ALCUNE SCUOLE DI PENSIERO MINORITARIE II dibattito contemporaneo su ruolo, desiderabilità ed efficacia delle politiche economiche risulta dominato dalla persistente contrapposizione tra le tesi della nuova macroeconomia classica, da un lato, e quelle della nuova macroeconomia keynesiana, dall'altro. In prospettiva, peraltro, sembrano sussistere le premesse per la realizzazione di un nuovo modello consensuale basato sull'approccio tasso naturale di disoccupazione - aggiustamento graduale dei prezzi, che lascerebbe comunque aperta la discussione sulla maniera più corretta e appropriata di attuare in concreto politiche di stabilizzazione (e quindi di fare un maggiore o minore ricorso a regole piuttosto che a comportamenti discrezionali). Accanto alle posizioni maggioritarie sopra ricordate esistono tuttavia, o sono state avanzate nel recente passato, posizioni alternative sulle modalità di conduzione della politica economica, cui vale la pena di fare un rapido cenno in conclusione. LA TEORIA DEL DISEQUILIBRIO La NMK, come abbiamo visto in precedenza, basa le proprie analisi e conclusioni sull’assunto fondamentale che prezzi e salari siano vischiosi. Tale assunzione costituisce la naturale evoluzione, in un mondo in cui esistono costi di transazione, della tradizionale ipotesi keynesiana per cui i prezzi sono rigidi. Alcuni contributi apparsi in letteratura a partire dagli anni ’60 hanno invece mantenuto questa ipotesi, elaborandone le conseguenze in un contesto di equilibrio generale di tipo walrasiano (anziché in un tradizionale contesto di equilibrio macroeconomico o di equilibrio parziale, come nel modello IS-LM). Con prezzi rigidi, ovviamente, soltanto per caso l'equilibrio walrasiano, in cui tutti i mercati (compreso quello del lavoro) sono in equilibrio, può essere raggiunto; in generale, con prezzi "sbagliati", i mercati saranno in stato di disequilibrio. Se dunque i prezzi sono rigidi, il disequilibrio non potrà essere eliminato e avrà natura persistente: di qui l'interpretazione della teoria di Keynes come teoria del (perenne) disequilibrio (Leijonhufvud, 1968). In effetti, la caratteristica peculiare dell'analisi walrasiana è quella di assumere, quanto meno implicitamente, l'esistenza di un banditore il cui ruolo è quello di rivedere continuamente i prezzi, con velocità praticamente infinita, in modo da garantire che produzione e scambi avvengano sempre a prezzi di equilibrio. Nessuna transazione può quindi avvenire al di fuori di tale stato finale. Si ipotizza successivamente che il comportamento effettivo di un'economia di mercato possa essere assimilato a quello di un sistema fittizio governato e coordinato dal banditore. In un'economia concreta, tuttavia, il banditore non esiste; produzione e scambi avvengono continuamente nel tempo reale e i prezzi sono il risultato di scelte individuali. Appare allora del tutto logico assumere che si realizzino transazioni anche al di fuori dei prezzi di equilibrio walrasiano. In tal modo può però accadere che le quantità effettivamente scambiate siano diverse da 1 quelle che a priori gli individui pensano di poter realizzare. Robert Clower propone di conseguenza una distinzione tra grandezze nozionali ed effettive: i lavoratori disoccupati offrono lavoro e domandano beni, ma la loro domanda è solo nozionale, nel senso che non è percepita dalle imprese, le quali non sono quindi indotte ad assumere nuovi lavoratori. In tale contesto, la moneta svolge un ruolo fondamentale, in quanto impedisce una corretta trasmissione delle informazioni dai lavoratori agli imprenditori: i primi, infatti, offrono lavoro e domandano moneta, ovvero potere d'acquisto generale, e non beni specifici; i segnali di mercato che consentirebbero alle imprese di espandere la produzione, e conseguentemente l'occupazione, non vengono trasmessi. Le conseguenze di tale interpretazione del funzionamento dell'economia sono molteplici. Anzitutto, in un mondo in cui grandezze nozionali ed effettive possono divergere, solo le ultime acquistano importanza ai fini della determinazione dell'equilibrio concreto, il quale può essere definito come una situazione in cui, dati i prezzi, le produzioni sono uguali alle domande effettive su ogni mercato. La natura di tale equilibrio è profondamente diversa da quella ipotizzata dalla teoria neoclassica, dato che, in generale, i lavoratori o le imprese percepiranno dei vincoli alle quantità che desiderano offrire o acquistare: si tratta cioè di un equilibrio con razionamento, ovvero, rispetto al tradizionale paradigma di riferimento walrasiano, di un vero e proprio disequilibrio. Il disequilibrio è causato, naturalmente, dall'esistenza di un vettore di prezzi (esogeno) errato. In un contesto di interdipendenza tra tutti i mercati, tuttavia, non è più necessariamente vero che a provocare una situazione di disoccupazione sia un salario reale troppo elevato; l'origine del "fallimento del mercato" potrebbe invece risiedere altrove, ad esempio in un livello troppo alto dei tassi di interesse, dato che è l'intero sistema dei prezzi a determinare la posizione di fatto raggiunta da un'economia concreta. Al fine di delineare correttamente una strategia di politica economica contro la disoccupazione, in un contesto di disequilibrio, occorre preliminarmente individuare le caratteristiche specifiche della situazione nella quale di fatto ci si trova. Seguendo l’analisi di Malinvaud, è possibile in effetti stabilire una tipologia generale delle eventualità che si possono verificare in un mondo in cui i prezzi sono esogenamente fissati. Supponiamo per semplicità che nell'economia venga prodotto un unico bene, con l'uso di solo lavoro, cosicché esistono soltanto due mercati: quello del bene (Y) e quello del lavoro (N). Supponiamo pure che l'offerta di lavoro sia rigida (N = N*), e quindi invariante rispetto al salario reale W/P. Una tradizionale funzione di produzione neoclassica Y = Y(N), fornita dalla tecnologia esistente, consente di definire un reddito di pieno impiego, Y* = Y(N*), pure indipendente dal livello dei prezzi. Come è noto, nel modello neoclassico le imprese non sono mai vincolate né sul mercato dei beni, né su quello del lavoro, e massimizzano i profitti producendo una quantità di beni tale da uguagliare il salario reale W/P alla produttività marginale del lavoro Y'(N). Per