STORIA ECONOMICA Facoltà di Scienze Economiche e Giuridiche Corso di Economia aziendale Prof. MICHELE SABATINO INTRODUZIONE ALLA STORIA ECONOMICA (4) La storia economica dell’Italia nel ventennio fascista (1922-1943) Il ventennio fascista: la fase liberale Dopo la Marcia su Roma dell’ottobre 1922 Mussolini, indicato dal Re, a Primo Ministro consolida il suo potere e inaugura la prima fase del fascismo. Si tratta di una fase c.d. liberale sia in politica economica che nelle scelte a favore della borghesia italiana e dell’industria. Vengono privatizzati i servizi telefonici e le assicurazioni. Ma alle scelte liberali in politica economica si accompagnano quelle autoritaria e violente in politica con l’uccisione del deputato socialista Matteotti e con la riforma elettorale che finisce per dare il potere assoluto al Partito fascista. Vengono messi al bando i sindacati Si avvia la prima riforma bancaria (1926) con il monopolio dell’emissione e il controllo della liquidità alla Banca d’Italia. Il ventennio fascista: la fase liberale L’opportunità di accedere ai crediti americani e inglesi convinse Mussolini a lanciare la sfida di “quota 90”: rivalutare la Lira rispetto alla Sterlina con rapporto 1/90 £. E quindi procedere all’adesione al gold exchange standard. La rivalutazione comportò un deterioramento della Bilancia dei pagamenti a danno delle esportazioni italiane e una stretta creditizia a danno delle piccole e medie imprese. Per bilanciare tale situazione furono concesse numerose agevolazioni fiscali e la scelta dei fornitori italiani sulle commesse pubbliche. La scelta deflattiva comportò un rafforzamento delle posizioni oligopolistiche nell’industria ma anche la riduzione di alcuni prezzi all’ingrosso di prodotti importati. Malgrado la produzione ritornò ai livelli di Giolitti il dislivello con gli altri Paesi europei rimase significativo. Il ventennio fascista A queste scelte si aggiunse la “Battaglia del Grano” per conseguire una certa autosufficienza alimentare e ridurre le importazioni di frumento dagli USA che avevano prezzi più convenienti a danno dei consumatori. Si favorì la meccanizzazione e la piccola proprietà contadina con la “sbracciantizzazione” dei contadini con una ulteriore polverizzazione delle terre. La battaglia del grado rallentò l’avvio di colture intensive, aumentò la produzione di frumento, favorì i produttori a danno dei consumatori. Furono infine avviate le “bonifiche” che tuttavia ebbero l’opposizione di numerosi proprietari terrieri e solo il 50% furono realizzate. Il ventennio fascista: la fase dirigista Con la grande crisi del 1929 il governo fascista ritardò nel prendere adeguati provvedimenti. Ma davanti alle difficoltà evidenti dell’industria il Governo Mussolini decise di intervenire con la nascita nel 1933 dell’Istituto di Ricostruzione Industriale IRI con il compito di scongiurare il fallimento della Banca Commerciale, del Credito Italiano e della Banca di Roma. Il compito dell’IRI era quello di rilevare le aziende in crisi, ristrutturarle, sanarle e poi rivenderle ai privati. Il passaggio della proprietà all’IRI delle banche costituì la premessa per la seconda riforma bancaria nel 1936. La riforma bancaria aumentò la vigilanza della Banca di Italia e la sua pubblicizzazione, stabilì la divisione tra Banche di deposito e di credito dalle Banche di investimento industriale. Contemporaneamente era stato costituito l’Istituto Mobiliare Italiano (1931) con il compito di concedere prestiti decennali a banche e imprese attraverso l’emissione di obbligazioni. Il ventennio fascista: la fase dirigista Dopo qualche anno l’IRI si trovò ad essere proprietario di numerose imprese con la difficoltà di cederle ai privati. La difficoltà di ristrutturare e vendere ai privati provando a associarli risultò di difficile attuazione in diversi settori industriali come quello della siderurgia. Completare il ciclo produttivo dal minerario ai laminati risultò difficile. Gli impianti erano frazionati e non specializzati. Inoltre la produzione dell’acciaio era dissociata da quella della ghisa. Alla fine l’indirizzo autarchico del governo Mussolini condizionò le scelte dell’IRI. Con il varo nel 1936 del Piano nazionale dell’economia l’IRI si trovò a gestire il 77% della produzione di ghisa e il 45% di acciaio. Il ventennio fascista: la fase dirigista Mussolini finì quindi per assumere una gestione dirigista e statalista dell’economia con una evidente diffidenza rispetto ai grandi gruppi industriali. Alla fine lo Stato si trovò a “rendere pubbliche le perdite private” del sistema produttivo e per essere, rispetto agli altri sistemi economici europei, quello in cui la presenza dello Stato nell’economia era fortissima. Il ventennio fascista: tra autarchia e imperialismo – la fine L’intervento dell’IRI riuscì a tamponare la grande crisi. Ma la nuova situazione internazionale finì per isolare l’Italia a cominciare dall’isolamento politico dovuto alla guerra in Etiopia condannata dalla Società delle Nazioni. Su sollecitazione della Confindustria il Governo bloccò i salari a tutela dei profitti e le proposte di Agnelli di adottare una linea opposta (riduzione orari di lavoro e incremento della domanda) andarono a vuoto. Un cambio sopravalutato e riserve auree diminuite finirono per orientare il governo ad una politica protezionistica e autarchica anche a seguito dell’embargo imposto dalla Società delle Nazioni. Il ventennio fascista: tra autarchia e imperialismo – la fine L’autarchia proclamata da Mussolini si rivelò un fallimento e rafforzò i gruppi industriali che lavoravano per il mercato interno. Il ventennio alla fine fu contraddistinto da un periodo di ristagno pur in coerenza con il resto del mondo a seguito della grande crisi. A questa situazione generale si aggiunse la condizione arretrata del Mezzogiorno perdendo ulteriore terreno sia in termini di reddito che di investimenti: mancato ammodernamento dell’agricoltura, scelte di politica economica a favore dei gruppi industriali del Nord. Il livello dei salari si era ridotto e il sindacato fascista era ormai un apparato burocratico e di controllo che, tranne alcuni casi, assecondò le maestranze. Si procedette ad un aumento della burocrazia ministeriale con la presenza di molti meridionali. Il ventennio fascista: il disastro dell’economia di guerra A livello internazionale l’Italia finì sotto l’orbita nazista. Fin dal 1936 Mussolini dichiarava infatti che l’Italia si stava preparando a un grande “cimento bellico”. Contemporaneamente ad una disastrosa situazione delle finanze pubbliche si prospettava quindi un impegno militare