Angelo Conforti
Approfondimenti
Filosofia antica
Questo fascicolo di Approfondimenti
è di supporto al Volume 1
di Percorsi della filosofia
di Angelo Conforti
Garamond didattica digitale
www.angeloconforti.it
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Approfondimenti, Indice
INDICE
Sezione 1 – La filosofia antica __________________________________________________ 4
PERCORSO TEMATICO 1. LE ORIGINI DELLA FILOSOFIA _____________________________ 5
PARAGRAFO 1. SAPIENZA E FILOSOFIA ___________________________________________________ 5
PARAGRAFO 2. LA SAPIENZA DI APOLLO __________________________________________________ 5
PARAGRAFO 3. LA SAPIENZA DI DIONISO _________________________________________________ 6
PARAGRAFO 4. L’ORIGINE DELLA SAPIENZA _______________________________________________ 7
PARAGRAFO 5. DAL DIVINO ALL’UMANO ___________________________________________________ 8
PERCORSO TEMATICO 2. TALETE: IL PRIMO FILOSOFO _____________________________ 11
PARAGRAFO 1. TALETE DI MILETO _______________________________________________________ 11
PARAGRAFO 2. TALETE POLITICO, SCIENZIATO, MATEMATICO ____________________________ 12
PARAGRAFO 3. TALETE FILOSOFO _______________________________________________________ 13
PARAGRAFO 4. TALETE E L’ANIMA _______________________________________________________ 14
PARAGRAFO 5. TALETE: «CONOSCI TE STESSO» _________________________________________ 14
PERCORSO TEMATICO 3. PSICHE (O ANIMA) _______________________________________ 16
PARAGRAFO 1. IL CULTO DI ORFEO ______________________________________________________ 16
PARAGRAFO 2. ORFEO ED EURIDICE ____________________________________________________ 17
PARAGRAFO 3. I FONDAMENTI DELL’ORFISMO ___________________________________________ 19
PARAGRAFO 4. LA DOTTRINA PITAGORICA DELL’ANIMA __________________________________ 21
PARAGRAFO 5. GLI SVILUPPI DEL PITAGORISMO _________________________________________ 22
PERCORSO TEMATICO 4. FILOSOFIA E SCIENZA ___________________________________ 23
PERCORSO TEMATICO 5. GNOSEOLOGIA __________________________________________ 25
PARAGRAFO 1. LE ORIGINI DELLA GNOSEOLOGIA ________________________________________ 25
PARAGRAFO 2. LA GNOSEOLOGIA FILOSOFICA: EMPEDOCLE _____________________________ 26
PARAGRAFO 3. ANASSAGORA: UNA GNOSEOLOGIA «MODERNA» _________________________ 27
PARAGRAFO 4. LA GNOSEOLOGIA ATOMISTICA __________________________________________ 29
PERCORSO TEMATICO 6. LA «QUESTIONE» SOCRATICA ____________________________ 31
PARAGRAFO 1. LA «QUESTIONE» E LE FONTI ____________________________________________ 31
PARAGRAFO 2. IL PROCESSO A SOCRATE: LA DIFESA ____________________________________ 32
PARAGRAFO 3. IL PROCESSO A SOCRATE: LA CONDANNA _______________________________ 36
PARAGRAFO 4. SOCRATE DI FRONTE ALLE LEGGI ________________________________________ 40
PARAGRAFO 5. IL DAIMON E LA RELIGIOSITÀ SOCRATICA ________________________________ 43
PERCORSO TEMATICO 7. PLATONE: LE DOTTRINE NON SCRITTE ___________________ 45
PARAGRAFO 1. LA QUESTIONE DELLE DOTTRINE NON SCRITTE __________________________ 45
PARAGRAFO 2. L’INTERPRETAZIONE DELLE DOTTRINE NON SCRITTE ____________________ 48
PERCORSO TEMATICO 8. PLATONE: IL SIMPOSIO __________________________________ 51
BIBLIOGRAFIA _______________________________________________________________ 59
SITOGRAFIA _________________________________________________________________ 60
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I problemi della filosofia nel loro sviluppo storico
Approfondimenti, Sezione 1
Sezione 1 – La filosofia antica
Questa sezione propone i seguenti percorsi di approfondimento:
 Le origini della filosofia
 Talete: il primo filosofo
 Psiche (o anima)
 Filosofia e scienza
 Gnoseologia
 La «questione socratica»
 Platone: le «dottrine non scritte»
 Platone: il Simposio
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 1
PERCORSO TEMATICO 1. LE ORIGINI DELLA FILOSOFIA
PREREQUISITI
[ Conoscenza e comprensione dell’Unità didattica 1, Capitoli 1 e 2, del Modulo-Base ]
OBIETTIVI
[ Approfondimento di alcuni percorsi di interpretazione delle origini della filosofia ]
PARAGRAFO 1. SAPIENZA E FILOSOFIA
Sul tema delle origini della filosofia un notevole contributo lo ha dato Giorgio Colli con le sue opere La nascita della
filosofia (1973) e La sapienza greca (1977).
Come abbiamo visto nel Modulo-base ( Sezione 1, Unità 1, Capitolo 1, Paragrafo 3), i fondamenti della filosofia si
trovano nella stessa cultura greca precedente, nel mito e nella poesia.
Aristotele, il primo storiografo della filosofia, scriveva che «anche colui che ama il mito (philomythos) è in certo modo
filosofo, giacché anche il mito viene a formarsi dalla meraviglia» (Aristotele, Metafisica, I,2,982b), cioè da quello
stesso atteggiamento mentale da cui deriva la filosofia.
Ma Colli si spinge ben oltre questa tesi, poiché, secondo il grande studioso, la filosofia nacque in Grecia come un
fenomeno di decadenza. Infatti, Platone chiamò filosofia la propria ricerca, legata al dialogo come forma letteraria. Ma
nel chiamarla amore (philia) per la sapienza (sophia), Platone la poneva più in basso della sapienza stessa, e questa la
situava nel passato, nella «remota tradizione della poesia e della religione greca», nell’epoca in cui erano davvero
esistiti i sapienti.
Ora, quindi, seguendo, almeno per la prima parte, la traccia del saggio di Colli del 1973, analizzeremo gli elementi
fondamentali di questa antica epoca della sapienza, racchiusa nel mito e nella sua simbologia.
PARAGRAFO 2. LA SAPIENZA DI APOLLO
Fin dai tempi più remoti i Greci attribuirono alla conoscenza il massimo valore nella vita umana. Altre civiltà
riservarono alla conoscenza un ruolo importante, ma nessuna come quella greca la valorizzò al di sopra di tutte le altre
attività umane.
Nella società greca era grandissima, infatti, l’importanza attribuita agli oracoli, luoghi dedicati al culto di qualche
divinità, a cui chiedere consigli e profezie sul futuro.
Il dio Apollo fu per i Greci il simbolo più alto della conoscenza e il culto del dio è appunto la celebrazione
dell’importanza che viene attribuita alla sapienza, cioè alla conoscenza del futuro. Per i Greci essa assunse un «aspetto
teoretico fondamentale», che non trova riscontri altrettanto certi in altre civiltà, che pure conferivano alla conoscenza un
ruolo importante, ma non così centrale.
Apollo è il dio cui è dedicato il tempio di Delfi, dove ebbe sede l’oracolo più importante di tutto il mondo greco antico.
Bisogna precisare che la sapienza «apollinea» non va confusa con l’esperienza, né con l’abilità tecnica, o la destrezza, o
la capacità di escogitare espedienti per trarsi d’impaccio. Essa va collegata esclusivamente alla divinazione e alla
profezia, cioè alla conoscenza del futuro e alla manifestazione di tale conoscenza: «manifestare l’ignoto e precisare
l’incerto, gettando luce nell’oscurità».
Occorre però anche aggiungere che Apollo, Dio e simbolo della sapienza e della sua rivelazione, comunica in modo
ambiguo e oscuro. Il suo oracolo è allusivo ed incerto, arduo da decifrare. È espresso, infatti, in modo difficile da
comprendere: deve essere interpretato. Come ricorda Eraclito, «Il dio dell’oracolo di Delfi non dice, né nasconde, ma
accenna». Sembra quasi che Apollo, che conosce l’avvenire e lo manifesta, voglia che l’uomo non comprenda la sua
rivelazione.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 1
Sito archeologico di Delfi, Tempio di Apollo, Patrimonio dell’umanità UNESCO
PARAGRAFO 3. LA SAPIENZA DI DIONISO
L’altro Dio antico, più antico di Apollo e come lui legato alla conoscenza, era Dioniso, simbolo di un diverso tipo di
sapienza.
Dioniso, infatti, è legato ai Misteri di Eleusi1, antichissimi rituali il cui approfondimento richiederebbe un’ampia
trattazione a parte, anche per la complessità dei simboli ad essi connessi. La simbologia fondamentale, legata al culto di
Demetra e di Persefone, concerne il tema della morte e della rinascita, dei cicli stagionali della natura, dell’inaridirsi e
del rifiorire della terra, del rigenerarsi dell’anima oltre il destino terreno.
È importante, comunque, soprattutto capire che l’iniziazione ai Misteri di Eleusi culminava nell’epopteia, cioè in una
visione mistica di beatitudine e purificazione. Essa è dunque una forma di conoscenza estatica, nella quale l’individuo si
spoglia delle proprie condizioni particolari per congiungersi con la totalità, rinuncia a sé per rinascere nell’unità di tutto
ciò che esiste. Nell’estasi misterica scompare ogni distinzione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto,
un’esperienza che costituisce un «sovrappiù di conoscenza».
1
Riti religiosi misterici che si celebravano nel santuario di Demetra, nell'antica città greca di Eleusi.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 1
Statua di Dioniso del II secolo a.C., esposta al Louvre
PARAGRAFO 4. L’ORIGINE DELLA SAPIENZA
La simbologia di Apollo e Dioniso è complementare e rappresenta la convergenza di tutte le possibili forme di sapienza:
la profezia e l’estasi, la possibilità di intuire il futuro e il legame con il mistero della vita e dei suoi cicli di morte e
rinascita, la razionalità e la passione.
Apollo e Dioniso si completano a vicenda, esprimendo la sintesi di tutte le possibilità di conoscenza. Esse sono anche
forme di «mania», nel senso più originario della parola, che deriva dal termine «mantica».
Con questa parola ci si riferisce ad un complesso di attività conoscitive, in cui vengono esaltate le capacità sensoriali,
intuitive e razionali umane, anche grazie al contatto con le forze primarie della natura e del cosmo, che sono in senso
ampio forze «divine».
Tale esaltazione è, appunto, la «mania», una sorta di «follia», che permette di superare il comune livello di percezione e
di allargare i confini della coscienza, arrivando a «sentire», nel senso più alto del termine, i rapporti profondi ed intimi
che connettono tra loro tutte le cose. La follia di cui si parla è la creatività, la capacità di andare oltre le regole stabilite,
di scoprire orizzonti più vasti, inventare nuove prospettive.
Apollo e Dioniso esprimono le possibili quattro forme di «mania».
Alla simbologia di Apollo fa riferimento non solo la mania profetica, che è concretizzata nell’oracolo, ma anche quella
poetica: Apollo è dio della poesia, della parola suggestiva e rivelatrice: mania profetica e mania poetica sono dunque
molto strettamente unite, in quanto la poesia è una forma di profezia, di rivelazione del futuro e del suo senso più
profondo.
Alla simbologia di Dioniso è collegata la mania misterica, quella che si esprime nell’estasi mistica e nella fusione con il
mistero dell’energia vitale, della forze primitive da cui trae alimento la vita nella sua impulsività e passionalità; ma
Dioniso è anche il dio dell’eros ed è il simbolo della mania erotica, di quella forma terrena di estasi che è la
congiunzione carnale con l’altro, in cui i due amanti divengono una sola entità (così come nell’estasi mistica l’individuo
si congiunge con il tutto divenendo una sola cosa con esso).
Si può provvisoriamente concludere che:
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 1
1. Apollo e Dioniso hanno un’affinità fondamentale sul terreno della «mania» e, insieme, esauriscono la
dimensione della follia (le quattro forme di «mania»: profetica, poetica, misterica, erotica): entrambi, dunque,
sono dèi dell’invasamento e della «sana» follia, complementari più che opposti.
2. La follia è lo sfondo primordiale e la matrice della sapienza. Nel Fedro Platone istituisce un parallelismo tra il
delirio dell’innamorato in preda alla passione e il delirio profetico delle sacerdotesse dell’oracolo di Delfi e da
essi fa derivare la vera sapienza, dono della divinità, contrapponendola alla semplice ragionevolezza, propria
degli umani: «Non è verace il discorso che ad un innamorato si debba preferire chi non ama, con il pretesto che
il primo delira e l’altro invece è sano e saggio. Ciò sarebbe detto bene se il delirio fosse invariabilmente un
male; ora invece i più grandi doni ci provengono proprio da quello stato di delirio, datoci per dono divino.
Perché appunto la profetessa di Delfi, le sacerdotesse di Dodona, proprio in quello stato di esaltazione, hanno
ottenuto per la Grecia tanti benefici, sia agli individui che alle comunità; ma quando erano in sé fecero poco o
nulla. […] la testimonianza degli antichi considera superiore lo stato di delirio che viene da un dio che il senno
ch’è proprio degli uomini» (Platone, Fedro, XXII 244 a-b, d).
PARAGRAFO 5. DAL DIVINO ALL’UMANO
Pianta del palazzo reale di Cnosso. Si crede che dalla complessità del palazzo abbia avuto origine il mito del
labirinto (fonte www.wikipedia.it)
C’è uno sfondo ancora più primordiale che fa riferimento al mito del Minotauro e che evoca una simbologia complessa
in cui sono in gioco i conflitti e i legami tra razionalità e impulsività, tra mondo divino e mondo umano e i rapporti tra
Dioniso e Apollo.
Vediamo i principali simboli:
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 1


Il Labirinto è simbolo della complessa profondità e insondabilità della natura e della psiche, dell’enigma da
risolvere per accedere alla conoscenza: il Labirinto è perciò anche simbolo del primo problema filosofico da
affrontare
Il filo di Arianna simboleggia il delinearsi del lógos nel mondo umano: ma il filo è pur sempre il dono di una
dèa, sposa di Dioniso.
Successivamente, tutta la simbologia apollinea e dionisiaca si ripresenta, dopo alcuni secoli, nel mito di Orfeo, poeta e
anche in qualche modo filosofo, per il quale rimandiamo allo specifico approfondimento ( Percorso 3).
Il passaggio dal divino all’umano si compie quando nasce la necessità interepretativa. L’enigma del responso dato
dall’oracolo richiede la mediazione del discorso, dell’astrazione, del lógos.
Quelli che una certa tradizione chiama filosofi erano invece i grandi sapienti antichi: Eraclito, Pitagora, Parmenide,
Zenone, Empedocle. Essi operarono il passaggio dalla sfera divina a quella umana, dall’esaltazione e dalla mania al
pensiero astratto, razionale, logico, risolvendo enigmi e inventando la dialettica, l’arte della discussione, condotta tra
persone viventi e reali, non come finzione letteraria (come sarà in parte nei dialoghi platonici).
Ma con Platone la sapienza originaria è già perduta e nasce la filosofia come letteratura.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 1
SCHEDA.
IL MINOTAURO, TESEO E ARIANNA.
Minosse, re di Creta, pregò Poseidone di inviargli un toro, come simbolo dell'apprezzamento
degli dèi. Poseidone acconsentì e gli inviò un bellissimo e possente toro bianco di un valore
inestimabile, chiedendogli in seguito di sacrificare il toro a lui stesso. Ma vista la bellezza
dell'animale Minosse aveva deciso di tenerlo per sé. Poseidone, allora, per punirlo, fece
innamorare perdutamente Pasifae, moglie di Minosse, del toro stesso.
Il celebre architetto Dedalo costruì per Pasifae una mucca di legno montata su ruote, con
l'interno cavo e ricoperta da una pelle bovina; la collocò nel prato dove il toro era solito pascolare,
e Pasifae vi entrò dentro. Quando il toro le si avvicinò, la montò, come fosse una mucca vera, e
si accoppiò con lei.
Dall'unione mostruosa nacque il Minotauro, da «minos» (= re) e «tauro» (che significa toro). Il
Minotauro era bipede e umanoide, ma aveva zoccoli, pelliccia bovina, coda e testa di toro. Era
selvaggio e feroce, perché la sua mente era completamente dominata dall'istinto animale.
Minosse fece rinchiudere il Minotauro nel Labirinto, costruito anch’esso da Dedalo. Al Minotauro,
che si cibava di carne umana veniva sacrificati ogni anno sette ragazzi e sette fanciulle che
dovevano essere inviati in tributo da Atene, sottomessa a Creta.
Allora Teseo, eroe figlio del re ateniese Egeo, si recò a Creta per sconfiggere il Minotauro. Entrò
nel Labirinto e lo sorprese nel sonno, uccidendolo. Riuscì poi ad uscire dal Labirinto grazie al
celebre filo, donatogli da Arianna, figlia di Minosse e Pasifae.
In una delle tante versioni del mito di Teseo e Arianna, la fanciulla si innamorò dell’eroe ateniese
quando giunse a Creta. Arianna diede a Teseo un gomitolo di lana per poter segnare la strada
percorsa nel labirinto e quindi uscirne agevolmente. Poi fuggì con lui e gli altri ateniesi verso
Atene ma Teseo, stanco di lei, la fece addormentare per poi abbandonarla sull'isola di Nasso (o
Dia). Forse ciò accadde su comando del dio Dioniso che la prese poi come sposa.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 2
PERCORSO TEMATICO 2. TALETE: IL PRIMO FILOSOFO
[ Conoscenza e comprensione dell’Unità didattica 1, Capitoli 1 e 2, del Modulo-Base ]
OBIETTIVI
[ Approfondire la conoscenza della personalità di quello che è ritenuto il primo filosofo –
Approfondire la conoscenza della nascita della filosofia]
PARAGRAFO 1. TALETE DI MILETO
Sullo sfondo sapienziale che abbiamo delineato nel Percorso 1, nasce la filosofia vera e propria nel VII secolo a. C. con
Talete di Mileto, considerato in modo unanime il primo filosofo della storia occidentale.
Busto di Talete di Mileto, incisione, fonte www.wikipedia.it
Nessuno dei suoi scritti ci è pervenuto e le notizie sulla sua vita e la sua personalità non sono abbondanti. Anzi, sono
piuttosto frammentarie. Tutte però concordano nel delineare un genio universale dai vastissimi interessi, fondatore di
una sorta di «centro di ricerche» che divenne la culla della filosofia, delle scienze naturali, degli studi astronomici,
geografici e storiografici.
Egli fu cittadino illustre di quel grande porto del Mediterraneo che fu la greca Mileto, colonia sulle coste della Ionia,
l’attuale Turchia. Oggi il villaggio accanto al quale ancora si possono ammirare i resti archeologici dell’antica città si
chiama Balat.
A Mileto egli nacque tra il 640 e il 624 (la data è incerta e le fonti sono discordanti). Morì nel 547 a. C. Fu matematico,
astronomo, ingegnere, uomo politico e filosofo. Secondo la testimonianza di Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, I, 22)
«per primo ebbe il nome di sapiente, [….]». Dopo di lui, altri sei illustri personaggi della civiltà ellenica furono detti
sapienti e ritenuti le massime autorità intellettuali tra i Greci (i Sette Savi, tra cui era incluso anche il grande legislatore
ateniese Solone).
Torneremo più avanti su questo punto, ma è chiaro fin d’ora che Talete risalta con una rilevanza eccezionale su quello
sfondo sapienziale che abbiamo delineato.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 2
Così infatti, lo ricorda Apuleio: «Talete di Mileto fu senza dubbio il più importante tra quei sette uomini famosi per la
loro sapienza - e infatti tra i Greci fu il primo scopritore della geometria, l’osservatore sicurissimo della natura, lo
studioso dottissimo delle stelle» (Apuleio, Florida, 18).
Mileto, il teatro romano
PARAGRAFO 2. TALETE POLITICO, SCIENZIATO, MATEMATICO
Nelle sue Storie (I, 170) Erodoto ci parla della saggezza politica di Talete che propose alle città greche della costa
ionica la costituzione di una federazione, per meglio difendersi dalla prevedibile aggressività dell’Impero persiano.
Lo stesso Erodoto (Storie, I, 75) rievoca il Talete geniale ingegnere idraulico quando deviò una parte del corso di un
fiume per renderne possibile il guado alle truppe del re Creso:
«[…] giunto sul fiume Halys, Creso proseguì. […] secondo la voce corrente fra gli Elleni sarebbe stato Talete di Mileto
a farlo passare. Si dice che Creso fosse molto imbarazzato per il passaggio dell'esercito oltre il fiume, perché allora non
vi sarebbero stati ponti. Talete, che si trovava nell'accampamento, avrebbe fatto in modo che il fiume, che scorreva alla
sinistra dell'esercito, scorresse anche alla sua destra, ricorrendo a un espediente. Da un punto a nord del campo avrebbe
fatto scavare un profondo canale a semicerchio, in modo che il fiume, deviato in parte dall'antico letto, raggiungesse alle
spalle le truppe accampate e poi, oltrepassato il campo, sfociasse nel corso antico, cosicché, diviso, il fiume, avrebbe
avuto due bracci entrambi guadabili».
Numerose fonti, tra cui Diogene Laerzio, nelle sue Vite, e Plutarco, nel Convivio dei sette sapienti, narrano che Talete
avrebbe misurato l'altezza della piramide di Cheope, nella piana di Giza, stabilendo un rapporto proporzionale tra le
ombre della piramide stessa e di un’asta.
Secondo Plutarco (Convivio dei Sette Sapienti, 2, 147 A), Talete, celebre per la sue conoscenze matematiche, giunto alla
corte del faraone Amasis, fu da lui sfidato a misurare l'altezza della piramide di Cheope. Lo stesso faraone, dopo la
geniale soluzione del problema da parte del sapiente greco, gli si rivolse, dicendosi «stupefatto del modo in cui hai
misurato la piramide senza il minimo imbarazzo e senza strumenti. Piantata un’asta al limite dell'ombra proiettata dalla
piramide, poiché i raggi del sole, investendo l’asta e la piramide formavano due triangoli, hai dimostrato che l’altezza
dell’asta e quella della piramide stanno nella stessa proporzione in cui stanno le loro ombre».
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 2
La dimostrazione di Talete, fonte www.wikipedia.it
Talete utilizzò quindi il teorema di geometria che porta il suo nome e la cui scoperta, insieme a quella di altri quattro,
gli è attribuita dalle fonti storiografiche.
Come astronomo, grazie alla sua vasta conoscenza degli studi condotti anche dai Babilonesi e dagli Egizi, distinse le
stelle dai pianeti, che chiamò appunto con quel nome, cioè «corpi erranti». Calcolò inoltre la durata dell’anno solare in
365 giorni e ¼ e fissò la durata del mese a 30 giorni. Fu anche in grado di prevedere con anticipo l’eclissi totale di sole
che si verificò il 28 maggio 585.
PARAGRAFO 3. TALETE FILOSOFO
Questa breve panoramica di tutte le attività conoscitive e pratiche di Talete ci ha dato una vaga idea della grandezza del
suo genio. Ma non ci deve fuorviare. La vastità degli interessi di Talete non deve farci pensare che possedesse molte
conoscenze specialistiche. Se pensiamo in termini moderni, o persino postmoderni, trasferiremmo su Talete e sull’antica
filosofia un modo di pensare che considera la matematica, l’astronomia, l’ingegneria, come tante specializzazioni del
sapere, separate le une dalle altre, applicabili a tanti settori diversi della realtà. Nulla di più lontano dal carattere che
nell’antichità veniva attribuito alla conoscenza, nulla a che vedere con le moderne specializzazioni.
Infatti, come abbiamo già ricordato, questo genio universale è unanimemente riconosciuto anche come il primo filosofo
della storia della civiltà occidentale. Filosofia, nell’antichità, è sinonimo di amore per la sapienza, per la conoscenza
nella sua totalità. Il filosofo indaga il Tutto, getta il suo sguardo sull’intera natura e sull’intero universo. Il filosofo,
nell’antica cultura greca, è il ricercatore di un sapere unitario che ricerca, innanzitutto, l’origine di Tutto ciò che esiste
(l’arché).
