Lezioni di storia economica_2016-2017

STORIA ECONOMICA
Facoltà di Scienze Economiche e Giuridiche
Corso di Economia aziendale
Prof. MICHELE SABATINO
INTRODUZIONE ALLA STORIA ECONOMICA (4)
La storia economica dell’Italia nel
ventennio fascista (1922-1943)
Il ventennio fascista: la fase liberale
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Dopo la Marcia su Roma dell’ottobre 1922 Mussolini,
indicato dal Re, a Primo Ministro consolida il suo potere e
inaugura la prima fase del fascismo.
Si tratta di una fase c.d. liberale sia in politica economica che
nelle scelte a favore della borghesia italiana e dell’industria.
Vengono privatizzati i servizi telefonici e le assicurazioni.
Ma alle scelte liberali in politica economica si accompagnano
quelle autoritaria e violente in politica con l’uccisione del
deputato socialista Matteotti e con la riforma elettorale che
finisce per dare il potere assoluto al Partito fascista.
Vengono messi al bando i sindacati
Si avvia la prima riforma bancaria (1926) con il monopolio
dell’emissione e il controllo della liquidità alla Banca d’Italia.
Il ventennio fascista: la fase liberale
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L’opportunità di accedere ai crediti americani e inglesi
convinse Mussolini a lanciare la sfida di “quota 90”: rivalutare
la Lira rispetto alla Sterlina con rapporto 1/90 £. E quindi
procedere all’adesione al gold exchange standard. La
rivalutazione comportò un deterioramento della Bilancia dei
pagamenti a danno delle esportazioni italiane e una stretta
creditizia a danno delle piccole e medie imprese. Per bilanciare
tale situazione furono concesse numerose agevolazioni fiscali e
la scelta dei fornitori italiani sulle commesse pubbliche.
La scelta deflattiva comportò un rafforzamento delle posizioni
oligopolistiche nell’industria ma anche la riduzione di alcuni
prezzi all’ingrosso di prodotti importati. Malgrado la
produzione ritornò ai livelli di Giolitti il dislivello con gli altri
Paesi europei rimase significativo.
Il ventennio
fascista
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A queste scelte si aggiunse la “Battaglia del Grano” per
conseguire una certa autosufficienza alimentare e ridurre
le importazioni di frumento dagli USA che avevano
prezzi più convenienti a danno dei consumatori. Si favorì
la meccanizzazione e la piccola proprietà contadina con la
“sbracciantizzazione” dei contadini con una ulteriore
polverizzazione delle terre. La battaglia del grado rallentò
l’avvio di colture intensive, aumentò la produzione di
frumento, favorì i produttori a danno dei consumatori.
Furono infine avviate le “bonifiche” che tuttavia ebbero
l’opposizione di numerosi proprietari terrieri e solo il
50% furono realizzate.
Il ventennio fascista: la fase dirigista
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Con la grande crisi del 1929 il governo fascista ritardò nel
prendere adeguati provvedimenti. Ma davanti alle difficoltà
evidenti dell’industria il Governo Mussolini decise di
intervenire con la nascita nel 1933 dell’Istituto di Ricostruzione
Industriale IRI con il compito di scongiurare il fallimento della
Banca Commerciale, del Credito Italiano e della Banca di
Roma. Il compito dell’IRI era quello di rilevare le aziende in
crisi, ristrutturarle, sanarle e poi rivenderle ai privati. Il
passaggio della proprietà all’IRI delle banche costituì la
premessa per la seconda riforma bancaria nel 1936. La riforma
bancaria aumentò la vigilanza della Banca di Italia e la sua
pubblicizzazione, stabilì la divisione tra Banche di deposito e di
credito dalle Banche di investimento industriale.
Contemporaneamente era stato costituito l’Istituto Mobiliare
Italiano (1931) con il compito di concedere prestiti decennali a
banche e imprese attraverso l’emissione di obbligazioni.
Il ventennio fascista: la fase dirigista
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Dopo qualche anno l’IRI si trovò ad essere proprietario
di numerose imprese con la difficoltà di cederle ai
privati. La difficoltà di ristrutturare e vendere ai privati
provando a associarli risultò di difficile attuazione in
diversi settori industriali come quello della siderurgia.
Completare il ciclo produttivo dal minerario ai laminati
risultò difficile. Gli impianti erano frazionati e non
specializzati. Inoltre la produzione dell’acciaio era
dissociata da quella della ghisa. Alla fine l’indirizzo
autarchico del governo Mussolini condizionò le scelte
dell’IRI.
Con il varo nel 1936 del Piano nazionale dell’economia
l’IRI si trovò a gestire il 77% della produzione di ghisa e
il 45% di acciaio.
Il ventennio fascista: la fase dirigista
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Mussolini finì quindi per assumere una
gestione dirigista e statalista dell’economia
con una evidente diffidenza rispetto ai grandi
gruppi industriali. Alla fine lo Stato si trovò a
“rendere pubbliche le perdite private” del
sistema produttivo e per essere, rispetto agli
altri sistemi economici europei, quello in cui
la presenza dello Stato nell’economia era
fortissima.
Il ventennio fascista: tra autarchia e
imperialismo – la fine
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L’intervento dell’IRI riuscì a tamponare la grande
crisi. Ma la nuova situazione internazionale finì per
isolare l’Italia a cominciare dall’isolamento politico
dovuto alla guerra in Etiopia condannata dalla Società
delle Nazioni.
Su sollecitazione della Confindustria il Governo
bloccò i salari a tutela dei profitti e le proposte di
Agnelli di adottare una linea opposta (riduzione orari
di lavoro e incremento della domanda) andarono a
vuoto. Un cambio sopravalutato e riserve auree
diminuite finirono per orientare il governo ad una
politica protezionistica e autarchica anche a seguito
dell’embargo imposto dalla Società delle Nazioni.
Il ventennio fascista: tra autarchia e
imperialismo – la fine
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L’autarchia proclamata da Mussolini si rivelò un fallimento e
rafforzò i gruppi industriali che lavoravano per il mercato interno.
Il ventennio alla fine fu contraddistinto da un periodo di ristagno
pur in coerenza con il resto del mondo a seguito della grande crisi.
A questa situazione generale si aggiunse la condizione arretrata del
Mezzogiorno perdendo ulteriore terreno sia in termini di reddito
che di investimenti: mancato ammodernamento dell’agricoltura,
scelte di politica economica a favore dei gruppi industriali del
Nord.
Il livello dei salari si era ridotto e il sindacato fascista era ormai un
apparato burocratico e di controllo che, tranne alcuni casi,