a fianco della Germania di Hitler. Molti furono gli ambienti governativi e non a tentare di dissuadere il Duce ma il “patto d’acciaio” trascinò l’Italia in guerra senza alcuna preparazione militare e industriale. Solo nel 1940 Mussolini tracciò un Piano nazionale per la produzione bellica. Inasprimento delle tasse e prestiti forzosi prepararono l’impegno bellico. La storia economica dell’Italia contemporanea (1943-2006) L’Italia della ricostruzione economica In Italia il 25 luglio 1943 si consuma un colpo di Stato da parte della monarchia, di alcuni esponenti meno filotedeschi e dalla borghesia industriale. Defenestrato Mussolini l’8 settembre 1943 l’Italia si schiera con le potenze alleate. Si consuma in Italia la lotta partigiana al Nord e gli Alleati procedono la liberazione del Paese dal Sud. La Resistenza diede maggiore dignità e autonomia nel trattamento dei Paesi sconfitti. Malgrado gli Stati Uniti propugnarono scelte keynesiane anche grazie al Piano Marshall i governi italiani dell’epoca, specie dalla vittoria della Democrazia Cristiana il 18 aprile 1948 e l’esclusione delle sinistre dal governo, adottarono una politica deflattiva fondata sul restringimento del credito. L’Italia della ricostruzione economica La Costituzione italiana favorì il processo di ricostruzione e i lavori dell’Assemblea costituente del 1946 si svolsero in un contesto di grande concordia e solidarietà. Furono smantellate le strutture autarchiche e corporative. A quel tempo i partiti socialisti (Nenni) comunisti (Togliatti) collaborarono alle scelte economiche con i liberali e la DC. La Costituzione italiana, tra le più avanzate, stabilì importanti punti fondamentali nei diritti dei cittadini, dimostrandosi idonea a favorire i processi di crescita. Spesso tuttavia la sua applicazione concreta, in alcune parti che rinviavano a norme attuative, o ritardarono ad essere redatte o furono trasformate e distorte dalle forze conservatrici (vedi le leggi sul decentramento). Le idee della ricostruzione economica Le idee sulla ricostruzione furono tra le forze politiche diverse. Le forze di sinistra e il Partito d’Azione erano orientati ad alcune nazionalizzazioni, i liberali contrari mentre la DC valutare caso per caso. Quanto all’ipotesi di un Piano economico i comunisti erano contrari e più orientati a riforme di struttura. Per i socialisti era necessario un piano di coordinamento degli investimenti. Gli unici che avessero idee chiare su cosa fare erano i tecnici di ispirazione liberale (Einaudi, Del Vecchio, Demaria, Corino) ma i grandi gruppi industriali non intendevano rinunciare alle loro prerogative e privilegi. La questione principale era la questione del cambio di moneta per impedire l’inflazione. Il Governo Parri non riuscì ad affrontare la questione e anche il primo governo De Gasperi per assicurare l’unità nazionale rinviò la questione. Contestualmente con la “svolta di Salerno” i comunisti optarono per una scelta democratica attraverso una via nazionale al socialismo. Le idee della ricostruzione economica Malgrado la svolta di Togliatti per il PCI la scelta rimaneva quella della Terza internazionale e del crollo del sistema capitalistico. L’ipotesi socialdemocratica veniva solo accettata nella sua provvisorietà. I socialisti erano invece appiattiti sulle posizioni del partito comunista anche se spesso i socialisti Lombardo, Morandi e D’Aragona avevano trovato alcune sintonia sulla politica di piano con la sinistra DC. Il Partito d’Azione, dilaniato da contrasti, non riuscì a svolgere una funzione di stimolo. Tra le figura importanti vi era Ugo La Malfa forte assertore delle idee di programmazione e keynesiane equidistante tra marxismo e liberalismo. L’Italia doveva intraprendere la strada dell’economia mista. In tal senso bisognava convertire i socialisti dal massimalismo al riformismo. Le idee della ricostruzione economica Nel programma DC furono recepiti i principi della democrazia economica di Saraceno e Vanoni estensori del c.d.”Codice di Camaldoli” con lo sforzo per investimenti di lungo periodo. L’impostazione della sinistra DC con Dossetti, in opposizione a De Gasperi, tuttavia non prevalse e la linea liberale della DC finì per essere quella adottata dai futuri governi democristiani. A spezzare l’intreccio tra i tre partiti del CNL (DC, PSI, PCI) fu il peggioramento della congiuntura economica e la gestione delle ondate inflazionistiche. In questo quadro la funzione svolta da Einaudi – prima governatore della Banca d’Italia e poi Ministro del Tesoro – accelerò le ragioni della fine del tripartito e l’avvio di una politica deflattiva. L’Italia della ricostruzione economica e il tema dell’inflazione Il tema dell’inflazione fu un elemento determinante di quegli anni. Alla fine del conflitto l’espansione monetaria, che si era riuscita a contenere forzosamente, esplose in modo clamoroso. L’indice dei prezzi al consumo passo da 100 del 1938 a 5159 del 1947. Per la sinistra ciò fu dovuto alla fine dei controlli sui prezzi e sui mercati. Bisognava evitare inoltre che la fine dei controlli significasse una redistribuzione dei redditi e una forte evasione fiscale. Bisognava introdurre una nuova moneta costringendo i possessori di capitali a presentarsi alle banche per ottenere il “cambio della moneta” individuando i possessori di grandi capitali e tassandoli, colpendo speculatori e aiutando le case dello Stato. L’Italia della ricostruzione economica e il tema dell’inflazione Per i liberisti (in quel tempo i tecnici della DC nel gruppo di De Gasperi) causa dell’inflazione era l’eccesso di spesa pubblica non la mancanza di controlli i quali dovevano essere aboliti. Cacciata la sinistra nel 1948 dal governo prevalse la linea liberista di Einaudi (Ministro del tesoro) con una politica deflattiva e di restrizione del credito (aliquote di deposito obbligatorie del 25%) e caduta della domanda interna e quindi della spirale inflattiva. Tutto a danno di una forte disoccupazione e l’arresto dell’attività produttiva. Solo la congiuntura internazionale degli anni a venire avrebbe ridotto le conseguenze di tali scelte politiche. I fattori della ricostruzione economica 1. 2. 