Come racconta Aristotele, «Talete […] dice che [il principio originario] è l’acqua […]: forse prese quest'ipotesi
osservando che l’alimento di ogni cosa è umido, lo stesso calore deriva dall'umidità e di essa vive e ciò da cui le cose
derivano è appunto il loro principio. È dunque di qui che egli trasse la sua ipotesi e dal fatto che i semi di tutte le cose
hanno una natura umida» (Aristotele, Metafisica, I, 3, 983 b, 6).
Emanuele Severino, uno dei più autorevoli studiosi della filosofia antica, osserva che «l’“acqua” di cui parla Talete non
è l'acqua sensibile in cui ci si bagna e che si beve: l'acqua sensibile - intesa cioè nel significato ordinario della parola - è
infatti soltanto una delle molte e diverse cose dell'universo, e in quanto è soltanto una tra le molte non può essere ciò
che vi è di identico in ognuna di esse, e quindi non può nemmeno essere il principio unitario (l’arché) da cui tutte
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 2
derivano. L’“acqua” si presenta in tal modo come una metafora […] Ponendo l’“acqua” come sostanza identica di tutte
le cose, Talete mostra di non intenderla come una realtà particolare e sensibile (appunto perché “acqua” sono anche il
sole, il cielo e tutte le altre cose che non hanno le caratteristiche dell'acqua sensibile)» (E. Severino, La filosofia antica,
Milano, Rizzoli, 1984).
L’acqua di Talete, correttamente intesa, rappresenta dunque il principio umido originario da cui tutto proviene e a cui
tutto ritorna. Uscendo dalla metafora, per Talete Tutto è acqua poiché Tutto è vita e la vita è anima: la natura nella sua
totalità è animata, è psichica.2
PARAGRAFO 4. TALETE E L’ANIMA
È giunto ora il momento di tornare a Diogene Laerzio («Per primo ebbe il nome di sapiente») e ad Apuleio («Talete di
Mileto fu senza dubbio il più importante tra quei sette uomini famosi per la loro sapienza»), per capire meglio il senso
autentico della complessa sapienza di Talete.
Bisogna tener ben presente quanto abbiamo cercato di illustrare nella prima parte di questo saggio sulla piena
consapevolezza della natura della psiche (o anima) e soprattutto della natura fondamentalmente psichica (o animata) di
tutto ciò che esiste.
Tutti gli studiosi hanno riconosciuto che Talete e i suoi seguaci e successori della Ionia greca e della Magna Grecia
possono essere considerati degli ilozoisti, cioè teorici che concepivano la natura e il cosmo come un’unica entità
vivente, animata appunto.3
Ma non tutti gli studiosi collegano questa considerazione ad altri elementi che emergono, sia pure in modo
frammentario, dalle testimonianze su Talete.
Eppure Aristotele, nel De anima (A 5 411 a 7; A 2 405 a 19), riferisce che «forse Talete suppose che tutte le cose sono
piene di dèi» e che «anche Talete, a quanto ricordano, abbia supposto che l’anima sia qualcosa atto a muovere, se ha
detto che la calamita è dotata di anima in quanto muove il ferro».
Queste testimonianze di Aristotele sono molto preziose e ci confermano nella convinzione che Talete concepisse la
realtà come un sistema di forze che agiscono nella profondità della natura. Esse sono, da un lato, riconducibili a
divinità, cioè a forze che per l’antica sapienza greca, come abbiamo visto nella prima parte di questo intervento, hanno
un complesso valore simbolico. D’altra parte l’anima è posta come principio del movimento e della trasformazione.
Mettendo insieme i frammenti del discorso, possiamo concludere che per Talete la filosofia è l’indagine sull’Anima
come principio della vita e del divenire di tutte le cose.
PARAGRAFO 5. TALETE: «CONOSCI TE STESSO»
Ci manca ancora un elemento per completare il quadro e per restituire a Talete quella grandezza di sapiente e filosofo
che non gli è stata del tutto attribuita, padre della filosofia e anche della psicoanalisi.
Tutte le fonti concordano nell’attribuire a Talete la massima «Conosci te stesso», che fu in seguito fatta propria da
Socrate. La stessa massima era iscritta sul frontone del tempio di Apollo a Delfi. Questo elemento ci conduce dunque a
2
Sulla complessa simbologia dell’acqua, già presente nei miti più antichi e connessa alla femminilità e
alla maternità, ma anche più in generale all’inconscio, si può consultare Gaston Bachelard, L’Eaux et les
rêves (1942), trad. it. Psicoanalisi delle acque, Red, Como, 2000.
3
Lo sfondo più arcaico e primordiale, pre-filosofico, dell’ilozoismo è costituito dall’animismo,
concezione del mondo attribuita alle popolazioni cosiddette primitive. Per approfondire lo studio
dell’animismo si può vedere innanzitutto il classico e fondamentale studio dell’antropologo britannico Edward
Burnett Tylor, Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion,
Language, Art and Custom, 1871, trad. it. del volume 4: Alle origini della cultura. Animismo, L’anima e le
anime. Dottrina e funzioni, Istituti Editoriali e Poligrafici, Pisa-Roma, 2000. Un altro testo molto importante,
anche per la sua struttura enciclopedica, è quello di Joseph Campbell, The Masks of God (1959-1968), in
particolare il volume Mitologia primitiva, Milano, Mondadori, 1995. Consigliabile, tra gli altri, il recente saggio
di Antoine Fratini, La religione del dio Economia, CSA Editrice, Crotone, 2009, che rifacendosi a Freud e,
soprattutto, a Carl Gustav Jung, sviluppa una lettura psicoanalitica dell’animismo.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 2
quella sapienza apollinea con cui abbiamo iniziato questo discorso. Su quello sfondo sapienziale Talete si staglia con un
particolare rilievo.
«Conosci te stesso» può anche essere considerato il motto e il fine della psicoanalisi moderna, quella inaugurata da
Sigmund Freud negli ultimi decenni dell'Ottocento. Ma, se la psicoanalisi come «scienza» moderna del soggetto, con
una sua specifica metodologia, nasce con Freud, ci sembra chiaro che già Talete avesse perfettamente coscienza della
necessità di indagare la psiche, di conoscere a fondo la propria anima e l’anima di tutte le cose.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 3
PERCORSO TEMATICO 3. PSICHE (O ANIMA)
PREREQUISITI
[ Conoscenza e comprensione dell’Unità didattica 1, Capitoli 1, 2 e 3, del Modulo-Base ]
OBIETTIVI
[ Approfondimento dei rapporti tra gli antichi culti religiosi della Magna Grecia e le prime dottrine
filosofiche – Conoscenza e comprensione del concetto di psiche (o anima)]
PARAGRAFO 1. IL CULTO DI ORFEO
Per approfondire la concezione pitagorica dell’anima o psiche, occorre rifarsi innanzitutto alle antiche concezioni
misteriche di cui abbiamo già parlato ( Percorso 1).
In particolare, è necessario fare riferimento al culto di Orfeo e alle concezioni che ad esso si ispirano.
Realmente esistito, Orfeo nel mito è rappresentato come poeta e musicista capace di incantare gli animali e soggiogare
la natura col suo canto, come cultore del potere della parola e, secondo Platone, inventore anche della retorica.
Ebbe una leggendaria origine tracia, che lo collega, secondo lo storico Erodoto, allo sciamanesimo. Si narra che gli
sciamani della Tracia mettessero in rapporto il mondo dei vivi con quello dei morti, avessero poteri magici e, con la loro
musica, producessero negli ascoltatori uno stato di trance.
Inoltre il mito lo tramanda come figlio di Apollo, archetipo dell’artista e del sapiente che domina la natura con la
razionalità, ma anche come sacerdote del culto di Dioniso, dio dell’impulso irrazionale, dell’emozione, della simpatia
immediata con la natura, della conoscenza intuitiva.
Da un lato, dunque, la simbologia di Apollo è legata alla medicina, alla musica, alle arti (a lui facevano capo le Muse),
alla profezia (l’oracolo di Delfi, a lui dedicato, rivelava il futuro agli umani), al sole, alla luce, alla solarità, alla limpida
conoscenza della realtà , alla razionalità.
D’altra parte, Dioniso sarebbe la reincarnazione di Zagreo che, figlio di Zeus e Persefone, dea del mondo ultraterreno e
sotterraneo, era una divinità ctonia, cioè simboleggiava la terra.
Destinato da Zeus a regnare su tutto l’universo, fu ucciso per invidia dai Titani, ma il suo cuore, salvato da Atena, fu
inghiottito da Zeus che lo fece rivivere in Dioniso.
La simbologia di Zagreo è legata alla sua morte e rinascita e indica il ciclico alternarsi delle stagioni, lo sfiorire della
vita in inverno e il rifiorire in primavera. Perciò, Dioniso, come reincarnazione di Zagreo, è associato alla fertilità
(simboleggiata dalla dea Demetra, la Madre Terra, che è forse sua madre).4
Dioniso è il dio più popolare e il più estraneo alla struttura aristocratica dell’Olimpo della tradizione greca, è il più
umano e terreno degli dèi, legato alla terra e all’emotività carnale e passionale
Come abbiamo già visto ( Percorso 1), mentre Apollo è il simbolo della conoscenza razionale , dell’arte, della poesia
e della misura “soggettiva” (arte e poesia come forma, armonia ed equilibrio), Dioniso è il simbolo della conoscenza
intuitiva, della creatività, del genio “folle”, dell’estasi erotica e del mistero della natura e della divinità, conoscibili
soltanto con la perdita della soggettività e la fusione mistico-estatica con il tutto.
4
Il mito di Zagreo/Dioniso ha molte analogie e probabili legami con la religione egizia di Osiride e con
quella babilonese di Tammuz.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 3
Orfeo e gli animali, Mosaico romano di età imperiale, Palermo, Museo archeologico.
PARAGRAFO 2. ORFEO ED EURIDICE
Ma torniamo ora al mito di Orfeo per narrare la sua tragica storia d’amore con la ninfa Euridice. Ella morì per il morso
di un serpente, allora Orfeo, che la amava disperatamente, discese negli inferi per cercarla. Incantò i guardiani Caronte e
Cerbero con la sua musica e la dea Persefone, commossa, tramite il dio Ade, suo marito, gli concesse di riavere Euridice
e di ricondurla fuori dal regno dei morti.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 3
Paesaggio con Orfeo e Euridice, Nicolas Poussin, 1650-51
Ma fu posta ad Orfeo una condizione molto rigida che, se non fosse stata rispettata, avrebbe perduto per sempre
Euridice. Lungo il percorso che li avrebbe ricondotti fuori dal regno dei morti, Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice
senza mai voltarsi.
Accadde però che il poeta, timoroso che la sua sposa non lo seguisse, si voltò e così la perse per sempre. O forse si voltò
perché Euridice lo chiamava e lo pregava di attenderla, non sapendo ella della condizione posta da Ade.
E così, tornato sulla terra, Orfeo rinunciò al culto di Dioniso e rifiutò l’amore eterosessuale per sempre, anche per
fedeltà alla sua sposa. A causa di questa sua rinuncia, le Menadi (o Baccanti), sacerdotesse di Dioniso, infuriate, lo
uccisero, sbranandolo.
Ma la sua testa fu salvata dalle Ninfe e affidata alle Muse, da cui fu trasportata a Lesbo e lì sepolta. Da allora vi risuona
eternamente e la sua arte è immortale.
Il significato del mito fa emergere i due aspetti fondamentali che caratterizzano i misteri orfici:
1. Le pratiche dionisiache di iniziazione conducono all’estasi mistica, al ricongiungimento con il divino. L’estasi,
cioè l’uscire da sé, perdere l’individualità per ricongiungersi con il Tutto (la dimensione del divino) è un
“sovrappiù di conoscenza” (G. Colli, 1974  Percorso 1));
2. Le pratiche poetiche e retoriche apollinee preparano alla sapienza divinatoria dell’oracolo. La divinazione è
innanzitutto conoscenza del destino futuro, del fato che governa gli eventi. Nelle concezioni orfiche il fato si
presenta con i caratteri sia della necessità che del caso (tema che richiederebbe un ulteriore approfondimento).
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 3
PARAGRAFO 3. I FONDAMENTI DELL’ORFISMO
Orfeo è colui che ha osato vedere l’invisibile (l’Ade) ed ha avuto accesso ai segreti più profondi visitando il regno dei
morti. In tal modo è divenuto il simbolo dell’iniziazione spirituale e della conoscenza dei misteri, cioè delle realtà che
restano inaccessibili a chi non accetta di percorrere un itinerario di purificazione.
In questa dimensione simbolica prendono corpo i fondamenti dell’Orfismo, che sono i seguenti:
1. L’anima o psyché è un daimon, cioè una realtà semidivina ed immortale;
SCHEDA.
2.
Essa,
a causa di un originario peccato d’orgoglio, viene
L’INNO ORFICO AL DIO PROTEO.
sepolta in un corpo (soma che in greco significa
letteralmente «custodia»);
Invoco Proteo, che ha le chiavi del mare,
primigenio, che ha reso manifesti i
3. La morte fisica rappresenta, pertanto, una possibilità di
principi di ogni natura
liberazione dai limiti della corporeità;
mutando la sacra materia secondo figure
4. Tuttavia, l’anima, essendo stata legata al corpo non è
multiformi,
pura, e perciò, dopo la morte, deve scontare una pena;
da tutti onorato, dai molti consigli, che
5. Essa trasmigra allora in un nuovo corpo (la cosiddetta
conosce le cose che sono
metempsicosi o, come meglio sarebbe dire,
e quante erano prima e quante saranno
metemsomatosi), che può essere umano, animale o
ancora in avvenire;
vegetale, in base alla gravità delle colpe accumulate
avendo infatti tutto, si trasforma, lui e
nella vita precedente (cfr. M. Vegetti, 1975);
nessun altro
6. Ne deriva la necessità di condurre una vita di
degli immortali che hanno la sede
nell'Olimpo nevoso
purificazione, per ricongiungersi alla dimensione divina
e il mare e la terra e volano nell'aria;
attraverso la conoscenza e l’estasi mistica: all’orgia
tutto infatti in Proteo la prima natura ha
dionisiaca originaria, al vino e alla carne, gli adepti
disposto.
dell’Orfismo sostituiscono una dieta vegetariana e danze
Ma, padre, vieni ai celebranti con santi
e canti rituali, in forma di inni rivolti alle divinità.
propositi
mandando un compimento di vita felice,
Come si vede e come già abbiamo accennato, nell’Orfismo si
buono nelle opere.
congiungono i simboli di:
 Apollo, dio e simbolo della conoscenza razionale, solare
e logica, dove si manifesta la necessità del tutto.
 Dioniso, dio e simbolo della «visione» mistica . di tutto ciò che è misterioso ed inaccessibile ai sensi, poiché
richiede una più alta forma di conoscenza dio e simbolo del gioco, della casualità e della creatività.
Ne risulta chiaramente che, nelle antichissime concezioni orfiche, il misticismo5 e la razionalità non si oppongono ma
appaiono come aspetti strettamente collegati, intrecciati e armonizzati in un equilibrio quasi perfetto. Lo stesso
dilaniamento di Orfeo è simbolo della sua duplicità interiore, della sua anima posseduta contemporaneamente da
entrambe le divinità (cfr. G. Colli, 1974  Percorso 1).
Ancora, la filosofia di Orfeo (poeta, ma già anche filosofo) include la divinizzazione della memoria, nella figura della
dea Mnemosyne, madre delle Muse e della poesia, insegnando che c’è tutto un tempo da attraversare a ritroso,
attraverso tutte le generazioni di uomini e dèi, per ritrovare il «senza-tempo», il luogo da cui tutto trae origine.
E poi, tra i simboli di Orfeo c’è anche lo specchio di Dioniso, che riflette il mondo, e che allude al «conoscere come
essenza della vita e come culmine della vita» (G. Colli, 1977).6
5
6
È un tema, questo, che richiederebbe un ulteriore approfondimento, per comprendere alcune basi
filosofiche dell’Orfismo, che saranno riprese da altri sapienti, come Eraclito e Parmenide.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 3
La testa di Orfeo, dipinto di Gustave Moreau, fonte www.wikipedia.it
Non a caso, all’Orfismo, sintesi di apollineo e dionisiaco, sono legati:
1. Sia i Misteri dionisiaci di Eleusi, nel santuario di Demetra, la Madre-Terra, madre di Persefone (a sua volta
madre di Dioniso), sposa del dio dell’oltretomba, che erano essenzialmente feste della conoscenza e della
“visione” mistica;
2. Sia il culto di Apollo nel santuario di Delfi, dove si trovava l’oracolo che concedeva agli uomini la conoscenza
del destino futuro, anche se in forma enigmatica.
Osserviamo infine che, oltre alle analogie, già sottolineate, con le religioni dell’antico Egitto e di Babilonia, secondo gli
studi di Pugliese Carratelli (2001), «affine a questa dottrina pitagorica appare quella che, nel medesimo tempo in cui si
svolgeva in Magna Grecia il magistero di Pitagora, si esprimeva in India nella predicazione del Buddha: anche questa
indicava nella tensione intellettuale verso il Nirvana la liberazione dal reiterarsi delle esistenze prodotto dal trsna , le
sete di vivere»
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 3
PARAGRAFO 4. LA DOTTRINA PITAGORICA DELL’ANIMA
Raffaello Sanzio, “Pitagora”, particolare de La Scuola di Atene, 1509-1511,
Stanza della Segnatura, Musei Vaticani, Roma
Come abbiamo già visto nel Modulo-base (), per Pitagora, come già per Eraclito, l’anima dell’uomo ha natura
cosmica e “divina”.
L’eclettica formazione di Pitagora, che era avvenuta a Mileto, ma anche in Egitto e a Babilonia, lo aveva condotto a
rielaborare in chiave concettuale e scientifica i temi della sapienza orientale e dei misteri orfici.
Il filosofo di Samo riprese il principio dualistico secondo cui la psiche, intesa come daimon (cioè come elemento
divino), è custodita nel soma-corpo e lo ricondusse nell’alveo del dualismo tra limite e illimitato e nell’ambito della sua
speculazione filosofica, facendone anche, nella comunità scientifica, religiosa e politica che fondò a Crotone, un
principio morale ed una norma di vita comunitaria.
Tali regole di vita precise e rigorose erano proprie degli iniziati ai misteri, ai «puri», dediti a pratiche ascetiche,
connesse con la ricerca scientifica e l’astrazione intellettuale (ove si ponevano le basi di quelle scienze che costituiranno
le basi del quadrivio medioevale  Sezione 2, Unità 2, Capitolo 1 Paragrafo 3):
1. Aritmetica
2. Geometria
3. Astronomia
4. Musica
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 3
Lo scopo è quello di purificare l'anima dai suoi contatti con la corporeità per ricondurla alla sua condizione divina
durante la stessa vita terrena: l’anima immortale va sottratta al ciclo delle trasmigrazioni e innalzata alla dimensione del
divino.
Il principio fondamentale è che l'ordine cosmico va trasferito nella vita individuale e collettiva degli uomini. Se, infatti,
c’è un ordine degli astri, un ordine delle stagioni, un ordine della natura, non si può accettare che nella vita degli uomini
regni un grande disordine.
Proprio riflettendo su questo conflitto, su questa contraddizione, una tradizione di tipo religioso, come quella di Delfi, e
riflessioni più propriamente morali, filosofiche e politiche, si incontrarono sulla comune esigenza di migliorare la
condizione umana.
Il sacerdozio delfico tendeva a diffondere una sapienza dell'ordine: motti come “nulla di troppo” e “conosci te stesso”
invitavano gli uomini a rispettare l’ordine cosmico e divino. Ponendosi in continuità con tale insegnamento i pitagorici
tentarono di realizzare un programma di riforma morale e politica della vita sociale (cfr. M. Vegetti, 1975).
Nella scuola pitagorica, misticismo e razionalità trovano una sintesi ulteriore, potenziando quella già presente nei
misteri orfici:
 Gli acusmatici (gli allievi ascoltatori, giunti al primo grado di iniziazione) erano “spirituali puri” e incarnarono
le tendenze religiose della comunità;
 Ai matematici (gli allievi giunti al più alto grado di iniziazione, “coloro che imparavano”) fu affidato lo
sviluppo dei presupposti scientifici della scuola.
Lo stesso Pitagora riuniva in sé gli attributi della conoscenza razionale, scientifica, matematica e di quella misticoestatica, magica, teologica. Non a caso, Pitagora fu venerato come un dio e chiamato a Crotone Apollo Iperboreo. Il
riferimento ad Apollo Iperboreo fa risalire il culto del Dio agli sciamani del Nord Europa, alle loro capacità profetiche e
magiche (cfr. G. Colli, 1974).
PARAGRAFO 5. GLI SVILUPPI DEL PITAGORISMO
L’Orfismo era già diffuso nella Magna Grecia quando vi giunse Pitagora e la sua scuola lo integrò e lo investì di quella
dimensione filosofica che conservò molto a lungo.
Inoltre, formazione orfico-pitagorica ebbe anche Parmenide, che accolse e sublimò filosoficamente la dottrina della
“divinità” dell’anima. In seguito anche Empedocle ebbe formazione pitagorica e fece propria la dottrina della
metemsomatosi.
Socrate aveva con il sacerdozio delfico legami piuttosto stretti e, come abbiamo già sottolineato nel Modulo-base (
Sezione 1, Unità 2, Capitolo 2, Paragrafo 4), è ritenuto anche l’inventore della psicoterapia (cura dell’anima, cura della
psiche), cioè di quella forma di ricerca e di conoscenza che, potenziando il filone orfico-pitagorico (ed eracliteo) della
sapienza antica, mirava alla profonda conoscenza di sé come unica possibilità di miglioramento dell’ordine umano e
sociale. Inoltre, in Socrate c’è il tema tipicamente orfico del daimon, su cui torneremo più avanti (per tutto questo tema
 Percorso 6).
Poi, il più importante seguace del pitagorismo fu Platone che accolse ed elaborò in una grande sintesi anche il pensiero
di Parmenide ed Empedocle (e non solo). Sulla dottrina della metemsomatosi fondò una nuova gnoseologia, una nuova
ontologia metafisica ed una visionaria escatologia filosofica, con il «mito di Er» ( Sezione 1, Unità 3, Capitolo 2
Paragrafo 8). Per i rapporti di Platone con il pitagorismo  Percorso 7.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 4
PERCORSO TEMATICO 4. FILOSOFIA E SCIENZA
PREREQUISITI
[ Conoscenza e comprensione dell’Unità didattica 1, Capitoli 1 e 2, del Modulo-Base ]
OBIETTIVI
[ Approfondimento dei rapporti tra filosofia e scienza ]
Che cosa significa dire, come abbiamo detto nell’Introduzione, che la filosofia è scienza?
Oggi, per uno studente del Triennio superiore le scienze sono la biologia, la fisica, la chimica, le scienze della Terra,...
La matematica è la scienza esatta per eccellenza, forse. La filosofia non si capisce bene che cosa sia. Fa parte delle
materie scientifiche? Oppure delle materie umanistiche? Come risponderebbe uno studente a queste domande?
Già la distinzione tra materie umanistiche e materie scientifiche, se ha un fondamento storico, lo ha molto meno sul
piano teorico. È un tema, questo, che dovremo tornare a discutere nei prossimi volumi, anche se è già chiaro che la
filosofia, fin dal suo emergere, è stata indubbiamente in rapporto anche con la letteratura, la poesia, l’arte, il mito, la
religione.
Filosofia e scienza nell’antichità. Per ora, comunque, limitiamoci a cercare di capire cosa è stata la filosofia
antica e perché la si può definire anche scienza.