ogni dato salario reale, quindi, la produzione ad esso corrispondente nel modello neoclassico sarà fornita dalla relazione: W Yc Y(Nc ) Y (Y ') 1 ( ) P 2 dove (Y ')1 indica la funzione inversa della produttività marginale del lavoro, nel senso che la domanda di lavoro delle imprese, e quindi l’occupazione Nc, dipenderà dal salario reale. Come è noto, sulla base delle ipotesi neoclassiche, se il salario reale effettivo (W/P)0 è più elevato di quello compatibile con il pieno impiego (W/P)* = Y'(N*), allora la produzione effettiva Y sarà minore di quella di pieno impiego, e conseguentemente parte della forza lavoro rimarrà disoccupata, per cui sarà N c<N*. In uno schema di disequilibrio da prezzi fissi, quindi, la disoccupazione avrà caratteristiche classiche ogniqualvolta il salario reale è troppo elevato. In tale situazione vi è un eccesso di offerta effettivo sul mercato del lavoro, cui corrisponde un eccesso di domanda nozionale sul mercato dei beni; le imprese non sono vincolate dal punto di vista della produzione (massimizzano i profitti e producono quel che desiderano, dato il salario reale), mentre i lavoratori sono razionati, in quanto vorrebbero essere impiegati al salario corrente, ma la domanda di lavoro è inferiore ai loro desideri. In una prospettiva keynesiana, invece, le imprese sono vincolate a produrre quella quantità di beni che corrisponde alla domanda effettiva. Come già sappiamo, considerando congiuntamente le due schede IS e LM, è possibile ottenere una relazione, denominata funzione di domanda aggregata AD, in grado di esprimere le determinanti finali della domanda effettiva keynesiana. Considerando un sistema chiuso, la funzione in esame, in termini generali, sarà del tipo: Yk F(A, M , G, T ) P Dati i valori della componente autonoma A, e delle variabili monetarie e fiscali, la AD esprime una relazione inversa tra domanda di beni e livello generale dei prezzi. Una volta dato esogenamente quest'ultimo, risulta individuata la quantità di beni che le imprese possono vendere sul mercato. È chiaro che essa provocherà disoccupazione sul mercato del lavoro ogniqualvolta Yk<Y*. Ciò potrà verificarsi sia a causa di un basso valore di A, di G o di M, sia a causa di un elevato valore di T o di P. In uno schema a prezzi fissi, invece, il salario reale (purché ovviamente non tale da ripristinare le condizioni di disoccupazione di tipo classico) non svolge alcun ruolo: le imprese sono vincolate dal lato delle vendite e assumono la quantità di lavoratori necessaria a produrre la quantità di beni corrispondente alla domanda effettiva, per cui Nk=Y-1(Yk). Anche in presenza di un salario reale basso il comportamento delle imprese non si modificherà, cosicché, in definitiva, una situazione keynesiana risulta caratterizzata dalla presenza di un contemporaneo eccesso di offerta su entrambi i mercati: effettivo su quello del lavoro, perché c'è disoccupazione, ma anche nozionale su quello dei beni perché, dato il salario reale, la produzione reale è più bassa di quella desiderata dalle imprese (cosicché, per tale motivo, l'eccesso di offerta è solo nozionale). È possibile infine ipotizzare una situazione in cui, dati i prezzi esogeni e le variabili monetarie e fiscali, vi sia un eccesso dì domanda su entrambi i mercati, nel senso che la domanda effettiva supera il livello di pieno impiego e, conseguentemente, la domanda di 3 lavoro eccede l'offerta disponibile. Tale situazione, in conseguenza del fatto che i prezzi sono fissati e quindi non possono variare, può essere definita di inflazione repressa. L'intera gamma delle possibili configurazioni di disequilibrio in cui può venire a trovarsi un sistema economico in cui i prezzi sono fissi può essere illustrata con l'ausilio della figura 1, in cui i grafici sono ordinati in sequenza logica, e vanno letti seguendo una direzione oraria, a partire dal diagramma in alto a sinistra. Fig. 1. Tipologia delle situazioni possibili nell’analisi del disequilibrio W/P D YA (c) Il grafico (a) riporta la scheda di domanda aggregata, la cui posizione nel piano dipende dai livelli delle variabili monetarie e fiscali; politiche espansive daranno luogo a spostamenti della curva verso destra e viceversa. Il grafico (b) è un semplice diagramma di raccordo che consente di riportare il livello dei prezzi tanto in ascissa quanto in ordinata. Il grafico (c) indica tutte le combinazioni di salario reale e prezzi compatibili con 4 lo stesso valore del salario monetario W0 esogenamente dato. Il grafico (d) infine costituisce il diagramma di sintesi che consente di individuare tutte le possibili situazioni di disequilibrio in precedenza illustrate. In esso la curva SS', che riproduce la condizione di massimizzazione neoclassica sopra riportata, per cui le imprese uguagliano il salario reale alla produttività marginale del lavoro, descrive tutte le coppie salario reale-reddito in corrispondenza alle quali le imprese massimizzano i profitti; in particolare il punto E corrisponde all'equilibrio walrasiano, nel senso che esso denota la combinazione tra salario reale e produzione in grado di assicurare il pieno impiego della forza lavoro N*. Poiché nello schema in esame salari e prezzi (W0 e P0) sono fissi, è evidente, anche sulla base delle argomentazioni keynesiane, che non necessariamente, in corrispondenza del salario reale di equilibrio (W/P)*, la domanda effettiva sarà tale da assicurare la possibilità di vendere la produzione Y*. Tuttavia, per semplicità, supponiamo di partire dall'ipotesi che, date le variabili monetarie e fiscali, esista un livello dei prezzi P* che, in combinazione con il salario W0 esogenamente dato, consenta al sistema di raggiungere l'equilibrio walrasiano. Ciò premesso, si deve osservare che il valore della produzione effettivamente realizzata dalle imprese sarà determinato da quello che, tra i tre vincoli cui è sottoposto il sistema, risulterà più stringente. Dovrà essere pertanto: Y = min(Yc,Yk,Y*) dove Yc è il reddito corrispondente al caso classico (in cui le imprese sono vincolate solo dal salario reale), Yk è quello corrispondente al caso keynesiano (in cui le imprese sono vincolate dalla domanda effettiva) e infine Y* è la produzione massima di pieno impiego. Supponiamo ora, nella figura 1, che il livello dei prezzi sia P0. In tal caso la domanda aggregata è pari a