3. Quale furono i fattori della crescita e della ricostruzione? Il potenziale industriale italiano non era danneggiato soprattutto perché il conflitto si consumò prevalentemente al Sud e al Centro. I Partigiani salvarono le fabbriche. Il patrimonio industriale rimase quindi prevalentemente intatto. Il contesto sociale, con i partiti di sinistra, nella prima fase al governo, favorì un periodo di concordia con basse richieste salariali. Il potenziale industriale e l’utilizzazione della capacità produttiva fu rapidamente raggiunta sfruttando la congiuntura europea ed internazionale favorevole; I fattori della ricostruzione economica 4. I problemi dell’agricoltura furono positivamente affrontati recuperando le scelte disastrose del periodo fascista. Si avviò un’opera riformatrice sotto la pressione delle masse contadini e delle occupazioni. Molte famiglie abbandonarono la terra mentre si andarono costituendo imprese capitalistiche che favorirono la specializzazione produttiva. Soprattutto al Centro e al Nord dove era diffusa la mezzadria i contratti di mezzadria furono modificati a favore di quest’ultimi avviando un processo di accumulazione capitalistica e di imprenditorialità. 5. Il problema energetico fu favorevolmente risolto come nel periodo precedente attraverso l’utilizzo delle risorse idroelettriche. Questa strategia fu affrontata attraverso lo sfruttamento del gas e del petrolio in Italia superando vecchie logiche autarchiche fasciste. I fattori della ricostruzione economica e l’ENI di Mattei La fondazione dell’ENI (1953) fu fondamentale. Un’impresa pubblica, diversa dall’esperienza dell’IRI, che sfruttò le concessioni di esclusiva dell’utilizzo dei giacimenti di petrolio e gas nella pianura padana. Il problema dell’energia a basso costo si riproponeva come nel passato. L’energia idroelettrica non era sufficiente. Gli intendimenti di Enrico Mattei e le idee di Ernesto Rossi, consentirono all’Italia di sfuggire all’oligopolio delle compagnia multinazionali (le c.d. sette sorelle) e di acquisire energia a basso costo e a quantitativi non controllati. Energia a basso costo e inserimento nel contesto internazionale competitivo. I fattori della ricostruzione economica 6. Malgrado i governi democristiani adottassero politiche deflattive e liberiste nella realtà la politica e la cultura liberista fu sostituita da pratiche di sostegno al credito e all’industria, a favore delle esportazioni, di controllo dei mercati. 7. Ultimo fattore della ricostruzione fu la classe politica. Una nuova classe politica formatasi durante la resistenza e la lotta antifascista con un approccio cosmopolita (sia cattolica che di sinistra). Unitamente al ruolo dei grandi partiti politici di massa e al rapido reinserimento dell’Italia nei grandi organismi internazionali. Questo ciclo si esaurirà sul finire degli anni ’60. L’Italia della ricostruzione e i tre dualismi economici Aspetti negativi della ricostruzione sono da segnalare nel rafforzamento del (1) dualismo territoriale Nord/Sud, l’emigrazione come valvola di sfogo alla forte disoccupazione, dal ritorno della mafia nel mezzogiorno d’Italia con l’implicito sostegno degli Stati Uniti, (2) il dualismo tra imprese grandi e piccole, (3) tra quelle esposte alla concorrenza internazionale e quelle protette e quindi meno efficienti. L’Italia della ricostruzione economica e il contesto internazionale Tuttavia non è possibile comprendere i problemi dell’immediato dopoguerra senza partire dal contesto internazionale del secondo dopoguerra. Molteplici furono le decisioni determinanti e fondamentali dell’Italia nel nuovo contesto internazionale tra cui l’adesione al Fondo Monetario e alla Banca mondiale con l’affidamento degli aiuti del Piano Marshall e la nascita degli accordi di Bretton Woods ed il ruolo monetario degli Stati Uniti con l’abbattimento delle barriere protezionistiche nonché il sistema di prestiti e aiuti in dollari verso i paesi alleati. L’Italia della ricostruzione economica e la politica di Einaudi Le scelte politiche nazionali erano dettate dalla necessità di favorire processi di liberalizzazione e di abbandono progressivo delle protezioni e di apertura degli scambi. Il Ministro Luigi Einaudi fu incaricato di attuare questo programma. Egli fu contrario ai controlli sui cambi tali da assicurare i costi delle importazioni rese più vantaggiose con minime svalutazioni e quindi per non danneggiare le esportazioni italiane. L’Italia della ricostruzione economica e la politica di Einaudi Einaudi favorì la liberalizzazione dei cambi con la svalutazione delle lira consentendo alle imprese e agli speculatori di trattenersi il 50% delle valute ottenute operando all’estero per pagare l’importazione di determinate merci. Si crearono così mercati paralleli dei cambi: uno ufficiale e uno commerciale applicato a quel 50% dei proventi dell’esportazione. Due anni dopo fu stabilito il cambio fisso Lira/dollaro a 625 garantì le esportazioni. Tuttavia il cambio fisso se favorì le esportazioni non assicurò le riserve auree. E quindi mentre i ricavato delle esportazioni divennero oggetto di fuga dei capitali le importazioni venivano pagate con i fondi ottenuti dal governo americano. La autorità americane denunciarono il modo di utilizzare gli aiuti del Piano Marshall ma all’inizio le proteste non ebbero risultato alcuno (1949). Il mancato utilizzo delle risorse e degli aiuti per finalità di ricostruzione condizionava l’arretratezza e i ritardi dell’economia italiana di quegli anni. L’Italia della ricostruzione economica e il Piano Vanoni Prese piede nel governo De Gasperi la linea del Ministro Ezio Vanoni e del partito socialdemocratico: una politica orientata alla riorganizzazione delle partecipazioni statali e di rilancio della programmazione economica e dello sviluppo del Sud. Il Piano Vanoni, presentato al Parlamento italiano nel 1955, individuava le linee di politica economica del Governo De Gasperi. I quattro obiettivi che il piano intendeva raggiungere erano: la creazione di quattro milioni di posti di lavoro durante il decennio 1955-64; la riduzione dello squilibrio esistente tra Nord e Sud; il pareggio della bilancia dei pagamenti da ottenere attraverso un incremento delle esportazioni; la ristrutturazione della distribuzione delle forze di lavoro. Tuttavia solo con la ripresa del ciclo internazionale e della domanda globale si favorì la crescita degli anni successivi e del successivo miracolo economico. L’Italia della ricostruzione economica I provvedimenti più importanti dei governi centristi furono: - - Legge Tupini per l’intervento finanziario dello Stato a sostegno delle opere pubbliche; Il Piano Fanfani per le case ai lavoratori; Il varo della riforma agraria e l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno; Il “Progetto La Malfa” di ristrutturazione delle partecipazioni statali. Contestualmente a queste politiche keynesiane nella CGIL veniva eletto Di Vittorio Segretario Generale che si rese disponibile ad una collaborazione con il governo a seguito di riforme sociali (Il Piano del Lavoro). Malgrado