assecondò le maestranze. Si procedette ad un aumento della
burocrazia ministeriale con la presenza di molti meridionali.
Il ventennio fascista:
il disastro dell’economia di guerra
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A livello internazionale l’Italia finì sotto
l’orbita nazista. Fin dal 1936 Mussolini dichiarava infatti
che l’Italia si stava preparando a un grande “cimento
bellico”. Contemporaneamente ad una disastrosa
situazione delle finanze pubbliche si prospettava quindi
un impegno militare a fianco della Germania di Hitler.
Molti furono gli ambienti governativi e non a tentare di
dissuadere il Duce ma il “patto d’acciaio” trascinò
l’Italia in guerra senza alcuna preparazione militare e
industriale.
Solo nel 1940 Mussolini tracciò un Piano nazionale per
la produzione bellica. Inasprimento delle tasse e prestiti
forzosi prepararono l’impegno bellico.
La storia economica dell’Italia
contemporanea (1943-2006)
L’Italia della ricostruzione economica
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In Italia il 25 luglio 1943 si consuma un colpo di Stato da
parte della monarchia, di alcuni esponenti meno filotedeschi e
dalla borghesia industriale. Defenestrato Mussolini l’8
settembre 1943 l’Italia si schiera con le potenze alleate. Si
consuma in Italia la lotta partigiana al Nord e gli Alleati
procedono la liberazione del Paese dal Sud.
La Resistenza diede maggiore dignità e autonomia nel
trattamento dei Paesi sconfitti.
Malgrado gli Stati Uniti propugnarono scelte keynesiane
anche grazie al Piano Marshall i governi italiani dell’epoca,
specie dalla vittoria della Democrazia Cristiana il 18 aprile
1948 e l’esclusione delle sinistre dal governo, adottarono una
politica deflattiva fondata sul restringimento del credito.
L’Italia della ricostruzione economica
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La Costituzione italiana favorì il processo di ricostruzione e i
lavori dell’Assemblea costituente del 1946 si svolsero in un
contesto di grande concordia e solidarietà. Furono smantellate
le strutture autarchiche e corporative. A quel tempo i partiti
socialisti (Nenni) comunisti (Togliatti) collaborarono alle
scelte economiche con i liberali e la DC.
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La Costituzione italiana, tra le più avanzate, stabilì importanti
punti fondamentali nei diritti dei cittadini, dimostrandosi
idonea a favorire i processi di crescita. Spesso tuttavia la sua
applicazione concreta, in alcune parti che rinviavano a norme
attuative, o ritardarono ad essere redatte o furono trasformate
e distorte dalle forze conservatrici (vedi le leggi sul
decentramento).
Le idee della ricostruzione economica
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Le idee sulla ricostruzione furono tra le forze politiche diverse.
Le forze di sinistra e il Partito d’Azione erano orientati ad alcune
nazionalizzazioni, i liberali contrari mentre la DC valutare caso
per caso. Quanto all’ipotesi di un Piano economico i comunisti
erano contrari e più orientati a riforme di struttura. Per i socialisti
era necessario un piano di coordinamento degli investimenti. Gli
unici che avessero idee chiare su cosa fare erano i tecnici di
ispirazione liberale (Einaudi, Del Vecchio, Demaria, Corino) ma
i grandi gruppi industriali non intendevano rinunciare alle loro
prerogative e privilegi.
La questione principale era la questione del cambio di moneta
per impedire l’inflazione. Il Governo Parri non riuscì ad
affrontare la questione e anche il primo governo De Gasperi per
assicurare l’unità nazionale rinviò la questione. Contestualmente
con la “svolta di Salerno” i comunisti optarono per una scelta
democratica attraverso una via nazionale al socialismo.
Le idee della ricostruzione economica
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Malgrado la svolta di Togliatti per il PCI la scelta rimaneva quella
della Terza internazionale e del crollo del sistema capitalistico.
L’ipotesi socialdemocratica veniva solo accettata nella sua
provvisorietà.
I socialisti erano invece appiattiti sulle posizioni del partito
comunista anche se spesso i socialisti Lombardo, Morandi e
D’Aragona avevano trovato alcune sintonia sulla politica di piano
con la sinistra DC. Il Partito d’Azione, dilaniato da contrasti, non
riuscì a svolgere una funzione di stimolo.
Tra le figura importanti vi era Ugo La Malfa forte assertore delle
idee di programmazione e keynesiane equidistante tra marxismo e
liberalismo. L’Italia doveva intraprendere la strada dell’economia
mista. In tal senso bisognava convertire i socialisti dal
massimalismo al riformismo.
Le idee della ricostruzione economica
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Nel programma DC furono recepiti i principi della
democrazia economica di Saraceno e Vanoni estensori
del c.d.”Codice di Camaldoli” con lo sforzo per
investimenti di lungo periodo. L’impostazione della
sinistra DC con Dossetti, in opposizione a De Gasperi,
tuttavia non prevalse e la linea liberale della DC finì per
essere quella adottata dai futuri governi democristiani.
A spezzare l’intreccio tra i tre partiti del CNL (DC, PSI,
PCI) fu il peggioramento della congiuntura economica e
la gestione delle ondate inflazionistiche. In questo quadro
la funzione svolta da Einaudi – prima governatore della
Banca d’Italia e poi Ministro del Tesoro – accelerò le
ragioni della fine del tripartito e l’avvio di una politica
deflattiva.
L’Italia della ricostruzione economica
e il tema dell’inflazione
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Il tema dell’inflazione fu un elemento determinante di quegli
anni. Alla fine del conflitto l’espansione monetaria, che si era
riuscita a contenere forzosamente, esplose in modo
clamoroso. L’indice dei prezzi al consumo passo da 100 del
1938 a 5159 del 1947.
Per la sinistra ciò fu dovuto alla fine dei controlli sui prezzi e
sui mercati. Bisognava evitare inoltre che la fine dei controlli
significasse una redistribuzione dei redditi e una forte
evasione fiscale. Bisognava introdurre una nuova moneta
costringendo i possessori di capitali a presentarsi alle banche
per ottenere il “cambio della moneta” individuando i
possessori di grandi capitali e tassandoli, colpendo speculatori
e aiutando le case dello Stato.
L’Italia della ricostruzione economica
e il tema dell’inflazione
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Per i liberisti (in quel tempo i tecnici della DC nel gruppo di
De Gasperi) causa dell’inflazione era l’eccesso di spesa
pubblica non la mancanza di controlli i quali dovevano essere
aboliti.
Cacciata la sinistra nel 1948 dal governo prevalse la linea