Fin dalle origini, fin dalla sua prima comparsa nel mondo mediterraneo, la filosofia ha avuto delle caratteristiche che la
accomunano a quello che ancora oggi si intende con la parola scienza:
 Tentativo di soluzione di problemi concreti;
 Atteggiamento costante di ricerca;
 Spirito di osservazione della realtà nei suoi aspetti percepibili;
 Metodo razionale e argomentazione logica;
 Esercizio del libero pensiero e della capacità critica rispetto alle opinioni più comuni e più diffuse e del
patrimonio culturale della tradizione;
 Dialogo, discussione, dibattito;
 Tendenza al possesso di conoscenze affidabili e per quanto possibili certe, cioè di modelli teorici capaci di
fornire un quadro esauriente dei problemi da affrontare e risolvere;
 Tendenza ad occuparsi di tutti gli aspetti della realtà: infatti, la filosofia si è ben presto articolata in settori
diversi, tanti quanti sono quelli della stessa realtà che studia e indaga: l’essere, il vivere, il conoscere, il
pensare, il parlare, l’agire, l’arricchirsi, l’associarsi, l’organizzare uno stato, il governare, lo stabilire leggi,
l’educare, il giudicare, il punire, insieme a molti altri.
Non c’è dubbio, dunque, che filosofia e scienza hanno in comune tutte o quasi tutte le caratteristiche elencate sopra.
Sembra, allora, di poter affermare che esse si identificano o differiscono di pochissimo.
Questa affermazione ha un certo valore, se ci riferiamo, ad esempio, alla filosofia greca dei primi secoli.
La conoscenza che si conseguiva con la ricerca filosofica fu quasi subito chiamata epistème, che significa «ciò che sta
su un fondamento stabile», e che possiamo tradurre proprio con la locuzione «scienza certa», in opposizione alla
dimensione dell’opinione, in greco doxa, cioè al campo delle conoscenze incerte, discutibili.
I primi filosofi sono stati anche i primi scienziati: Talete, Anassimandro, Anassimene ( Sezione 1, Unità 1, Capitolo
2) erano matematici, astronomi, meteorologi, ingegneri, geologi, geografi. Con loro è nata la civiltà occidentale, in una
feconda sintesi di ricerca filosofica e scientifica e, come osserva Ludovico Geymonat, «pensiero filosofico e pensiero
scientifico […] sono due facce della stessa razionalità» (1970).
Vedremo in dettaglio come questo legame sia rimasto saldo per molti secoli, anche se le scienze ebbero la tendenza a
specializzarsi e a ricercare una certa autonomia.
La differenza tra filosofia e scienza. Ma perché possiamo dire che gli scienziati Talete, Anassimandro,
23
Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 4
Anassimene sono stati anche i primi filosofi? Qual è la caratteristica che distingue la filosofia dalla scienza, o meglio
dalle scienze?
Il grande filosofo contemporaneo Emanuele Severino lo esprime con esemplare chiarezza: “[…] i greci hanno reso per
primi testimonianza al tutto, cioè a quella dimensione di cose e vicende e mondi che non lascia nulla fuori di sé, e che
quindi cela in sé ogni segreto, ogni risposta, ogni speranza, ogni delusione; hanno per primi pensato il tutto come tutto;
e gli hanno dato un nome» (1984).
Ecco, appunto, la caratteristica in più della filosofia rispetto a quelle comuni elencate prima. La filosofia non solo si
occupa di tutta la realtà, in tutti i suoi aspetti specifici, ma si occupa della realtà intesa come Tutto, che non lascia nulla
fuori di sé. In questo senso, i primi filosofi sono stati tali poiché hanno ricercato l’origine di tutte le cose, il principio
assoluto del Tutto, il suo significato, la sua struttura, le sue leggi di funzionamento.
Questo è un punto fondamentale. Noi oggi siamo i pronipoti di quei grandi avventurieri della conoscenza. Come osserva
di nuovo Emanuele Severino, «la nascita della filosofia è [l’evento] più decisivo [nella storia dell’uomo], se ci rende
conto che il modo in cui la filosofia si è presentata fin dal suo inizio sta alla base dell’intero sviluppo della civiltà
occidentale, e che le forme di questa civiltà dominano ormai su tutta la terra e determinano perfino gli aspetti più intimi
della nostra esistenza individuale» (1984).
Unità o distinzione tra scienza e filosofia. I primi filosofi, geniali scienziati, erano coscienti della differenza?
La risposta non è affatto facile. Vedremo nel secondo volume che, ancora nel XVII secolo, gli artefici della nascita della
scienza moderna, che è la forma di scienza ancor oggi dominante, pur con qualche modifica, consideravano se stessi
filosofi.
Probabilmente, per la maggior parte dei grandi sapienti delle origini della filosofia (da Talete ai Pluralisti  Sezione 1
Unità 1), anche se con differenti accentuazioni, l’attività filosofica e quella scientifica erano strettamente correlate e non
del tutto distinguibili.
Del resto, anche successivamente, Socrate e Platone ( Sezione 1 Unità 2 /  Sezione 1 Unità 3) tendono a identificare
conoscenza, sapienza, filosofia e scienza.
Sarà Aristotele ( Sezione 1 Unità 4) il primo a distinguere i diversi tipi di scienza dalla metafisica (o filosofia prima),
ma pur sempre nell’ambito di una concezione strutturalmente unitaria del sapere.
Una prima forma di separazione tra ricerca filosofica e scientifica si verifica nell’età ellenistica ( Sezione 1 Unità 5),
quando, più per le circostanze storico-culturali che per una vera e propria forma di consapevolezza esplicita, il Museo di
Alessandria, nato per iniziativa di alcuni discepoli del Liceo aristotelico, portò avanti le ricerche scientifiche dei
peripatetici, ma in un’ottica sempre più specialistica e sempre più separata dalla filosofia (anche per la lontananza
geografica tra i due centri, Atene, rimasta la sede di tutte le scuole filosofiche tradizionali, e Alessandria, nuovo centro
emergente della cultura enciclopedica dell’epoca).
Ma l’argomento dovrà essere ripreso più in particolare nel secondo volume.
24
Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 5
PERCORSO TEMATICO 5. GNOSEOLOGIA
PREREQUISITI
[ Conoscere i contenuti della Sezione 1, Unità 1 – Aver compreso i concetti fondamentali della
ricerca filosofica dalla Scuola di Mileto ai Pluralisti ]
OBIETTIVI
[ Approfondire la comprensione degli sviluppi della ricerca filosofica nell’ambito della capacità
conoscitive umane ]
PARAGRAFO 1. LE ORIGINI DELLA GNOSEOLOGIA
Gnoseologia è termine composto da due parole greche: ghnòsis (conoscenza) e lógos (discorso, ragione, studio). Indica,
dunque, il «discorso sulla conoscenza», l’analisi critica della conoscenza umana.
La filosofia, come abbiamo detto sin dall’inizio, si occupa di comprendere sia il Tutto (la totalità nel suo insieme) sia
tutto (tutti gli aspetti particolari della totalità, tutte le forme della realtà in cui viviamo). La conoscenza, qualunque
forma di conoscenza, compresa la filosofia, è una delle forme del Tutto, è uno degli aspetti della realtà.
Perciò, fin dalle origini i filosofi hanno cercato di scoprire cosa fosse la loro stessa ricerca, il loro stesso tentativo di
capire il cosmo e la natura. In quel sistema ordinato di relazioni che, per i primi filosofi, è il meraviglioso Tutto da
scoprire e svelare, anche la relazione che lega il filosofo che vuol comprendere al Tutto e a tutto, è essa stessa una
relazione da capire.
La relazione conoscitiva, che è studiata dalla gnoseologia, è una relazione tra un soggetto che conosce e un oggetto
conosciuto, in generale.
Si chiama «soggetto» un essere capace di conoscenza, dotato almeno di sensibilità, cioè della capacità di ricevere
sensazioni, oppure anche di pensiero, capace cioè di elaborare concetti. Si chiama «oggetto» un qualsiasi essere capace
di trasmettere sensazioni.
Dunque, il soggetto è un essere vivente, senziente, pensante, non necessariamente umano, anche se di solito ci si
riferisce alla conoscenza umana. L’oggetto è un qualsiasi essere percepibile e conoscibile: una cosa, un minerale, un
vegetale, un animale, un essere umano, tutto ciò che esiste ed è conoscibile con la sensazione e il pensiero. L’essere
umano può essere soggetto e oggetto insieme, poiché può studiare tutto, compreso se stesso.
La gnoseologia è uno studio teorico della conoscenza. Cerca di capire come sia possibile la conoscenza, come relazione
tra soggetto e oggetto. Cerca di comprendere come funziona, come si attua, con quali limiti, difficoltà, problemi,
risultati.
Nascita della filosofia e gnoseologia. Lo studio teorico della conoscenza, come specifica relazione dello
studioso con tutti gli aspetti della realtà, è implicito già nella distinzione operata da Talete tra l’arché e la natura.
Individuando la sostanza identica che permane al di sotto del cambiamento continuo della natura, che assume forme
sempre diverse, Talete aveva già presente la differenza tra una conoscenza immediata, che constata con “meraviglia” il
molteplice divenire di tutte le cose, ed una conoscenza razionale (il ragionamento scientifico-filosofico) che ne cerca
l’unica origine.
Eraclito: svegli e dormienti. Nel pensiero di Eraclito si ritrova, approfondita, questa distinzione tra due livelli del
conoscere, tra superficie e profondità. Egli, infatti, contrappone svegli e dormienti.
Questi ultimi sono la maggior parte degli uomini, che si accontentano di una saggezza privata, di un punto di vista
soggettivo. Esso impedisce loro di cogliere da un punto di vista generale la realtà della natura e del cosmo. Essi sono
come coloro che dormono e sognano mondi illusori, rispetto a coloro che sono svegli e vedono la realtà delle cose,
cercano di comprenderne a fondo la profondità e la complessità, che non appare in superficie («la natura delle cose ama
celarsi», fr. 123 DK). Leggiamo nella sua interezza il frammento 1 DK e, a seguire, altri illuminanti frammenti sul tema
della conoscenza: «Di questo lógos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia
subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo lo stesso lógos, essi assomigliano a persone
inesperte, pur provandosi in parole ed in opere tali quali sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura
25
Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 5
ciascuna cosa e dicendo com'è. Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non
sono coscienti di ciò che fanno dormendo» (fr. 1 DK); «Bisogna dunque seguire ciò è comune. Ma pur essendo questo
lógos comune, la maggior parte degli uomini vive come se avesse una propria e particolare saggezza» (fr. 2 DK);
«Unico e comune è il mondo per coloro che sono desti» (fr. 89 DK).
Inoltre, già per Eraclito, la ricerca non riguarda solo la natura, ma riguarda il ricercatore stesso in quanto parte di essa,
parte anch’egli di quell’Uno-Tutto che viene indagato. E l’indagine può cominciare proprio dal soggetto conoscente,
che diviene anche oggetto esplicito della ricerca. In ogni soggetto umano agisce, infatti, lo stesso lógos che agisce nel
cosmo, poiché «il pensare è a tutti comune» e ad ognuno «è concesso conoscere se stesso», come ha fatto lo stesso
Eraclito che ha «indagato [se] stesso». Il filosofo di Efeso, che ha aperto la strada allo sviluppo della logica, intesa come
studio dei meccanismi e dei principi che regolano il ragionamento umano.
Eraclito: un passo verso la gnoseologia esplicita. Ma in Eraclito c’è già un passo avanti sulla strada di una
gnoseologia esplicita. Infatti, comprendere il lógos del cosmo è anche comprendere il lógos dell’anima umana e anche
questa, come l’altra, è una ricerca nell’ambito dell’illimitato, della profondità e della complessità, come il filosofo di
Efeso ci dice in uno dei più vibranti frammenti: «Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu
potresti mai trovare i confini dell'anima: così profondo è il suo lógos» (fr. 45 DK).
Qui si dovrebbe aprire una parentesi che riguarda la nascita della psicoanalisi, «scienza» delle profondità dell’anima (o
psiche – psyché- , come la chiamavano i Greci). La psicoanalisi vera e propria nasce molto tempo dopo, nel XX secolo!
Ma l’indagine su se stessi, il viaggio alla scoperta della propria personalità e di tutti i suoi aspetti inizia già con Eraclito
in modo esplicito e filosofico. Ma come già abbiamo visto, inizia ancor prima, in forma pre-filosofica  Percorso 3).
Parmenide: la dòxa e l’epistème. Parmenide ha dato una forma quasi definitiva alla contrapposizione tra la
conoscenza superficiale e quella profonda, tra l’opinione mutevole, soggettiva e relativa, da una parte, e la scienza vera
e certa, dall’altra. La prima rispecchia il divenire, la seconda l’essere eterno ed immutabile. È un tema che in seguito
venne approfondito da Platone ( Sezione 1 Unità 3 Capitolo 2), ma che delinea già una chiara posizione gnoseologica,
sia pure strettamente connessa all’ontologia. Infatti, pensiero ed essere coincidono: «Lo stesso infatti è pensare ed
essere. Per la parola e il pensiero bisogna che l'essere sia, solo esso infatti è possibile che sia e il nulla non è. Su questo
ti esorto a riflettere. È la stessa cosa pensare e il pensiero che è, infatti senza l'essere in cui è espresso non troverai il
pensare. Niente altro infatti è o sarà all'infuori dell'essere» (fr. 2-3 DK).
I ruderi del teatro greco di Elea (Velia, SA), in Campania.
PARAGRAFO 2. LA GNOSEOLOGIA FILOSOFICA: EMPEDOCLE
La nascita della gnoseologia. Una trattazione specifica del problema della conoscenza si trova a partire da
Empedocle. Scienziato e mago, mitologo e filosofo, medico e profeta religioso, poeta e uomo politico, Empedocle attuò
la prima grande sintesi del pensiero filosofico greco.
Tutti gli aspetti della sua formazione vasta e complessa e della sua personalità di pensatore si congiungono
perfettamente in unità armonica ( Sezione1 Unità 1 Capitolo 5 Paragrafo 2).
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 5
Anche la sua dottrina della conoscenza si colloca nella teoria globale in modo coerente, con una spiegazione delle
dinamiche conoscitive che si rifà alle stesse dinamiche di attrazione/repulsione che
regolano i cicli cosmici.
Secondo Empedocle, infatti, noi conosciamo la terra con la terra, l’acqua con
l’acqua, l’aria con l’aria, il fuoco con il fuoco, l’amore con l’amore e l’odio con
l’odio.
Il principio della sensazione, è dunque individuato, dal filosofo di Agrigento, nella
comunicazione del simile con il simile. L’organismo umano è composto delle
stesse radici e forze psico-fisiche di cui è composta tutta la natura. Il sangue, in
particolare, è costituito da una parte di terra, una di acqua, una di aria e una di
fuoco. Perciò, tra tutte le componenti dell’organismo umano, il sangue è il più
simile alla perfetta mescolanza delle quattro radici. Dunque, esso è il miglior
veicolo della conoscenza che è concepita come una partecipazione empatica alla
natura e al cosmo. In tal senso, sensazione e pensiero non sono differenti in modo
sostanziale. La sensazione si trasmette in tutto l’organismo attraverso il sangue e il
cuore è il centro del pensiero, attraverso cui si comprende la natura cosmica nella
sua unità e molteplicità (oppure, unità come mescolanza di una molteplicità).
Viene così superata la contrapposizione tra sensazione e pensiero cui era giunta la
scuola di Elea e che era stata irrigidita nel pensiero di Zenone e di Melisso. Sensazione e pensiero sono due gradi della
stessa compenetrazione di uomo e natura, soggetto e oggetto, corpo e psiche.
Empedocle, che fu anche fondatore di una scuola di medicina, sostenne pertanto una visione cardio-centrica della
sensazione e del pensiero, che avrà un grande sviluppo nella storia della scienza biologica greca antica. Ad essa si
oppose la visione encefalocentrica, di cui parleremo tra poco. Come osserva il Vegetti (1975), la soluzione definitiva
del contrasto tra le due scuole fu sancita nel II secolo d.C., con la scoperta del sistema nervoso e della sua connessione
col cervello, ad opera di Galeno .
Prima di continuare, si può osservare che la concezione cardio-centrica di Empedocle gli consente quella sintesi
grandiosa in cui mito e filosofia, emozione e ragione, magia e scienza, natura e divinità sono due aspetti della stessa
realtà. Il cuore è centro sia dell’emozione che del pensiero e, dunque, sia dell’intuizione poetica sia del ragionamento
analitico, in cui si esprimono, in modi diversi ma convergenti, l’essere e il divenire, l’uno e il molteplice.
PARAGRAFO 3. ANASSAGORA: UNA GNOSEOLOGIA «MODERNA»
Empedocle guardava al passato e tentava una sintesi in cui convergessero sia il grande pensiero ionico sia quello
pitagorico ed eleatico. Anassagora guarda al futuro e la sua sintesi punta più al superamento che alla conciliazione.
Per Empedocle la mescolanza delle radici dà origine a tutte le cose. Per Anassagora, invece, la mescolanza è un dato
originario, è già costitutiva dei semi, le particelle infinite ed infinitamente divisibili di cui tutto è composto.
Empedocle ha avuto, certo, grandi intuizioni: la sua mescolanza di elementi anticipa alcuni principi della chimica e le
forze opposte fanno pensare alle forze elettromagnetiche di attrazione/repulsione. Ha avuto anche il merito di far
emergere il problema della conoscenza e di affrontarlo, per la prima volta in modo esplicito, distinguendolo dal
problema cosmologico e da quello ontologico.
Ma Anassagora mostra il suo genio con la ricerca della semplicità nella soluzione dei problemi. Pone l’Intelletto al
vertice del Tutto, come motore e causa dell’aggregarsi e disgregarsi delle particelle, simili ma diversamente mescolate
tra loro. Anassagora introduce perciò una separazione tra la natura e il suo principio dinamico ordinatore, l’Intelletto
cosmico (Noús).
Ecco come lo esprime in un celebre frammento tratto dalla Fisica di Simplicio:
«Tutte le altre entità hanno parte a tutto, mentre l’intelletto è alcunché di illimitato e di autocrate e a nessuna cosa è
mischiato, ma è solo, lui in se stesso. Se non fosse in se stesso, ma fosse mescolato a qualcos’altro, parteciperebbe di
tutte le cose, se fosse mescolato a una qualunque. Perché in ognuna c’è parte di ogni altra, come ho detto in quel che
precede: quelle mescolate con esso l’impedirebbero, di modo che non avrebbe potere su nessuna cosa come l’ha
quand’è solo in se stesso. Perché è la più sottile di tutte le cose e la più pura: ha cognizione completa di tutto e il più
grande dominio e su tutte le cose che hanno vita ha potere l’intelletto. E sull’intera rivoluzione l’intelletto ebbe potere
da avviarne l’inizio. E dapprima ha dato inizio a tale rivolgimento dal piccolo, e poi la rivoluzione diventa più grande e
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 5
diventerà più grande. E le entità che si mescolano insieme e si separano e si dividono, tutte l’intelletto ha conosciuto. E
qualunque cosa doveva essere e qualunque fu che ora non è, e quante adesso sono e qualunque altra sarà, tutte
l’intelletto ha ordinato, anche questa rotazione in cui si rivolgono adesso gli astri, il Sole, la Luna, l’aria, l’etere che si
vengono separando».
Tale separazione forse non è ancora una forma di trascendenza.
L’intelletto cosmico non è forse neppure un Dio, nonostante la sua
onniscienza e onnipotenza. Né lo si può considerare un’entità
spirituale, da contrapporre alla materia della natura. Comunque,
rispetto al tendenziale panteismo dei filosofi precedenti, per la prima
volta il principio dinamico e ordinatore del cosmo viene separato dal
cosmo stesso. Così non era per l’immanente lógos di Eraclito, cui
pure è forse debitore. Così non era forse neppure per le due forze di
Empedocle, coeterne alle radici.
Anche quella di Anassagora è probabilmente una proiezione sul
piano cosmico di una facoltà umana, quella intellettiva, come erano
proiezioni di sentimenti e comportamenti umani l’Amore e l’Odio di
Empedocle.
Ma la separazione tra cosmo e Noús diventa, per il filosofo che ha importato la filosofia dalla Ionia ad Atene, un
principio gnoseologico importante e innovativo.
La sua mentalità scientifica, ereditata dal pensiero ionico, lo contrappone decisamente ad Empedocle, suo quasi
contemporaneo.
Per il filosofo di Agrigento, magia e scienza, mito e filosofia, cuore e ragione, sensazione e pensiero si fondono in una
forma di sapere complessa e unitaria. Per il filosofo di Abdera l’intelligenza è separata dalla dimensione emotiva,
affettiva e corporea, il pensiero distinto dalla sensazione. L’intelligenza è «a più sottile di tutte le cose e la più pura».
L’intelligenza «ha cognizione completa di tutto e il più grande dominio e su tutte le cose che hanno vita».
Anassagora sta parlando del Noús, ma sta pensando all’intelletto umano, capace di conoscere, controllare e dominare
tutto ciò che di «naturale» c’è anche nella personalità umana.
Con Anassagora l’intelligenza si innalza al di sopra di tutto e diventa dominatrice della natura e del cosmo.
La scuola scientifica e medica, che faceva più o meno direttamente riferimento ad Anassagora, sviluppò quindi una
visione encefalo-centrica dell’organismo umano, ancora una volta in contrapposizione con la scuola di Empedocle (
Percorso 5).
Come osserva Vegetti (1975), l’atteggiamento cardiocentrico «presumeva sempre una concezione della conoscenza
come passiva ricezione della realtà da parte dell’uomo: di qui le ideologie della conoscenza come pura contemplazione,
come speculazione e “teoria” (cioè, in greco, osservazione). Distinguere tra sensazione e conoscenza e collocare
quest’ultima nel cervello, significava invece attribuire un carattere attivo ai processi conoscitivi, concepirli come uno
sforzo di appropriazione da parte del soggetto umano di un oggetto che in se stesso permane opaco, e dunque va
decifrato, interpretato pensato secondo ipotesi di organizzazione».
E così, alla gnoseologia simpatetica del filosofo siciliano, lo scienziato-filosofo ateniese d’adozione contrappose una
gnoseologia del contrasto, dell’azione reciproca tra i diversi:
«Anassagora [afferma che le sensazioni] si producono mediante i contrari perché il simile non patisce dal simile, e tenta
di fare un esame dettagliato per ogni sensazione. Il vedere [si produce] mediante l’impressione della pupilla, ma non si
ha impressione in ciò che è di colore uguale bensì diverso. Per i più la diversità dei colori si ha di giorno, per taluni di
notte, sicché allora hanno la vista più acuta. In genere la notte ha piuttosto colore uguale agli occhi. L’impressione
[avviene] di giorno perché la luce è concausa dell’impressione e il colore dominante s’imprime sempre sull’altro […]»;
«Nello stesso modo giudicano il tatto e il gusto: quel che è caldo e freddo esattamente [come noi] non ci riscalda né ci
raffredda col suo contatto: così pure non percepiamo il dolce e l’amaro per se stessi, ma col caldo il freddo, col salato
l’amabile, coll’amaro il dolce, secondo la mancanza di ciascuno [dei contrari], perché egli afferma che si trovano tutti in
noi. [...]» Fr A 92 (Teofrasto, De sensu, 27-28).
Non più il simile che conosce il simile. Ma, a rovescio, il dissimile conosce il dissimile.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 5
Alla sintesi unificante, mitico - religiosa e filosofico - sapienziale, di Empedocle che culmina nell’armonia dello Sfero e
della ciclicità del tempo, Anassagora sostituisce la valorizzazione delle infinite differenze del molteplice e la capacità
analitica e discorsiva dell’intelletto scientifico, che trova applicazioni pratiche nelle tecniche 7, incluse quelle sociali e
politiche.
Inoltre Anassagora, ponendo l’intelletto umano al centro della riflessione cosmologica e ontologica, prepara la
rivoluzione antropologica che da lì a poco sarà attuata dai Sofisti (  Sezione 1 Unità 2 Capitolo 1).
PARAGRAFO 4. LA GNOSEOLOGIA ATOMISTICA
Ancor più moderna appare la gnoseologia degli Atomisti, attribuibile forse a Democrito.