l’acuirsi delle tensioni politiche con lo scoppio della guerra fredda il governo si impegno sui temi sociali e soprattutto sulla questione meridionale a partire dalla riforma agraria. La riforma agraria Il governo ritenne necessaria una riforma agraria anche alla luce delle evidenti pressioni del partito comunista. Attraverso tre provvedimenti nel 1950 il Ministro dell’agricoltura Antonio Segni attuò la riforma agraria (Legge Sila, Legge stralcio e la Legge per la Sicilia). Si espropriarono 760.000 ha con l’assegnazione a 113.000 contadini. L’opposizione parlamentare fu fortissima e non fu possibile soddisfare tutte le richieste . Inoltre le quote furono di poderi piccoli esigui con “assegnazioni limitate” che tuttavia non garantivano redditi adeguati. Alcuni grandi possidenti non furono toccati. Il costo dell’operazione fu molto alto e i contadini non furono supportati da assistenza tecnica e nella partecipazione economica. La riforma non assicurò infatti l’aumento della produttività delle terre. Infine non si affermarono cooperative o azienda a conduzione associata. Malgrado i risultati furono inferiori alle aspettative il latifondo fu profondamente colpito. I ceti possidenti alla fine nel 1953 non appoggiarono più la DC. La Cassa per il Mezzogiorno Oltre alla riforma agraria fu varato un Piano straordinario di d’intervento pubblico con la creazione nel 1950 della Cassa per il Mezzogiorno e l’approvazione di una legge sugli istituti di credito agevolato. L’idea era quella dell’economista Myrdal per la riabilitazione delle aree arretrate attraverso infrastrutture e opere pubbliche. Tesi condivisa anche da meridionalisti quali Giustino Fortunato e Francesco Nitti. Con il tempo ci si convince che alle opere pubbliche bisogna sostenere l’accrescimento del capitale fisso anche con il supporto delle iniziative industriali e artigianali (Pasquale Saraceno). Infatti tutto ciò serviva solo a favorire le industria del Nord per le forniture e le commesse pubbliche. Malgrado tutto furono realizzate opere prioritarie (scuole, ospedali, servizi civili). Il Piano fece affidamento solo sull’azione combinata di spesa pubblica ed “economie esterne”. La rapidissima crescita tra dualismo e arretratezza: il Miracolo Economico La rapidissima crescita dell’economia italiana del dopoguerra fu dovuta anche dall’impulso e l’introduzione nelle grandi e medie industrie dei principi dell’organizzazione razionale e del lavoro operaio e della direzione manageriale. Negli anni del miracolo economico (1950-1963) la crescita delle imprese e la modernizzazione dei processi produttivi provocarono un aumento della produttività. Fondamentale fu il processo di apprendimento dei principi organizzativi nordamericani. Grazie a ciò, quando la congiuntura internazionale riprese a crescere, il sistema produttivo italiano era pronto a cogliere la sfida. Il regime dei cambi fissi e l’integrazione economica europea infine agevolarono questo processo. L’Italia seppe orientarsi verso i mercati ricchi e utilizzò a pieno il bassi costi delle materie prime (energia) e del costo del lavoro per proporsi sui mercati come paese esportatore. La rapidissima crescita tra dualismo e arretratezza Ecco alcuni segni della modernizzazione: Il Reddito Nazionale passò da 557 $ (1952) a 970 $ (1963). L’agricoltura passò dal 23,5% (1952) al 15,7% (1963) mentre l’industria dal 33,7% al 43,8%. Nel settore industriale prevalsero i settori più innovativi orientati verso i mercati esteri ed aperti alla competizione (chimico e dei derivati del petrolio, meccanica di precisione, fibre sintetiche, automobilistico). Significativa, anche se per motivi opposti, è la trasformazione del settore terziario con un notevole incremento nello stesso periodo dal 31,8% al 37,4% quali settori rifugio della manodopera fuoriuscita dall’agricoltura. Infine il tasso di disoccupazione passò dal 10,3% al 3,0%. Tutto ciò si lega ai forti processi di emigrazione dal Sud al Nord che vedono il Mezzogiorno quale serbatoio di manodopera con evidenti problemi di urbanizzazione delle grandi città e delle coste. Il Tasso di crescita del PIL è del 6,7% medio annuo L’emigrazione italiana I processi migratori furono verso altre aree ricche dell’Europa e dell’America. Emigrazione prima degli uomini e poi delle donne dalla campagna alle città e in altri Paesi. L’emigrazione, interna ed esterna, come strumento di politica economica Le decisioni che inducono ad emigrare: aspettative di reddito e di occupazione. Dall’Italia emigrano dal 1951-60 circa 2.900.000, dal 1961-70 circa 2.650.000 e nel periodo 1971-80 si scende a 1.084.000. Dal 1951 al 1970 4.000.000 di italiani lascia il Sud per andare al Nord. Dagli anni ’80 l’Italia inizia a diventare un Paese di accoglienza malgrado non si fermano i flussi migratori in uscita. L’intervento dello Stato attraverso la spesa pubblica rallenta i processi migratori e aumenta i livelli di reddito del Sud con forme di assistenzialismo e di distorsione del mercato del lavoro. L’Italia diventa paese ospitante con forti processi di urbanizzazione senza industrializzazione. La rapidissima crescita tra dualismo e arretratezza Un elemento che colpisce è la disparità tra la crescita dei consumi più contenuta rispetto alla crescita del reddito, pur essendo questa parte importante della spesa globale. La spesa che sostenne la spesa globale fu la spesa pubblica, che crebbe ad un saggio elevato per le opere pubbliche (investimenti in viabilità, lavori urbani) e per i consumi pubblici (scuole e ospedali). L’insufficienza dei consumi interni fu compensata dalle esportazioni e dagli investimenti. I prodotti italiani si contraddistinguono per qualità dei manufatti e a costi inferiori rispetto alla concorrenza. Tutto ciò favorì lo sviluppo del sistema produttivo italiano determinando tuttavia alcuni elementi distorsivi. La rapidissima crescita tra dualismo e arretratezza 1) Il dualismo della struttura produttiva italiana determinata dalle esportazioni con settori dinamici orientati a mercati esteri aggressivi e settori più arretrati orientati verso la domanda e il mercato interna, stagnanti e tradizionali. Mentre i settori più dinamici facevano riscontrare forti incrementi di produttività, alti profitti e bassi incrementi di occupazione i più arretrati assorbivano la disoccupazione, con bassi incrementi di produttività. A questo si aggiungeva l’arretratezza dell’agricoltura che malgrado la riforma del 1950 era rimasta indietro rispetto ai partner europei con politiche protezionistiche (fino all’adesione alla CEE) che assicuravano la permanenza di imprese