Y0, mentre il salario reale, dato W0, è (W/P)0. Di conseguenza le imprese massimizzeranno i profitti nel punto A, cui corrisponde però un'offerta YA inferiore alla domanda (e un'occupazione più bassa di quella massima). Tale punto sarà quindi caratterizzato da una disoccupazione di natura classica, trovando la sua giustificazione in un livello troppo elevato dei salati reali. Supponiamo ora invece che, invariate le altre condizioni di partenza, il livello dei prezzi sia pari a P1. In tal caso la domanda aggregata sarà pari a Y1, mentre il salario reale sarà (W/P)1 = W0/P1. Il sistema si collocherà quindi nel punto B, caratterizzato da una situazione di disoccupazione keynesiana. In essa, infatti, vi è contemporaneamente un eccesso di offerta di lavoro (effettiva) e di beni (nozionale: Y1 < Y*), posto che, con un salario reale pari a (W/P)1, le imprese vorrebbero realizzare una produzione corrispondente al punto C, ma sono razionate dal lato della domanda (tra l'altro, la posizione B, in cui Y1<Y* e il salario reale è minore di quello cui le imprese sarebbero disposte a offrire per produrre tale quantità sulla base della SS’, sarà pure caratterizzata dall'esistenza di extraprofitti). Mutando opportunamente le grandezze esogene del modello (variabili monetarie e fiscali, livello dei salari monetari e dei prezzi), il diagramma (d) della figura 1 diventa in grado di descrivere tutte le situazioni che potrebbero verificarsi in concreto. In particolare, per 5 ragioni di razionalità, si può escludere ogni punto a destra della curva SS', in quanto posizioni quale la D (generata ad esempio, con prezzi P0 e salari W0, da una domanda aggregata più bassa della AD) sarebbero caratterizzate dal fatto che in esse le imprese non starebbero massimizzando i profitti, nonostante ciò sia loro consentito da una domanda effettiva superiore all'offerta desiderata, corrispondente al punto A. I possibili casi di disoccupazione classica si troveranno quindi tutti lungo la curva SS' al di sopra del punto E. L'area a sinistra della stessa curva SS' e del segmento verticale EY* denota invece l'insieme delle possibili situazioni di disoccupazione keynesiana, in cui l'insufficienza della domanda effettiva provoca un razionamento alle vendite desiderate dalle imprese. Infine tutti i punti a destra del segmento EY* e al di sotto di EF (ma in realtà della curva ES') denotano situazioni di inflazione repressa, in cui tanto la domanda di beni quanto quella di lavoro superano i limiti potenziali. Le conclusioni di politica economica desumibili dagli schemi propri dell'analisi del disequilibrio possono ora essere illustrate sempre con l'ausilio della figura 1. In un mondo in cui prezzi e salari sono rigidi è fondamentale, per definire in maniera corretta i provvedimenti in grado di combattere la disoccupazione, riuscire a individuare con precisione in quale tipo di situazione fattuale ci si trova a operare. È chiaro infatti che se la disoccupazione è di natura classica, incrementi della domanda aggregata saranno del tutto inefficaci, posto che le imprese vendono già tutto quello che vogliono, mentre la causa del disequilibrio è da ricercarsi in un livello troppo elevato del salario reale. Per contro, se il sistema si trova in una situazione di disoccupazione keynesiana, riduzioni del salario reale, ottenute tramite riduzioni del salario monetario contrattualmente prefissato, saranno del tutto insufficienti a risolvere il problema. È facile costatare infatti, nella figura 1, che, a partire dal punto B, una riduzione di W0 che spostasse a sinistra l'iperbole equilatera del grafico (c) non avrebbe alcuna conseguenza sul livello della domanda effettiva e quindi sortirebbe l'unico effetto di aumentare gli extraprofitti degli imprenditori. In un caso «keynesiano» quale quello corrispondente al punto B della figura 1 l'unico provvedimento efficace contro la disoccupazione sarebbe quello di incrementare la domanda effettiva, e spostare verso l'alto la AD, per un dato P1 fino ad ottenere un corrispondente aumento della produzione a Y*. Secondo i teorici del disequilibrio, l'ipotesi più verosimile in concreto è che il sistema economico si collochi in una posizione quale quella indicata dal punto G nella figura 1. In tal caso la disoccupazione avrebbe contemporaneamente caratteristiche classiche e keynesiane. Aumentando la domanda effettiva è possibile soltanto spostarsi da G verso destra fino a incontrare la SS' nel punto in cui l'incremento dell'offerta trova un limite nel salario reale esistente. Da tale posizione in poi qualsiasi ulteriore aumento della domanda aggregata, non accompagnato da una appropriata riduzione del salario reale, sarebbe del tutto inutile. Come la figura 1 mostra chiaramente, l'equilibrio walrasiano può essere raggiunto, a partire da G, soltanto tramite un'opportuna combinazione di misure di incremento della domanda effettiva e di riduzione del salario reale. Queste stesse conclusioni sono state avanzate in alcuni rapporti del Centro studi di politica economica della Comunità economica europea finalizzati a individuare rimedi contro la disoccupazione in Europa, proprio sulla base di uno 6 schema teorico analogo a quello in precedenza illustrato. In effetti un simile apparato analitico possiede il vantaggio di un'estrema flessibilità; ciò lo rende particolarmente attraente nella diagnosi di situazioni concrete, e permette di operare una sorta di mediazione o compromesso tra le opposte tesi keynesiane e neoclassiche, concedendo qualcosa a entrambe le fazioni. L'apparente eleganza formale del modello e la sua natura consensuale rispetto a tesi contrapposte celano tuttavia inevitabili problemi pratici ogniqualvolta si vogliano davvero fornire indicazioni precise ai responsabili della politica economica sulle strategie da seguire. È chiaro infatti che l'operatività del modello si fonda sul presupposto di riuscire a individuare correttamente il livello di salario reale compatibile con l'equilibrio walrasiano. Poiché, tuttavia non esiste un accordo, né teorico né empirico, su come giungere a definire tale valore in modo univoco, le soluzioni derivate dall'analisi del disequilibrio possono solo condurre a prescrizioni di carattere qualitativo, peraltro fondate unicamente sulla sensibilità, la capacità, il buon senso e i giudizi di valore dell'economista