Si potrebbe dire che con gli Atomisti si assiste al primo tentativo di operare una rivoluzione scientifica, operando quel
passaggio dalla filosofia alla scienza che riuscì ad attuarsi soltanto molti secoli dopo, nel XVII secolo, a partire dalla
ricerca di Galileo Galilei.
E anche nella gnoseologia atomistica si trovano spregiudicate anticipazioni di quella galileiana, che farà testo per buona
parte del Sei/Settecento.
Agli Atomisti risale la messa a punto del concetto di materia, sulla base
della riduzione, operata da Melisso, dell’Essere di Parmenide a sostanza
fisica. La materia sono gli atomi infiniti che si aggregano e si disgregano in
un vortice originario che dà origine a tutti gli enti ( Sezione 1 Unità 1
Capitolo 5 Paragrafo 4).
Il materialismo meccanicistico che ne deriva spiega anche la sensazione,
frutto dell’azione meccanica degli atomi sui nostri organi di senso. Anche il
pensiero deriva dalla stessa azione meccanica sulla psiche, composta di
atomi più sottili, ma anch’essa materiale. Nella psiche si forma l’immagine
dell’oggetto, che viene elaborata a livello logico-razionale.
Possiamo osservare che gli Atomisti sono forse allora i primi filosofi ad aver
fondato il concetto di materia, riducendo tutto il cosmo e la natura a
null’altro che una serie di aggregati atomici che si formano muovendosi nel
vuoto. Da qui in avanti potrà avere significato distinguere tra materia e
spirito, distinzione meno chiara e definita per tutti i filosofi precedenti.
La conseguenza più rilevante del meccanicismo materialistico in campo gnoseologico fu la distinzione, destinata ad
avere grande fortuna in Età moderna, tra «qualità oggettive» (o primarie, relative agli oggetti) e «qualità soggettive» (o
secondarie, e sensibili). Le prime sono quelle che appartengono realmente ai corpi fisici (aggregati atomici) e
rispecchiano le loro reali proprietà (grandezza, posizione nello spazio, ordine nella combinazione). Le seconde, dovute
alla struttura e alla natura degli organi di senso umani, sono totalmente prive di qualsiasi riferimento oggettivo alla
realtà: colore, suono, sapore, odore non esistono realmente nel corpo percepito, ma sono modificazioni del soggetto che
percepisce.
In tal senso quella atomistica è una gnoseologia fortemente dualistica: non vi è infatti corrispondenza tra l’immagine
psichica dell’oggetto e la sua reale natura.
Si tratta di un dualismo che sviluppa e irrigidisce quello di Parmenide e che si differenzia da quello che elaborerà
Platone. Ciò che la psiche umana conosce non è la realtà in se stessa, com’è veramente, ma un’immagine distorta di
essa, un’idea mentale. Solo la ragione è in grado di cogliere le intrinseche leggi della natura materiale e meccanica,
superando le aporie dell’infinito di Zenone ed Anassagora.
Questa forma di «idealismo» gnoseologico si ritroverà dopo la Rivoluzione scientifica e caratterizzerà la nostra
trattazione nel secondo volume di quest’opera.
7
«Anassagora dice che l’uomo è il più sapiente dei viventi perché ha le mani [...]» (Fr. A 102, in
Aristotele, Sulle parti degli animali, 687a, 7).
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 5
La gnoseologia si sviluppa sempre più rapidamente a partire da Sofisti e Socrate ( Sezione 1 Unità 2).
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
PERCORSO TEMATICO 6. LA «QUESTIONE» SOCRATICA
PREREQUISITI
[ Conoscere i contenuti della Sezione 1, Unità 2, Capitolo 2 – Aver compreso i concetti
fondamentali della ricerca filosofica socratica ]
OBIETTIVI
[ Approfondire la conoscenza della figura storica di Socrate – Approfondire la conoscenza e la
comprensione della ricerca filosofica socratica]
PARAGRAFO 1. LA «QUESTIONE» E LE FONTI
Socrate, marmo, copia romana del I secolo d.C. di un bronzo perduto opera di Lisippo
Alla «questione socratica» abbiamo già accennato nel Modulo-base ( Sezione 1, Unità 2, Capitolo 2 Paragrafo 1).
Ci sono vari aspetti da approfondire per comprendere più a fondo l’importanza di Socrate nella storia della ricerca e del
pensiero.
Il primo problema riguarda le fonti, sulla cui base si è cercato di ricostruire la figura storica di Socrate. Noi teniamo
soprattutto conto della testimonianza diretta di Platone che risulta, tutto sommato, la fonte più attendibile.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
Il commediografo Aristofane, nella commedia Le nuvole, svolge una satira in cui Socrate appare in una sorta di
caricatura che vuole mettere alla berlina, in generale, le astruserie e le complicazioni dei filosofi più che il personaggio
storicamente esistito. Non si tratta certo di una fonte attendibile: sarebbe come se ci affidassimo ad un comico di oggi
per ricostruire la personalità di uno dei suoi bersagli satirici.
La testimonianza dello storico Senofonte, nell’Apologia e nei Detti memorabili, risulta fortemente riduttiva e, dal
ritratto che ne esce, non si spiegherebbe l’importanza che Socrate rivestì nella vita sociale e politica ateniese (cfr.
Abbagnano, 1966).
Quindi, lasciando da parte fonti minori, i primi dialoghi di Platone, pur facendo la tara sul genio letterario dell’autore
( Sezione 1, Unità 3, Capitolo 2), sono i testi che ci danno della figura del suo maestro l’immagine più fedele.
PARAGRAFO 2. IL PROCESSO A SOCRATE: LA DIFESA
Un secondo problema riguarda il processo che condusse Socrate alla morte. Abbiamo già ricostruito in sintesi il
contesto socio-politico in cui tale processo fu intentato ( Sezione 1, Unità 2, Capitolo 2 Paragrafo 13).
Ora possiamo approfondire alcuni importanti temi legati all’evento.
Ci serviremo di tre importanti opere di Platone, l’Apologia di Socrate, il Critone e il Fedone.
L’Apologia di Socrate Platone ricostruisce il discorso con cui il suo maestro si rivolse ai suoi accusatori, ai giudici e ai
cittadini di Atene
Il significato della ricerca socratica. Innanzitutto, Socrate vuole precisare la sua posizione filosofica,
distinguendola da quella di tutti gli altri pensatori della sua epoca, in particolare dai Sofisti, coi quali poteva facilmente
essere confuso per alcuni aspetti. In particolare, vuole sottolineare l’infondatezza dell’immagine che nel tempo si è
creata di lui presso un certo tipo dio opinione pubblica, quella più condizionabile dai poteri forti, che ora lo accusano 8.
A differenza dei Sofisti ( Sezione 1, Unità 2, Capitolo 2), Socrate non è interessato ai discorsi complicati e non si
prefigge l’intento di gareggiare in abilità dialettica per far prevalere certe opinioni sulle altre: il suo unico scopo è la
ricerca della verità.
Leggiamo:
«Quale impressione abbiate provata voi, o cittadini di Atene, alle parole dei miei accusatori, io non so; certo è che
anch’io, a quelle parole, per poco non mi dimenticai di me stesso, con tale accento di persuasione essi parlarono. E sì
che di vero, permettetemi, proprio nulla costoro hanno detto; e, tra le molte cose non vere che dissero, una soprattutto
mi fece meraviglia, questa: quando dissero che bisognava voi steste bene attenti a non lasciarvi trarre in inganno da me
come da uno che sia abilissimo parlatore. E che non abbiano sentito vergogna al pensiero che subito io li avrei smentiti
con i fatti, appena avessi mostrato che sono tutt’altro che un abile parlatore; questo mi parve da parte loro il massimo
della svergognatezza. Salvo che essi non chiamino abile parlatore chi dice la verità: perché, se dicono questo, allora sì,
potrò anche convenire di essere buon parlatore; sebbene non al loro modo. Costoro dunque, ripeto, poco o nulla di vero
hanno detto; e voi invece da me non udirete altra cosa che la verità. Non però, siatene certi, o cittadini di Atene, udirete
da me, come da loro, orazioni adorne di belle frasi e parole, e nemmeno in bell’ordine; bensì un parlare alla buona, e
con le parole che prime vengono alla bocca: perché io ho la convinzione di non dir nulla che non sia giusto; e nessuno
di voi deve aspettarsi che in maniera diversa io parli. […]
Innanzi tutto dunque, o cittadini Ateniesi, è giusto che io mi difenda dalla falsità delle prime accuse che mi furono fatte
e dai primi accusatori; e poi dalle nuove accuse e dai nuovi accusatori. Perché di accusatori ce n’è stati parecchi davanti
a voi, e già da molti e molti anni, e senza mai dire niente di vero: e costoro io li temo assai più che Anito e i suoi amici;
sebbene anche questi siano accusatori terribili. Ma quegli altri sono più terribili ancora, o cittadini; quegli altri i quali,
avendovi presso di sé, la più parte di voi, fino da fanciulli per educarvi, cercarono persuadervi contro me di accuse non
meno false: che c’è un tal Socrate uomo sapiente, che specula su le cose celesti, che investiga tutti i segreti di sotterra,
che le ragioni più deboli fa apparire più forti. Codesti, o cittadini di Atene, che hanno sparsa per il mondo tale fama di
me, sono gli accusatori di cui io temo maggiormente; perché, udendo costoro la gente reputa che chi si occupa di tali
speculazioni non riconosca nemmeno gli dèi. E poi questi accusatori sono parecchi, e già da gran tempo mi hanno
accusato, e, quel ch’è peggio, sparlavano di me quando voi eravate in quella età in cui si è più facilmente disposti 8
Gli esponenti della restaurazione democratica conservatrice: Anito, Meleto e Licòne.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
alcuni di voi erano tuttavia fanciulli o giovinetti - a prestar fede alle calunnie; e così insomma mi accusarono in
contumacia senza che nessuno mi difendesse. E la più straordinaria cosa di tutte è che neanche i nomi si possono sapere
e dire di costoro, se non forse di un commediografo; ma gli altri, sia quelli che per invidia o per smania di calunnie
cercarono mettervi su contro di me, sia quelli che volevano persuadere altrui perché persuasi in buona fede essi stessi,
costoro, tutti quanti, non c’è modo assolutamente di rintracciarli: e non è possibile farne venir qui alcuno, né convincere
alcuno di menzogna; e realmente, per difendermi, non posso far altro che combattere, dirò così, con delle ombre, e
convincere di menzogna chi non risponde. […]»
Socrate nella cesta, stampa del XVI secolo:
il filosofo è rappresentato così nella commedia Le nuvole di Aristofane
«Riprendiamo dunque da principio: e vediamo qual è l’accusa da cui è venuta fuori contro me la famosa calunnia a cui
s’appigliò anche Melèto per intentarmi questo processo. Che cosa dicevano i miei calunniatori? Facciamo come se si
trattasse dell’accusa giurata di accusatori veri e propri di cui si possa leggere il testo . “Socrate è reo, e si dà da fare in
cose che non gli spettano: investigando quel che c’è sottoterra e quello che in cielo; tentando far apparir migliore la
ragione peggiore, e questo medesimo insegnando altrui”. Questa, su per giù, è l’accusa. Qualche cosa di simile avete
veduto anche voi nella commedia di Aristofane: un Socrate che si fa menare attorno sospeso nell’aria, e va dicendo che
passeggia su le nuvole, e ciancia di una infinità di altre sciocchezze; tutte cose delle quali io non m’intendo né molto né
poco. E non dico già io codesto per dispregio di quella tale scienza, se è vero che di tale scienza ci sono scienziati. Non
ci mancherebbe altro mi tirassi addosso da Melèto un’accusa così grave! Dico solo che realmente, o cittadini ateniesi, di
queste cose io non mi occupo affatto; e ne chiamo a testimoni, ancora, la più parte di voi; e vi prego di informarvene a
vicenda e di dichiararlo apertamente, quanti di voi mi avete udito parlare: e sono molti tra voi che mi hanno udito
parlare... Avanti, dunque, dichiaratelo gli uni e gli altri, se c’è alcuno tra voi che m’abbia udito mai ragionare o poco o
molto di cose simili: e di qui capirete che anche tutto il rimanente che dicono sul conto mio è dello stesso valore.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
Insomma in tutto questo non c’è niente di vero; e se anche avete sentito dire da qualcuno ch’io mi do da fare a istruire
uomini e che prendo denari, neanche questo è vero. Sebbene, in fondo, se uno è capace di istruire uomini come fanno
Gorgia di Leontini e Pròdico di Ceo e Ippia di Elide, mi parrebbe cosa tutt’altro che riprovevole. Queste brave persone
girano di città in città, e istruiscono i giovani, ai quali sarebbe pur facile senza spender denari farsi istruire da chiunque
vogliano dei loro concittadini; […]»
L’oracolo di Delfi e il «saper di non sapere». A questo punto, Socrate racconta l’episodio di Cherefonte e
dell’oracolo di Delfi di cui abbiamo parlato nel Modulo-base ( Sezione 1, Unità 2, Capitolo 2 Paragrafo 3), illustrando
le ragioni che ne hanno fatto un uomo invidiato e odiato da certi uomini di potere della città, con la sua ironia, il suo
anticonformismo, la sua continua ricerca di una vera conoscenza dei problemi sociali e morali:
«Ora, appunto da questa ricerca, o cittadini ateniesi, molte inimicizie sorsero contro di me, fierissime e gravissime; e da
queste inimicizie molte calunnie, e fra le calunnie il nome di sapiente: perché, ogni volta che disputavo, credevano le
persone presenti che io fossi sapiente di quelle cose in cui mi avveniva di scoprire l’ignoranza altrui. Ma la verità è
diversa, o cittadini: unicamente sapiente è il dio; e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco vale o nulla la
sapienza dell’uomo; e, dicendo Socrate sapiente, non volle, io credo, riferirsi propriamente a me Socrate, ma solo usare
del mio nome come di un esempio; quasi avesse voluto dire così: “O uomini, quegli tra voi è sapientissimo il quale,
come Socrate, abbia riconosciuto che in verità la sua sapienza non ha nessun valore”».
Questa parte del discorso ci mostra anche un Socrate intimamente legato all’oracolo delfico, alla sapienza apollinea
della tradizione ateniese e rispettoso dei culti e dei riti della città, contrariamente a ciò di cui venne accusato: introdurre
nuove divinità, oltre che corrompere i giovani. A proposito di questa seconda accusa, Socrate la riconduce al clima di
invidia e odio che si è creato intorno a lui, per aver implacabilmente smascherato l’incompetenza e l’inconsistenza
morale della classe dirigente della città, con la sua analisi critica della sapienza dei potenti.
Vediamo:
«Sappiate inoltre che quei giovani che hanno più tempo degli altri, i figlioli delle famiglie più ricche, si accompagnano
volentieri con me, e si compiacciono di assistere a questo mio esame degli uomini; e più volte cercano imitarmi e si
provano anch’essi per proprio conto a esaminare altrui. E allora, si capisce, grande abbondanza trovano di questi uomini
che credono saper qualche cosa e sanno poco e niente; e così avviene che quelli che sono esaminati da loro si adirano
con me e non con se stessi, e vanno dicendo che Socrate è uomo estremamente turpe e che corrompe i giovani: e se uno
domanda loro, “Ma che cosa fa e che cosa insegna questo Socrate per corrompere i giovani?”, - non hanno niente da
dire, perché non lo sanno; e solo, per non far vedere che sono nell’imbarazzo, dicono le solite cose che si sogliono dire
contro tutti i filosofi, e che specula su le cose del cielo e di sottoterra, e che insegna a non riconoscere gli dèi, e che fa
apparire migliore la ragione peggiore. La verità è che costoro si sono rivelati gente che non sa nulla e si dà l’aria di
saper tutto; ma la verità, naturalmente, non la vorranno dire. E così, ambiziosi come sono ed esaltati e numerosi, e tutti
d’accordo in codesta brama di dir male di me e con argomenti che poterono anche parere persuasivi, già da un pezzo
ormai e senza nessunissimo scrupolo e ritegno vi hanno riempiti gli orecchi delle loro calunnie. Ecco perché, alla fine,
mi s’avventarono contro Melèto e Anito e Licòne: Melèto in grande ira per i poeti, Anito per gli artisti e per i politici,
Licòne per gli oratori».
La «missione» di Socrate. Poi, dopo aver dimostrato l’inconsistenza delle accuse rivoltegli, Socrate spiega che
non potrà mai rinunciare a svolgere la sua attività filosofica. Se l’accusa ha lo scopo di minacciarlo, per farlo desistere
da quella che egli considera la sua «missione» assegnatagli dalla divinità, cioè per farlo smettere di filosofare, allora
essa sarà del tutto vana.
Leggiamo (poi torneremo più avanti ad approfondire alcuni dei grandi temi che qui emergono):
«Io dico dunque, o Ateniesi, che sarebbe una assai singolare e strana condotta la mia se, mentre a Potidèa e ad Anfipoli
e a Dèlio [in guerra], quando i comandanti che voi eleggeste a comandarmi mi assegnarono il posto, là dove essi allora
mi ordinarono di rimanere io rimasi, come chiunque altro, e corsi pericolo di morire; qui invece, ordinandomi il dio,
almeno come ho potuto intendere e interpretare io quest’ordine, che dovessi vivere filosofando e adoprandomi di
conoscere me stesso e gli altri, qui, dico, per paura della morte e d’altro simile male, avessi disertato il posto che il dio
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
mi aveva assegnato. Sarebbe cosa, ripeto, assai strana: e veramente si avrebbe ragione allora di trascinarmi qui in
tribunale come un empio che non crede agli dèi, dal momento che disobbedisco all’oracolo e temo la morte e credo di
essere sapiente e non sono. Infatti temere la morte non è altra cosa, o cittadini, che credere d’esser sapienti e non essere:
infatti, è credere di sapere quello che uno non sa. E, a dire il vero, della morte nessuno sa s’ella non sia per avventura il
maggiore di tutti i beni che possano capitare all’uomo; e tuttavia la temono come sapessero ch’essa è il maggiore dei
mali. E non è ignoranza codesta, e anzi la più vituperevole ignoranza, credere di sapere ciò che uno non sa? Ora io, o
cittadini, proprio per questa ragione e su questo punto credo differire dalla più parte degli uomini; e se in alcuna cosa
osassi dire di essere più sapiente di qualcuno, solamente per questo lo direi, che come non so nulla di preciso delle cose
dell’Ade, così neanche credo di saperne qualcosa. Ma commettere ingiustizia e non fare obbedienza a chi è migliore di
noi, sia dio sia uomo, questo so bene che è cosa vergognosa e turpe. E dunque, davanti ai mali che so esser mali, non
accadrà mai che io tema e fugga quelli che io non so se per avventura non siano beni. Cosicché, anche se voi ora mi
lasciaste andare - contro il volere di Anito, il quale diceva che o non bisognava fin da principio io venissi qui in
tribunale o, una volta che c’ero venuto, non era possibile non condannarmi a morte, perché, se riuscivo a sfuggire alla
condanna, diceva, da quel momento i vostri figlioli, seguitando a praticare gl’insegnamenti di Socrate, sarebbero stati
tutti quanti senza più rimedio guasti e corrotti; se voi, a questo argomentare di Anito, diceste a me così: “O Socrate, noi
non vogliamo ora dar retta ad Anito e ti lasciamo andare, a patto però che tu non perda più il tuo tempo in codeste
ricerche, né più ti occupi di filosofia; e se sarai còlto a far tuttavia di codeste cose ne morirai”; se dunque, come dicevo,
voi a questi patti mi lasciaste andare, ebbene, io vi risponderei così: “O miei concittadini di Atene, io vi sono obbligato
e vi amo; ma obbedirò piuttosto al dio che a voi; e finché io abbia respiro, e finché io ne sia capace, non cesserò mai di
filosofare e di esortarvi e ammonirvi, chiunque io incontri di voi e sempre, e parlandogli al mio solito modo, così: - O tu
che sei il migliore degli uomini, tu che sei Ateniese, cittadino della più grande città e più rinomata per sapienza e
potenza, non ti vergogni tu a darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più puoi, e della fama e degli onori;
e invece della intelligenza e della verità e della tua anima, perché ella diventi quanto è possibile ottima non ti dài affatto
pensiero né cura?”. E se qualcuno di voi dirà che non è vero, e sosterrà che se ne prende cura, io non lo lascerò andare
senz’altro, né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo studierò, lo confuterò; e se mi sembrerà ch’egli non possegga virtù
ma solo dica di possederla, io lo svergognerò dimostrandogli che le cose di maggior pregio egli tiene a vile e tiene in
pregio le cose vili. E questo io lo farò a chiunque mi càpiti, a giovani e a vecchi, a forestieri e a cittadini; e più ai
cittadini, a voi, dico, che mi siete più strettamente congiunti. Perché questo, voi lo sapete bene, è l’ordine del dio; e io
sono persuaso non ci sia per voi maggior bene nella città di questa mia obbedienza al dio. Né altro in verità io faccio
con questo mio andare attorno se non persuadere voi, e giovani e vecchi, che non del corpo dovete aver cura né delle
ricchezze né di alcun’altra cosa prima e più che dell’anima, sì che ella diventi ottima e virtuosissima; e che non dalle
ricchezze nasce virtù, ma dalla virtù nascono ricchezze e tutte le altre cose che sono beni per gli uomini, così ai cittadini
singolarmente come allo stato. Se dunque parlando io in questo modo corrompo i giovani, sta bene, vorrà dire che
queste mie parole sono rovinose; ma se taluno afferma che io parlo diversamente e non così, costui dice cosa insensata.
Per tutto ciò, lasciate che io ve lo dica, o Ateniesi, o diate retta ad Anito o non gli diate retta, o mi assolviate o non mi
assolviate, siate in ogni modo persuasi che io non farò mai altrimenti che così, neanche se non una soltanto ma più volte
dovessi morire.
E prosegue, illustrando ulteriormente la funzione critica che egli ritiene di avere svolto e introduce un tema (quello del
daimon) su cui torneremo ( Paragrafo 5):
«[…] No, non fate così. Siatene persuasi: se voi condannerete a morte me che sono tale appunto quale vi dico di essere,
non farete a me maggior male di quello possiate fare a voi stessi. A me non faranno alcun male né Melèto né Anito. E
neanche potrebbero. Non credo sia possibile che un valentuomo riceva male da un malvagio. Potrà, sì, Anito,
condannarmi a morte, cacciarmi in esilio, spogliarmi dei diritti civili: tutte cose che costui crederà e altri crederanno
siano grandi mali; non lo credo io; io credo sia un male di molto maggiore fare quello che fa ora costui che tenta
mandare a morte un uomo innocente. Perciò, o cittadini ateniesi, io sono ben lontano dal parlare ora in mia difesa, come
qualcuno potrebbe credere; bensì parlo per voi, che non abbiate a peccare, condannando me, contro il dono del dio.
Perché se voi ucciderete me, non sarà facile troviate un altro al pari di me il quale - non vi sembri risibile il paragone realmente sia stato posto dal dio ai fianchi della città come ai fianchi di un cavallo grande e di buona razza, ma per la
sua stessa grandezza un poco tardo e bisognoso di essere stimolato, un tafàno. Così appunto mi pare che il dio abbia
posto me ai fianchi della città: né mai io cesso di stimolarvi, di persuadervi, di rampognarvi, uno per uno, standovi
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
addosso tutto il giorno, dovunque. Io dico dunque che un altro come me non vi nascerà facilmente, o cittadini; e perciò,
se mi volete dare ascolto, mi risparmierete. Ma voi forse siete infastiditi meco come chi stia per assopirsi se uno lo
sveglia, e tirate colpi; e così per obbedienza ad Anito, mi condannerete a morte tranquillamente, e poi, tutto il resto della
vostra vita, seguiterete a dormire se il dio non si curi di voi mandandovi qualchedun altro in vece mia. E che sia proprio
io persona siffatta che il dio abbia scelta per dare in dono alla città, potrete riconoscere anche da questo: che non pare
umano io abbia trascurati tutti gli affari miei e sopporti ormai da tanti anni che siano trascurate le cose di casa mia, e
sempre invece io badi alle vostre, standovi da presso, un per uno, come farebbe un padre o un fratello maggiore, per
persuadervi a seguire la virtù. Che se da questa vita io avessi qualche profitto, e per i consigli che do ricevessi qualche
compenso, allora una ragione ci sarebbe: ma già lo vedete anche voi ora che gli accusatori miei, i quali mi hanno
accusato così sfrontatamente di tante altre colpe, di questa non hanno avuto mai la sfrontatezza di accusarmi, portandovi
davanti un solo testimone a provare che anche una sola volta io mi sia fatto pagare un compenso o l’abbia domandato. E
il testimone sicuro ch’è vero quello che dico posso portarvelo io: la mia povertà.