marginali, l’appiattimento della politica alle indicazioni della Coldiretti orientata sempre verso la piccola proprietà e successivamente la mancata attuazione del Piano Verde per adeguare le strutture produttive agricole all’adesione al Mercato Comune. La rapidissima crescita tra dualismo e arretratezza 2) Il dualismo industriale creava le premesse per la distorsione dei consumi. Da una parte si fornivano elettrodomestici e automobili, prodotti dalle industrie più dinamiche, ma dall’altro non v’era un sistema sanitario nazionale e scolastico adeguato (carne, libri, trasporti pubblici). Quindi un dualismo dei consumi tra consumi privati e consumi pubblici. In tal senso lo Stato poco contribuì a riequilibrare questo genere di distorsione. Anche sul piano fiscale, malgrado la riforma legata a Vanoni, poco si fece sul piano dell’accertamento della veridicità delle dichiarazioni fiscali e con un sistema a favore dei redditi d’impresa e professionali rispetto a quelli fissi e di lavoro dipendente. Aumento delle spese correnti, sistema fiscale inadeguato, folta serie di benefici e i posizioni di rendita, forza d’inerzia delle strutture pubbliche accentuarono la prevalenza dei consumi privati rispetto agli investimenti pubblici aumentando il senso di benessere collettivo tuttavia effimero. La rapidissima crescita tra dualismo e arretratezza 3) La questione Meridionale è l’ultimo elemento delle distorsioni dello sviluppo italiano. Il Sud continua ad avere un’alta percentuale di addetti all’agricoltura 40%, un’alta pressione demografica e uno sviluppo scarso della struttura industriale. L’integrazione produttiva ed industriale necessaria ad affrontare i mercati esteri aggravavano le distorsioni territoriali. Il Mezzogiorno era solo un serbatoio di manodopera. Gli incentivi all’industria finirono solo per favorire le grandi industrie e i grandi complessi petrolchimici e siderurgici senza sostegno vera alle PMI. Malgrado il Mezzogiorno non era quello del passato dieci anni di investimenti pubblici non avevano delineato un processo di sviluppo. La competizione europea finì per accentuare il divario con un sistema produttivo efficiente e competitivo al Nord e un sistema inefficiente e fondato su servizi e pubblica amministrazione al Sud. Il protezionismo agrario periferico Durante il regime fascista i rapporti capitalistici si estesero in agricoltura in forma non lineare. Il rafforzamento della grande azienda capitalistica convive con il latifondo meridionale, con l’inasprimento delle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti e dei mezzadri, conservando rapporti di produzione semifeudali. Dal 1950 al 1990 l’agricoltura italiana è passata dal 23 al 3,5% del valore aggiunto del PIL e con una quota degli occupati dal 43,8% al 9,3%. Alta produttività nelle zone pianeggianti e degrado nelle zone montane, mentre l’agricoltura meridionale è stata interessata dallo sviluppo solo negli anni ’60 con una caduta delle produzioni cerealicole. L’agricoltura italiana subisce delle modificazioni grazie alle riforme agrarie e alle lotte contadine (1944 – 1950). Il protezionismo agrario periferico Le riforme agrarie determinano il carattere dell’agricoltura italiana: la costruzione di un blocco sociale e politico fondato sulle media azienda capitalistica e sulla proprietà contadina rafforzando i legami tra agricoltura ed industria. Il punto debole era lo sviluppo della piccola proprietà contadina con aziende piccole e scarsamente competitive nonché dipendenti dal sostegno pubblico. Si confermano ancora le debolezze strutturali: la protezione dei settori cerealicoli e lattiero-caseario. Negli anni ’60 e ’70 vengono avviati i c.d. Piani Verdi contrassegnati dagli sforzi governativi di sostenere e incentivare le piccole proprietà contadine e l’azienda familiare. Malgrado ciò continua a svilupparsi l’impresa capitalistica con dimensioni dai 10 a 50 ettari favorendo il passaggio dalla mezzadria a rapporti fondiari capitalistici. Si riduce la manodopera, si estende la meccanizzazione e si interconnette la politica di ristrutturazione con la politica comunitaria. Tuttavia la struttura fondiaria rimane fortemente parcellizzata e frammentata. I governi di centro-sinistra Le rigidità degli anni ’50 finirono per scaricarsi sui prezzi con spinte inflazionistiche. Se fino al 1962 la produttività era aumentata più dei salari da quella data la dinamica si inverte. Esaurimento della riserva di lavoratori, crescente costo della vita, ritardi del settore agricolo, rigidità del settore dell’edilizia e dei servizi furono alcune ragioni dell’aumento dei prezzi. Maturò la scelta politica per una nuova maggioranza di centro-sinistra. L’alleanza tra cattolici e laici aveva esaurito la sua funzione e il Paese aveva bisogno di riforme sociali. La Confindustria aveva assunto sempre più posizioni di destra e a favore del PLI mentre socialdemocratici e repubblicani pressavano per un nuovo programma di coordinamento economico. I governi di centro-sinistra Intanto si era consumata la frattura tra PSI e PCI. I socialisti si erano liberati dell’ipotesi massimalista grazie all’opera del Segretario Riccardo Lombardi. Anche se l’impostazione generale non aveva superato l’idea di trasformare ed eliminare il capitalismo si voleva tuttavia partecipare alle scelte del Paese. Il 1° governo Fanfani di centro-sinistra mirava a attenuare il divario Nord-Sud, tassare i dividenti delle società, promuovere la riforma urbanistica e della scuola, nazionalizzare l’energia elettrica e altri settore oligopolistici, attuare una riforma della fiscalità locale. I governi di centro-sinistra Il 1° governo Fanfani di centro-sinistra avviò la nascita dell’ENEL nazionalizzando molte industrie di produzione tra cui la Edison. Nel 1963 le spinte inflazionistiche furono contenute con una stretta creditizia con il risultato di una stabilizzazione dei prezzi ma una brusca caduta della produzione industriale. I governi di centro-sinistra Il “Rapporto Saraceno” del 1964 costituì la base delle politica di programma. Si stabilì di localizzare il 40% dei nuovi posti di lavoro e il 45% degli investimenti pubblici al Sud concentrando al Sud i grandi impianti. Molti risultati tuttavia non vennero raggiunti per l’opposizione da una parte dei grandi gruppi industriali e dall’altro dei comunisti e della CGIL ad una politica dei redditi. Molte furono le resistenze alla tassazione dei dividenti e all’aumento dell’età pensionabile. Rimase a metà la riforma urbanistica e quella sanitaria. Tuttavia l’industria del Nord riprese a crescere. L’autunno caldo (1969) A seguito della nazionalizzazione