che le sostiene. LA SUPPLY-SIDE ECONOMICS Una posizione che ha riscosso un certo grado di notorietà soprattutto negli Stati Uniti verso la fine degli anni settanta e nei primi anni ottanta, suscitando pure vivaci discussioni, anche in ambito accademico, è stata quella comunemente denominata supply-side economics o economia dell'offerta. Nella pratica essa è stata uno dei tre filoni teorici di riferimento, insieme alla NMC e all’ortodossia finanziaria, che esamineremo tra poco, che hanno costituito la cosiddetta Reaganomics, ovvero la strategia di politica economica adottata dall’Amministrazione Reagan in America negli anni ’80. Dal punto di vista teorico, del resto, l’economia dell’offerta costituisce uno sviluppo complementare di indicazioni già presenti nella NMC: in effetti, come è noto, la curva di offerta alla Lucas stabilisce che, in presenza di AR: Yt Yn a( t ) ut per cui il livello di reddito corrente può essere aumentato solo se si è in grado di accrescere il corrispondente livello del reddito naturale. Ciò è possibile, ovviamente, agendo soltanto dal lato dell’offerta, dato che la domanda aggregata è del tutto irrilevante. La tesi fondamentale della supply-side economics consiste dunque nell'affermazione che la macroeconomia keynesiana è stata sviluppata sulla base di fondamenti erronei e ha condotto a conseguenze deprecabili per avere prestato attenzione esclusiva proprio al lato della domanda, trascurando completamente i riflessi delle misure suggerite sul lato dell'offerta. Come risultato delle politiche keynesiane si è provocata una dilatazione eccessiva del settore pubblico, un incremento delle imposte e un’estensione della regolamentazione dei mercati che ha provocato evidenti distorsioni sulle decisioni individuali, riducendo in ultima istanza il livello del reddito ed il suo tasso di crescita. Il substrato teorico dell'economia dell'offerta non si allontana di molto dai vecchi postulati neoclassici, se non addirittura 7 dalla teoria di Adam Smith, nel senso di sostenere che spesa pubblica, imposte, trasferimenti e regolamentazioni amministrative provocano allontanamenti dall'allocazione ottimale delle risorse altrimenti operata dal libero mercato e distorsioni che determinano livelli di occupazione e produzione inferiori a quelli massimi raggiungibili. In particolare, in una prospettiva sintetica, la supply-side economics afferma che l'eccessivo carico delle imposte, conseguente alla dilatazione della spesa pubblica di ispirazione keynesiana, produce anche effetti disincentivanti sull'offerta di lavoro, sul risparmio e sull'investimento, con il risultato di contribuire a produrre una riduzione dell’output potenziale e della crescita economica di fatto sperimentata. Il rimedio a tale stato di cose consiste ovviamente nel ridurre drasticamente la dimensione del settore pubblico nell'economia e le sue necessità di finanziamento. Nella sua versione più estrema, tale teoria ha assunto come nucleo di riferimento la famosa curva di Laffer, peraltro mai esposta in ambito accademico, sebbene spesso propagandata dai mezzi di comunicazione di massa e da certi ambienti conservatori, come facile ricetta per un rilancio dell'iniziativa privata e quindi come premessa per un più sostenuto tasso di sviluppo del sistema economico. La curva in questione è rappresentata nella figura 2. Fig. 2. La curva di Laffer Gettito fiscale A 0 100 Aliquota di imposta Essa prende le mosse da un presupposto intuitivo evidente, in base al quale esistono due aliquote di imposta in grado di fornire uno stesso gettito erariale identicamente nullo: lo 0% e il 100%, dato che, nella seconda alternativa, nessuno avrebbe comunque interesse a porre in atto attività produttive dei cui risultati non potrebbe disporre. Da questo postulato di base Laffer evince che se la curva del gettito fiscale presenta un andamento iniziale crescente rispetto all’aliquota di imposta, allora deve necessariamente esistere un valore limite dell'aliquota di tassazione oltre il quale il 8 gettito fiscale comincia a ridursi, a causa di una corrispondente più che proporzionale flessione della base imponibile. Questo accade perché l'elevato peso dell'imposizione provoca effetti di disincentivazione e di distorsione sulla produzione, sugli investimenti e sulla produttività, i quali, uniti ad incentivi all’evasione che diventano crescenti al crescere dell’aliquota di tassazione, conducono ad una caduta netta del reddito e quindi del gettito fiscale. In definitiva la curva del gettito fiscale rispetto all’aliquota di imposta avrebbe, come illustrato dalla figura 2, un andamento prima crescente e poi decrescente. Con una estrapolazione del tutto gratuita delle indicazioni di tale schema logico, Laffer sostiene quindi che l'economia americana negli anni ottanta avrebbe superato il punto di massimo A (spesso individuato, empiricamente, in un’aliquota pari ad 1/3), cosicché il finanziamento del settore pubblico costituirebbe di fatto un freno al processo di crescita. In tali condizioni, tutto quello che occorre fare è ridurre le aliquote dell'imposizione fiscale, con un duplice effetto benefico: un aumento del livello di attività, sgravata dai disincentivi e dalle distorsioni provocate dal carico tributario, e un minore tasso di inflazione, riconducibile sia alla ridotta creazione di moneta consentita dal supposto incremento del gettito fiscale sia alla più elevata crescita della produttività stimolata dai tagli di imposta. La teoria di Laffer ha influenzato in maniera significativa le scelte fiscali operate dall’Amministrazione Reagan, conducendo a notevoli sgravi fiscali, sia sulle imprese, sia sulle famiglie, soprattutto a reddito elevato, sulle base del presupposto che la propensione al risparmio di queste ultime è maggiore, cosicché una riduzione delle imposte sui loro redditi avrebbe l’effetto di aumentare la propensione media al risparmio e stimolare la crescita, secondo quanto suggerito dallo stesso modello di Solow. Dopo il successo ottenuto dai tagli fiscali operati in California, quando Reagan era Governatore di tale Stato, la manovra è stata ripetuta a livello dell’intera economia USA nei primi anni ’80, quando Reagan divenne Presidente degli Stati Uniti. A differenza di quanto accaduto in California, tuttavia, benché i tagli fiscali abbiano avuto un notevole ruolo