Forse potrà parere strano che io vada dattorno e mi dia tanto da fare per dar consigli a questo e a quello in privato, e se
poi si tratta di dare consigli in pubblico alla città e di salire su la tribuna per parlare al popolo, allora mi manchi il
coraggio. E la ragione di questo me l’avete sentita dire più volte e in più luoghi, che c’è dentro me non so che spirito
divino e demoniaco; quello appunto di cui anche Melèto, scherzandoci sopra, scrisse nell’atto di accusa. Ed è come una
voce che io ho in me fino da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da cosa che io sia
per fare, e non mai ad alcuna mi persuade. È questa che mi vieta di occuparmi di cose dello stato; e mi pare faccia
ottimamente a vietarmelo. Voi lo sapete bene, o Ateniesi: che se da un pezzo io mi fossi messo a occuparmi degli affari
dello stato, da un pezzo anche sarei morto e non avrei fatto cosa utile nessuna né a voi né a me. E voi non sdegnatevi se
parlo così: è la verità. Non c’è uomo che possa salvarsi quando si opponga sinceramente non dico a voi ma a una
qualunque altra moltitudine, e cerchi di impedire che troppe volte nella città si commettano ingiustizie e si trasgredisca
alle leggi; e anzi é necessario che chi davvero combatte in difesa del giusto, se voglia campare da morte anche per breve
tempo, viva da privato e non eserciti pubblici uffici. […]
Ma a parte, o cittadini, il buon nome della città, neanche mi pare giusto premere sul giudice con preghiere, e con
preghiere tentar di sfuggire alla condanna; bensì istruirlo e persuaderlo. Ché non a questo siede il giudice, per far grazie
del giusto, ma per giudicare il giusto; né ha giurato egli che farà grazie a chi gli paia, ma che farà giustizia secondo le
leggi. E dunque non bisogna né che noi abituiamo voi a violare il giuramento, né che vi ci abituiate voi stessi: non
faremmo cosa buona e pia né noi né voi. Non vogliate dunque, o cittadini di Atene, che io compia dinanzi a voi atti i
quali giudico disonesti e ingiusti e empi; e tanto meno io e proprio io che sono accusato da questo Melèto, qui presente,
di empietà. Perché è chiaro che se io, a forza di preghiere, cercassi di persuadervi e di costringervi a violare il
giuramento, io vi insegnerei a non credere che ci sono gli dèi; e così, nel momento stesso che mi difendo da
quest’accusa, accuserei di fatto me medesimo di non credere agli dèi. E invece è tutt’altro che così. Io credo, o cittadini
di Atene; io credo agli dèi come nessuno dei miei accusatori; e lascio a voi e al dio che giudichiate di me nel modo che
per me e per voi sia per essere il migliore».
PARAGRAFO 3. IL PROCESSO A SOCRATE: LA CONDANNA
Vediamo ora la parte conclusiva del discorso di Socrate, dopo che è stata emessa la sentenza di condanna:
«Che io non provi rammarico, o cittadini di Atene, di questo che è accaduto, che cioè abbiate votata la mia condanna, vi
contribuiscono molte e diverse ragioni; e questa tra le altre, che la cosa non mi è giunta inaspettata affatto: piuttosto mi
meraviglio del numero dei voti, così com’è venuto fuori, dell’una parte e dell’altra. Perché veramente io non
immaginavo che ci sarebbe stata una differenza così piccola, ma di molto maggiore. Ora invece, come pare, se trenta
voti soltanto fossero caduti dall’altra parte, io ero assolto senz’altro. E, quanto a Melèto, si può dire ch’io sono stato
assolto anche così; e non solo assolto, ma è chiaro a tutti che, se non venivano ad accusarmi Anito e Licòne, costui
avrebbe anche dovuto pagar mille dramme, non essendo riuscito a metter insieme dei voti la quinta parte.
Quest’uomo dunque chiede per me la pena di morte. Sta bene. E quale pena dovrò chiedere per me io, o cittadini di
Atene? Certamente quella che merito, non è vero? E quale? Quale pena merito io di patire, o quale multa pagare, io che
nella vita rinunciai sempre a ogni quiete, e trascurando quel che curano i più non badai ad arricchire né a governare la
mia casa, non aspirai a comandi militari né a favori di popolo né ad altri pubblici onori, non m’immischiai in congiure
né in sedizioni cittadine, ritenendo me stesso troppo sinceramente onesto perché potessi salvarmi se mi ci fossi
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
immischiato; e insomma non m’intromisi là dove sapevo che intromettendomi non avrei recato vantaggio né a me né a
voi; e volgendomi invece a beneficarvi singolarmente e privatamente di quello che io reputo il beneficio maggiore, a
questo mi adoperai, cercando di persuadervi, uno per uno, che non delle proprie cose bisogna curarsi prima che di se
stessi chi voglia diventare veramente virtuoso e sapiente, e nemmeno degli affari della città prima che della città stessa,
e così via del rimanente allo stesso modo? Dite, dunque, quale pena merito di patire io se sono così come vi dico? Un
premio, o cittadini di Atene, se mi si deve assegnare quello che io merito in verità. E tale ha da essere questo premio che
mi si addica. E quale premio si addice a un uomo che è povero e benefattore vostro, e solo prega d’aver agio e tempo
per la vostra istruzione? Non c’è premio che meglio si addica, o Ateniesi, se non che tale uomo sia nutrito nel Pritanèo;
assai più che non s’addica a quello di voi che con cavallo o biga o quadriga abbia riportato vittoria nei Giochi Olimpici.
Perché costui fa solo in modo che voi sembriate felici, e io invece faccio in modo che lo siate davvero felici; e quello
non ha bisogno gli si dia da vivere, e io ne ho bisogno. Se dunque io debbo chiedere, secondo il diritto, quello che mi
spetta, questo io chiedo, di essere nutrito nel Pritanèo.
Ma voi, forse, anche in questo mio parlare di ora, credete scorgere press’a poco quel medesimo sentimento dì dispettoso
orgoglio che credevate dianzi quando parlavo del far suppliche e destare commiserazione. No, non è così, o Ateniesi,
ma un’altra cosa piuttosto. Io sono persuaso di non aver fatto mai, volontariamente, ingiuria a nessuno; soltanto, non
riesco a persuaderne voi: troppo poco tempo abbiamo potuto conversare insieme. E credo che se fosse legge tra voi,
com’è presso altre genti, che giudizio di morte non si possa dare in un giorno solo ma in più, ve ne sareste, forse, già
persuasi; e invece non è facile ora, in così breve tempo, liberarsi da imputazioni così gravi. E persuaso come sono di
non avere mai fatto ingiuria ad alcuno, non so neanche pensare di far ingiuria a me stesso, e di dire io stesso contro di
me che sono meritevole di pena, e di richiedere per me, quale ella sia, questa tale pena. E poi, per paura di che cosa
dovrei fare così? Forse per paura di dover patire quello che per me domanda Melèto, e che io vi dico di non sapere se è
bene o se è male? e in cambio di codesto dovrei scegliere alcuna di quelle pene che so di certo che sono mali, e farne
domanda? Il carcere dovrei domandare? e perché dovrei vivere in carcere, al servizio della perpetua magistratura degli
Undici? Una pena in denaro, e restare in carcere finché non l’abbia pagata? Ma tant’è, è la stessa cosa che dicevo or ora,
perché denari io non ho da pagarla. E allora chiederò l’esilio? Sì, forse è proprio questa la pena che voi vorreste per me.
Ma io in verità, o cittadini di Atene, dovrei esser preso da una ben pazza voglia di vivere se fossi così irragionevole da
non poter fare neanche questo ragionamento, che mentre voi, che siete pure concittadini miei, non foste capaci di
sopportare la mia compagnia e i miei discorsi, e anzi la mia compagnia vi fu tanto fastidiosa e odiosa che cercate ora
stesso di liberarvene; altri invece la sopporteranno piacevolmente? Suvvia, Ateniesi! che sarebbe una gran bella vita la
mia, a questa mia età, andarmene in esilio, e mutar sempre da paese a paese, scacciato da ogni parte! Perché io lo so
bene, dovunque io vada i giovani verranno ad ascoltarmi come qui: e, se io li allontano, saranno essi stessi che mi
faranno cacciare persuadendone i più anziani; se non li allontano, mi cacceranno i loro genitori e parenti per causa loro.
Qui forse uno potrebbe dirmi: “Ma silenzioso e quieto, o Socrate, non sarai capace di vivere dopo uscito di Atene?”.
Ecco la cosa più difficile di tutte a persuaderne alcuni di voi. Perché se io vi dico che questo significa disobbedire al
dio, e che perciò non è possibile io viva quieto, voi non mi credete e dite che io parlo per ironia; se poi vi dico che
proprio questo è per l’uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m’avete
udito disputare e far ricerche su me stesso e su gli altri, e che una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna
d’esser vissuta: s’io vi dico questo, mi credete anche meno. Eppure la cosa è così com’io vi dico, o cittadini; ma
persuadervene non è facile. E d’altra parte io non mi sono assuefatto a giudicare me stesso meritevole di nessun male.
Se avevo denari, avrei potuto multarmi di una multa che potessi pagare: perché non ne avrei sentito alcun danno. Ma
non ho denari, e non posso: salvo che non vogliate multarmi di quel poco soltanto che potrei pagare. Potrei pagarvi una
mina d’argento. E dunque mi multo di una mina d’argento. Ma c’è qui Platone, o Ateniesi, e Critone, e Critobùlo e
Apollodoro, i quali vogliono ch’io mi multi di trenta mine, e ne fanno garanzia loro stessi. E allora mi multo di trenta
mine. E vi saranno garanti della somma questi qui: persone degne di fede.
Per guadagnare un poco di tempo - oh, non molto di certo, o cittadini Ateniesi - voi avrete nome e colpa, da coloro che
vogliono offendere la città, di aver ucciso Socrate, uomo sapiente: perché appunto diranno ch’io sono sapiente, anche se
non sono, quelli che vi vogliono fare oltraggio. Bastava che aspettaste ancora un poco, e la cosa veniva naturalmente da
sé. Voi vedete la mia età, che è molto avanti ormai nella vita; e anzi vicina alla morte. E questo non lo dico a tutti voi,
ma a quelli di voi che hanno votato la mia morte. E a questi stessi un’altra cosa ancora io dico. Forse pensate, o
cittadini, che io sia stato còlto in difetto di quegli argomenti coi quali avrei potuto persuadervi, se avessi creduto che
bisognasse fare di tutto e dire di tutto pur di sfuggire alla condanna. Niente affatto. Sono stato còlto in difetto, è vero,
ma non di argomenti, bensì di sfrontatezza e di impudenza; e perché non avevo nessuna voglia di parlarvi al modo che
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
certo vi sarebbe stato graditissimo, con pianti e lamenti e con ogni sorta di simili atti e parole che di me sono indegni,
come io vi ripeto, ma che voi siete pur abituati a udire da altri. Io non credetti allora, per paura del pericolo, che dovessi
comportarmi da uomo vile; né mi pento ora d’essermi difeso come mi difesi; e molto più anzi preferisco d’essermi
difeso in questo modo e morire che non in quello e vivere. Infatti, né in tribunale né in guerra, né io né altri, nessuno
mai deve adoperare di codesti mezzi per sfuggire in ogni modo alla morte. Anche nelle battaglie si vede chiaro più volte
che schivar la morte sarebbe facile, chi buttasse le armi o si volgesse supplichevole ai suoi inseguitori; e molti altri
mezzi ci sono, nei diversi frangenti, quando non si abbia scrupolo, pur di scampare alla morte, di fare e di dire
qualunque cosa. Ma state attenti, o cittadini, che non questo è difficile, sfuggire alla morte, bensì più difficile assai
sfuggire alla malvagità: corre più celere della morte la malvagità. Ora io, che sono tardo e vecchio, da quella che è più
tarda sono stato preso; e invece i miei accusatori, che sono validi e pronti, da quella che corre più celere, dalla
malvagità. E così io ora me ne vado a pagare il mio debito di morte, condannato da voi; e questi se ne andranno a
pagare il loro debito di iniquità e di infamia, condannati dalla verità. lo accetto la mia ammenda: e questi accetteranno la
loro. E forse era bene che la cosa andasse così; e credo sia la misura giusta per tutti.
Ma a voi che mi avete condannato voglio fare una predizione, e dire quello che succederà dopo. Io sono ormai su quel
limite in cui più facilmente gli uomini fanno predizioni, quando stanno per morire. Io dico, o cittadini che mi avete
ucciso, che una vendetta ricadrà su di voi, subito dopo la mia morte, assai più grave di quella per la quale vi siete
vendicati di me uccidendomi. Oggi voi avete fatto questo nella speranza che vi sareste pur liberati dal dover rendere
conto della vostra vita; e invece vi succederà tutto il contrario: io ve lo predìco. Non più io solo, ma molti saranno a
domandarvene conto: tutti coloro che fino a oggi trattenevo io, e voi non ve ne accorgevate. E saranno tanto più ostinati
quanto più sono giovani; e tanto più voi ve ne sdegnerete. Che se pensate, uccidendo uomini, di impedire ad alcuno che
vi faccia onta del vostro vivere non retto, voi non pensate bene. No, non è questo il modo di liberarsi da costoro; e non è
affatto possibile né bello; bensì c’è un altro modo, bellissimo e facilissimo, non tagliare altrui la parola, ma piuttosto
adoprarsi per essere sempre più virtuosi e migliori. Questo è il mio vaticinio a voi che mi avete condannato; e con voi
ho finito».
Come abbiamo visto, Socrate sviluppa una sorta di requisitoria finale, in cui si rivolge soprattutto a coloro che hanno
votato per la sua condanna. Essa si sviluppa attraverso alcuni passaggi cruciali:
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Socrate ha cercato sempre di persuadere i suoi concittadini sul fatto che la virtù e la sapienza consistono nel
prendersi cura di se stessi prima che dei propri averi e degli aspetti materiali della vita.
Egli ritiene, perciò di non meritare una pena, ma un premio: quello che viene riservato ai vincitori dei giochi
olimpici: essere mantenuto a spese della città nel Pritanèo, l’edificio pubblico che rappresentava il centro
simbolico della polis, sede dei magistrati e di tutte le cerimonie pubbliche.
Socrate sviluppa poi le ragioni per cui rifiuta le diverse possibilità di sfuggire alla morte, di cui non sa dire se
sia bene o male: tutte le alternative, invece gli sembrano mali certi:
o Il carcere non sarebbe certo un bene, costretto al servizio forzato della città;
o Una pena in denaro, forse? Ma denari Socrate dichiara di non averne a sufficienza per pagarla.
o Resterebbe l’esilio, la pena che forse gli ateniesi vorrebbero che lui accettasse; ma dovunque Socrate
vada, i i giovani accorrerebbero ad ascoltarlo come ad Atene, e ci si ritroverebbe nella stessa
situazione
Qualunque altra scelta, l’esilio in particolare, costituirebbe una disobbedienza al dio e alla missione che gli ha
assegnato: in sostanza, per l’uomo il bene maggiore consiste nel «ragionare ogni giorno della virtù e degli altri
argomenti» su cui Socrate ha sempre discusso e fatto ricerche su se stesso e sugli altri, e inoltre «una vita che
non faccia tali ricerche non è degna d’esser vissuta».
D’altra parte è più facile sfuggire alla morte che alla malvagità: chi «in guerra buttasse le armi o si volgesse
supplichevole ai suoi inseguitori» eviterebbe di morire e così, anche in tribunale, se si è disposti a fare e dire
qualunque cosa, senza scrupoli.
Poi rivolgendosi direttamente a coloro che hanno votato per la sua condanna. Socrate predice loro che,
credendo di liberarsi di lui, presto si accorgeranno che non potranno mai liberarsi dal dover rendere conto del
modo non retto di condurre la loro vita: altri ne chiederanno loro conto; ci sarebbe invece un altro modo di
accettare le critiche: «adoperarsi per essere sempre più virtuosi e migliori».
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
Jacques-Louis David, La morte di Socrate, 1787, Princeton University Art Museum, Princeton, NJ
Infine, rivolgendosi a coloro che hanno votato per la sua assoluzione, Socrate affronta il tema di cosa sia la morte e di
nuovo si sofferma sul tema del daimon, su cui torneremo più avanti ( Paragrafo 5):
«Con voi altri invece che votaste la mia assoluzione vorrei ragionare di questo caso che m’è intervenuto; intanto che gli
Undici sono occupati ad altro, e non è anche il momento ch’io vada là dove, una volta entrato, dovrò morire. Restate
dunque con me, o cittadini, per questo poco di tempo. Niente impedisce che si discorra ancora fra noi, finché è lecito. A
voi che mi siete amici desidero dire, quel che m’è capitato oggi, che cosa significa. Perché m’è accaduta, o giudici, chiamando voi giudici credo chiamarvi col vostro giusto nome, - una cosa davvero meravigliosa. Quella mia solita voce
profetica, quella del dèmone, per tutto il tempo passato io la sentivo continuamente e ad ogni occasione; e sempre mi si
opponeva, anche in circostanze di poco conto, solo che fossi per far qualche cosa che non mi riuscisse a bene. Oggi m’è
avvenuto un caso, lo vedete anche da voi, di quelli appunto che si possono giudicare, e la gente giudica, gli estremi dei
mali. Ebbene, né a me stamattina quando uscivo di casa si oppose il segno del dio, né quando salivo qui sul tribunale, e
nemmeno durante la mia difesa, in nessun punto, ogni volta che ripigliavo a parlare. E sì che più volte, in altri discorsi,
mi fermò la parola anche a mezzo. Ora invece, per tutto questo processo, qualunque cosa fossi per fare o dire, non mi
dette cenno mai di nessunissima opposizione. E allora, la cagione di questo silenzio quale devo pensare che sia? Ve la
dirò: questa: che il caso capitatomi oggi ha da essere sicuramente un bene; e certo non pensano dirittamente quanti di
noi ritengono che il morire sia un male. Ho avuto di ciò una grande riprova: non è possibile che il segno consueto non
mi si sarebbe opposto se quel che stava per accadermi non avesse dovuto essere un bene.
Vediamo la cosa anche da questo punto, per quale altra ragione io ho così grande speranza che morire sia un bene. Una
di queste due cose è il morire: o è come un non esser più nulla, e chi è morto non ha più nessun sentimento di nulla; o è
proprio, come dicono alcuni, una specie di mutamento e di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiù a un altro
luogo. Ora, se il morire equivale a non aver più sensazione alcuna, ed è come un sonno quando uno dormendo non vede
più niente neppure in sogno, ha da essere un guadagno meraviglioso la morte. Perché io penso che se uno, dopo aver
come trascelta nella propria memoria tal notte in cui si fosse addormentato così profondamente da non vedere neppur
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
l’ombra di un sogno, e poi, paragonate a questa le altri notti e gli altri giorni di sua vita, dovesse dirci, bene
considerando, quanti giorni e quante notti in tutto il corso della sua vita egli abbia vissuto più felicemente e più
piacevolmente di quella notte; io penso che colui, fosse pure non dico un privato qualunque ma addirittura il Gran Re,
troverebbe assai pochi e facili a noverare codesti giorni e codeste notti in paragone degli altri giorni e delle altre notti.
Se dunque tal cosa è la morte, io dico che è un guadagno; anche perché l’eternità stessa della morte non apparisce
affatto più lunga di un’unica notte. D’altra parte, se la morte è come un mutar sede di qui ad altro luogo, ed è vero quel
che raccontano, che in codesto luogo si ritrovano poi tutti i morti, quale bene ci potrà essere, o giudici, maggiore di
questo? Che se uno, giunto nell’Ade, libero ormai da coloro che si spacciano per giudici qui da noi, troverà là i giudici
veri, quelli appunto che nell’Ade si dice esercitino officio di giudici, e Minos e Radamanti e Eaco e Trittolèmo e quanti
altri fra i semidei furono giusti nella loro vita; sarebbe forse codesto un mutamento di sede spregevole? E ancora, per
starsene insieme con Orfeo e con Musèo, con Omero e con Esiodo, quanto non pagherebbe ciascuno di voi? Io per me
non una volta soltanto vorrei morire, se questo è vero. Che consolazione straordinaria avrei io di tal soggiorno colà,
quando, m’incontrassi con Palamède, e con Aiace figlio di Telamòne, e con tutti quegli altri antichi eroi che ebbero a
morire per ingiusto giudizio; e quale gioia, penso, paragonare i miei casi ai loro! E il piacere più grande sopra tutti
sarebbe di seguitare anche là, come facevo qui, a studiare e a ricercare chi è davvero sapiente e chi solo crede di essere e
non è. Quanto darebbe uno di voi, o giudici, per interrogare e conoscere colui che condusse contro Troia il grande
esercito, oppure Odìsseo, o Sìsifo, e quanti altri innumerevoli si possono ricordare, uomini e donne? Ragionare laggiù
con costoro e viverci insieme e interrogarli, sarebbe davvero il sommo della felicità. Senza dire poi che, per codesto,
non c’è pericolo quelli di là mandino a morte nessuno; essi che, oltre a essere, per altri motivi, più felici di noi, anche
sono ormai per tutta l’eternità immortali, se è vero quel che si dice.
Ebbene, anche voi, o giudici, dovete bene sperare dinanzi alla morte, e aver nell’animo che una cosa è vera, questa, che
a un uomo buono non è possibile accada alcun male, né in vita né in morte; e tutto ciò che accade è ordinato dalla
benevolenza degli dèi. E così anche quello che càpita a me ora non è opera del caso; e anzi vedo chiaramente che per
me ormai morire e liberarmi da ogni pena e fastidio era la cosa migliore. Per questo il segno del dio mai una volta cercò
di farmi piegare dalla mia strada; per questo nessun rancore io ho con coloro che mi votarono contro, né coi miei
accusatori. Sebbene non certo con questa intenzione essi mi condannarono e mi accusarono, ma credendo anzi di farmi
male; e perciò sono degni di biasimo. Ora io a costoro non ho da fare altra preghiera che questa: i miei figlioli, quando
siano fatti grandi, castigateli, o cittadini, cagionando loro gli stessi fastidi che io cagionavo a voi, se a voi sembra si
diano cura delle ricchezze o di beni simili piuttosto che della virtù; e se diano mostra di essere qualche cosa non essendo
nulla, svergognateli, com’io svergognavo voi, che non curino ciò che dovrebbero e credano valer qualche cosa non
valendo nulla. Se così farete, io avrò avuto da voi quel ch’era giusto che avessi: io e i miei figlioli. - Ma ecco che è l’ora
di andare: io a morire, e voi a vivere. Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti fuori che a Dio»
Ora prima di approfondire alcuni temi fondamentali utili per capire a fondo Socrate, soffermiamoci su un passo del
dialogo Critone, in cui i discepoli di Socrate cercano di convincerlo a fuggire in esilio per evitare che la condanna a
morte sia eseguita.
PARAGRAFO 4. SOCRATE DI FRONTE ALLE LEGGI
Il devoto discepolo Critone cerca di convincere Socrate ad evadere con numerosi argomenti: i suoi amici saranno
accusati di non averlo aiutato, figli ed amici soffriranno della sua morte, tutte le difficoltà pratiche sono superabili, la
stessa opinione pubblica è favorevole ad una fuga di Socrate.
Il brano, che è opportuno leggere integralmente contiene le celeberrime considerazioni di Socrate sul commettere
ingiustizia, che è sempre peggio che subirla, ancorché sia commessa per riparare ad un torto subìto.