dell’energia elettrica e alla fine degli anni ’60 sia era creata una situazione dualistica tra imprese a partecipazioni pubbliche e grandi gruppi privati. Da una parte IRI, Enel ed Eni (i primi tre colossi pubblici) e dall’altra la FIAT e altri 5-6 gruppi al di sotto 72.000 PMI. L’economia scontava l’assenza di una politica di programmazione e l’attuazione di interventi di natura assistenziale con l’allargarsi del divario tra crescita economica e atrofia del sistema pubblico e politico. Una buona parte del risparmio andava all’estero. Davanti a settori in posizione di rendite di oligopolio, rigidità dell’offerta, aumento dei prezzi e riduzione dei margini di profitto e ancora aumenti salariali le aziende avevano reagito con l’aumento della produttività. L’autunno caldo (1969) - Nel 1969 scoppio la lotta operaia. Le cause furono determinate: rigidità dell’offerta data dalle posizioni di rendita; dall’intensificarsi dei ritmi di lavoro per recuperare produttività; dalla nuova ondata migratoria dal Sud con problemi sociali e di agglomerazione; Aumento del costo della vita e riduzione del potere di acquisto dei lavoratori. Tutte queste cause spinsero il sindacato a richiedere riforme sociali, aumenti salariali, revisione delle normative in materia di lavoro. L’autunno caldo (1969) La CGIL sotto la guida di Luciano Lama avviò un’azione di scioperi e rivendicazioni. A seguito delle lotte operaie furono eliminate le “gabbie salariali”, 150 h destinate alla formazione, l’indennità di nocività negli impianti nocivi, le norme sugli ambienti di lavoro e lo Statuto dei Lavoratori (1970) con la fine dell’autoritarismo e le discriminazioni. Infine un aumento del costo del lavoro. Lo sviluppo dell’industria fondata sul basso costo del lavoro era finita. Tuttavia le difficoltà furono dovute anche alla riduzione degli investimenti nelle fabbriche viste le novità tecnologiche che aggravarono lo scarto con il sistema industriale tedesco e francese. L’aumento del costo del lavoro ridimensionò l’occupazione nell’industria e per far fronte alla disoccupazione si amplio l’ambito del terziario e del settore pubblico anche nelle amministrazioni locali. Boom della popolazione scolastica, espansione del terziario, presenza femminile nel mercato del lavoro, crescenti aspettative di consumo determinarono una diffusa conflittualità sociale. Le trasformazioni degli anni ‘70 Il sistema politico reagì alle ondate di rivendicazioni e richieste di partecipazione con l’espansione della finanza pubblica e con il decentramento e la delega alle regioni a statuto ordinario (1971). Infine venne riconosciuto il monopolio bilaterale nelle relazioni industriali tra confederazioni sindacali e Confindustria. Quest’ultima con Gianni Agnelli alla presidenza e la svolta Pirelli si riorganizzò. Sembrava quasi la nascita di un patto tra produttori (imprenditori e operai) ma entrambe le organizzazioni, diffidenti sulla compartecipazione e codecisione sul modello tedesco, non raggiunsero alcun accordo. Alla mancata attuazione della politica dei redditi proposta da La Malfa le organizzazioni finirono per inseguire la spirare degli aumenti salariali mentre il governo rispose alle continue tensioni sociali, specie nel Mezzogiorno, con vari progetti di intervento pubblico (Alfasud a Pomigliano, la Chimica a Lamezia Terme e Crotone, il centro siderurgico di Gioia Tauro) alcuni dei quali destinati a rimanere sulla carta. Le trasformazioni degli anni ‘70 Il contesto esterno condizionerà gli sviluppi degli anni ’70. La Guerra del Canale di Suez 1956 (tra Egitto e Francia e GB) aveva già innescato il conflitto per il predominio statunitense e quello inglese nel mondo soprattutto in tema energetico. L’Italia si muove con relativa autonomia nelle politiche mediterranee soprattutto nelle politiche energetiche attraverso l’ENI. Le crisi energetiche degli anni ’70 e la costituzione nel 1975 dell’OPEC costituiscono un punto di svolta a livello mondiale. Fino ad allora crescita dei consumi energetici e crescita del PIL sembravano essere meccanismi spontanei soprattutto per il basso costo e la riproducibilità delle fonti energetiche. Negli anni ’70 questo meccanismo si ruppe alle quali si sono aggiunte le conseguenze ambientali. Le trasformazioni degli anni ‘70 In Italia tutti i valori economici vengono messi in crisi e la fragilità della nostra economia viene accentuata: aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime, aumento delle rivendicazioni salariali e del costo del lavoro, stagflazione. Le imprese reagiscono solo grazie ai vantaggi competitivi della lira deprezzata. L’inflazione raggiunge il 21% e il dissesto delle finanze pubbliche diventa evidente. La disoccupazione il 9,4%. Malgrado ciò la sensazione è di un relativo benessere a causa di una competitività sostenuta dall’inflazione e del deprezzamento della lira e dalla crescita degli occupati nel terziario (+3,2%) a scapito dell’industria (-1,6%). Il periodo tra gli anni ’70 e ’80 rappresentò un punto di svolta per il nostro sistema economico. Si evidenziarono gli effetti negativi della dicotomia apparato industriale e settore pubblico; l’insuccesso dei piani di programmazione; il drenaggio da parte dello Stato del risparmio, il deterioramento delle infrastrutture; l’assenza di investimenti. Le trasformazioni degli anni ‘70 Se l’economia riuscì a resistere lo si deve alle performances delle PMI come realtà sommerse. Uno dei motivi della crescita fu la reazione al costo del lavoro molto alto. Si avvio un processo di riorganizzazione aziendale e di decentramento produttivo volto ad accrescere la produttività, ridurrei meccanismi di accrescimento dei salari, investimenti labour saving, maggiore flessibilità della forza lavoro. Vennero emergendo anche nuove realtà piccole e innovative che rispondevano alle nuove tendenze di specializzazione. Si sviluppò un sistema a rete di imprese capaci di adattarsi ai mutamenti. La scomposizione del processo produttivo portò alla fine del modello taylorista (produzioni a fase e non a linea). E’ la Banca d’Italia che, dopo il 1980, inverte la rotta con alti tassi di interesse, apprezzamento della lira e lotta alla svalutazione invitando il sistema produttivo a competere sul piano dell’innovazione rafforzando quel processo di sviluppo ineguale già presente. Le trasformazioni degli anni ‘70 I processi di ristrutturazione e di introduzione delle innovazioni dei primi anni ’80 finiscono ulteriormente per aggravare la fuoriuscita della manodopera nell’industria (4,1%) con tassi di disoccupazione superiori al 10%. Si iniziano ad intravedere politiche dei redditi (referendum sulla scala mobile del 1985) in grado di contenere inflazione e politiche di stabilizzazione. Le scelte produttive delle imprese sono improntate a ridurre i fattori produttivi (manodopera) con l’aumento degli investimenti in beni intermedi (importazione con evidente deterioramento della bilancia dei pagamenti). Di qui si tenta la strada di flessibilità e competitività in un sistema internazionale instabile. Le trasformazioni degli anni ‘70 Le trasformazioni del sistema produttivo sono legate altresì al ruolo del sindacato. Fino agli anni ’70 il sindacato risulta relativamente debole e esisteva una forma di collateralismo partitisindacati molto spiccato. In questo senso la politica sindacale fu orientata alla centralizzazione contrattuale e all’elemento salariale. Tutto ciò era favorito anche dalle stesse organizzazioni datoriali interessate a questo genere di politica. La sconfitta della CGIL con il referendum sulla scala mobile nel 1984, la fine del collateralismo cattolico, il rinnovamento degli orientamenti industriali misero in discussione le consolidate pratiche sindacali. Mutò anche la base del sindacato con una estensione dei rappresentati all’intero mondo lavoratore e non solo quelli specializzati. In tal senso il sindacato acquisì potere contrattuale autonomo riempiendo gli spazi lasciati dai partiti e assumendo un ruolo di portatore di interessi generali. La difficile modernizzazione La decisione del IV governo Andreotti di entrare nello SME e quindi di stabilizzare la lire fu accompagnato dalla fine dell’esperienza del compromesso storico con il PCI di Berlinguer. L’offensiva terroristica delle Brigate Rosse in Italia, nate a seguito della situazione di conflittualità permanente del Paese, con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, leader DC, decretò la fine del tentativo di dialogo tra le forze politiche. Continuò a sopravvivere una logica consociativa sulla gestione della spesa pubblica a partire dalla finanza locale deresponsabilizzata. Tutto ciò aggravò la situazione della Finanza pubblica. Le idee redistributive e di solidarietà (come la legge sull’equo canone del 1978) finirono per rendere il bilancio pubblico insostenibile e senza alcuna prospettiva riformatrice. La difficile modernizzazione Il giro di boa della fase recessiva e inflattiva si ebbe agli inizi degli anni ’80 con la fine del sindacalismo estremo e con la famosa “marcia dei quarantamila” fra capi e impiegati della Fiat per le vie di Torino in segno di protesta contro il massimalismo dei sindacati e la paralisi dell’attività produttiva. La diffidenza del sindacato rispetto alle ipotesi di compartecipazione finirono per ridimensionare il suo ruolo riponendo al centro dell’attenzione la produttività e la mobilità della manodopera. Alla riduzione dell’occupazione fece seguito l’aumento degli investimenti. Il Referendum del 1984 che abolì la scala mobile segnò la fine della corsa inflazione-aumenti salariali. Il recupero di efficienza e competitività comportò tuttavia costi sociali reso possibile solo attraverso iniezioni di denaro pubblico e interventi fiscali e monetari. Al termine di questo processo di riduzione dell’inflazione e aumento del PIL l’Italia si presentò come la quinta potenzia dopo Francia e Germania La difficile modernizzazione La ripresa degli anni ’80 aveva purtroppo tanti punti di debolezza: 1) Fortemente concentrata sulla domanda interna; 2) Recupero di competitività più di innovazioni di processo e decentramenti che innovazioni di prodotto; 3) Disfunzioni nei settori dei servizi (trasporti ancora su gomma e non su rotaia, distribuzione) e infrastrutture; Tali debolezze erano presente nel passaggio alla terza rivoluzione industriale; la diffusione di tecnologie labour and capital saving; l’informatizzazione; il potenziamento delle funzioni di marketing e logistica; la fine del modello fordista e nascita di organizzazioni produttive più snelle; il processo di terziarizzazione con riduzione della quota “blu”dei lavoratori. A questi si aggiungevano i processi di deregulation proposti da Reagan e dalla Thatcher. La difficile modernizzazione Adeguare il sistema produttivo ai cambiamenti della rivoluzione industriale significava adeguare le strutture industriali ma anche le strutture finanziarie del Paese. Ciò risultava difficile in una situazione in cui i titoli del debito pubblico drenavano risorse da destinare agli investimenti e al capitale di rischio. Il capitalismo era privo di azionariato diffuso, fortemente legato ai gruppi imprenditoriali di tipo familiare, con una Borsa valori piccola e asfittica, uno Stato banchiere ed imprenditore. Fino ad allora il ruolo svolto da Mediobanca, costituita nel 1946 su iniziative delle tre banche (Commerciale, Credito Italiano e Banca di Roma) di soggetto incaricato del finanziamento a medio/lungo termine aveva continuato a essere esercitato quale “camera di compensazione” tra assetti proprietari e a promuovere relazioni fiduciarie e di sindacato più funzionali alle mutevoli situazioni dei gruppi industriali (il c.d. salotto buono). Enrico Cuccia aveva assicurato l’indipendenza del sistema industriale delle grandi famiglie industriali dalle incursioni della politica e dei partiti lontano da logiche concorrenziali e di concentrazione finanziaria. La difficile modernizzazione Tale meccanismo perpetuò l’utilizzo del risparmio pubblico per l’acquisto di titoli di Stato e dall’altro il mantenimento degli assetti proprietari e familiari. L’assenza poi di una Politica industriale, una valida normativa di tutela della concorrenza, un indirizzo coerente di politica energetica e l’ammodernamento delle strutture dedicate alla formazione e alla ricerca con infine il perpetuarsi di politiche assistenziali resero il c.d. “Secondo Rinascimento” dal 1981 al 1986 (con la crescita del PIL pro-capite) effimero. Il Governo Craxi continuò nelle politiche assistenzialiste e clientelari privi di una reale opposizione (il PCI era ormai confinato dopo la morte di Berlinguer ad una opposizione statica) e l’unico argine fu costituito dalla Banca d’Italia (il governatore Guido Carli) che seppe controllare la propria autonomia e evitare il finanziamento di qualsiasi disavanzo pubblico. Se il successore di Carli, Carlo Azeglio Ciampi, (grazie alla decisione nel 1981 – il c.d. “divorzio” - del Ministro del Tesoro Andreatta di sollevare la Banca d’Italia dell’acquisto di tutti i titoli del debito non collocati sul mercato) assicurò indipendenza la politica monetaria non fu sufficiente a contenere i danni del disavanzo pubblico. La difficile modernizzazione