liberista di Einaudi (Ministro del tesoro) con una politica
deflattiva e di restrizione del credito (aliquote di deposito
obbligatorie del 25%) e caduta della domanda interna e
quindi della spirale inflattiva. Tutto a danno di una forte
disoccupazione e l’arresto dell’attività produttiva.
Solo la congiuntura internazionale degli anni a venire avrebbe
ridotto le conseguenze di tali scelte politiche.
I fattori della ricostruzione economica
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1.
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Quale furono i fattori della crescita e della ricostruzione?
Il potenziale industriale italiano non era danneggiato
soprattutto perché il conflitto si consumò prevalentemente
al Sud e al Centro. I Partigiani salvarono le fabbriche. Il
patrimonio industriale rimase quindi prevalentemente
intatto.
Il contesto sociale, con i partiti di sinistra, nella prima fase
al governo, favorì un periodo di concordia con basse
richieste salariali.
Il potenziale industriale e l’utilizzazione della capacità
produttiva fu rapidamente raggiunta sfruttando la
congiuntura europea ed internazionale favorevole;
I fattori della ricostruzione economica
4. I problemi dell’agricoltura furono positivamente affrontati
recuperando le scelte disastrose del periodo fascista. Si avviò
un’opera riformatrice sotto la pressione delle masse contadini
e delle occupazioni. Molte famiglie abbandonarono la terra
mentre si andarono costituendo imprese capitalistiche che
favorirono la specializzazione produttiva. Soprattutto al
Centro e al Nord dove era diffusa la mezzadria i contratti di
mezzadria furono modificati a favore di quest’ultimi
avviando un processo di accumulazione capitalistica e di
imprenditorialità.
5. Il problema energetico fu favorevolmente risolto come nel
periodo precedente attraverso l’utilizzo delle risorse
idroelettriche. Questa strategia fu affrontata attraverso lo
sfruttamento del gas e del petrolio in Italia superando vecchie
logiche autarchiche fasciste.
I fattori della ricostruzione economica
e l’ENI di Mattei
La fondazione dell’ENI (1953) fu fondamentale.
Un’impresa pubblica, diversa dall’esperienza
dell’IRI, che sfruttò le concessioni di esclusiva
dell’utilizzo dei giacimenti di petrolio e gas nella
pianura padana. Il problema dell’energia a basso
costo si riproponeva come nel passato. L’energia
idroelettrica non era sufficiente. Gli intendimenti di
Enrico Mattei e le idee di Ernesto Rossi,
consentirono all’Italia di sfuggire all’oligopolio delle
compagnia multinazionali (le c.d. sette sorelle) e di
acquisire energia a basso costo e a quantitativi non
controllati. Energia a basso costo e inserimento nel
contesto internazionale competitivo.
I fattori della ricostruzione economica
6. Malgrado i governi democristiani adottassero politiche
deflattive e liberiste nella realtà la politica e la cultura
liberista fu sostituita da pratiche di sostegno al credito e
all’industria, a favore delle esportazioni, di controllo dei
mercati.
7. Ultimo fattore della ricostruzione fu la classe politica. Una
nuova classe politica formatasi durante la resistenza e la lotta
antifascista con un approccio cosmopolita (sia cattolica che di
sinistra). Unitamente al ruolo dei grandi partiti politici di
massa e al rapido reinserimento dell’Italia nei grandi
organismi internazionali. Questo ciclo si esaurirà sul finire
degli anni ’60.
L’Italia della ricostruzione e i tre
dualismi economici
Aspetti negativi della ricostruzione sono da
segnalare nel rafforzamento del (1) dualismo
territoriale Nord/Sud, l’emigrazione come
valvola di sfogo alla forte disoccupazione, dal
ritorno della mafia nel mezzogiorno d’Italia
con l’implicito sostegno degli Stati Uniti, (2)
il dualismo tra imprese grandi e piccole, (3)
tra quelle esposte alla concorrenza
internazionale e quelle protette e quindi meno
efficienti.
L’Italia della ricostruzione economica
e il contesto internazionale
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Tuttavia non è possibile comprendere i problemi
dell’immediato dopoguerra senza partire dal contesto
internazionale del secondo dopoguerra.
Molteplici furono le decisioni determinanti e
fondamentali dell’Italia nel nuovo contesto
internazionale tra cui l’adesione al Fondo Monetario
e alla Banca mondiale con l’affidamento degli aiuti
del Piano Marshall e la nascita degli accordi di
Bretton Woods ed il ruolo monetario degli Stati Uniti
con l’abbattimento delle barriere protezionistiche
nonché il sistema di prestiti e aiuti in dollari verso i
paesi alleati.
L’Italia della ricostruzione economica
e la politica di Einaudi
Le scelte politiche nazionali erano dettate dalla
necessità di favorire processi di liberalizzazione
e di abbandono progressivo delle protezioni e di
apertura degli scambi.
Il Ministro Luigi Einaudi fu incaricato di
attuare questo programma. Egli fu contrario ai
controlli sui cambi tali da assicurare i costi delle
importazioni rese più vantaggiose con minime
svalutazioni e quindi per non danneggiare le
esportazioni italiane.
L’Italia della ricostruzione economica
e la politica di Einaudi
Einaudi favorì la liberalizzazione dei cambi con la svalutazione
delle lira consentendo alle imprese e agli speculatori di trattenersi
il 50% delle valute ottenute operando all’estero per pagare
l’importazione di determinate merci. Si crearono così mercati
paralleli dei cambi: uno ufficiale e uno commerciale applicato a
quel 50% dei proventi dell’esportazione.
Due anni dopo fu stabilito il cambio fisso Lira/dollaro a 625
garantì le esportazioni. Tuttavia il cambio fisso se favorì le
esportazioni non assicurò le riserve auree. E quindi mentre i
ricavato delle esportazioni divennero oggetto di fuga dei capitali
le importazioni venivano pagate con i fondi ottenuti dal governo
americano. La autorità americane denunciarono il modo di
utilizzare gli aiuti del Piano Marshall ma all’inizio le proteste non
ebbero risultato alcuno (1949). Il mancato utilizzo delle risorse e
degli aiuti per finalità di ricostruzione condizionava l’arretratezza
e i ritardi dell’economia italiana di quegli anni.
L’Italia della ricostruzione economica
e il Piano Vanoni
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Prese piede nel governo De Gasperi la linea del Ministro Ezio Vanoni e
del partito socialdemocratico: una politica orientata alla riorganizzazione
delle partecipazioni statali e di rilancio della programmazione economica
e dello sviluppo del Sud.
Il Piano Vanoni, presentato al Parlamento italiano nel 1955, individuava le
linee di politica economica del Governo De Gasperi. I quattro obiettivi
che il piano intendeva raggiungere erano:

la creazione di quattro milioni di posti di lavoro durante il decennio
1955-64;

la riduzione dello squilibrio esistente tra Nord e Sud;

il pareggio della bilancia dei pagamenti da ottenere attraverso un
incremento delle esportazioni;

la ristrutturazione della distribuzione delle forze di lavoro.
Tuttavia solo con la ripresa del ciclo internazionale e della domanda
globale si favorì la crescita degli anni successivi e del successivo miracolo
economico.
L’Italia della ricostruzione economica
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I provvedimenti più importanti dei governi centristi furono:
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Legge Tupini per l’intervento finanziario dello Stato a sostegno delle
opere pubbliche;
Il Piano Fanfani per le case ai lavoratori;
Il varo della riforma agraria e l’istituzione della Cassa per il
Mezzogiorno;
Il “Progetto La Malfa” di ristrutturazione delle partecipazioni statali.
Contestualmente a queste politiche keynesiane nella CGIL
veniva eletto Di Vittorio Segretario Generale che si rese
disponibile ad una collaborazione con il governo a seguito di
riforme sociali (Il Piano del Lavoro). Malgrado l’acuirsi delle
tensioni politiche con lo scoppio della guerra fredda il governo
si impegno sui temi sociali e soprattutto sulla questione
meridionale a partire dalla riforma agraria.
La riforma agraria
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Il governo ritenne necessaria una riforma agraria anche alla luce
delle evidenti pressioni del partito comunista. Attraverso tre
provvedimenti nel 1950 il Ministro dell’agricoltura Antonio Segni
attuò la riforma agraria (Legge Sila, Legge stralcio e la Legge per
la Sicilia). Si espropriarono 760.000 ha con l’assegnazione a
113.000 contadini. L’opposizione parlamentare fu fortissima e non
fu possibile soddisfare tutte le richieste . Inoltre le quote furono di
poderi piccoli esigui con “assegnazioni limitate” che tuttavia non
garantivano redditi adeguati. Alcuni grandi possidenti non furono
toccati. Il costo dell’operazione fu molto alto e i contadini non
furono supportati da assistenza tecnica e nella partecipazione
economica. La riforma non assicurò infatti l’aumento della
produttività delle terre. Infine non si affermarono cooperative o
azienda a conduzione associata. Malgrado i risultati furono inferiori
alle aspettative il latifondo fu profondamente colpito. I ceti
possidenti alla fine nel 1953 non appoggiarono più la DC.
La Cassa per il Mezzogiorno
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Oltre alla riforma agraria fu varato un Piano straordinario di
d’intervento pubblico con la creazione nel 1950 della Cassa per il
Mezzogiorno e l’approvazione di una legge sugli istituti di credito
agevolato. L’idea era quella dell’economista Myrdal per la
riabilitazione delle aree arretrate attraverso infrastrutture e opere
pubbliche. Tesi condivisa anche da meridionalisti quali Giustino
Fortunato e Francesco Nitti.
Con il tempo ci si convince che alle opere pubbliche bisogna
sostenere l’accrescimento del capitale fisso anche con il supporto
delle iniziative industriali e artigianali (Pasquale Saraceno).
Infatti tutto ciò serviva solo a favorire le industria del Nord per le
forniture e le commesse pubbliche. Malgrado tutto furono
realizzate opere prioritarie (scuole, ospedali, servizi civili).
Il Piano fece affidamento solo sull’azione combinata di spesa
pubblica ed “economie esterne”.
La rapidissima crescita tra dualismo e
arretratezza: il Miracolo Economico
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La rapidissima crescita dell’economia italiana del dopoguerra
fu dovuta anche dall’impulso e l’introduzione nelle grandi e
medie industrie dei principi dell’organizzazione razionale e
del lavoro operaio e della direzione manageriale.
Negli anni del miracolo economico (1950-1963) la crescita
delle imprese e la modernizzazione dei processi produttivi
provocarono un aumento della produttività. Fondamentale fu
il processo di apprendimento dei principi organizzativi
nordamericani. Grazie a ciò, quando la congiuntura
internazionale riprese a crescere, il sistema produttivo italiano
era pronto a cogliere la sfida. Il regime dei cambi fissi e
l’integrazione economica europea infine agevolarono questo
processo.
L’Italia seppe orientarsi verso i mercati ricchi e utilizzò a
pieno il bassi costi delle materie prime (energia) e del costo
del lavoro per proporsi sui mercati come paese esportatore.
La rapidissima crescita tra dualismo e
arretratezza
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Ecco alcuni segni della modernizzazione:
Il Reddito Nazionale passò da 557 $ (1952) a 970 $ (1963).
L’agricoltura passò dal 23,5% (1952) al 15,7% (1963) mentre l’industria
dal 33,7% al 43,8%.
Nel settore industriale prevalsero i settori più innovativi orientati verso i
mercati esteri ed aperti alla competizione (chimico e dei derivati del
petrolio, meccanica di precisione, fibre sintetiche, automobilistico).
Significativa, anche se per motivi opposti, è la trasformazione del
settore terziario con un notevole incremento nello stesso periodo dal
31,8% al 37,4% quali settori rifugio della manodopera fuoriuscita
dall’agricoltura.
Infine il tasso di disoccupazione passò dal 10,3% al 3,0%.
Tutto ciò si lega ai forti processi di emigrazione dal Sud al Nord che
vedono il Mezzogiorno quale serbatoio di manodopera con evidenti
problemi di urbanizzazione delle grandi città e delle coste.
Il Tasso di crescita del PIL è del 6,7% medio annuo
L’emigrazione italiana
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I processi migratori furono verso altre aree ricche dell’Europa e
dell’America. Emigrazione prima degli uomini e poi delle donne dalla
campagna alle città e in altri Paesi.
L’emigrazione, interna ed esterna, come strumento di politica economica
Le decisioni che inducono ad emigrare: aspettative di reddito e di
occupazione.
Dall’Italia emigrano dal 1951-60 circa 2.900.000, dal 1961-70 circa
2.650.000 e nel periodo 1971-80 si scende a 1.084.000. Dal 1951 al 1970
4.000.000 di italiani lascia il Sud per andare al Nord.
Dagli anni ’80 l’Italia inizia a diventare un Paese di accoglienza
malgrado non si fermano i flussi migratori in uscita.
L’intervento dello Stato attraverso la spesa pubblica rallenta i processi
migratori e aumenta i livelli di reddito del Sud con forme di
assistenzialismo e di distorsione del mercato del lavoro.
L’Italia diventa paese ospitante con forti processi di urbanizzazione senza
industrializzazione.
La rapidissima crescita tra dualismo e
arretratezza
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Un elemento che colpisce è la disparità tra la crescita dei
consumi più contenuta rispetto alla crescita del reddito, pur
essendo questa parte importante della spesa globale.
La spesa che sostenne la spesa globale fu la spesa pubblica,
che crebbe ad un saggio elevato per le opere pubbliche
(investimenti in viabilità, lavori urbani) e per i consumi
pubblici (scuole e ospedali).
L’insufficienza dei consumi interni fu compensata dalle
esportazioni e dagli investimenti. I prodotti italiani si
contraddistinguono per qualità dei manufatti e a costi inferiori
rispetto alla concorrenza.
Tutto ciò favorì lo sviluppo del sistema produttivo italiano
determinando tuttavia alcuni elementi distorsivi.
La rapidissima crescita tra dualismo e
arretratezza
1) Il dualismo della struttura produttiva italiana determinata dalle
esportazioni con settori dinamici orientati a mercati esteri
aggressivi e settori più arretrati orientati verso la domanda e il
mercato interna, stagnanti e tradizionali. Mentre i settori più
dinamici facevano riscontrare forti incrementi di produttività, alti
profitti e bassi incrementi di occupazione i più arretrati
assorbivano la disoccupazione, con bassi incrementi di
produttività.
A questo si aggiungeva l’arretratezza dell’agricoltura che
malgrado la riforma del 1950 era rimasta indietro rispetto ai
partner europei con politiche protezionistiche (fino all’adesione
alla CEE) che assicuravano la permanenza di imprese marginali,
l’appiattimento della politica alle indicazioni della Coldiretti
orientata sempre verso la piccola proprietà e successivamente la
mancata attuazione del Piano Verde per adeguare le strutture
produttive agricole all’adesione al Mercato Comune.
La rapidissima crescita tra dualismo e
arretratezza
2) Il dualismo industriale creava le premesse per la distorsione dei
consumi. Da una parte si fornivano elettrodomestici e automobili,
prodotti dalle industrie più dinamiche, ma dall’altro non v’era un
sistema sanitario nazionale e scolastico adeguato (carne, libri,
trasporti pubblici). Quindi un dualismo dei consumi tra consumi
privati e consumi pubblici. In tal senso lo Stato poco contribuì a
riequilibrare questo genere di distorsione. Anche sul piano fiscale,
malgrado la riforma legata a Vanoni, poco si fece sul piano
dell’accertamento della veridicità delle dichiarazioni fiscali e con
un sistema a favore dei redditi d’impresa e professionali rispetto a
quelli fissi e di lavoro dipendente. Aumento delle spese correnti,
sistema fiscale inadeguato, folta serie di benefici e i posizioni di
rendita, forza d’inerzia delle strutture pubbliche accentuarono la
prevalenza dei consumi privati rispetto agli investimenti pubblici
aumentando il senso di benessere collettivo tuttavia effimero.
La rapidissima crescita tra dualismo e
arretratezza
3) La questione Meridionale è l’ultimo elemento delle distorsioni
dello sviluppo italiano. Il Sud continua ad avere un’alta
percentuale di addetti all’agricoltura 40%, un’alta pressione
demografica e uno sviluppo scarso della struttura industriale.
L’integrazione produttiva ed industriale necessaria ad affrontare
i mercati esteri aggravavano le distorsioni territoriali. Il
Mezzogiorno era solo un serbatoio di manodopera. Gli incentivi
all’industria finirono solo per favorire le grandi industrie e i
grandi complessi petrolchimici e siderurgici senza sostegno
vera alle PMI. Malgrado il Mezzogiorno non era quello del
passato dieci anni di investimenti pubblici non avevano
delineato un processo di sviluppo. La competizione europea finì
per accentuare il divario con un sistema produttivo efficiente e
competitivo al Nord e un sistema inefficiente e fondato su
servizi e pubblica amministrazione al Sud.
Il protezionismo agrario periferico
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Durante il regime fascista i rapporti capitalistici si estesero in
agricoltura in forma non lineare. Il rafforzamento della grande
azienda capitalistica convive con il latifondo meridionale, con
l’inasprimento delle condizioni di vita e di lavoro dei
braccianti e dei mezzadri, conservando rapporti di produzione
semifeudali.
Dal 1950 al 1990 l’agricoltura italiana è passata dal 23 al
3,5% del valore aggiunto del PIL e con una quota degli
occupati dal 43,8% al 9,3%.
Alta produttività nelle zone pianeggianti e degrado nelle zone
montane, mentre l’agricoltura meridionale è stata interessata
dallo sviluppo solo negli anni ’60 con una caduta delle
produzioni cerealicole.
L’agricoltura italiana subisce delle modificazioni grazie alle
riforme agrarie e alle lotte contadine (1944 – 1950).
Il protezionismo agrario periferico



