’importanza che gli viene riconosciuta dagli studi di antropologia evoluzionistica di M. Tomasello,39 che considera tale vissuto il veicolo primordiale e perenne dell’ominazione, può bastare a far riassumere all’uomo «il fine come compito ontologico nell’epoca dell’eccesso strumentale»:40 s’è visto infatti che l’agire-d’intesa suggella semmai l’immanentizzazione dell’intero e quindi la chiusura dell’orizzonte stesso di quell’extraquotidiano, che solo può assicurare l’approdo ontologico allo slancio finalistico e creativo-d’essere della prassi. L’esigenza etica che si impone, in questi tempi di alienazione-da-lavoro è, dunque, piuttosto, quella radicale della rigenerazione dell’essere-umano; ed essa può trovare soddisfazione esclusivamente tramite la ripresa del contatto con la fonte ontologica della prassi, con l’essere intero e assoluto, «trascendentale dei trascendentali», cui l’umano continua ad essere costitutivamente relativo, pur nell’apparente inconsapevolezza o dimenticanza, che accompagna il «processo di detrascendentalizzazione epocale» in corso «nell’attualità del filosofare». 41 Ed è precisamente in relazione a tale nodo problematico riguardante la possibile «sutura tra l’essere per sé e l’essere per noi»42 che la riflessione di Francesco Totaro consegue il suo risultato più significativo, nella misura in cui rende manifesto il fatto poco osservato che dal tronco ritenuto inaridito dell’etica sgorga tuttora un rivolo d’essere, grazie ad una inattesa «spaccatura», per la quale «l’apertura interale si frange nell’apertura esistenziale» di «un rapporto ‘mancante’ o deficitario ma desiderato» tra esistenza finita ed essere interale.43 La finitezza antropologica, oggetto della ricerca ontologica più recente, emerge così – e proprio nella sua condizione finita di identità e insieme non identità con l’essere44 – quale luogo privilegiato della nuova fioritura etica dell’essere. Infatti, nella misura in cui «quell’essere assoluto e incondizionato che per sé non accade è, nella nostra esperienza concreta, sempre dato in un apparire e in uno scomparire, dunque in un accadere», cioè nella contraddittorietà di «un non ancora essere» di cui ci sfugge «l’evidenza del suo legame ‘determinato’ con l’intero» e della modalità incontraddittoria del suo essere incluso, 45 si apre una «via [etica] di approssimazione all’essere», che la prassi umana, «nel suo adoperarsi in vista di un-di-più-di-essere rispetto all’essere-che-si-è-già» può esplorare e percorrere, assumendosi il compito di far accadere-per noi l’essere per sé. 46 La figura dell’essere-per-noi – nota Totaro – scaturisce da una sorta di contrazione […] dell’essere, che è stato affermato come positività incondizionata, all’interno delle condizioni nelle quali facciamo esperienza dell’essere stesso […] in una scala spazio-temporale in cui si è sempre coinvolti anzitutto in prima persona plurale, come partecipi di uno spazio-tempo generale, prima ancora del puntualizzarsi di cronotopie propriamente individuali […] Circolarmente: colmare la distanza dall’essere è il compito che ci viene richiesto dall’essere stesso e dalla sua positività. Stare in questo circolo è, a ben vedere, operare la saldatura tra essere ed etica.47 4 Né si rimane sul piano vanamente esecutivo di un’etica incapace di praticare l’incrementodi-essere, perché, nell’esplicitazione della specifica identità umana, in cui «oltre la natura come insieme delle oggettivazioni scientifiche, sporge una natura come dimensione di intenzionalità spontanea e automotrice che rinvia a una molteplicità di strati teorico-operativi degradanti verso l’ineffabile» e «allude ad un passaggio ad altro non iscritto a priori nel suo codice e frutto di una capacità di incremento autonomo o, se si vuole, creativo»,48 giunge a manifestazione anche la possibilità di una fioritura post-metafisica dell’essere nella praxis e nella poiesis dell’essere umano, complice il «pensiero del dinamismo dell’essere o ontopoiesi [cui] ha molto contribuito la rifondazione della fenomenologia di Husserl in senso metafisico compiuta da A.-T. Tymieniecka».49 1 Cfr. J. HABERMAS, Il pensiero post-metafisico, trad. it. di M. Calloni, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 41. Tit. orig.: Nachmetaphysisches Denken. Philosophischen Aufsätzen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1988. 2 Cfr. G. BONTADINI, Saggio di una metafi sica dell’esperienza (1938), Vita e Pensiero, Milano 1995³, p. 17. 