nello stimolare l’espansione americana (peraltro anche giustificabile sulla base di più tradizionali spiegazioni keynesiane dal lato della domanda), il gettito fiscale si è ridotto drasticamente, determinando disavanzi di bilancio assai consistenti. In effetti il saldo di bilancio federale degli USA è passato da una posizione di sostanziale pareggio, appena prima dell’elezione di Reagan, ad un deficit di circa 4 punti percentuali, in rapporto al reddito, nel corso del primo mandato presidenziale. La promessa implicita nella curva di Laffer non è quindi stata mantenuta: il gettito fiscale è diminuito, dato che alla riduzione delle aliquote di imposta non ha fatto seguito un più che proporzionale aumento del reddito. In effetti vi è una differenza sostanziale tra l’esperienza di un singolo Stato, come la California, e l’intera economia americana. Se uno Stato taglia le imposte, diventa più conveniente per le imprese rilocalizzare l’attività produttiva, o quanto meno la sede legale, in tale Stato: in tal modo vi sarà un notevole afflusso di imprese o quanto meno di base imponibile laddove sono stati operati i tagli fiscali; ma se le aliquote di imposta vengono ridotte in tutti gli Stati Uniti, non si verificherà alcuna rilocalizzazione di imprese, cosicché gli aumenti di reddito (e di gettito) ottenibili riposeranno sui più 9 tradizionali effetti di incentivazione al lavoro, al risparmio e all’investimento, ovvero all’attrazione di imprese dall’estero (come è accaduto in Europa, ad esempio, nel caso dell’Irlanda, soprattutto nei confronti delle imprese inglesi). Ciò spiega perfettamente la differente esperienza della California rispetto a quella degli Stati Uniti nel complesso. In tal modo, però, la curva di Laffer, nonostante continui ad essere propagandata come strumento sicuro di incentivazione della crescita a costo nullo, o positivo, per l’Erario, è risultata del tutto priva di fondamento teorico od empirico, anche perché non è assolutamente noto a quale livello dell’aliquota fiscale la curva comincia a diventare eventualmente decrescente. La supply-side economics in senso lato, comunque, al dì là delle sue versioni più estremistiche, come quella di Laffer, ha contribuito non poco a giustificare e a razionalizzare altre scelte di politica economica operate dall'Amministrazione Reagan, al di là degli sgravi fiscali. Nella logica dell'economia dell'offerta si devono interpretare ad esempio le misure volte a ridurre i sussidi di disoccupazione; a tale riguardo è stato sostenuto che il loro valore troppo elevato contribuisce ad aumentare la disoccupazione, corrente e naturale, inducendo le persone senza impiego ad astenersi dal ricercare con assiduità e frequenza le occasioni di lavoro disponibili ovvero ad astenersi dal lavorare tout court. Sempre nella logica dell’economia dell’offerta si devono inserire le misure di deregolamentazione dei mercati, allo scopo di eliminare i vincoli alla produzione e alle scelte occupazionali derivanti dall’imposizione di norme limitative della libertà di scelta individuale, che avrebbero l’inevitabile effetto di determinare un livello del reddito potenziale inferiore a quello ottenibile in assenza di vincoli. Nel caso del mercato del lavoro, in particolare, misure dal lato dell’offerta in grado di aumentare occupazione di equilibrio e reddito potenziale sarebbero quelle connesse all’eliminazione delle rigidità di fatto esistenti, come la presenza di costi di assunzione e di licenziamento, l’esistenza di oneri impropri per le imprese, nonché un eccessivo peso della tassazione sul costo del lavoro e sulle imprese in generale. A tale riguardo, si consideri l’equilibrio del mercato del lavoro in regime di concorrenza perfetta in presenza di frizioni e imperfezioni di vario tipo, come quello rappresentato nella figura 3. Come è noto, proprio a causa di tali imperfezioni, l’occupazione di equilibrio, pari a N*, implica l’esistenza di una disoccupazione frizionale o strutturale, pari a L-N*, cui corrisponde un tasso di disoccupazione naturale u*=(L-N*)/L. Supponiamo ora che, in seguito all’adozione di riforme strutturali quali quelle cui sopra si è accennato, o all’introduzione di maggiori elementi di flessibilità nell’impiego della mano d’opera, i costi delle imprese si riducano, ovvero che la produttività del lavoro aumenti. In entrambi i casi la scheda di domanda di lavoro si sposterà verso destra, da D a D’. In conseguenza di ciò, l’equilibrio sul mercato del lavoro si sposterà dal punto E a E’, con un incremento del livello di occupazione naturale a N**, ed una diminuzione del tasso di disoccupazione naturale a u**=(L-N**)/L. Un effetto analogo si verificherebbe in conseguenza di una riduzione dei sussidi di disoccupazione (o più in generale della protezione fornita dal sistema di Welfare), che spingerebbe i lavoratori a dedicare meno tempo alla ricerca di nuove opportunità di impiego: in tal caso però 10 sarebbe la curva di offerta S a spostarsi verso il basso, producendo comunque, anche in tale situazione, una riduzione della disoccupazione di equilibrio. In seguito all’introduzione di riforme strutturali del mercato del lavoro, dunque, l’occupazione di equilibrio aumenterebbe;, di conseguenza aumenterebbe il livello di reddito potenziale, definito dalla funzione di produzione y=F(K,N). Fig. 3. Riforme del mercato del lavoro e occupazione di equilibrio E’ D’ N** L’ORTODOSSIA FINANZIARIA Nel suo programma di politica economica mirante a ridurre la dimensione del settore pubblico, l'economia dell'offerta si è trovata ad avere come alleati i tradizionali sostenitori dell'ortodossia fiscale e finanziaria, da sempre in opposizione alle tesi e ai disavanzi di bilancio di ispirazione keynesiana. Per costoro, tuttavia, la prospettiva di analisi fondamentale riguarda il deficit pubblico nel suo complesso, piuttosto che il solo versante delle entrate, anche se le due scuole concordano nel sottolineare la necessità di ridurre l'ingerenza statale nell'economia. La dimensione del settore pubblico tende a dilatarsi eccessivamente a causa di una distorsione presente nel processo politico della democrazia rappresentativa, per cui i benefici della spesa pubblica si concentrano su minoranze potenti, mentre i costi sono ripartiti su una base più ampia, ai cui interessi viene assegnato un peso minore nel