Le riforme agrarie determinano il carattere dell’agricoltura italiana: la
costruzione di un blocco sociale e politico fondato sulle media azienda
capitalistica e sulla proprietà contadina rafforzando i legami tra
agricoltura ed industria. Il punto debole era lo sviluppo della piccola
proprietà contadina con aziende piccole e scarsamente competitive
nonché dipendenti dal sostegno pubblico.
Si confermano ancora le debolezze strutturali: la protezione dei settori
cerealicoli e lattiero-caseario.
Negli anni ’60 e ’70 vengono avviati i c.d. Piani Verdi contrassegnati
dagli sforzi governativi di sostenere e incentivare le piccole proprietà
contadine e l’azienda familiare. Malgrado ciò continua a svilupparsi
l’impresa capitalistica con dimensioni dai 10 a 50 ettari favorendo il
passaggio dalla mezzadria a rapporti fondiari capitalistici. Si riduce la
manodopera, si estende la meccanizzazione e si interconnette la politica
di ristrutturazione con la politica comunitaria. Tuttavia la struttura
fondiaria rimane fortemente parcellizzata e frammentata.
I governi di centro-sinistra


Le rigidità degli anni ’50 finirono per scaricarsi sui prezzi
con spinte inflazionistiche. Se fino al 1962 la produttività
era aumentata più dei salari da quella data la dinamica si
inverte. Esaurimento della riserva di lavoratori, crescente
costo della vita, ritardi del settore agricolo, rigidità del
settore dell’edilizia e dei servizi furono alcune ragioni
dell’aumento dei prezzi.
Maturò la scelta politica per una nuova maggioranza di
centro-sinistra. L’alleanza tra cattolici e laici aveva esaurito
la sua funzione e il Paese aveva bisogno di riforme sociali.
La Confindustria aveva assunto sempre più posizioni di
destra e a favore del PLI mentre socialdemocratici e
repubblicani pressavano per un nuovo programma di
coordinamento economico.
I governi di centro-sinistra


Intanto si era consumata la frattura tra PSI e PCI. I
socialisti si erano liberati dell’ipotesi massimalista
grazie all’opera del Segretario Riccardo Lombardi.
Anche se l’impostazione generale non aveva superato
l’idea di trasformare ed eliminare il capitalismo si
voleva tuttavia partecipare alle scelte del Paese.
Il 1° governo Fanfani di centro-sinistra mirava a
attenuare il divario Nord-Sud, tassare i dividenti delle
società, promuovere la riforma urbanistica e della
scuola, nazionalizzare l’energia elettrica e altri settore
oligopolistici, attuare una riforma della fiscalità locale.
I governi di centro-sinistra

Il 1° governo Fanfani di centro-sinistra avviò
la nascita dell’ENEL nazionalizzando molte
industrie di produzione tra cui la Edison.

Nel 1963 le spinte inflazionistiche furono
contenute con una stretta creditizia con il
risultato di una stabilizzazione dei prezzi ma
una brusca caduta della produzione
industriale.
I governi di centro-sinistra

Il “Rapporto Saraceno” del 1964 costituì la base delle
politica di programma. Si stabilì di localizzare il 40%
dei nuovi posti di lavoro e il 45% degli investimenti
pubblici al Sud concentrando al Sud i grandi impianti.
Molti risultati tuttavia non vennero raggiunti per
l’opposizione da una parte dei grandi gruppi industriali
e dall’altro dei comunisti e della CGIL ad una politica
dei redditi. Molte furono le resistenze alla tassazione dei
dividenti e all’aumento dell’età pensionabile. Rimase a
metà la riforma urbanistica e quella sanitaria. Tuttavia
l’industria del Nord riprese a crescere.
L’autunno caldo (1969)

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A seguito della nazionalizzazione dell’energia elettrica e alla
fine degli anni ’60 sia era creata una situazione dualistica tra
imprese a partecipazioni pubbliche e grandi gruppi privati. Da
una parte IRI, Enel ed Eni (i primi tre colossi pubblici) e
dall’altra la FIAT e altri 5-6 gruppi al di sotto 72.000 PMI.
L’economia scontava l’assenza di una politica di
programmazione e l’attuazione di interventi di natura
assistenziale con l’allargarsi del divario tra crescita economica e
atrofia del sistema pubblico e politico. Una buona parte del
risparmio andava all’estero. Davanti a settori in posizione di
rendite di oligopolio, rigidità dell’offerta, aumento dei prezzi e
riduzione dei margini di profitto e ancora aumenti salariali le
aziende avevano reagito con l’aumento della produttività.
L’autunno caldo (1969)

-
Nel 1969 scoppio la lotta operaia. Le cause furono
determinate:
rigidità dell’offerta data dalle posizioni di rendita;
dall’intensificarsi dei ritmi di lavoro per recuperare
produttività;
dalla nuova ondata migratoria dal Sud con problemi
sociali e di agglomerazione;
Aumento del costo della vita e riduzione del potere di
acquisto dei lavoratori.
Tutte queste cause spinsero il sindacato a richiedere
riforme sociali, aumenti salariali, revisione delle
normative in materia di lavoro.
L’autunno caldo (1969)