Il brano culmina nel notevole dialogo tra Socrate e le leggi della città, in cui viene sviluppata la tesi fondamentale
secondo cui si deve sempre obbedire alle leggi e non soltanto quando ci fa comodo. È giusto darsi da fare per cambiarle
se le si ritiene ingiuste, ma finché sono in vigore vanno rispettate.
Ma conviene ora lasciar la parola direttamente al filosofo e gustare questo sublime testo.
«SOCR. O buon Critone, la tua premura è lodevole molto; quando sia accompagnata da retto giudizio: se no, quanto più
grande ella è, tanto più m’è cagione di pena. Bisogna considerare se questo che tu proponi si deve fare oppure no.
Perché io, non ora per la prima volta, ma sempre, sono stato siffatto da non dare ascolto a nessun’altra cosa di me se
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
non alla ragione: a quella, dico, che, ragionando, mi sembri la ragione migliore. E i ragionamenti che ero solito fare nel
tempo passato, non posso ora buttarli via perché m’è capitato questo caso, ma su per giù mi sembrano gli stessi, e
quindi ne ho venerazione e rispetto non meno di prima; e se non sappiamo in questo momento trovare altro di meglio, tu
devi essere persuaso che io non consentirò mai a quello che mi proponi, neanche se la potenza del volgo, che già
m’infligge catene e morte e spoliazione di beni, vorrà farmi paura come si fa ai ragazzi, con lo spauracchio di mali
anche peggiori di questi. Quale sarà dunque il modo migliore di esaminare la cosa? Questo: se anzi tutto riprenderemo il
ragionamento che tu stai facendo intorno alle opinioni, ed esamineremo se s’aveva ragione o no, tutte le volte che se ne
parlava, di dire che ad alcune di queste opinioni bisogna dar mente, ad altre non bisogna. O che forse, prima che io
dovessi morire, si diceva bene, e ora s’è fatto manifesto che allora si diceva così per dire, senza costrutto, e che il nostro
ragionare era in verità un vano gioco da ragazzi? Io desidero vivamente, o Critone, considerare insieme con te se
codesto ragionamento ci sembri in qualche cosa mutato ora che mi trovo in questa condizione, o se è lo stesso; e allora,
o lo saluteremo o gli daremo retta. - Si è sempre detto, mi pare, da coloro che pensano dir qualche cosa, allo stesso
modo che dicevo ora io, che cioè delle opinioni degli uomini alcune sono da tenere in gran conto, altre in nessuno. E
questo, o Critone, non ti pare sia detto bene? Tu sei fuori ora dal pericolo, almeno secondo ogni probabilità umana, di
dover morire domani; e perciò a te non dovrebbe far velo il caso in cui mi trovo io presentemente. Considera dunque.
Non ti pare detto bene che non tutte le opinioni degli uomini bisogna stimare, ma alcune sì, altre no? e nemmeno di tutti
gli uomini, ma di alcuni sì, di altri no? Che dici? Questo non è detto bene? CRIT. È detto bene. SOCR. E dunque, che le
buone opinioni bisogna stimare, le cattive non bisogna? CRIT. Appunto. SOCR. E buone non sono le opinioni degli
uomini di senno, e cattive quelle degli uomini senza senno? CRIT. E come no?
SOCR. Dunque, a partire da quello che insieme s’è convenuto, bisogna vedere se sia giusto che io tenti di uscire di qui
pur contro il volere degli Ateniesi, o se non sia giusto: e, se ci paia giusto, tentiamo pure; altrimenti, lasciamo stare.
Riguardo poi a quelle considerazioni che tu fai e sullo spender denari e su quello che dirà la gente e sul modo di allevare
i figlioli, bada che più veramente, o Critone, codesti non siano i soliti modi di ragionare del volgo, di quei tali, dico, che
con facilità mandano a morte e con la stessa facilità risusciterebbero in vita se ne fossero capaci, e sempre senza
nessuna ragione al mondo. Ma quanto a noi, poiché la ragione vuole così, a niente altro si deve mirare se non a quello
che dicevamo poco fa, se cioè, sborsando denari e obbligandoci di gratitudine a coloro che mi trarranno fuori di qui,
opereremo secondo giustizia: noi, dico, così quelli che mi vogliono trarre, come io che mi lascerei trarre; o se per verità
non commetteremo ingiustizia gli uni e gli altri facendo tutto questo. E se sarà chiaro che così operando si commetta
ingiustizia, allora ricordati che bisogna rimanere fedeli al proprio posto e aspettare con animo tranquillo, e non darsi
pensiero né se si debba morire né se si debba qualunque altro male patire, piuttosto che commettere ingiustizia. CRIT.
Tu ragioni bene, mi sembra, o Socrate; ma vedi che cosa dobbiamo fare. SOCR. Vediamo insieme, carissimo: e se tu
hai qualche cosa da opporre al mio ragionare, opponi, e io ti obbedirò; ma se non hai, cessa allora, beato amico, di
ripetermi sempre lo stesso discorso, che bisogna io venga via di qui, pur contro il volere degli Ateniesi. Perché io faccio
gran conto di comportarmi in questa faccenda con la persuasione tua e non tuo malgrado. Ora vedi dunque se il punto
fondamentale della nostra ricerca ti pare saldo sufficientemente; e prova a rispondere alle mie domande, come meglio tu
credi. CRIT. Sta bene, proverò.
SOCR. In nessun caso diciamo che volontariamente si deve commettere ingiustizia, oppure che in alcun caso si può e in
altro non si può? o diciamo addirittura che il commettere ingiustizia non è mai né buono né bello, come già più volte
anche nel tempo passato riconoscemmo [e come si diceva anche poco fa]? Oppure tutti quei nostri ragionamenti nei
quali allora eravamo d’accordo, si sono in questi pochi giorni rovesciati e dileguati; e dunque, per tanto tempo che
siamo stati a discutere fra noi con tanta serietà, non ci è mai capitato di accorgerci, così vecchi, o Critone, come siamo,
che codesto dibattere non differiva minimamente da un vano gioco di ragazzi? O piuttosto la cosa sta così come si
diceva allora, sia che i più ne convengano sia che non ne convengano, e sia che s’abbiano da patir mali anche più gravi
di questi o anche meno gravi; e che, insomma, nonostante tutto, il fare ingiustizia è, per chi fa ingiustizia, cosa brutta e
turpe in ogni caso? Diciamo così o no? CRIT. Diciamo così. SOCR. Per nessuna ragione dunque si deve fare
ingiustizia. CRIT. Per nessuna ragione. SOCR. E dunque, neanche se ingiustizia ci è fatta, si deve rendere ingiustizia,
come pensano i più, poiché è stabilito che mai per nessuna ragione si ha da fare ingiustizia. CRIT. Così pare. SOCR. E
ancora, far male altrui, o Critone, si deve o non si deve? CRIT. Certo non si deve, o Socrate. SOCR. E ancora, render
male chi male abbia sofferto, come dicono i più, è giusto o non è giusto? CRIT. No affatto. SOCR. Perché far male
altrui, diciamo pure, non differisce niente dal fare ingiustizia. CRIT. Tu dici bene. SOCR. Dunque, né si deve rendere
ingiustizia né far male ad alcuno degli uomini, neanche chi abbia qualsivoglia male patito da costoro. E tu sta bene
attento o Critone se dici di essere d’accordo con me in tutto questo, che tu non lo dica contro la tua stessa opinione.
41
Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
Perché io so bene che ad alcuni pochi soltanto questi princìpi sembrano e sembreranno giusti. Ora, tra quelli che si sono
fissi in una opinione di questo genere e quelli che no, non è possibile deliberare nulla in comune; e anzi non potranno
fare a meno costoro che disprezzarsi a vicenda, vedendo gli uni le contrarie deliberazioni degli altri. E però, dico,
considera anche tu molto attentamente se proprio sei d’accordo con me e hai la medesima opinione mia; e allora
cominciamo pure a deliberare movendo da questo punto, che cioè non è mai cosa retta né fare ingiustizia né rendere
ingiustizia, né, chi soffra male, vendicarsi restituendo male. Oppure ti scosti da me e insomma non partecipi di questo
punto? Perché io, come già da tempo ero di questa opinione, così anche ora; ma se tu hai opinione diversa, parla e
istruiscimi. Se poi rimani fermo in quello che s’è detto prima, allora ascolta quello che ne consegue. CRIT. Resto fermo
a quel che s’è detto e sono d’accordo con te. E dunque parla. SOCR. E allora ti dirò quello che ne consegue: o meglio, ti
farò delle domande. Dimmi: se uno si trovi d’accordo con un altro nel riconoscere che una cosa è giusta, questa cosa
colui la deve fare, o deve cercare di eludere l’altro e non farla? CRIT. La deve fare.
SOCR. Muovi dunque di qui e drizza bene la mente. Se io me ne vado via da questo carcere contro il volere della città,
faccio io male a qualcuno, e precisamente a chi meno si dovrebbe, o no? Ancora: restiamo fermi in quei princìpi che
riconoscemmo insieme essere giusti, o no? CRIT. Non so rispondere, o Socrate, alla tua domanda, perché non capisco.
SOCR. Bene: considera la cosa da questo lato. Se, mentre noi siamo sul punto... sì, di svignarcela di qui, o come
altrimenti tu voglia dire, ci venissero incontro le leggi e la città tutta quanta, e ci si fermassero innanzi e ci
domandassero: “Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? non mediti forse, con codesta azione a cui ti accingi, di
distruggere noi, cioè le leggi, e con noi tutta insieme la città, per quanto sta in te? o credi possa vivere tuttavia e non
essere sovvertita da cima a fondo quella città in cui le sentenze pronunciate non hanno valore, e anzi, da privati
cittadini, sono fatte vane e distrutte?”, - che cosa risponderemo noi, o Critone, a queste e ad altre simili parole? Perché
molte se ne potrebbero dire, massimamente se uno è oratore, in difesa di questa legge che noi avremmo violata, la quale
esige che le sentenze una volta pronunciate abbiano esecuzione. O forse risponderemo loro che la città commise contro
noi ingiustizia e non sentenziò rettamente? Questo risponderemo, o che altro? CRIT. Questo, sicuramente, o Socrate.
SOCR. E allora, che cosa risponderemmo se le leggi seguitassero così: “O Socrate, che forse anche in questo ci si trovò
d’accordo, tu e noi; o non piuttosto che bisogna sottostare alle sentenze, quali elle siano, che la città pronuncia?”. E se
noi ci meravigliassimo di codesto loro parlare, elle forse riprenderebbero così: “O Socrate, non meravigliarti del nostro
parlare, ma rispondi: sei pur uso anche tu a valerti di questo mezzo, di domandare e rispondere. Di’, dunque, che cosa
hai da reclamare tu contro di noi e contro la città, che stai tentando di darci la morte? E anzi tutto, non fummo noi che ti
demmo la vita, e per mezzo nostro tuo padre prese in moglie tua madre e ti generò? Parla dunque: credi forse non siano
buone leggi quelle di noi che regolano i matrimoni, e hai da rimproverare loro qualche cosa?”. – “Non ho nulla da
rimproverare”, risponderei io. “E allora, a quelle di noi che regolano l’allevamento e la educazione dei figli, onde fosti
anche tu allevato e educato, hai rimproveri da fare? che forse non facevano bene, quelle di noi che sono ordinate a
questo fine prescrivendo a tuo padre che ti educasse nella musica e nella ginnastica?”. – “Bene”, direi io. “E sia. Ma ora
che sei nato, che sei stato allevato, che sei stato educato, potresti tu dire che non sei figliolo nostro e un nostro servo e tu
e tutti quanti i progenitori tuoi? E se questo è così, pensi tu forse che ci sia un diritto da pari a pari fra te e noi, e che, se
alcuna cosa noi tentiamo di fare contro di te, abbia il diritto anche tu di fare altrettanto contro di noi? O che forse,
mentre di fronte al padre tu riconoscevi di non avere un diritto da pari a pari; e così di fronte al padrone se ne avevi uno;
il diritto, dico, se alcun male pativi da costoro, di ricambiarli con altrettanto male; e nemmeno se oltraggiato di
oltraggiarli, e se percosso percuoterli, né altro, di questo genere: ecco che invece, di fronte alla patria e di fronte alle
leggi, questo diritto ti sarà lecito; cosicché, se noi tentiamo di mandare a morte te, reputando che ciò sia giusto, tenterai
anche tu con ogni tuo potere di mandare a morte noi che siamo le leggi e la patria, e dirai che ciò facendo operi il giusto,
tu, il vero e schietto zelatore della virtù? O sei così sapiente da avere dimenticato che più della madre e più del padre e
più degli altri progenitori presi tutti insieme è da onorare la patria, e che ella è più di costoro venerabile e santa, e in più
augusto luogo collocata da dèi e da uomini di senno? e che la patria si deve rispettare, e più del padre si deve obbedire e
adorare, anche nelle sue collere; e che, o si deve persuaderla o s’ha da fare ciò che ella ordina di fare, e soffrire se ella ci
ordina di soffrire, con cuore silenzioso e tranquillo, e lasciarci percuotere se ella ci vuole percuotere, e lasciarci
incatenare se ella ci vuole incatenare, e se ci spinge alla guerra per essere feriti o per essere uccisi, anche questo bisogna
fare, poiché questo è il giusto; e non bisogna sottrarsi alla milizia, e non bisogna indietreggiare davanti al nemico, e non
bisogna abbandonare il proprio posto, ma sempre, e in guerra e nel tribunale e dovunque, bisogna fare ciò che la patria e
la città comandano, o almeno persuaderla da che parte è il giusto; ma far violenza non è cosa santa, né contro la madre
né contro il padre, e molto meno ancora contro la patria?”. Che cosa risponderemo noi, o Critone, a queste parole? che
le leggi dicono il vero o no? CRIT. A me sembra che le leggi dicano il vero.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
SOCR. “E ora vedi, o Socrate”, potrebbero seguitare le leggi, “se è vero questo che noi diciamo, che cioè non è giusto
tu faccia contro di noi quello che ora appunto hai in animo di fare. Perché noi che ti generammo, noi che ti allevammo,
noi che ti educammo, noi che ti mettemmo a parte di tutti quei beni che erano in nostro potere, e te e tutti gli altri
concittadini; noi, dico, nonostante ciò, ti abbiamo pur anche fatto capire in tempo, col darne licenza a chiunque degli
Ateniesi lo desideri, dopo che sia stato inscritto nel ruolo dei cittadini e già conosca il governo della città e le sue leggi,
che se a taluno queste leggi non piacciono è libero di prender seco le cose sue e di andarsene dove vuole. E a questo
nessuna di noi frappone ostacoli; né a chiunque dei cittadini voglia recarsi, per fastidio di noi e della città, in qualcuna
delle nostre colonie, o voglia addirittura andar a vivere altrove in paese forestiero, nessuna di noi gli impedisce di
andare dove gli piaccia e portar seco tutte le cose sue. Ma chi di voi rimane qui, e vede in che modo noi amministriamo
la giustizia e come ci comportiamo nel resto della pubblica amministrazione, allora diciamo che costui si è di fatto
obbligato rispetto a noi a fare ciò che noi gli ordiniamo; e se egli non obbedisce, diciamo che commette ingiustizia
contro noi in tre modi: primo, perché non obbedisce a noi che lo abbiamo generato; secondo, perché non obbedisce a
noi che lo abbiamo allevato; terzo, perché essendosi egli obbligato a obbedirci, né ci obbedisce né si adopra, caso che
facciamo alcuna cosa non bene, di persuaderci altrimenti, nonostante che noi, quello che gli diciamo di fare, gli si
proponga benevolmente, e non già duramente gli s’imponga; che anzi, mentre noi gli lasciamo libertà di scegliere delle
due cose l’una, o di persuaderci o di fare quello che gli diciamo, egli non fa né l’una cosa né l’altra. Queste sono le
accuse alle quali anche tu, o Socrate, ti troverai esposto se farai quello che hai in mente; e non meno tu degli altri
Ateniesi, ma assai più, anzi, di tutti gli altri.”
E se io allora chiedessi: “E perché questo?”, - giustamente, credo, le leggi mi darebbero addosso, ricordandomi che
proprio io più di tutti gli altri Ateniesi mi sono trovato d’accordo con loro nell’accettazione dei patti stabiliti. E di fatti
mi potrebbero dire così: “O Socrate, grandi prove noi abbiamo di questo, che a te non eravamo sgradite, né noi né la
città: ché tu non avresti, più di tutti gli altri Ateniesi, in questa città dimorato, se a te, più che a tutti gli altri senza
paragone, questa città non fosse piaciuta; né mai uscisti dalla città per partecipare a cerimonie solenni se non una volta
che andasti all’Istmo; né mai ti recasti in altro luogo, se non per qualche spedizione militare; né mai facesti viaggio in
paese straniero, come pur fanno gli altri uomini; e nemmeno ti prese mai desiderio di vedere altra città o di conoscere
altre leggi, perché eravamo tutto per te noi e la città nostra: così fortemente ci prediligevi, e avevi accettato di vivere
qui, sotto la nostra disciplina, la tua vita di cittadino; e qui appunto esercitasti tutti i tuoi diritti civili, e qui anche
generasti i tuoi figlioli, prova sicura che la città ti piaceva. Oltre a ciò t’era lecito, nel corso stesso del processo,
condannarti da te all’esilio, se volevi; e ciò che mediti ora di fare contro il consenso della città, potevi allora farlo col
suo consenso. Ma tu allora facevi il bello che non t’incresceva di dover morire, e anzi preferivi, come dicevi, all’esilio
la morte. Ed ecco che ora né senti vergogna di quelle tue parole, né di noi leggi ti curi, e tenti distruggerci, e fai quello
che farebbe il più vile dei servi, tentando di svignartela contro ai patti e agli accordi secondo i quali avevi pur convenuto
con noi di regolare la tua vita di cittadino. Innanzi tutto, dunque, rispondi a noi su questo: Diciamo o non diciamo la
verità quando affermiamo che tu, realmente e non a parole, avevi convenuto di regolare secondo noi la tua vita di
cittadino?”. - Che cosa dobbiamo rispondere a queste parole, o Critone? Non dovremo consentire che le leggi dicono la
verità? CRIT. Necessariamente, o Socrate. SOCR. “O allora”, potrebbero seguitare le leggi, “che altro fai tu se non
trasgredire ai patti e agli accordi che avevi con noi? Né questi patti tu avevi concordato con noi perché forzato da
necessità o perché fuorviato da inganno; e neanche perché costretto a risolvere in breve tempo, ma in uno spazio di
settanta anni, nei quali saresti stato pur libero di andartene se noi non ti piacevamo e se i patti concordati non ti
parevano giusti. E tu invece non preferivi né Lacedèmone né Creta, le quali dici pure ogni momento che sono rette da
buone leggi, né alcun’altra città ellenica o forestiera; che anzi tu sei sempre uscito meno volte da questa città che non gli
zoppi e i ciechi e gli altri storpi, tanto questa città ti era cara più che a tutti gli altri Ateniesi; e quindi, si capisce, anche
noi, le leggi, perché a chi potrebbe essere cara una città senza leggi? E tu dunque, ora, non vuoi restar fedele ai patti? Sì,
purché tu resti obbediente a noi, o Socrate; e non vorrai tirarti addosso il ridicolo scappando dalla città”».
PARAGRAFO 5. IL DAIMON E LA RELIGIOSITÀ SOCRATICA
Il démone socratico è stato oggetto di numerose discussioni e forse una delle cause che hanno contribuito a formulare
contro di lui l’accusa di introdurre nuove divinità. Il daimon nella mitologia greca era una sorta di intermediario tra gli
dèi e gli uomini. Socrate ne parlava come di una voce interiore che non gli suggeriva mai che cosa fare, pensare o dire,
ma interveniva soltanto per convincerlo a non mettere in atto un certo comportamento, a non commettere ingiustizia o
altri errori di natura morale.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 6
Per comprenderne pienamente il senso, bisogna tener conto del fatto che Socrate è uno scopritore dell’anima, intesa
come la più profonda natura dell’uomo. Per Socrate divenire migliori è possibile solo conoscendo e migliorando la
propria anima.
Al di là di tutte le possibili interpretazioni che ne sono state date, perciò, si potrebbe ritenere che Socrate si inserisca
sulla stessa linea delle concezioni orfico-pitagoriche, che attribuivano all’anima (o psyché) la natura di un daimon. In
questo senso, allora, la soluzione il dèmone socratico non è altri che lui stesso, la sua più autentica personalità, la sua
autentica natura spirituale.
Lo confermerebbe il fatto che il daimon è una voce che, ogni volta che si fa sentire, sempre dissuade Socrate da ciò che
sta per fare, e non lo persuade mai ad agire. Questa descrizione è perfettamente consona alla personalità filosofica di
Socrate, che come abbiamo sempre sottolineato, è il ricercatore non il persuasore, colui che sa di non sapere e
desiderare ricercare, non colui che vuole insegnare qualcosa agli altri. Così come La sua filosofia è soprattutto una
costante critica a tutte le forme di sapere, o presunto tale, che si appagano di sé, che si sentono indiscutibili: potremmo
dire che è più facile dire ciò che è falso che non quello che è definitivamente vero. Allo stesso modo il daimon socratico
sa sempre meglio cosa non si deve fare, piuttosto che quel che va assolutamente fatto.
Quanto all’altro tema, quello della religiosità di Socrate, nel dibattito filosofico si sono delineate varie posizioni, alcune
delle quali fanno del grande cittadino ateniese una sorta di precursore del Cristianesimo. Si può intendere questo modo
di vedere in un senso molto lato.
È indiscutibile che Socrate coltivasse una forma di religiosità, che ne faceva un erede della tradizione orfico-pitagorica,
della cultura sacerdotale del tempio, che risaliva ai grandi sapienti cultori dell’anima, come Eraclito, Parmenide,
Empedocle ( Sezione 1 Unità 1). Era inoltre profondamente rispettoso, come testimoniano tutte le fonti, della
religione tradizionale, che svolgeva una funzione sociale, civile e politica molto importante.
Indubbiamente, il nuovo contesto storico-culturale in cui Socrate agiva, dominato dalla cultura sofistica e democratica,
ne faceva uno spirito critico,scomodo.
Ma Socrate agiva in vista di un profondo rinnovamento sociale, culturale e soprattutto etico che lo conduceva a
riproporre anche il problema della religione in un’ampia visione complessiva, che sarà poi sviluppata da Platone.
L’ultimo passo dell’Apologia è esemplare in questo senso. Socrate, infatti, riflette sul tema della vita e della morte e
comincia a delineare una sorta di escatologia, o concezione dei tempi ultimi (dei destini ultraterreni dell’anima).
Socrate si muove sul terreno delle ipotesi. Il morire, infatti può essere una di queste due cose:
 O «un non esser più nulla, e chi è morto non ha più nessun sentimento di nulla»; in tal caso, la morte è come un
sonno nel quale dormendo non si vede più niente neppure in sogno, e allora «ha da essere un guadagno
meraviglioso la morte».
 O, «come dicono alcuni, una specie di mutamento e di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiù a un
altro luogo». In questo secondo caso, se è vero quel che raccontano, che in codesto luogo si ritrovano poi tutti i
morti, questo sarà sicuramente il bene più grande che si possa immaginare: incontrare Orfeo e Musèo, Omero e
Esiodo, Palamede e Aiace Telamonio sarebbe un grande piacere e la massima felicità consisterebbe nel
«ragionare laggiù con costoro e viverci insieme e interrogarli.
Qui si vede bene come in Socrate si congiungano il nuovo spirito critico e razionalistico, che esamina ipotesi, coltiva
dubbi, rifiuta le certezze assolute, e l’antica tradizione orfico-pitagorica che crede nella divinità dell’anima.
L’originalità di Socrate consiste anche nella capacità di trasfigurare tale tradizione e di immaginare un luogo in cui le
grandi anime, divenute immortali, si ritrovano e continuano a coltivare l’amore per la ricerca e la conoscenza in una
conversazione infinita ed eterna.