processo decisionale. Così, nelle democrazie rappresentative, i gruppi di potere organizzati tendono a prevalere e a ottenere maggiori guadagni rispetto alla globalità dei contribuenti non organizzati. Gli oneri impliciti in tale processo possono inoltre essere nascosti dai disavanzi di bilancio, i quali o 11 rimandano i costi (e le imposte) a generazioni future ovvero causano alternativamente aumenti dei tassi di interesse o maggiore inflazione, in seguito alle necessità imposte dal loro finanziamento. Come è chiaro dal più volte ricordato vincolo di bilancio del settore pubblico, infatti, ogni disavanzo di bilancio implica una sua copertura tramite emissione di titoli fruttiferi o moneta: poiché il reddito è già al suo livello potenziale, nel primo caso si genererebbe un aumento dei tassi di interesse e nel secondo un incremento del tasso di inflazione. L’ortodossia finanziaria implica pertanto un sostanziale ritorno al “Punto di vista del Tesoro” degli anni ’30 del secolo scorso. Se a tali argomentazioni macroeconomiche si aggiungono quelle connesse alle varie distorsioni allocative provocate da un settore pubblico iniquo e inefficiente, ne discende l’ovvio suggerimento di eliminare del tutto i disavanzi di bilancio, introducendo eventualmente modifiche costituzionali che obblighino il governo al rispetto della regola di bilancio in pareggio. Negli Stati Uniti le tesi dell’ortodossia finanziaria sono state recepite dalla proposta di legge Gramm-Rudman-Hollings, mirante a vincolare il Governo alla realizzazione del pareggio del bilancio federale entro un lasso di tempo prefissato (anche se nella realtà l’orizzonte temporale di rientro è stato continuamente allungato nel tempo). In Europa considerazioni di tale genere, unite all’esame dei possibili effetti di spillover di finanze pubbliche disordinate di un dato paese su quelle degli altri membri dell’Unione Europea, hanno sostanzialmente ispirato la redazione del Trattato di Maastricht, prima, e del Patto di Stabilità e Crescita, poi. Quest’ultimo in particolare, prevede un bilancio pubblico strutturalmente in pareggio, al fine di consentire ai paesi membri dell’Unione Europea di adottare, in caso di recessione, politiche fiscali anticicliche che mantengano i disavanzi pubblici al di sotto del limite del 3% del reddito previsto dal Trattato di Maastricht. Tutto ciò al fine di evitare che disavanzi pubblici troppo elevati determinino innalzamenti dei tassi di interesse o necessità di finanziamento monetario da parte della BCE, le quali pregiudicherebbero l’obiettivo di stabilità dei prezzi da quest’ultima perseguito. Come si può facilmente rilevare, dunque, l’architettura istituzionale europea ha finito col risentire in maniera sostanziale delle posizioni dell’ortodossia finanziaria, in linea con quanto già accaduto con riferimento alla definizione degli obiettivi e dei criteri di comportamento della più autorevole Banca Centrale del Vecchio Continente prima della creazione della BCE: la Bundesbank. LA VECCHIA E LA NUOVA SCUOLA DI CAMBRIDGE Rispetto a tali proposte di stampo neoliberista, posizioni diametralmente opposte vengono sostenute da economisti che asseriscono di mantenere una maggiore fedeltà al pensiero originario di Keynes. Nella visione di Kaldor, ad esempio, la tesi keynesiana originaria di una politica monetaria scarsamente utilizzabile per fini di stabilizzazione, ma soprattutto per fini espansivi, viene ancor più radicalizzata. Riprendendo le conclusioni cui era giunta la Commissione Radcliffe sul funzionamento del sistema monetario inglese, Kaldor sostiene che, al di là di periodi di tempo molto limitati, non è assolutamente possibile 12 per la Banca Centrale controllare l'offerta di moneta. Ciò discende dal fatto che, in un sistema creditizio altamente sviluppato, la presenza degli intermediari finanziari e di un elevato numero di attività liquide consente di adattare endogenamente la quantità di moneta alle esigenze del sistema reale. Per motivi del tutto analoghi espansioni monetarie sono scarsamente influenti sui livelli dei tassi di interesse, in seguito alle riallocazioni di portafoglio messe in atto dagli operatori e alla creazione di sostituti della moneta ufficiale. Le autorità pertanto non possono e non devono controllare l'offerta di moneta, la cui endogenità costituisce la spiegazione più sensata della elevata correlazione tra moneta e reddito rilevata dagli economisti monetaristi, anche se la direzione di causalità risulta esattamente opposta a quella da loro asserita. Un aumento del reddito provoca infatti un adeguamento della quantità di moneta, direttamente attraverso la creazione di sostituti, oppure indirettamente tramite il comportamento delle autorità che tendono a mantenere i tassi di interesse sostanzialmente invariati, per timore di provocare instabilità dell'intera struttura finanziaria. In termini del modello IS-LM, tale linea di pensiero induce a sostenere che la scheda LM è praticamente orizzontale, anche se ciò è dovuto non agli effetti della trappola della liquidità, ma piuttosto alla supposta endogeneità dell'offerta di moneta. Nella teoria, però, non è sempre ben specificato il livello al quale la LM si colloca. Verosimilmente, nel pensiero di Kaldor, è la Banca Centrale, attraverso la manovra del tasso ufficiale di riferimento, a fissare il tasso di interesse interno, anche se, in una economia aperta ai movimenti di capitale, tale aspirazione appare potenzialmente in contrasto con i condizionamenti imposti dai tassi di interesse prevalenti sui mercati internazionali. Per coerenza logica si dovrebbe quindi supporre o che la mobilità dei capitali è imperfetta ovvero che si possono introdurre dei controlli o una tassazione sui flussi di capitale, in modo da consentire al tasso interno obiettivo di divergere da quello internazionale. Con una LM piatta, le indicazioni di politica economica che scaturiscono dall'analisi originaria di Kaldor sono praticamente simili a quelle suggerite dai vecchi «fiscalisti» neokeynesiani: soltanto con l'uso della politica fiscale è possibile conseguire l'obiettivo del pieno impiego. Rispetto al tema della più appropriata assegnazione degli strumenti agli obiettivi, peraltro, le tesi di Kaldor prevedono una combinazione diversa da quella suggerita dal modello di Mundell-Fleming: in un mondo in cui i movimenti di capitale sono poco mobili o controllabili e l'offerta di moneta è endogena, la politica fiscale avrebbe il compito di raggiungere l'obiettivo interno (ovvero di determinare un livello di attività tale da condurre al pieno impiego), mentre alla politica valutaria (cioè alla flessibilità dei cambi) verrebbe assegnato l'onere di conseguire l'obiettivo esterno (ovvero di mantenere l'equilibrio della bilancia dei pagamenti). All’interno di uno schema teorico in cui i prezzi risultano determinati dai costi sulla base del principio del mark-up, infine, toccherebbe sostanzialmente alla politica dei redditi controllare l'inflazione, assicurando un aumento dei salari monetari in linea con la crescita media della produttività del lavoro, evitando così che le pressioni sindacali, in parte riconducibili allo stato della domanda effettiva, si scarichino inevitabilmente sul livello dei prezzi. 