La CGIL sotto la guida di Luciano Lama avviò un’azione di scioperi e
rivendicazioni. A seguito delle lotte operaie furono eliminate le
“gabbie salariali”, 150 h destinate alla formazione, l’indennità di
nocività negli impianti nocivi, le norme sugli ambienti di lavoro e lo
Statuto dei Lavoratori (1970) con la fine dell’autoritarismo e le
discriminazioni. Infine un aumento del costo del lavoro. Lo sviluppo
dell’industria fondata sul basso costo del lavoro era finita. Tuttavia le
difficoltà furono dovute anche alla riduzione degli investimenti nelle
fabbriche viste le novità tecnologiche che aggravarono lo scarto con il
sistema industriale tedesco e francese.
L’aumento del costo del lavoro ridimensionò l’occupazione
nell’industria e per far fronte alla disoccupazione si amplio l’ambito
del terziario e del settore pubblico anche nelle amministrazioni locali.
Boom della popolazione scolastica, espansione del terziario, presenza
femminile nel mercato del lavoro, crescenti aspettative di consumo
determinarono una diffusa conflittualità sociale.
Le trasformazioni degli anni ‘70

Il sistema politico reagì alle ondate di rivendicazioni e richieste di
partecipazione con l’espansione della finanza pubblica e con il
decentramento e la delega alle regioni a statuto ordinario (1971).
Infine venne riconosciuto il monopolio bilaterale nelle relazioni
industriali tra confederazioni sindacali e Confindustria. Quest’ultima con
Gianni Agnelli alla presidenza e la svolta Pirelli si riorganizzò. Sembrava
quasi la nascita di un patto tra produttori (imprenditori e operai) ma
entrambe le organizzazioni, diffidenti sulla compartecipazione e codecisione sul modello tedesco, non raggiunsero alcun accordo.

Alla mancata attuazione della politica dei redditi proposta da La Malfa le
organizzazioni finirono per inseguire la spirare degli aumenti salariali
mentre il governo rispose alle continue tensioni sociali, specie nel
Mezzogiorno, con vari progetti di intervento pubblico (Alfasud a
Pomigliano, la Chimica a Lamezia Terme e Crotone, il centro siderurgico
di Gioia Tauro) alcuni dei quali destinati a rimanere sulla carta.
Le trasformazioni degli anni ‘70


Il contesto esterno condizionerà gli sviluppi degli anni ’70. La
Guerra del Canale di Suez 1956 (tra Egitto e Francia e GB)
aveva già innescato il conflitto per il predominio statunitense e
quello inglese nel mondo soprattutto in tema energetico. L’Italia
si muove con relativa autonomia nelle politiche mediterranee
soprattutto nelle politiche energetiche attraverso l’ENI.
Le crisi energetiche degli anni ’70 e la costituzione nel 1975
dell’OPEC costituiscono un punto di svolta a livello mondiale.
Fino ad allora crescita dei consumi energetici e crescita del PIL
sembravano essere meccanismi spontanei soprattutto per il basso
costo e la riproducibilità delle fonti energetiche. Negli anni ’70
questo meccanismo si ruppe alle quali si sono aggiunte le
conseguenze ambientali.
Le trasformazioni degli anni ‘70



In Italia tutti i valori economici vengono messi in crisi e la fragilità della
nostra economia viene accentuata: aumento dei prezzi dell’energia e delle
materie prime, aumento delle rivendicazioni salariali e del costo del
lavoro, stagflazione. Le imprese reagiscono solo grazie ai vantaggi
competitivi della lira deprezzata. L’inflazione raggiunge il 21% e il
dissesto delle finanze pubbliche diventa evidente. La disoccupazione il
9,4%.
Malgrado ciò la sensazione è di un relativo benessere a causa di una
competitività sostenuta dall’inflazione e del deprezzamento della lira e
dalla crescita degli occupati nel terziario (+3,2%) a scapito dell’industria
(-1,6%).
Il periodo tra gli anni ’70 e ’80 rappresentò un punto di svolta per il
nostro sistema economico. Si evidenziarono gli effetti negativi della
dicotomia apparato industriale e settore pubblico; l’insuccesso dei piani di
programmazione; il drenaggio da parte dello Stato del risparmio, il
deterioramento delle infrastrutture; l’assenza di investimenti.
Le trasformazioni degli anni ‘70


Se l’economia riuscì a resistere lo si deve alle performances delle PMI
come realtà sommerse. Uno dei motivi della crescita fu la reazione al
costo del lavoro molto alto. Si avvio un processo di riorganizzazione
aziendale e di decentramento produttivo volto ad accrescere la
produttività, ridurrei meccanismi di accrescimento dei salari,
investimenti labour saving, maggiore flessibilità della forza lavoro.
Vennero emergendo anche nuove realtà piccole e innovative che
rispondevano alle nuove tendenze di specializzazione. Si sviluppò un
sistema a rete di imprese capaci di adattarsi ai mutamenti. La
scomposizione del processo produttivo portò alla fine del modello
taylorista (produzioni a fase e non a linea).
E’ la Banca d’Italia che, dopo il 1980, inverte la rotta con alti tassi di
interesse, apprezzamento della lira e lotta alla svalutazione invitando
il sistema produttivo a competere sul piano dell’innovazione
rafforzando quel processo di sviluppo ineguale già presente.
Le trasformazioni degli anni ‘70


I processi di ristrutturazione e di introduzione delle
innovazioni dei primi anni ’80 finiscono ulteriormente per
aggravare la fuoriuscita della manodopera nell’industria (4,1%) con tassi di disoccupazione superiori al 10%. Si
iniziano ad intravedere politiche dei redditi (referendum
sulla scala mobile del 1985) in grado di contenere inflazione e
politiche di stabilizzazione.
Le scelte produttive delle imprese sono improntate a ridurre i
fattori produttivi (manodopera) con l’aumento degli
investimenti in beni intermedi (importazione con evidente
deterioramento della bilancia dei pagamenti). Di qui si tenta
la strada di flessibilità e competitività in un sistema
internazionale instabile.
Le trasformazioni degli anni ‘70


Le trasformazioni del sistema produttivo sono legate altresì al
ruolo del sindacato. Fino agli anni ’70 il sindacato risulta
relativamente debole e esisteva una forma di collateralismo partitisindacati molto spiccato. In questo senso la politica sindacale fu
orientata alla centralizzazione contrattuale e all’elemento salariale.
Tutto ciò era favorito anche dalle stesse organizzazioni datoriali
interessate a questo genere di politica.
La sconfitta della CGIL con il referendum sulla scala mobile
nel 1984, la fine del collateralismo cattolico, il rinnovamento degli
orientamenti industriali misero in discussione le consolidate
pratiche sindacali. Mutò anche la base del sindacato con una
estensione dei rappresentati all’intero mondo lavoratore e non solo
quelli specializzati. In tal senso il sindacato acquisì potere
contrattuale autonomo riempiendo gli spazi lasciati dai partiti e
assumendo un ruolo di portatore di interessi generali.
La difficile modernizzazione


La decisione del IV governo Andreotti di entrare nello SME e
quindi di stabilizzare la lire fu accompagnato dalla fine
dell’esperienza del compromesso storico con il PCI di
Berlinguer. L’offensiva terroristica delle Brigate Rosse in
Italia, nate a seguito della situazione di conflittualità
permanente del Paese, con il sequestro e l’uccisione di Aldo
Moro, leader DC, decretò la fine del tentativo di dialogo tra le
forze politiche. Continuò a sopravvivere una logica consociativa
sulla gestione della spesa pubblica a partire dalla finanza locale
deresponsabilizzata.
Tutto ciò aggravò la situazione della Finanza pubblica. Le
idee redistributive e di solidarietà (come la legge sull’equo
canone del 1978) finirono per rendere il bilancio pubblico
insostenibile e senza alcuna prospettiva riformatrice.
La difficile modernizzazione