3 Cfr. F. TOTARO, La tensione all'intero e le ragioni del filosofare, in AA. VV., Lo statuto epistemologico della filosofia, Morcelliana, Brescia 1989, pp. 182-188; ID., Il pudore come sentimento dell’intero, in M.L. PERRI (a cura di), Il pudore tra verità e pratica, Carocci, Roma 2005, pp. 163-175; ID., Interalità dell’essere, prospettiva e misura della prassi, in G. NICOLACI - P. POLIZZI, Radici metafisiche della filosofia. Scritti per Nunzio Incardona, Tilgher, Genova 2002, pp. 161-168; ID., Inattualità dell’intero e fondazione della prassi in (a partire da) Bontadini, in C. VIGNA (a cura di), Bontadini e la metafisica, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 59-78. 4 I. KANT, Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, Rusconi, Milano 1993, pp. 245-249; tit. orig.: Kritik der praktischen Vernunft, AK, V, 1913. 5 Per esigenze editoriali, siamo costretti a sorvolare sulla documentazione dell’impatto sull’etica della mentalità cosiddetta “relativista”, diffusasi a partire dall’acritico affermarsi dell’attitudine culturalista dell’antropologia culturale di F. Boas e M. J. Herskovitz, a sua volta propiziata tra l’altro, a livello filosofico e scientifico, dal prospettivismo di F. Nietzsche (per la cui valenza veritativa cfr. F. TOTARO, Nietzsche e la verità in prospettiva, in ID., a cura di, Verità e prospettiva in Nietzsche, Carocci, Roma 2007, pp. 145-175; v. anche, ID., Friedrich Nietzsche: Bringing Truth to Life, «Analecta Husserliana», LX, 1998, pp. 391-405) e dall’antifondazionalismo metafisico di L. Wittgenstein (cfr. M. BLACK, “Lebensform” e “Sprachspiel” nelle ultime opere di Wittgenstein”, trad. it. in M. ANDRONICO - D. MARCONI C. PENCO (a cura di), Capire Wittgenstein, Marietti, Genova 1988, pp. 241-51), e in generale sostenuta poi dalla temperie post-moderna. Cfr. in proposito il denso contributo di F. DEI, Chi ha paura del relativismo?, in: B. BARBA (a cura di), Tutto è relativo. La prospettiva in antropologia, SEID, Firenze 2008, pp. 35-56. Inoltre: F. TOTARO, Universalismo e relativismo, in: F. BOTTURI - F. TOTARO (a cura di), Universalismo ed etica pubblica, «Annuario di etica», 3, Vita e Pensiero, Milano 2006, pp. 55-77. 6 Si tratta della corrente di filosofia morale che prende avvio con G.E. MOORE, Principia Ethica, Oxford University Press, Oxford 1903; trad. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1964, H. A. PRITCHARD, Does Moral Philosophy Rest on a Mistake?, «Mind », 21 (1912), pp. 21-37, W.D. ROSS, The Right and the Good, Clarendon, Oxford 1930; trad. it. di R. Mordacci, Il giusto e il bene, Bompiani, Milano 2004 e prosegue con, tra gli altri, R. AUDI, Moral Knowledge and Ethical Character, Oxford University Press, Oxford 1997 e J. MCDOWELL, Mind, value and reality, Harvard University Press, Cambridge, MASS, 1998. Cfr.: R. MORDACCI, La normatività delle ragioni morali nell’intuizionismo: una critica, in «Etica & Politica/Ethics & Politics», 2 (2005), http://www2.units.it/etica/2005_2/MORDACCI.htm#n3 7 HABERMAS, Il pensiero post-metafisico, p. 32. 8 Ibi, p. 52. 9 Ibi, p. 37. 10 Ibi, pp. 43-47. 11 Ibi, p. 38. 5 Accanto alla consueta resa di Verständigungshandeln con «agire orientato all’intesa», modulata sulla mera analogia con Zwecktätigkeit come «attività orientata allo scopo», abbiamo voluto introdurre la traduzione di Verständigungshandeln con «agire d'intesa», per evidenziare che il Verständigungshandeln/agire d’intesa, a differenza della Zwecktätigkeit/attività orientata allo scopo, si qualifica per il suo immediato radicarsi nella pro-razionalità del mondo della vita interumana e perciò rappresenta l'imprescindibile condizione di possibilità reale di ogni altra forma di agire strategico, strumentale, o comunque calcolato, volto a conseguire il consenso. Questo ci pare di poter evincere da HABERMAS, Il pensiero post-metafisico, cap. 4, § 1: «Parlare versus agire», pp. 60-65 e § 2:«Agire comunicativo versus agire strategico», pp. 65- 69. 13 Ibi, p. 46. 14 Ibi, p. 47. 15 Cfr. J. HABERMAS, Etica del discorso, trad. it. di E. Agazzi, Laterza, Bari-Roma 1985, p. 103; tit. orig.: Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1983. 16 HABERMAS, Il pensiero post-metafisico, p. 55. 17 Ibi, p. 26. Inoltre: J. HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, trad. it. di E. e E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 366-383; tit. orig.: Der philosophische Diskurs der Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1985. 