13 Le tesi sinora illustrate, corrispondenti in pratica al programma di politica economica della cosiddetta Vecchia Scuola di Cambridge, hanno subito, nella seconda metà degli anni settanta, una radicale revisione, soprattutto ad opera di un gruppo di economisti facenti capo al Dipartimento di Economia Applicata della stessa Università. Le nuove proposizioni, per contrasto con le prime, sono state raggruppate sotto la denominazione di Nuova Scuola di Cambridge. La tesi fondamentale della Nuova Scuola, che condivide peraltro con la Vecchia l'idea che la moneta non conta, deriva da una radicale ipotesi di base sul comportamento del settore privato rispetto alle proprie decisioni di spesa, ovvero all'acquisizione di attività finanziarie nette. Si consideri al riguardo la consueta condizione di equilibrio keynesiana sul mercato dei beni, valida per un'economia aperta, la quale può essere espressa nella forma: S+T+M= I+G+X dove le grandezze indicate rappresentano rispettivamente il risparmio privato, la tassazione, le importazioni, gli investimenti, la spesa pubblica e le esportazioni. L'ipotesi di comportamento in questione, suffragata secondo la Nuova Scuola dall'evidenza empirica inglese e talvolta denominata (in maniera forse pretenziosa) come legge di Godley (dal nome dell’economista britannico che l’ha originariamente formulata), afferma che, in riferimento a periodi di tempo non brevi, il settore privato nel complesso (ovvero la somma di famiglie e imprese) tende a spendere esattamente quanto guadagna. Considerando cioè il reddito disponibile del settore privato nella sua globalità, la propensione alla spesa complessiva (pari alla somma di consumi più investimenti) viene assunta praticamente pari all'unità. In termini alternativi, ma equivalenti, si ipotizza che sia sostanzialmente pari a zero il saldo finanziario del settore privato, determinandosi una sorta di compensazione tra la variazione delle attività finanziarie nette delle famiglie e quella delle passività nette delle imprese. Indicando con SF il saldo finanziario del settore privato, si avrebbe quindi: SF=S-I=0. Introducendo tale ipotesi chiave nella relazione precedente, e riordinando i termini, si ottiene ovviamente: M-X=G-T=F la quale riproduce la proposizione fondamentale della Nuova Scuola di Cambridge, secondo cui il deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti (M — X) è esattamente uguale al disavanzo o fabbisogno (F) del settore pubblico. Si supponga ora che tale saldo sia determinato in maniera autonoma e indipendente dal livello del reddito (ovvero che tanto G quanto T siano esogene); si supponga poi che le esportazioni siano esogenamente date, mentre le importazioni sono una funzione lineare del livello di attività (M = M0 + mY). Sotto tali condizioni il livello di equilibrio del reddito risulta individuato dalla relazione: 14 Y F X M0 tm Tuttavia, data l’uguaglianza precedente (M-X=F), qualunque sia il livello di attività, il saldo corrente della bilancia dei pagamenti è univocamente determinato dal deficit di bilancio del settore pubblico e muta soltanto in conseguenza di variazioni di quest'ultimo. Il funzionamento pratico del sistema può essere illustrato con l'aiuto della figura 3. In essa la retta crescente denota la funzione delle importazioni, mentre la linea orizzontale rappresenta il vincolo sulla bilancia dei pagamenti ridefinito in termini delle importazioni, per cui M=X+F. Un aumento del disavanzo pubblico, da F a F', fa spostare verso l'alto tale vincolo. Il reddito di conseguenza cresce, da Y0 a Y1, risultando, sulla base della condizione di equilibrio precedente, Y=(1/m)F; tuttavia, poiché le importazioni salgono in proporzione (essendo M=mY), l’esito finale è quello di incrementare il deficit della bilancia dei pagamenti nella stessa misura in cui aumenta il deficit pubblico. Risulta infatti, data la funzione delle importazioni e la definizione dell’equilibrio del reddito: M mY m 1 F F m La stessa relazione, peraltro, potrebbe essere ricavata direttamente dal vincolo per cui M-X=F, cosicché vale necessariamente M=F. Fig. 3. L’equilibrio del reddito secondo la Nuova Scuola di Cambridge M M X+F’ X+F Y0 Y1 Y Si supponga ora che le autorità perseguano l'obiettivo di conseguire un saldo nullo della bilancia di parte corrente. Sempre in base al vincolo M-X=F, ciò potrà essere ottenuto solo azzerando il deficit del settore pubblico, ovvero ponendo F= O. Inserendo tale condizione nella determinazione dell’equilibrio del reddito, otteniamo: 15 Y X M0 m Appare così evidente che, dato il vincolo esterno, il livello di attività può essere modificato solo agendo sulle quantità esportate o importate. In termini della figura 3, un aumento delle esportazioni sposta il vincolo orizzontale verso l'alto, mentre una riduzione delle importazioni sposta la linea crescente verso il basso. In entrambi i casi il reddito di equilibrio aumenta, mentre allo stesso tempo, per definizione, il saldo di parte corrente rimane immutato e nullo, dato che M-X=F=0. Si ottiene così la proposizione basilare, solo apparentemente paradossale, della Nuova Scuola di Cambridge sull'uso appropriato della politica fiscale e di quella valutaria per il raggiungimento dell'equilibrio interno ed esterno. Ribaltando completamente le conclusioni della Vecchia Scuola, si sostiene che la politica fiscale deve essere utilizzata per il conseguimento dell'obiettivo esterno, mentre la