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
Il giro di boa della fase recessiva e inflattiva si ebbe agli inizi degli anni
’80 con la fine del sindacalismo estremo e con la famosa “marcia dei
quarantamila” fra capi e impiegati della Fiat per le vie di Torino in
segno di protesta contro il massimalismo dei sindacati e la paralisi
dell’attività produttiva.
La diffidenza del sindacato rispetto alle ipotesi di compartecipazione
finirono per ridimensionare il suo ruolo riponendo al centro
dell’attenzione la produttività e la mobilità della manodopera. Alla
riduzione dell’occupazione fece seguito l’aumento degli investimenti.
Il Referendum del 1984 che abolì la scala mobile segnò la fine della
corsa inflazione-aumenti salariali. Il recupero di efficienza e competitività
comportò tuttavia costi sociali reso possibile solo attraverso iniezioni di
denaro pubblico e interventi fiscali e monetari. Al termine di questo
processo di riduzione dell’inflazione e aumento del PIL l’Italia si presentò
come la quinta potenzia dopo Francia e Germania
La difficile modernizzazione
La ripresa degli anni ’80 aveva purtroppo tanti punti di debolezza:
1)
Fortemente concentrata sulla domanda interna;
2)
Recupero di competitività più di innovazioni di processo e
decentramenti che innovazioni di prodotto;
3)
Disfunzioni nei settori dei servizi (trasporti ancora su gomma e
non su rotaia, distribuzione) e infrastrutture;
Tali debolezze erano presente nel passaggio alla terza
rivoluzione industriale; la diffusione di tecnologie labour and
capital saving; l’informatizzazione; il potenziamento delle
funzioni di marketing e logistica; la fine del modello fordista e
nascita di organizzazioni produttive più snelle; il processo di
terziarizzazione con riduzione della quota “blu”dei lavoratori.
A questi si aggiungevano i processi di deregulation proposti da
Reagan e dalla Thatcher.
La difficile modernizzazione



Adeguare il sistema produttivo ai cambiamenti della rivoluzione
industriale significava adeguare le strutture industriali ma anche le
strutture finanziarie del Paese.
Ciò risultava difficile in una situazione in cui i titoli del debito pubblico
drenavano risorse da destinare agli investimenti e al capitale di rischio.
Il capitalismo era privo di azionariato diffuso, fortemente legato ai
gruppi imprenditoriali di tipo familiare, con una Borsa valori piccola e
asfittica, uno Stato banchiere ed imprenditore. Fino ad allora il ruolo
svolto da Mediobanca, costituita nel 1946 su iniziative delle tre banche
(Commerciale, Credito Italiano e Banca di Roma) di soggetto incaricato
del finanziamento a medio/lungo termine aveva continuato a essere
esercitato quale “camera di compensazione” tra assetti proprietari e a
promuovere relazioni fiduciarie e di sindacato più funzionali alle
mutevoli situazioni dei gruppi industriali (il c.d. salotto buono). Enrico
Cuccia aveva assicurato l’indipendenza del sistema industriale delle
grandi famiglie industriali dalle incursioni della politica e dei partiti
lontano da logiche concorrenziali e di concentrazione finanziaria.
La difficile modernizzazione



Tale meccanismo perpetuò l’utilizzo del risparmio pubblico per l’acquisto
di titoli di Stato e dall’altro il mantenimento degli assetti proprietari e
familiari. L’assenza poi di una Politica industriale, una valida normativa di
tutela della concorrenza, un indirizzo coerente di politica energetica e
l’ammodernamento delle strutture dedicate alla formazione e alla ricerca
con infine il perpetuarsi di politiche assistenziali resero il c.d. “Secondo
Rinascimento” dal 1981 al 1986 (con la crescita del PIL pro-capite)
effimero.
Il Governo Craxi continuò nelle politiche assistenzialiste e clientelari privi
di una reale opposizione (il PCI era ormai confinato dopo la morte di
Berlinguer ad una opposizione statica) e l’unico argine fu costituito dalla
Banca d’Italia (il governatore Guido Carli) che seppe controllare la propria
autonomia e evitare il finanziamento di qualsiasi disavanzo pubblico.
Se il successore di Carli, Carlo Azeglio Ciampi, (grazie alla decisione nel
1981 – il c.d. “divorzio” - del Ministro del Tesoro Andreatta di sollevare la
Banca d’Italia dell’acquisto di tutti i titoli del debito non collocati sul
mercato) assicurò indipendenza la politica monetaria non fu sufficiente a
contenere i danni del disavanzo pubblico.
La difficile modernizzazione


Il divario con il Mezzogiorno rimane forte e si accresce
malgrado si realizza una certa omogeneizzazione dei
modelli di spesa e di consumo.
Si conferma l’integrazione con l’economia del Nord e la
crescita dei redditi dovuti ai trasferimenti dall’esterno (Stato e
trasferimenti degli emigrati). L’occupazione nelle grandi
imprese soprattutto grazie agli investimenti pubblici e alle
partecipazioni statali, vede una crescita del 35% a fronte di
una riduzione nelle piccole imprese. I dati poi confermano
una generale riduzione degli occupati nell’agricoltura e una
crescita nel Sud degli occupati (+40%) nei servizi e terziario.
La difficile modernizzazione
1951-1961
- la riforma fondiaria e la creazione di una ampia rete di aziende contadine;
- la tendenza alla integrazione e alla concentrazione nel Nord-Ovest d’Italia del
sistema industriale;
- la nascita della Cassa per il Mezzogiorno al Sud per assicurare infrastrutture e
servizi e del Ministero delle Partecipazioni statali (1956);
- gli investimenti in infrastrutture (reti di comunicazione)
1961-1971
- il processo di diffusione Centro e Nord-Est d’Italia
- la nascita delle partecipazioni statali e l’industrializzazione pesante al Sud (IRI
ed ENI)
1971-1981
- crisi economica e petrolifera e la stagflazione (disoccupazione e inflazione)
- blocco del motore centrale (caduta del tasso di sviluppo)
- ristrutturazioni industriali e decentramento
POLITICHE DI INTERVENTO NEL
MEZZOGIORNO
1^ FASE (1950/58) Le riforme agrarie e le infrastrutture all’agricoltura
assorbono la gran parte delle risorse pubbliche. L’esodo dalle campagne,
la razionalizzazione delle produzioni e l’aumento del reddito allargano il
mercato, l’industria è residuale.
2^ FASE (1959/69) Le costruzioni infrastrutturali dell’industria e le
agevolazioni finanziarie agli investimenti alle grandi imprese, esterne
all’area, in settori base (chimica, metallurgia)
I flussi migratori continuano, le produzioni sono “a ciclo integrato” con
poca capacità di diffusione, aumento del divario con il Nord, attuazione
del decentramento di impianti senza diffusione di imprese, trasferimenti
diretti alle famiglie e aumento del reddito medio
POLITICHE DI INTERVENTO NEL
MEZZOGIORNO

3^ FASE (1970/79)
a) i processi di ristrutturazione dell’industria diminuiscono le convenienze
degli investimenti esterni;
b) si afferma un tessuto di PMI anche attraverso i processi di
decentramento di imprese del Nord;
c) l’imprenditorialità si concentra in sub-aree dove emergono fenomeni di
sviluppo autoctono.
SI AVVIA UN PROCESSO DI DIFFERENZIAZIONE
DEL MEZZOGIORNO
“NON ESISTE PIU’ UN SUD MA I SUD”
Il decentramento territoriale