In questo senso, Socrate si conferma uomo e filosofo del dialogo e della maieutica, come lo sarà Platone ( Percorso
7).
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 7
PERCORSO TEMATICO 7. PLATONE: LE DOTTRINE NON
SCRITTE
PREREQUISITI
[ Conoscere i contenuti della Sezione 1, Unità 3 – Aver compreso i concetti fondamentali della
ricerca filosofica platonica ]
OBIETTIVI
[ Approfondire la conoscenza delle dottrine platoniche – Approfondire la conoscenza e la
comprensione della ricerca filosofica platonica nell’ultima fase del suo pensiero ]
PARAGRAFO 1. LA QUESTIONE DELLE DOTTRINE NON SCRITTE
Come abbiamo visto nel Modulo-base ( Sezione 1, Unità 3, Capitolo 3) Platone, che fu sempre un ricercatore
instancabile, mai dogmatico, nell’ultima fase della sua produzione filosofica sottopose a revisione, integrazione,
adattamento e modifica tutte le sue dottrine precedenti, conducendo lo sviluppo della filosofia ad un’ampiezza di temi e
problemi mai raggiunta prima e, per certi aspetti, forse ineguagliabile.
In particolare, in questa fase si attribuisce una certa importanza, da parte di alcuni studiosi alle cosiddette «dottrine non
scritte», sulla base di certi passi del Fedro e della Lettera VII di Platone, oltre che della testimonianza di Aristotele.
Abbiamo già fatto riferimento al passo del Fedro (LIX-LX-LXI  Sezione 1, Unità 3, Capitolo 2 Paragrafo 3) in cui
Platone affronta la questione del rapporto tra l’oralità e la scrittura.
Ora lo possiamo rileggere nella sua interezza:
«SOCR. Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello
chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per
non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Re dell’intero paese era a quel
tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è
Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli
Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che
gli sembrava negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti
argomenti da dire a Theuth sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero all’alfabeto:
“Questa scienza, o re - disse Theuth - renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa
scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”. E il re rispose: “O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza
creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno.
E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché
esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello
scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò
che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi
scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento,
crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere,
imbottiti di opinioni invece che sapienti”. FEDR. O Socrate, ti è facile inventare racconti egiziani e di qualunque altro
paese ti piaccia! SOCR. Oh! ma i preti del tempio di Zeus a Dodona, mio caro, dicevano che le prime rivelazioni
profetiche erano uscite da una quercia. Alla gente di quei giorni, che non era sapiente come voi giovani, bastava nella
loro ingenuità udire ciò che diceva “la quercia e la pietra”, purché dicesse il vero. Per te invece fa differenza chi è che
parla e da qual paese viene: tu non ti accontenti di esaminare semplicemente se ciò che dice è vero o falso. FEDR. Fai
bene a darmi addosso; anch’io son del parere che riguardo l’alfabeto le cose stiano come dice il Tebano.
SOCR. Dunque chi crede di poter tramandare un’arte affidandola all’alfabeto e chi a sua volta l’accoglie supponendo
che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve essere pieno d’una grande ingenuità, e deve
ignorare assolutamente la profezia di Ammone se s’immagina che le parole scritte siano qualcosa di più del rinfrescare
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 7
la memoria a chi sa le cose di cui tratta lo scritto. FEDR. È giustissimo. SOCR. Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in
una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se
vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte:
crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa
di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni
discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga
parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché
esso da solo non può difendersi né aiutarsi. FEDR. Ancora hai perfettamente ragione. SOCR. E che? Vogliamo noi
considerare un’altra specie di discorso, fratello di questo scritto, ma legittimo, e vedere in che modo nasce e di quanto è
migliore e più efficace dell’altro? FEDR. Che discorso intendi e qual è la sua origine? SOCR. Il discorso che è scritto
con la scienza nell’anima di chi impara: questo può difendere se stesso, e sa a chi gli convenga parlare e a chi tacere.
FEDR. Intendi tu il discorso di chi sa, vivente e animato e del quale quello che è scritto potrebbe dirsi giustamente
un’immagine?
SOCR. Sì, proprio questo. Ed ora dimmi. - Forse il contadino giudizioso che avesse alcuni semi che gli stanno a cuore e
da cui volesse dei frutti, li seminerebbe con tutta serietà in estate, nei “giardini d’Adone” e sarebbe lieto attendendosi i
bei frutti in otto giorni? O piuttosto non lo farà per gioco e per solennizzare la festa, ammesso pure che lo faccia?
Mentre per i semi per i quali ha davvero serie intenzioni li seminerà nel terreno adatto servendosi della tecnica agricola,
e si rallegrerà se quanti ne ha seminati verranno a maturazione in otto mesi? FEDR. Ma certo così, o Socrate; e nel
secondo caso lo farà con intenzioni serie, nel primo caso no, come dici tu. SOCR. E diremo ora che chi ha la
conoscenza del bello e del giusto è meno giudizioso, riguardo le sue sementi, del contadino? FEDR. Assolutamente no.
SOCR. Allora non le scriverà con intenzioni serie nell’acqua nera, seminandole mediante la penna con parole che non
possano parlare a propria difesa, né possono insegnare in modo sufficiente il vero. FEDR. Non è certo probabile che le
scriva. SOCR. No, non lo è. Ma egli spargerà le sue sementi nei giardini letterari, io credo, e scriverà, quando scriva,
solo per gioco, al fine di raccogliere un tesoro di ricordi per suo uso, contro la “vecchiaia che porta oblio” quando essa
giunga, e per uso di chiunque si metta sulla stessa orma; e gioirà mirando i teneri germogli rinverdire. E quando gli altri
si daranno a divertimenti diversi, affogandosi nei banchetti e in quant’altre gioie che s’accompagnano a questi, lui,
invece, probabilmente vivrà degli svaghi che io dico. FEDR. Bellissimo svago descrivi, o Socrate, di fronte agli altri
sciocchi, lo svago di potersi dilettare delle parole, fantasticando discorsi sulla giustizia e su le altre virtù che tu dici!
SOCR. Mio caro Fedro, è proprio così. Ma molto più bello, io penso, è occuparsene seriamente quando usando l’arte
della dialettica e prendendo un’anima congeniale vi si piantano e vi si seminano parole con scientifica consapevolezza.
Le quali sono sempre in grado di venire in aiuto a se stesse e a coloro che le hanno seminate e non sono sterili; ma
poiché racchiudono in sé un germe da cui nuove parole germogliano in altre indoli esse sono capaci di rendere questo
seme immortale, e rendono beato chi lo possiede, quanto può esserlo un umano FEDR. Oh! Il modo che dici è molto più
bello!».
Il Fedro: la filosofia e la vita. Come si vede, il ragionamento svolto da Platone per bocca di Socrate (che a sua
volta lo riferisce in parte al faraone Thamus) si sviluppa con rigorosa consequenzialità:
1) L’alfabeto e la scrittura non rafforzano la memoria, ma forniscono solo un mezzo per richiamare alla mente
cose che già si sanno;
2) Essi rischiano piuttosto di generare oblio negli allievi, i quali fidandosi dello scritto, le cose alla mente non più
dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei non eserciteranno più la memoria;
3) Essi non accrescono la sapienza degli uomini, ma solo l’apparenza del sapere: gli allievi, potendo avere notizie
di molte cose senza insegnamento, crederanno d’essere molto sapienti, mentre saranno solo «imbottiti di
opinioni»;
4) La scrittura è in una condizione simile a quella della pittura: i dipinti ci stanno davanti come se vivessero; ma
se li interroghi, tengono un maestoso silenzio; allo stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che
potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò
che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa;
5) Inoltre, un discorso scritto arriva alle mani di tutti, tanto di chi lo capisce tanto di chi non lo comprenderebbe
mai e non sa a chi gli convenga parlare e a chi no; perciò, un discorso scritto ha sempre bisogno che il suo
autore gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi;
46
Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 7
6) Lo scritto è inanimato e non è capace di parlare in modo attivo: esso, inoltre è incapace di aiutarsi a difendersi
da solo contro le critiche, ma richiede sempre l’intervento attivo del suo autore;
7) Al contrario, il discorso orale, vivente e animato, è scritto con la scienza nell’anima di chi impara: questo può
difendere se stesso, e sa a chi gli convenga parlare e a chi tacere; il discorso scritto ne è solo un’immagine;
8) Il sapiente scrive solo per gioco, per conservare un tesoro di ricordi per suo uso, contro la “vecchiaia che porta
oblio”, e per l’uso di chiunque si metta sulla stessa orma;
9) Molto più bello per un sapiente è occuparsi seriamente della ricerca, usando l’arte dell’oralità e della dialettica
e, dialogando con un’anima congeniale, si opera con scientifica consapevolezza;
10) Nel dialogo, le parole sono sempre in grado di venire in aiuto a se stesse e a coloro che le hanno «seminate» e
non sono sterili; anzi, poiché racchiudono in sé un germe da cui nuove parole germogliano in altre indoli, esse
sono capaci di rendere questo seme immortale, e rendono beato chi lo possiede, quanto può esserlo un umano.
È chiaro, dunque, che come Platone stesso ci invita a fare, bisogna considerare che il vero e più serio lavoro del
filosofo, che ricerca la conoscenza di sé e di tutte le cose, consiste nel dialogo orale e non nelle opere scritte. Esse hanno
solo una funzione sussidiaria, di supporto alla memoria, ma non esaustiva. La filosofia per Platone è soprattutto vivente
e animata discussione e possibilità di far germogliare parole, reciprocamente, nell’anima dei nostri interlocutori.
Questo ci permette di stabilire che la continuità metodologica tra Socrate e il suo allievo Platone sia maggiore di quanto
non si creda. Il riferimento alla serietà del dialogo, rispetto al gioco dello scritto, e all’opera maieutica del sapiente, che
pianta e semina parole in un’anima congeniale, sono segnali molto forti della volontà di Platone di proseguire la ricerca
socratica anche con gli stessi mezzi e metodi usati dal maestro (oltre che con altri, con funzione integrativa: gli scritti).
Ciò che le opere scritte non dicono. Nella Lettera VII Platone non solo ribadisce il concetto ma aggiunge un
importante elemento. Leggiamo:
«Questo tuttavia io posso dire di tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui io mi occupo
per averlo sentito esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscono nulla, a mio giudizio, di
queste cose. Su di esse non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto. Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa
non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima
dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima. Questo
tuttavia io so, che, se ne scrivessi o ne parlassi io stesso, queste cose le direi così come nessun altro saprebbe, e so anche
che se fossero scritte male, molto me ne affliggerei. Se invece credessi che si dovessero scrivere e render note ai più in
modo adeguato e si potessero comunicare, che cosa avrei potuto fare di più bello nella mia vita, che scriver queste cose
utilissime per gli uomini, traendo alla luce per tutti la natura? Ma io non penso che tale occupazione, come si dice, sia
giovevole a tutti; giova soltanto a quei pochi che da soli, dopo qualche indicazione, possono progredire fino in fondo
alla ricerca: gli altri ne trarrebbero soltanto un ingiustificato disprezzo o una sciocca e superba presunzione, quasi
avessero appreso qualche cosa di augusto. Ma di questo voglio parlare ancora e più a lungo, e forse, dopo che avrò
parlato, qualcuna delle cose che dico riuscirà più chiara. V’è infatti una ragione profonda, che sconsiglia di scrivere
anche su uno solo di questi argomenti, ragione che io ho già dichiarata più volte, ma che mi sembra opportuno ripetere.
[…]
E dunque, nel caso in cui per una cattiva educazione non siamo neppure abituati a ricercare il vero e ci accontentiamo
delle immagini che ci si offrono, non ci rendiamo ridicoli gli uni di fronte agli altri, gli interrogati di fronte agli
interroganti, capaci di disperdere e confutare i quattro [elementi della realtà: il nome, la definizione, l’immagine e la
conoscenza]; ma quando vogliamo costringere uno a rispondere e a rivelare il quinto [elemento: l’oggetto in sé], uno
che sia esperto nell’arte di confutare può, quando lo voglia, avere la vittoria, e far apparire alla gran parte dei presenti
che chi espone un pensiero o con discorsi o per iscritto o in discussioni, non sa alcunché di quello che dice o scrive; e
questo avviene appunto perché quelli che ascoltano ignorano talvolta che non è l’anima di chi scrive o parla che viene
confutata, ma la imperfetta natura di ciascuno dei quattro [elementi]. Solo trascorrendo continuamente tra tutti questi,
salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la conoscenza di
ciò che a sua volta ha buona natura. Se invece uno non ha una natura buona, come avviene per la maggior parte degli
uomini, privi d’una naturale disposizione ad apprendere e incapaci di vivere secondo i cosiddetti buoni costumi, e questi
sono corrotti, neppure Linceo potrebbe dar la vista a gente come questa. In una parola, chi non ha natura congenere alla
cosa, né la capacità d’apprendere né la memoria potrebbero renderlo tale (ché questo non può assolutamente avvenire in
47
Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 7
nature non affini); perciò quanti non sono affini e congeneri alle cose giuste e alle altre cose belle non giungeranno a
conoscere, per quanto è possibile, tutta la verità sulla virtù e sulla colpa, anche se abbiano capacità d’apprendere e
buona memoria, chi per questa e chi per quella cosa, né la conosceranno quelli che, pur avendo tale natura, mancano di
capacità d’apprendere e di buona memoria. Infatti, insieme si apprendono queste cose, e la verità e la menzogna
dell’intera sostanza, dopo gran tempo e con molta fatica, come ho detto in principio; allora a stento, mentre che ciascun
elemento (nomi, definizioni, immagini visive e percezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità,
viene analizzato con gli altri, avviene che l’intuizione e l’intellezione di ciascuno brillino a chi compie tutti gli sforzi
che può fare un uomo. Perciò, chi è serio, si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle all’odio e
all’ignoranza degli uomini. Da tutto questo si deve concludere, in una parola, che, quando si legge lo scritto di
qualcuno, siano leggi di legislatore o scritti d’altro genere, se l’autore è davvero un uomo, le cose scritte non erano per
lui le cose più serie, perché queste egli le serba riposte nella parte più bella che ha; mentre, se egli mette per iscritto
proprio quello che ritiene il suo pensiero più profondo, “allora, sicuramente”, non certo gli dèi, ma i mortali “gli hanno
tolto il senno”».
Vediamo i punti fondamentali della testimonianza di Platone. Ne deriva, come vedremo, che la questione dell’oralità
non concerne solo il metodo ma gli stessi contenuti della sua filosofia.
1. Innanzitutto, riguardo a ciò di cui si occupa nelle proprie ricerche Platone sostiene che «su di esse non c’è, né
vi sarà, alcun [proprio] scritto»: il che dovrebbe significare che nei dialoghi platonici, cioè nelle sue opere
scritte, non si può trovare il più autentico contenuto del suo pensiero.
2. Subito dopo ne viene data la motivazione: la sua attività filosofica non è una scienza come le altre, poiché essa
non si può in alcun modo comunicare; al contrario essa può nascere spontaneamente all’improvviso («come
fiamma s’accende da fuoco che balza») nell’anima «dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una
vita vissuta in comune», ed inoltre si nutre di se medesima; insomma, la filosofia è innanzitutto discussione,
dialogo, dibattito, ricerca e persino vita in comune; non è invece trascrizione scritta di risultati di
un’elaborazione personale, come finisce per apparire un testo scritto.
3. Inoltre c’è una ragione ancora più profonda, che sconsiglia di scrivere anche su uno solo di questi argomenti:
anche questa è una frase fondamentale, poiché esclude decisamente che sulle vere questioni decisive della
ricerca filosofica non si possa scrivere nulla.
4. «Solo trascorrendo continuamente tra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si
ha buona natura, generare a gran fatica la conoscenza di ciò che a sua volta ha buona natura»: la ricerca
filosofica richiede grande impegno, costanza e pazienza, continuo riesame delle questioni e un’indole adatta a
tutto questo.
5. Bis0gna poi aggiungere che tutte queste conoscenze si apprendono insieme, con impegno sviluppato nel
tempo, discutendo con atteggiamento di comprensione e di accettazione delle opinioni altrui, analizzando tutti i
problemi in comune; solo allora può accadere che si accenda una luce nell’anima e nell’intelletto di qualcuno
che abbia fatto tutti gli sforzi di cui è capace un uomo.
6. Per tutte queste ragioni, «chi è serio, si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle all’odio e
all’ignoranza degli uomini», cioè di tutti coloro che non hanno condiviso il tempo, l’impegno, lo sforzo, la
ricerca e la discussione libera, aperta, non dogmatica, che conduce all’analisi ampia e accurata di tutte le
questioni.
7. Da tutto questo si deve concludere, in sintesi, che, quando si legge lo scritto di qualcuno, siano leggi di
legislatore o scritti d’altro genere, se l’autore è davvero un uomo, le cose scritte non erano per lui le cose più
serie, perché queste egli le serba riposte nell’anima; mentre, se egli mette per iscritto proprio quello che ritiene
il suo pensiero più profondo, ciò significa che ha perso il senno.
Come si vede, Platone in sostanza ribadisce più volte il concetto che il vero contenuto delle sue ricerche non si trova
nelle sue opere scritte.
PARAGRAFO 2. L’INTERPRETAZIONE DELLE DOTTRINE NON SCRITTE
La testimonianza di Aristotele. Passiamo ora ad esaminare l’importante testimonianza di Aristotele, che di
48
Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 7
Platone è stato allievo ed è dunque testimone diretto della elaborazione delle «dottrine non scritte». Nel suo passo si
parla esplicitamente dei contenuti delle dottrine non scritte, cui Platone non accennò mai espressamente.
«Dopo le filosofie di cui si è detto, sorse la dottrina di Platone, la quale, in molti punti, segue quella dei Pitagorici, ma
presenta anche caratteri propri. Platone, infatti, essendo stato fin da giovane amico di Cratilo, e seguace delle dottrine
eraclitee, secondo le quali tutte le cose sensibili sono in continuo flusso e di esse non è possibile scienza, mantenne
queste convinzioni anche in seguito. D’altra parte, Socrate si occupava di questioni etiche e non della natura nella sua
totalità, ma nell’ambito di quelle ricercava l’universale, avendo per primo fissato la sua attenzione sulle definizioni.
Orbene, Platone accettò questa dottrina socratica, ma credette, a causa di quella convinzione che aveva accolta dagli
eraclitei, che le definizioni si riferissero ad altre realtà e non alle realtà sensibili:infatti, egli riteneva impossibile che la
definizione universale si riferisse a qualcuno degli oggetti sensibili, perché soggetti a continuo mutamento. Egli, allora,
denominò codeste realtà Essenze [o Forme sostanziali delle cose, o Idee], e affermò che i sensibili esistono accanto ad
esse e che vengono tutti denominati in base ad esse; infatti, per partecipazione alle Forme. Inoltre, egli afferma che,
accanto ai sensibili e alle Forme, esistono enti matematici intermedi fra gli uni e le altre, i quali differiscono dai
sensibili perché immobili ed eterni, e differiscono dalle forme perché ve ne sono molti simili, mentre ciascuna forma è
solamente una e individua.
Poiché, quindi, le Forme sono cause delle altre cose, Platone ritenne che gli elementi costitutivi delle forme fossero gli
elementi di tutti gli esseri. Come elemento materiale delle Forme egli poneva il grande e piccolo, e come causa formale
l’uno: infatti, riteneva che le forme e i numeri derivassero per partecipazione del grande e piccolo all’uno. Per quanto
riguarda l’affermazione che l’uno è sostanza, e non qualcos’altro di cui esso si predichi, Platone si avvicina molto ai
Pitagorici; e, ancora, come i Pitagorici, egli ritiene che i numeri siano causa della sostanza delle altre cose. Invece, è una
caratteristica peculiare di Platone l’aver posto, in luogo dell’illimitato inteso come unità, una dualità, e l’aver concepito
l’illimitato come derivante dal grande e piccolo. Platone, inoltre, pone i numeri fuori dal sensibile, mentre i Pitagorici
affermano che i numeri sono le cose stesse» (Aristotele, Metafisica, I 6, 987 a 29).
L’importanza delle dottrine non scritte. Sulla base di tutti questi elementi molti studiosi9 hanno sottolineato
l’importanza delle dottrine non scritte per comprendere il valore di Platone, che supererebbe di gran lunga tutto ciò che
già gli viene riconosciuto. I dialoghi platonici avrebbero solo una funzione secondaria: in parte si tratterebbe di una
funzione preliminare al vero contenuto sapienziale che Platone discuteva nell’Accademia, con coloro che conducevano
la vita stessa in comune; in parte la funzione sarebbe quella di richiamare alla mente i temi e gli argomenti oggetto della
ricerca e del dibattito. Pertanto, gli stessi dialoghi dovrebbero essere letti alla luce di tali dottrine.
Come abbiamo già visto ( Sezione 1, Unità 3, Capitolo 3), Platone fu un instancabile ricercatore e, nell’ultima fase
della sua attività, sottopose a revisione, integrazione, adattamento e modifica tutte le sue dottrine precedenti,
conducendo lo sviluppo della filosofia ad un’ampiezza di temi e problemi mai raggiunta prima e, per certi aspetti, forse
ineguagliabile. Nei dialoghi più tardi sentì certamente l’esigenza di ripensare l’intera sua dottrina e sembra evidente,
sulla base delle diverse testimonianze che:
1. Lo fece in parte con gli ultimi dialoghi;
2. Ma lo fece anche in parte con un’elaborazione orale e dialogica tipica dell’Accademia, che non era certo una
scuola dogmatica, come non lo era lo stesso fondatore: era piuttosto un centro di discussione aperto
all’elaborazione comune, al confronto, allo scambio di opinioni e teorie;
3. In questa fase del suo pensiero, successiva al secondo viaggio a Siracusa, dove conobbe a fondo le scuole
pitagoriche, l’influsso del pitagorismo fu rilevante;
4. Inoltre egli si preoccupò di risolvere in una visione unitaria tutta la propria ricerca filosofica, cercando di
chiarire i problemi rimasti aperti nelle fasi precedenti, in cui avevano presso forma le sue più importanti teorie.
9
Le dottrine non scritte sono state valorizzate nel corso del Novecento sia dalla Scuola di Tubingen
(Konrad Gaiser e Hans Kramer), sia da Giovanni Reale dell’Università Cattolica di Milano. Anche Giorgio
Colli ha ripetutamente fatto cenno (1974; 1977) alla necessità di un approccio alla filosofia platonica che
tenesse grande conto del suo insegnamento orale
49
Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 7
Il problema del rapporto tra molteplicità e unità (che, come abbiamo visto, è il primo problema filosofico  Sezione 1,
Unità 1, Capitolo 2 Paragrafo 1 «La ricerca della sostanza originaria») lo si ritrova anche nella dottrina delle Essenze (o
Forme, o Idee)10. Platone lo discute anche in dialoghi come il Parmenide, il Teeteto e il Sofista ( Sezione 1, Unità 3,
Capitolo 3).
Ma, forse proprio per le ragioni da lui stesso spiegate, lo discusse soprattutto nell’ambito della scuola, arrivando ai
risultati di cui parla Aristotele, che allora della scuola faceva parte.
Il contenuto delle dottrine non scritte. Platone intese forse, dunque, ricercare i principi primi che facessero da
fondamento anche alle stesse Essenze (o Idee) e si ispirò, come abbiamo visto, alla dottrina pitagorica, trovando in essa
gli spunti per uno sviluppo che già era implicito nelle sue elaborazioni precedenti.
La considerazione, già svolta nel Parmenide ( Sezione 1, Unità 3, Capitolo 3 Paragrafo 1) che unità e molteplicità non
potrebbero esistere in senso assoluto, Platone individua due principi fondamentali:
 L’Uno, che è il principio formale di tutta la gerarchia degli esseri
 La Diade indefinita, che è il principio materiale, in quanto si costituisce come tensione tra l’infinitamente
grande e l’infinitamente piccolo
L’Uno e la Diade non vanno intesi come idee matematiche, non hanno nulla a che vedere con il terzo grado della realtà
e della conoscenza di cui si parla nel «mito della caverna» (le idee matematiche conoscibili per mezzo della dianoia 
Sezione 1, Unità 3, Capitolo 2). Si tratta invece di strutture metafisiche, che starebbero alla base delle stesse essenze
universali, di esse ancor più originarie nella struttura dell’Essere. Dalla loro partecipazione reciproca, in cui la forma
Uno ha una priorità sulla materia Diade (entrambe sostanze originarie) si genera tutti i gradi della realtà.