18 Cfr.: U. MATURANA - F. VARELA, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, trad. it. di A. Stragapede, Marsilio, Venezia 1985; tit. orig.: De maquinas y seres vivos. Una teoria sobra la organización biológica, Editorial Universitaria, Santiago de Chile 1972. 19 HABERMAS, Il pensiero post-metafisico, p. 26. Cfr. anche l’Excursus su Luhman in HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, pp. 366-383. 20 M. SCHELER, Lavoro ed etica. Saggio di filosofia pratica, trad. it. di D. Verducci, Città Nuova, Roma 1997, p. 53; tit. orig.: Arbeit und Ethik in: Gesammelte Werke, hrsg. von M. Scheler und M. Frings, Francke, Bern und München, I, «Frühe Schriften», 1971, p. 161-195. 21 F. TOTARO, Non di solo lavoro. Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio di civiltà, Vita e Pensiero, Milano 1999, p. 176. 22 Cfr.: F. TOTARO, Lavoro ed equilibrio antropologico, in: ID. (a cura di), Il lavoro come questione di senso, Eum, Macerata 2009 , pp. 308-310. 23 Così in F. TOTARO, Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere per noi, Vita e Pensiero, Milano 2013, nota 22 di p. 205. 24 F. TOTARO, Persona, azione, lavoro: per una teoria trascendentale della prassi, in C. VIGNA (a cura di), Etica trascendentale e intersoggettività, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 61. 25 Cfr.: V. GIOIA - L. SCUCCIMARRA, Soggetti al lavoro: la società dei produttori e le sue contradddizioni, in TOTARO (a cura di), Il lavoro come questione di senso, p. 136. Inoltre: V. BORGHI - M. MAGATTI (a cura di), Mercato e società, Carocci, Roma 2002; F. TOTARO, Il lavoro per l’umano nell’era della comunicazione. Un punto di vista etico-filosofico, «Quaderni della Fondazione Piaggio», I, 2004, pp. 110-134. 26 Cfr.: D. VERDUCCI, Lavorare all’educazione con filosofia, in Annali della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Macerata, Quodlibet, Macerata 2007, pp. 321-335. ID., Fenomenologia ed economia, in ID. (a cura di), Disseminazioni fenomenologiche. A partire dalla fenomenologia della vita, Eum, Macerata 2007, pp. 143-160. 27 TOTARO, Assoluto e relativo, p. 205. 28 Ibi, p. 208. Cfr. anche: D. VERDUCCI, Lavoro e essere persona. Interazioni auspicabili, in TOTARO (a cura di), Il lavoro come questione di senso, pp. 329-350. 29 TOTARO, Lavoro ed equilibrio antropologico, p. 306. 30 Ibi, p. 309. 31 Cfr.: W. E. OATES, Confessions of a workaholics: the facts about work addiction, World Publishing, New York 1971. 32 Cfr.: C. MASLACH, La sindrome del burnout. Il prezzo dell’aiuto agli altri, trad. it. di A.R. Vignati – M. Lucentini, Cittadella, Assisi 1992; tit. orig., Burnout. The cost of caring, Engelwood Cliffs, Prentice-Hall 1982. Inoltre, D. VERDUCCI, Ritrovare l’empatia perduta. Una questione aperta nella formazione degli operatori delle helping professions, in: Lettere dalla Facoltà. Bollettino della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Politecnica delle Marche, 6, 2008, pp. 10-15. 33 R. SENNET, The corrosion of character. The personal consequences of work in the New Capitalism, W.W. Norton & Co, New York-London 1999; trad. it. di M. Tavosanis/Shake, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999. 34 TOTARO, Assoluto e relativo, p. 205. 35 Cfr. I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it. di P. Chiodi, Laterza, Roma-Bari, 1990, 3, Sez. II, p. 66. Tit. orig.: Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, in AK, IV, pp. 387-463. 36 Così C. BORDONI nell’articolo, Ostaggi del pensiero breve, uscito sul domenicale culturale del «Corriere della Sera», La lettura, del 27 gennaio 2013. 37 TOTARO, Assoluto e relativo, pp. 208- 209. 38 Ibi, p. 2017. 12 6 Cfr. M. TOMASELLO, L’origine culturale della cognizione umana, trad. it. di M. Riccucci, il Mulino, Bologna 2005; tit. orig., The cultural origins of human cognition, Harvard University Press, Cambridge, Mass 1999. 40 Cfr.: F. TOTARO, Il fine come compito ontologico nell’epoca dell’eccesso strumentale. Linee di riflessione, in: D. VERDUCCI (a cura di), Disseminazioni fenomenologiche, pp. 77-89. 41 TOTARO, Assoluto e relativo, p. 17. 42 Ibi, p. xxiv. 43 Ibi, p. xxiii. 44 Ibi, p. 103. 45 Ibi, p. xxiii. 46 Ibi, p. xxiv. 47 Ibi, pp. 102,104. 48 Ibi, p. 196. 49 Ibi, nota 25 di p. 185. Dalla sua fondazione, nel 1995, Francesco Totaro è Presidente dell’International Society for Phenomenology and the Sciences of Life, affiliata al World Phenomenology Institute di Anna-Teresa Tymieniecka.In proposito cfr.: D. VERDUCCI, La fenomenologia della vita di A.-T. Tymieniecka. Prova di sistema, Aracne, Roma 2012. 39