Le cause

si riducono le diseconomie legate alle distanze (sistemi di
trasporto e comunicazione);
introduzione dell’elettronica e la concentrazione de ciclo
integrato di produzione (polivalenza e standardizzazione dei
macchinari);
mutamenti della domanda e maggiore instabilità dei mercati
(apprezzamento per la differenziazione dei beni di consumo)


Il decentramento territoriale

Le forme dello sviluppo decentrato
1. “AMMINISTRATO”
Imprese pre-esistenti decidono di localizzare alcune produzioni o fasi
della produzione in aree diverse (investimenti esterni all’area di
insediamento);
2. “SPONTANEO”
Creazione di nuove imprese locali attraverso rapporti di sub-fornitura (le
condizioni ambientali possono facilitare questo processo).
Il decentramento territoriale

La localizzazione avviene attraverso:
1. La presenza di economie esterne (centri urbani e
servizi pubblici efficienti, collegamenti)
2. Livello medio di reddito e di istruzione
3. Agricoltura basata su imprese familiari
4. Rapporto città - campagna
Il decentramento territoriale

Le fasi:
1. Area di specializzazione

Tutte le imprese appartengono allo stesso settore - PROCESSO
IMITATIVO
2. Sistema produttivo locale

Differenziazioni per prodotto e/o tipo di lavorazione, autonomia nel
raggiungere il mercato, acquisizione di competenze tecniche
3. Area sistema

Accentuata divisione del lavoro, infrasettoriale e intrasettoriale, aumento
della dimensione e complessità, verticalizzazioni
Il decentramento territoriale

I limiti

Il decentramento “amministrato” è avvenuto al Sud ma in
condizioni ambientali non favorevoli non ha creato sviluppo
duraturo
Area del Nord-Ovest vivono situazioni di declino e
deinsustrializzazione
La mappa delle comunicazioni ha disegnato uno sviluppo a
macchia di leopardo.


Dagli anni ’80 alla crisi del 1992



Prevale nel mondo, a seguito del crollo dell’URSS, in maniera
definitiva, il modello capitalistico e altresì emergono nuovi
soggetti economici e Paesi.
A partire dalla fine degli anni ’80 si assiste ai processi di
liberalizzazione, deregulation e globalizzazione. Un esempio per
tutti il fallimento in Italia della siderurgia pubblica a causa della
competizione e della sovrapproduzione mondiale nonché del
degrado della gestione pubblica.
Si assiste altresì in Italia ai primi timidi processi di
privatizzazione e alla fine della collusione tra poteri politici e
interessi finanziari ed economici oligopolistici (la privatizzazione
dell’ENI, il caso della chimica con la il fallimento della banca
GEMINA).
Dagli anni ’80 alla crisi del 1992


Tutto ciò coincide in Italia con la caduta nel 1993 dei
tassi di crescita e la crisi dei consumi in un quadro
macroeconomico in cui il deficit passa dal 4%
rispetto al PIL al 10% e il debito pubblico supera il
100%.
Gli anni ’80 in Italia sono infatti contraddistinti da
una periodo di relativa crescita che però non viene
adeguatamente utilizzata per dotare il paese di
infrastrutture ed investimenti e per recuperare il gap
Nord-Sud. Le forze politiche (DC e PSI) operano
scelte clientelari e di spreco delle risorse facendo
perdere al Paese una opportunità di rilancio.
Dagli anni ’80 alla crisi del 1992


A seguito alle inchieste di “Mani Pulite” nel 1992 e ai numerosi
arresti viene nominato il Governo Amato con un programma di
contenimento del disavanzo pubblico e con una Legge finanziaria
mai così severa (90 mila miliardi fra tagli alle spese e prelievo
fiscale) per riportare l’Italia nell’ambito della sostenibilità del
debito (incidenza pari al 108% sul PIL e del 10,7% sul deficit
annuale). I cumulo di problemi lasciati in eredità dai decenni
precedenti era gigantesco.
Dopo il Governo Amato nel 1993 seguì il Governo Ciampi che
proseguì nel controllo della spesa pubblica. Non mancò
l’appoggio dei sindacati con la sottoscrizione di alcuni accordi sul
costo del lavoro e i processi di privatizzazione del sistema
bancario (Commerciale e Credito Italiano). Venne nel 1990
istituita la Consob (Commissione di monitoraggio della Borsa). Si
avvio una prima riforma della P.A. Rimanevano tuttavia tante
cose da fare.
Dagli anni ’80 alla crisi del 1992


Con la fine della Prima Repubblica, tangentopoli, la
svalutazione della lira nel 1992 e la drammatica situazione
finanziaria dello Stato italiano si opera una vera e propria
inversione di tendenza con l’aumento della pressione fiscale
per ridurre il debito e il deficit e un forte processo di
privatizzazione. Blocco totale dei trasferimenti assistenziali e
dell’industrializzazione dall’alto. Tutto ciò deve tuttavia
avvenire in un Paese con una bassa spesa sociale di tipo reale
e non assistenziale ad eccezione per quella previdenziale
fortemente sperequativa per le nuove generazioni.
Gli effetti sono devastanti sul piano dell’occupazione con
quote di disoccupati al Sud del 30% e l’aggravarsi del
divario. Forte il contributo dei sindacati attraverso l’accordo
del 1993 per il contenimento del costo del lavoro e per la lotta
all’evasione fiscale.
La seconda Repubblica



La fine della DC e la nascita a sinistra del PDS ad opera di Achille
Occhetto nonché il cambio del sistema elettorale (semi-maggioritario
rispetto al proporzionale) decretarono la fine della prima Repubblica.
Le elezione del 1994 videro la vittoria del movimento fondato da Silvio
Berlusconi, di Forza Italia, che insieme alla Lega Nord, si candidarono
alla guida del Paese con idee neo-liberiste e populiste. Lo slogan era
quello di una rivoluzione liberale. Tuttavia rimaneva irrisolto il
problema dell’enorme debito pubblico con la necessità di politiche di
rigore. Tra l’altro l’Italia doveva rispettare gli impegni assunti in sede
del Trattato di Maastricht per l’adesione alla moneta unica. Le
promesse della svolta neo-liberista non vennero mantenute e il divorzio
con la Lega Nord costrinsero Berlusconi a dimettersi nel 1995.
Il successivo Governo Dini procedette alla riforma del sistema
pensionistico prima di condurre il Paese ad una nuova elezione
anticapata.
Le cause della crescita italiana
Al centro della crescita italiana di questi ultimi decenni
prevalgono tre casualità:
1)
Le capacità personali ed imprenditoriali;
2)
Il ruolo delle istituzioni statali;
3)
L’interrelazione tra pratiche organizzative e tecnologie
Tali fattori si legano tuttavia ai limiti del capitalismo
italiano: bassa accumulazione di capitale, tassi di profitto
inferiori, bassi salari e scarsa produzione di tecnologie
innovative, scarse risorse manageriali, debole penetrazione
dei meccanismi di mercato, familismo dell’impresa e
sottocapitalizzazione, forte indebitamento bancario, limitata
autonomia dalla classe politica e dallo Stato.
Ci troviamo davanti ad una situazione di “modernizzazione
senza sviluppo”.