politica valutaria va finalizzata all'obiettivo contrario. In tale direzione possono risultare utili tanto una manovra di svalutazione della moneta nazionale quanto un controllo diretto delle importazioni; quest'ultima misura appare peraltro preferibile, in quanto evita gli effetti inflazionistici provocati dalla stessa svalutazione. Le tesi della Nuova Scuola di Cambridge non hanno mancato di suscitare un acceso dibattito, nel corso del quale sono state avanzate critiche sostanziali all'apparato teorico sopra illustrato. In particolare, indipendentemente dalla validità solo presunta, ma non giustificabile a priori, della cosiddetta legge di Godley, è stato sottolineato come in ogni caso le conclusioni raggiunte riposino in maniera altrettanto cruciale sull'ipotesi, peraltro inaccettabile, che il saldo del settore pubblico sia completamente esogeno. Nella realtà non si può negare che almeno la tassazione dipenda dal livello del reddito, ad esempio secondo una relazione lineare del tipo T=T0 + tY. Tale semplice dipendenza è in grado di produrre radicali cambiamenti allo schema della Nuova Scuola. Mentre rimane ancora vero che, per definizione, il disavanzo della bilancia di parte corrente è uguale al deficit del settore pubblico, essendo ancora M-X = G-T, la direzione di causalità non è più univoca, dato che, a causa dell'endogeneità della tassazione, tanto le variazioni del fabbisogno quanto quelle delle transazioni con l'estero possono produrre mutamenti nelle grandezze che compaiono nel vincolo precedentemente indicato. In particolare il livello di equilibrio del reddito risulta ora definito dall'espressione: mentre il saldo di parte corrente corrisponde a: BP X M t(X M0 ) m(G T0 ) T G tm 16 dalle quali appare evidente come tanto le variabili fiscali quanto quelle di bilancia dei pagamenti siano in grado di influenzare entrambi gli obiettivi delle autorità (Y e BP). Nonostante il tentativo della Nuova Scuola di Cambridge di mantenere la validità sostanziale delle conclusioni ricavate dal precedente schema, ricollegandosi ancora alla relazione contabile M-X=G-T, è chiaro che la doppia direzione di causalità impedisce di individuare una priorità effettiva nell'uso di uno strumento rispetto all'altro, e di un obiettivo rispetto all’altro. Ciò risulta ancora più evidente se, come in precedenza, risolviamo il sistema in funzione degli obiettivi BP = O e Y= Y*. Otteniamo infatti, sotto tali condizioni, il sistema: t(X M0 ) m(G T0 ) 0 Y* G T0 X M0 tm A differenza dello schema precedente, in cui t = O, il sistema sopra riportato non può essere risolto in maniera causale (o sequenziale, per cui si determina prima il valore del fabbisogno, F=0, compatibile con l’equilibrio della BP e poi il valore di m necessario al pieno impiego). In particolare, dati X, M0 e T0, esiste un'unica combinazione dell'aliquota di tassazione t e della propensione a importare m (supposti ora come i due strumenti a disposizione dell’autorità di governo) in grado di raggiungere simultaneamente i due obiettivi di reddito e bilancia dei pagamenti. Ciò corrisponde del resto ad una nota regola di politica economica, dovuta a Tinbergen, per cui, in un sistema integrato, il numero di strumenti deve essere uguale a quello degli obiettivi, e la soluzione del modello di politica economica avviene in maniera simultanea per tutte le equazioni. In tale contesto risulta impossibile assegnare uno strumento piuttosto che un altro ad uno specifico obiettivo. Valutazioni di tal genere potrebbero al più essere dedotte facendo ricorso ad un concetto di efficienza relativa (o comparata) degli strumenti rispetto agli obiettivi, concetto che misura la capacità di ciascuno strumento di influire in misura più o meno consistente su obiettivi alternativi In tal caso, considerando sempre t e m come strumenti, si può dimostrare che l'efficienza comparata dei due strumenti in questione rispetto agli obiettivi reddito e bilancia dei pagamenti risulta pari a t/m. Qualora, come traspare dal modello della Nuova Scuola di Cambridge e dall’esperienza empirica inglese di riferimento, l'aliquota di tassazione risulti superiore alla propensione a importare, ne conseguirebbe un ribaltamento delle tesi della Scuola. In base a considerazioni di efficienza relativa degli strumenti, cioè, la tassazione dovrebbe essere finalizzata all'obiettivo interno (quello sul quale è più efficace), mentre il controllo delle importazioni dovrebbe essere più propriamente indirizzato alla realizzazione dell'equilibrio esterno (di nuovo in base a considerazioni di efficienza relativa). Le conclusioni della Nuova Scuola di Cambridge sembrerebbero pertanto destituite di fondamento. Vi sono tuttavia alcuni aspetti della teoria che meritano una più favorevole considerazione. Questi riguardano soprattutto la distinzione tra gli effetti di breve e 17 quelli di più lungo periodo della politica fiscale in un mondo nel quale valga la legge di Godley, per cui il moltiplicatore del reddito risulti più elevato di quello corrispondente a un modello in cui la propensione al risparmio è positiva. In effetti all’interno dello schema della Nuova Scuola di Cambridge il moltiplicatore del reddito risulterebbe pari a 1/(t+m), a fronte del tradizionale moltiplicatore keynesiano semplificato 1/(s+t+m), il cui valore sarebbe ovviamente più basso. In tale contesto, le prescrizioni di politica economica della Nuova Scuola sarebbero giustificate dalla preoccupazione di evitare che, di fronte o a seguito di perturbazioni esogene, si faccia troppo spesso ricorso (come nell'economia inglese) a cambiamenti della politica fiscale, e in particolare dell'aliquota di tassazione. Tali mutamenti si rifletterebbero inevitabilmente, in misura più o meno grande, in corrispondenti variazioni del saldo della bilancia dei pagamenti. Esisterebbe quindi il serio pericolo che una strategia di politica economica limitata a un'ottica di breve periodo possa costituire, rispetto a un orizzonte temporale più esteso, fonte di instabilità per il sistema economico, determinando indesiderabili processi di stop and go, collegati all’evoluzione della bilancia dei pagamenti. Tale possibile fonte di maggiore instabilità reale dovrebbe quindi essere evitata, proprio come suggerito, seppure con motivazioni e finalità diverse, dagli economisti di ispirazione monetarista. 18