La più profonda sostanza dell’Essere sarebbe, dunque, rappresentata proprio dall’Uno e dalla Diade, principi strutturali
fondanti d ogni unità e molteplicità che si osserva in natura.
Da essi deriverebbero tutti gli altri gradi della realtà, esposti nei dialoghi precedenti e soprattutto nel già citato «mito
della caverna», con la precisazione che si accentua la ma tematizzazione del «sistema»: infatti, le essenze tendono ad
essere identificate con numeri, in nome del principio pitagorico che i numeri sono la struttura intima di tutte le cose.
Pertanto una rilettura del pensiero platonico alla luce di tali dottrine condurrebbe alla seguente gerarchia della realtà
ontologica:





I principi originari: Uno e Diade indeterminata (eterni ed immutabili);
Le essenze universali, molteplici, eterne e immutabili, dotate anch’esse di struttura matematica;
Gli enti matematico-scientifici anch’essi eterni e immutabili;
Gli oggetti fisici individuali, divenienti e molteplici;
Le apparenze esteriori di tutte le cose, divenienti e molteplici.
10
Per evitare tutti i possibili fraintendimenti abbiamo sempre usato preferibilmente il termine Essenza
rispetto al tradizionale Idea, perché ciò a cui pensava Platone non era un concetto o un’immagine mentale
ma una sostanza realmente esistente, o meglio una molteplicità di sostanze realmente esistenti in una
dimensione metafisica (trascendente, spirituale e intelligibile).
50
Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 8
PERCORSO TEMATICO 8. PLATONE: IL SIMPOSIO
PREREQUISITI
[ Conoscere i contenuti della Sezione 1 Unità 3 – Aver compreso i concetti fondamentali della
ricerca filosofica di Platone sulla psiche umana ]
OBIETTIVI
[ Approfondire la conoscenza e la comprensione dei rapporti tra amore e filosofia trattati nel
dialogo Il Simposio ]
Il Simposio è uno dei dialoghi più belli e giustamente famosi del grande filosofo. Racconta un banchetto che si svolge
nella casa di Agatone, un giovane e famoso autore di tragedie. Vi partecipano Socrate e alcuni suoi discepoli come
Apollodoro, Aristodemo, Fedro, il rètore Pausania, il medico naturalista Erissimaco e il più celebre autore greco di
commedie, Aristofane.
Durante il simposio viene nominato (come era d’uso) una sorta di moderatore della conversazione (simposiarca), che si
svolgerà sul tema dell’amore.
È ritenuto, infatti, un'enormità il fatto che «per altri dèi vi siano inni e peani composti dai poeti», mentre per Amore, che
è un nume di così grande età e potenza, nessuno mai, fra tanti poeti che ci sono stati, abbia composto un encomio.
L’avvio del dialogo. Il primo intervento è di Fedro, il quale ricorda che Amore è il più antico tra gli Dei.
Secondo Esiodo, infatti, dal Caos, si generarono insieme la Terra e l’Amore. Amore conduce «alla vergogna per le cose
turpi, allo zelo per quelle oneste: senza cui non è possibile che si compiano opere grandi e belle né in pubblico né in
privato». Ne consegue che se «ci fosse un mezzo di far esistere una città o un esercito tutto di amanti e di amati, non
sarebbe possibile che meglio amministrassero le loro cose, nell'astinenza da ogni indegnità e in reciproca gara d'onore».
Infine, colui che è ama e più divino di colui che è amato, perché «è pieno del dio».
Scena di Simposio: musica e conversazione. Dalla Tomba del tuffatore.
Museo Archeologico Nazionale di Paestum.
Successivamente, interviene Pausania, il quale sostiene che la dea Afrodite è duplice, pertanto gli amori sono due:
quello “celeste” e quello “volgare”. Quest’ultimo ama i corpi più che le anime ed opera un po’ a caso (seguendo
l’istinto), mentre quello “celeste” ama le anime e pertanto ha la funzione di elevare lo spirito alla sapienza e al bene. In
tal modo viene giustificato l’amore omofilo, su cui sarebbe necessario un ulteriore approfondimento.
Toccherebbe ora ad Aristofane, ma è colto dal singhiozzo, allora anticipa il suo turno Erissimaco. Egli è un medico e
ingloba il discorso sull’amore nel contesto della natura. L’amore non ha per oggetto solo gli uomini, ma anche animali,
vegetali e tutte le altre cose. Nella medicina gli amori sani sono favoriti, contrastati i legami malsani. Ciò è vero anche
nell’astronomia e nell’arte della divinazione. Pertanto, è bene che l’Amore, come ogni cosa in natura, sia armonico ed
equilibrato in ogni sua azione - comunione di opposti.
51
Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 8
Rappresentazione di Aristofane; fonte www.wikipedia.it
L’intervento di Aristofane. Tocca ora ad Aristofane con il suo celebre intervento che abbiamo già riassunto nel
Modulo-base ( Sezione 1, Unità 3, Capitolo 2 Paragrafo 5) e che qui proponiamo integralmente:
«In realtà, Erissimaco, cominciò Aristofane, io ho proprio in mente di parlare in modo alquanto diverso da quello in cui
avete parlato tu e Pausania. A me sembra, infatti, che gli uomini non avvertano per nulla la potenza dell'amore, giacché,
se la sentissero, gli erigerebbero i più grandi tempi ed altari e gli farebbero i massimi sacrifici: ben diversamente da
adesso, in cui non gli si rende alcuno di questi onori, mentre sarebbe la cosa più doverosa di tutte. Perché egli è, tra i
numi, il più amico degli uomini, essendo loro protettore e medico di quei mali, la cui guarigione costituirebbe la più
grande felicità per il genere umano. Io cercherò dunque di descrivervi la sua potenza: e voi poi ne sarete maestri agli
altri. Anzitutto occorre che voi impariate a conoscere la natura umana e le vicende che essa subì; giacché, in antico, la
nostra natura non era quella ch'è ora, ma diversa. Dapprima, infatti, eran tre i generi degli uomini, non due come sono
ora, il maschile e il femminile, essendocene in più un terzo, che [e] accomunava in sé entrambi i precedenti, e di cui ora
è rimasto solo il nome, mentre esso è sparito: ed era questo, allora, l'andrògino, unico e composto del maschile e del
femminile così nel nome come nell'aspetto reale, mentre ora non ne esiste più che il nome, che si usa in senso
infamante. Inoltre, la figura di ogni uomo era tutta rotonda, con dorso e fianchi in cerchio, quattro mani e lo stesso
numero di gambe, e due volti, in tutto eguali, su un collo cilindrico; e con una sola testa per entrambi i visi rivolti in
senso contrario, e quattro orecchie, e due genitali, e tutto il resto come si potrebbe figurare in conseguenza. E
camminava pure eretta come ora, in quale dei due sensi preferisse; e quando voleva prender la rincorsa, come i
saltimbanchi volteggiano in cerchio facendo girare in aria le gambe, così essi, appoggiandosi sulle otto membra che
avevano, avanzavano rapidamente ruotando. La causa, poi, per cui i sessi erano tre, e di tale aspetto, era questa: che il
maschile aveva avuto origine dal sole, il femminile dalla terra, e il terzo, partecipe d'ambedue i precedenti, dalla luna,
dato che anche la luna partecipa del sole e della terra; e appunto per la somiglianza coi loro progenitori essi avevano
anche circolare tanto l'aspetto quanto l'andatura. Erano terribili per forza e per vigoria, e di grande animo, sì da assalire
52
Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 8
gli dei; e quel che Omero narra di Efialte e di Oto va inteso come detto di loro: il tentativo di scalare il cielo, per
avventarsi sugli dei.
Zeus e gli altri numi, quindi, tenevano consiglio su quel che loro convenisse fare, e restavano in imbarazzo: non
potendo infatti, da una parte, ucciderli e annientarne la razza fulminandoli come i giganti - giacché sarebbero insieme
spariti i culti e i sacrifici resi a loro dagli uomini - né, d'altra parte, lasciarli così insolentire. Finalmente, dopo lunga
riflessione, dice Zeus: - Mi pare d'aver trovato un rimedio, perché gli uomini possano continuare ad esistere e nello
stesso tempo, divenuti più deboli, cessino dalla loro oltracotanza. Ora, ecco, li spaccherò ciascuno in due, e così essi
diverranno tanto più deboli quanto più utili a noi, per l'aumento che si produrrà nel loro numero. E cammineranno eretti
su due gambe; e se si mostreranno ancora sfacciati e non vorranno starsene tranquilli, li taglierò in due ancora un'altra
volta, in modo che dovranno camminare su una gamba sola, saltando come quelli che danzano sugli otri. - Detto questo,
si mise a tagliare in due gli uomini, come quelli che spaccano le sorbe per metterle in conserva, o le uova con un crine;
e ognuno che tagliava, ordinava ad Apollo di rivoltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, affinché l'uomo,
vedendo sempre la propria scissura, fosse più mansueto: e di risanargli, poi, tutto il resto. E lui rovesciava la faccia, e
stirando da ogni lato la pelle verso il punto che ora si chiama ventre, al modo di quelle borse che si stringono, e
facendovi una specie di bocca, la legava nel mezzo del ventre, nel luogo detto ora ombelico. La maggior parte delle
grinze, poi, le spianava, e foggiava i seni, valendosi d'un certo strumento simile a quello usato dai calzolai per spianare
le pieghe del cuoio sulla forma delle scarpe; qualcuna, peraltro, intorno al ventre e all'ombelico, ne lasciò, a ricordo
dell'antico patimento. Ma quando l'organismo umano fu così diviso in due, ciascuna metà, desiderando l'altra, le andava
incontro; e gettandosi le braccia al collo, e avviticchiandosi insieme per la brama di connaturarsi di nuovo, morivano di
fame e d'accidia, non volendo far nulla l'una senza l'altra. E quando una delle metà moriva e l'altra restava in vita, quella
rimasta ne cercava un'altra e le si avvinghiava, sia che le capitasse la metà d'una donna intera - quella, cioè, che ora si
chiama una donna - sia che s'imbattesse in quella d'un uomo, e così perivano. Impietositosi, allora, Zeus ricorse a un
nuovo espediente, e trasferì loro i genitali sul davanti: ché prima d'allora avevano anche questi dalla parte esterna, e
generavano e partorivano non tra di loro ma in terra, come le cicale. Li spostò dunque, così, sulla loro parte davanti, e
per mezzo di essi costituì tra di loro il processo della procreazione, per opera del maschio in seno alla femmina, con
questo scopo, che, se nell'amplesso si trovassero insieme maschio e femmina, generassero e si perpetuasse la razza; se,
invece, maschio e maschio, venisse loro almeno sazietà dell'amplesso, e smettessero e si volgessero al lavoro e a tutte le
altre cure della vita. Da così lungo tempo, quindi, è innato negli uomini l'amore reciproco, che riconduce verso l'antico
stato, tendendo a fare, di due esseri, uno solo, e a ricostituir sana l'umana natura.
Ciascuno di noi è dunque come un contrassegno d'uomo, tagliato com'è, a somiglianza delle sogliole, da uno in due; e
cerca quindi sempre il contrassegno a lui corrispondente. Ora, tutti quegli uomini che sono frazione del sesso comune,
quello che allora si chiamava andrògino, sono amanti delle donne, e da tal sesso deriva la maggior parte degli adulteri:
come pure ne derivano tutte le donne adultere e [e] appassionate per gli uomini. Invece, quante delle donne sono
frazione di donna, agli uomini non volgono affatto il pensiero e son tratte piuttosto verso le donne; onde, da questo
sesso, nascono le tribadi. Quelli, infine, che son frazione di maschio, corron dietro ai maschi, e finché son fanciulli,
appunto per la loro natura di parti di maschio, amano gli uomini e godono a giacere e a stare abbracciati cogli uomini; e
questi sono i migliori tra i ragazzi e tra i giovinetti, perché dotati della natura più virile. Alcuni, veramente, dicono che
essi sono svergognati, ma a torto; perché essi fanno così non per impudenza, ma per la loro indole ardita e maschia e
virile, prediligendo ciò che è simile a loro. Ce n'è la prova, e di gran peso: solo uomini di questo genere, giunti in età
matura, riescono nella vita politica. Quando poi sono adulti, s'innamorano dei fanciulli, e alle nozze e alla procreazione
dei figliuoli non rivolgono il pensiero per loro tendenza, ma solo per imposizione della legge; giacché, per loro conto,
sarebbero soddisfatti di viver sempre gli uni cogli altri, senza sposarsi. È con tal natura, insomma, che si diventa amatori
di fanciulli e fanciulli amanti del proprio amatore, sempre prediligendo ciò che a sé è congeniale. E quando, dunque, o
l'amante o qualsiasi altra persona s'incontri proprio con quella sua metà, allora restano entrambi mirabilmente presi di
amicizia, familiarità ed amore, e non vogliono separarsi l'uno dall'altro, per così dire, neppure un istante. Così, son
questi quelli che trascorrono insieme tutta la vita, e che non saprebbero poi dire che cosa desiderano d'ottenere l'uno
dall'altro; giacché nessuno può credere che sia l'intimità amorosa, la causa per cui godono con tanto rapimento della
reciproca convivenza; anzi è chiaro che a qualche altra cosa tende l'anima di entrambi, che però non sa esprimere: e
pure indovina ciò che vuole, e lo significa oscuramente. E se, mentre giacciono insieme, venisse accanto a loro Efesto
coi suoi strumenti, e domandasse: - Che cos'è dunque che desiderate, o uomini, di ottenere l'uno dall'altro? - e se,
restando quelli nell'imbarazzo, di nuovo chiedesse: - Forse desiderate questo, di trovarvi il più possibile insieme nello
stesso luogo, in modo da non separarvi l'uno dall'altro né di giorno né di notte? Ché se questo bramate, io vi voglio
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 8
fondere e concreare insieme in una stessa [e] persona, in modo che diventiate di due uno e, la vita che avete da vivere,
la viviate tutti e due insieme come un solo essere; e quando poi sarete giunti alla fine, anche laggiù nell'Ade siate uno
solo invece di due, dopo una morte in comune. Guardate dunque, se questo è il vostro desiderio, e se vi basta di poterlo
esaudire - : sappiamo bene che, udendo questo, nessuno ricuserebbe né mostrerebbe di desiderar altro; anzi, crederebbe
di aver sentito proprio quello che da tanto tempo bramava, di divenir cioè, di due, uno solo coll'amato, unendosi e
fondendosi con lui. Infatti, la ragione è questa, che tale era la nostra antica natura, e che noi eravamo interi: ed è dunque
la tendenza e la corsa verso la totalità che ha nome amore. Come ho detto, prima d'allora eravamo un solo essere; ora
invece, per la nostra iniquità, siamo stati divisi di casa dal dio, come gli Arcadi dai Lacedemoni. Onde c'è da aver paura
che, se non siamo rispettosi verso gli dei, non veniamo spaccati di nuovo, e non dobbiamo andare in giro nelle
condizioni di quelli raffigurati in bassorilievo sulle stele, segati in due lungo il naso, ridotti come metà di contrassegni.
Per tal ragione, dunque, conviene che ognuno esorti ciascun altro a comportarsi piamente verso gli dei, sia per sfuggire
a questi mali, sia per conseguire quei beni, per cui ci è guida e duce Amore. A cui nessuno si opponga: ché gli si oppone
solo chi è in odio agli dei. Mentre, se diventiamo amici del dio e ne acquistiamo la confidenza, riusciremo a ritrovare e a
conquistare proprio i fanciulli nostri, come ora accade a pochi. E non mi riprenda Erissimaco, motteggiando sul mio
discorso, coll'idea che io alluda a Pausania e ad Agatone; può essere, infatti, che anch'essi siano di quelli, ed abbiano
entrambi maschia natura; io però parlo in generale, di ogni uomo e di ogni donna, e dico che allora, veramente, la nostra
stirpe diventerebbe felice, se noi riuscissimo a raggiungere il fine del nostro amore ritrovando ciascuno proprio il suo
amato e ritornando così alla sua antica natura. Se questo, quindi, sarebbe il bene massimo, ne consegue che delle
possibilità presenti la migliore è quella che più gli sta vicina: e cioè che ciascuno càpiti con un innamorato di
temperamento che si accordi col suo. Per il che, se vogliamo elevar inni a un dio, è giusto che li innalziamo ad Amore,
il quale per ora, intanto, ci giova in massimo grado, indirizzandoci verso ciò che ci è affine, e per l'avvenire ci dà le più
grandi speranze che, se noi continueremo a dimostrar reverenza verso gli dei, egli, risanandoci e restituendoci alla
nostra antica natura, ci renderà felici e beati».
Il dialogo volge al suo culmine. Tocca poi al padrone di casa Agatone che tesse l’elogio di Amore, il dio più
giovane, bello e buono, che non fa né riceve ingiustizia, è temperante, valoroso e sapiente; Amore ispira i poeti e tutti
gli artisti, presiede alla generazione, genera tutte le virtù dell’anima: «È lui che ci libera dalla selvatichezza e ci riempie
di familiarità, istituendo, perché possiamo riunirci, tutti questi convegni, e facendosi guida di feste di cori e di sacrifici;
lui che ispira la mitezza e bandisce la ruvidezza; generoso in benevolenza, avaro in malevolenza; propizio per i buoni,
ammirabile per i saggi, meraviglioso per gli dèi; desiderio di chi non ha fortuna, possesso di chi ha fortuna; padre di
mollezza, di soavità, di grazie, di desiderio, di bramosia; sollecito dei buoni, noncurante dei malvagi; nella fatica, nella
paura, nel desiderio, nel discorso, timoniere, combattente, commilitone e salvatore ottimo; ornamento degli uomini e
degli dei tutti; guida bellissima e bravissima; che ad ognuno conviene seguire inneggiando in bel modo e partecipando
al canto, con cui egli affascina il pensiero in tutti, uomini e dèi».
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 8
Anselm Feuerbach, Il Simposio di Platone
Prende infine la parola Socrate. Egli sottolinea che Amore è sempre Amore di qualcosa e, amandola, la desidera. Ciò
significa che non possiede ciò che desidera, dunque l’amore è mancanza: in particolare è mancanza e desiderio di
bellezza e bontà (il che indica che Amore non ha in sé né bellezza né bontà).
Ma poi Socrate di voler riferire ciò che le insegnò una donna di Mantinea, Diotima, esperta di queste e di molte altre
cose,che lo istruì nelle cose d'amore.
Socrate riferisce ciò che apprese da Diotima.
Dal momento che Amore non partecipa di bellezza né di bontà (in quanto le desidera, cioè manca di esse) dunque non è
un dio. Il che non significa che sia privo di bellezza e bontà: esistono infatti dei gradi intermedi tra gli opposti. Non è
dunque nemmeno un mortale, ma un démone, un intermediario tra uomini e dèi. In effetti, è figlio di Espediente (Poros)
e di Povertà (Penia) e partecipa della natura e delle doti di entrambi.
In questo senso, Amore è come il filosofo, che non è sapiente né ignorante.
In amore, l’amato è superiore a colui che ama (Amore, di padre sapiente e ingegnoso e di madre incolta e sprovveduta,
è in colui che ama).
Poi, allargando il discorso ad un ambito più vasto di quel che comunemente viene assegnato all’Amore, Diotima
istituisce un’analogia con la poesia e con la capacità creativa e si stabilisce che ogni desiderio di bene e felicità è
Amore; più precisamente Amore è tendenza al possesso perpetuo del bene, che ha come opera e scopo la procreazione
nel bello, sia secondo il corpo, sia secondo l’anima.
L’Amore è dunque desiderio di immortalità che dai mortali può essere soddisfatto tramite la procreazione fisica e
spirituale.
La perfetta iniziazione ai misteri di Amore e i suoi gradi: dall’amore delle cose belle all’amore del bello in sé (la
bellezza dei corpi, la bellezza delle anime, la bellezza delle leggi, la bellezza della scienza, il Bello in sé):
«Giunto che sia ormai al grado supremo dell’iniziazione amorosa, all’improvviso gli si rivelerà una bellezza
meravigliosa per sua natura […]: bellezza eterna, che non nasce e non muore, non s’accresce né diminuisce […] questa
bellezza non gli si rivelerà né con un volto né con mani, né con altro che appartenga al corpo, e neppure come concetto
o scienza, né come residente in cosa diversa da lei, […] ma come essa è per sé e con sé».
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 8
Papiro greco con frammento del Simposio; fonte www.wikipedia.it
Così si compie perfettamente il parallelismo tra amore e filosofia, percorsi che portano entrambi al più alto livello di
partecipazione all’essenza del Bello e del Bene, che tendono a identificarsi: amare significa desiderare la bellezza e il
bene di ciò che si ama.
Nel discorso di Diotima riportato da Socrate si rispecchia maggiormente la concezione di Platone dell’Amore, che
anticipa la metafisica e la gnoseologia platonica: i differenti gradi della realtà e della conoscenza (espressi nel “mito
della caverna”): l’identità di Essere, Bene e Verità, che costituiscono il culmine del mito (epistème = conoscenza
indubitabile del vero essere, conoscenza delle idee morali, unificate dall’idea del Bene) è anticipata dall’identità di
Bello in sé e Bene in sé (Amore = ricerca del possesso perpetuo del Bello, del Bene e della felicità), tuttavia la
complessiva concezione platonica integra in una visione più ampia e generale aspetti dell’Amore già espressi nei
discorsi degli altri commensali partecipanti al dialogo:
• L’Amore come desiderio delle attività e sentimenti più nobili (Fedro)
• L’Amore come sentimento e comportamento rivolto al bene (Pausania)
• L’Amore come forza vitale presente in tutta la natura (Eurissimaco)
• Anche il “mito” di Aristofane viene integrato in un contesto più ampio: il significato dell’Amore come ricerca
della propria metà trova il suo senso compiuto nella ricerca di ciò che è bello e bene per sé, di ciò che genera
felicità a ciascuno (= ciò che partecipa del Bello e del Bene in sé)
• Infine anche il discorso di Agatone include temi platonici: l’Amore ispira i poeti e tutti gli artisti, presiede alla
generazione, genera tutte le virtù dell’anima in chi ama e in chi è amato.
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 8
Scena simposiaca da una Kylix attica a figure rosse (ca. 460-450 a.C.). Museo del Louvre
La conclusione del dialogo. Tocca poi al padrone di casa Agatone che tesse l’elogio di Amore, il dio più
giovane, bello e buono, che non fa né riceve ingiustizia, è temperante, valoroso e sapiente; Amore Il dialogo si conclude
con l’entrata in scena di Alcibiade che illustra le ragioni del suo amore per Socrate e ne tese un profondo elogio: Socrate
gli è stato maestro, amico, gli ha salvato la vita in battaglia, gli ha fatto attribuire dagli strateghi, in guerra, quei
riconoscimenti che avrebbe meritato per se stesso e gli ha sempre dimostrato di trascendere gli aspetti materiali della
vita:
«Sappiate che a lui non importa nulla se uno è bello e ne fa così poco conto quanto nessun altro, né gli interessa se è
ricco o se ha un altro titolo di quelli che, per la gente, portano alla felicità. Ritiene di ben poco conto tutti questi beni, e
che noi, vi assicuro, non siamo nulla e passa la sua vita ostentando candore e scherzando, ma quando poi si impegna
seriamente e si apre, non so se uno ha mai visto le splendide qualità che ha nell’intimo: io le ho già osservate, da tempo,
e mi apparvero così divine, dorate, belle e meravigliose da provare che si doveva fare subito quel che Socrate
comandava».
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Approfondimenti, Sezione 1, Percorso 8
Agostino Veneziano (1490-1540), Alcibiade
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2013
www.angeloconforti.it
[email protected]
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