Il divario con il Mezzogiorno rimane forte e si accresce malgrado si realizza una certa omogeneizzazione dei modelli di spesa e di consumo. Si conferma l’integrazione con l’economia del Nord e la crescita dei redditi dovuti ai trasferimenti dall’esterno (Stato e trasferimenti degli emigrati). L’occupazione nelle grandi imprese soprattutto grazie agli investimenti pubblici e alle partecipazioni statali, vede una crescita del 35% a fronte di una riduzione nelle piccole imprese. I dati poi confermano una generale riduzione degli occupati nell’agricoltura e una crescita nel Sud degli occupati (+40%) nei servizi e terziario. La difficile modernizzazione 1951-1961 - la riforma fondiaria e la creazione di una ampia rete di aziende contadine; - la tendenza alla integrazione e alla concentrazione nel Nord-Ovest d’Italia del sistema industriale; - la nascita della Cassa per il Mezzogiorno al Sud per assicurare infrastrutture e servizi e del Ministero delle Partecipazioni statali (1956); - gli investimenti in infrastrutture (reti di comunicazione) 1961-1971 - il processo di diffusione Centro e Nord-Est d’Italia - la nascita delle partecipazioni statali e l’industrializzazione pesante al Sud (IRI ed ENI) 1971-1981 - crisi economica e petrolifera e la stagflazione (disoccupazione e inflazione) - blocco del motore centrale (caduta del tasso di sviluppo) - ristrutturazioni industriali e decentramento POLITICHE DI INTERVENTO NEL MEZZOGIORNO 1^ FASE (1950/58) Le riforme agrarie e le infrastrutture all’agricoltura assorbono la gran parte delle risorse pubbliche. L’esodo dalle campagne, la razionalizzazione delle produzioni e l’aumento del reddito allargano il mercato, l’industria è residuale. 2^ FASE (1959/69) Le costruzioni infrastrutturali dell’industria e le agevolazioni finanziarie agli investimenti alle grandi imprese, esterne all’area, in settori base (chimica, metallurgia) I flussi migratori continuano, le produzioni sono “a ciclo integrato” con poca capacità di diffusione, aumento del divario con il Nord, attuazione del decentramento di impianti senza diffusione di imprese, trasferimenti diretti alle famiglie e aumento del reddito medio POLITICHE DI INTERVENTO NEL MEZZOGIORNO 3^ FASE (1970/79) a) i processi di ristrutturazione dell’industria diminuiscono le convenienze degli investimenti esterni; b) si afferma un tessuto di PMI anche attraverso i processi di decentramento di imprese del Nord; c) l’imprenditorialità si concentra in sub-aree dove emergono fenomeni di sviluppo autoctono. SI AVVIA UN PROCESSO DI DIFFERENZIAZIONE DEL MEZZOGIORNO “NON ESISTE PIU’ UN SUD MA I SUD” Il decentramento territoriale Le cause si riducono le diseconomie legate alle distanze (sistemi di trasporto e comunicazione); introduzione dell’elettronica e la concentrazione de ciclo integrato di produzione (polivalenza e standardizzazione dei macchinari); mutamenti della domanda e maggiore instabilità dei mercati (apprezzamento per la differenziazione dei beni di consumo) Il decentramento territoriale Le forme dello sviluppo decentrato 1. “AMMINISTRATO” Imprese pre-esistenti decidono di localizzare alcune produzioni o fasi della produzione in aree diverse (investimenti esterni all’area di insediamento); 2. “SPONTANEO” Creazione di nuove imprese locali attraverso rapporti di sub-fornitura (le condizioni ambientali possono facilitare questo processo). Il decentramento territoriale La localizzazione avviene attraverso: 1. La presenza di economie esterne (centri urbani e servizi pubblici efficienti, collegamenti) 2. Livello medio di reddito e di istruzione 3. Agricoltura basata su imprese familiari 4. Rapporto città - campagna Il decentramento territoriale Le fasi: 1. Area di specializzazione Tutte le imprese appartengono allo stesso settore - PROCESSO IMITATIVO 2. Sistema produttivo locale Differenziazioni per prodotto e/o tipo di lavorazione, autonomia nel raggiungere il mercato, acquisizione di competenze tecniche 3. Area sistema Accentuata divisione del lavoro, infrasettoriale e intrasettoriale, aumento della dimensione e complessità, verticalizzazioni Il decentramento territoriale I limiti Il decentramento “amministrato” è avvenuto al Sud ma in condizioni ambientali non favorevoli non ha creato sviluppo duraturo Area del Nord-Ovest vivono situazioni di declino e deinsustrializzazione La mappa delle comunicazioni ha disegnato uno sviluppo a macchia di leopardo. Dagli anni ’80 alla crisi del 1992 Prevale nel mondo, a seguito del crollo dell’URSS, in maniera definitiva, il modello capitalistico e altresì emergono nuovi soggetti economici e Paesi. A partire dalla fine degli anni ’80 si assiste ai processi di liberalizzazione, deregulation e globalizzazione. Un esempio per tutti il fallimento in Italia della siderurgia pubblica a causa della competizione e della sovrapproduzione mondiale nonché del degrado della gestione pubblica. Si assiste altresì in Italia ai primi timidi processi di privatizzazione e alla fine della collusione tra poteri politici e interessi finanziari ed economici oligopolistici (la privatizzazione dell’ENI, il caso della chimica con la il fallimento della banca GEMINA). Dagli anni ’80 alla crisi del 1992 Tutto ciò coincide in Italia con la caduta nel 1993 dei tassi di crescita e la crisi dei consumi in un quadro macroeconomico in cui il deficit passa dal 4% rispetto al PIL al 10% e il debito pubblico supera il 100%. Gli anni ’80 in Italia sono infatti contraddistinti da una periodo di relativa crescita che però non viene adeguatamente utilizzata per dotare il paese di infrastrutture ed investimenti e per recuperare il gap Nord-Sud. Le forze politiche (DC e PSI) operano scelte clientelari e di spreco delle risorse facendo perdere al Paese una opportunità di rilancio. Dagli anni ’80 alla crisi del 1992 A seguito alle inchieste di “Mani Pulite” nel 1992 e ai numerosi arresti viene nominato il Governo Amato con un programma di contenimento del disavanzo pubblico e con una Legge finanziaria mai così severa (90 mila miliardi fra tagli alle spese e prelievo fiscale) per riportare l’Italia nell’ambito della sostenibilità del debito (incidenza pari al 108% sul PIL e del 10,7% sul deficit annuale). I cumulo di problemi lasciati in eredità dai decenni precedenti era gigantesco. Dopo il Governo Amato nel 1993 seguì il Governo Ciampi che proseguì nel controllo della spesa pubblica. Non mancò l’appoggio dei sindacati con la sottoscrizione di alcuni accordi sul costo del lavoro e i processi di privatizzazione del sistema bancario (Commerciale e Credito Italiano). Venne nel 1990 istituita la Consob (Commissione di monitoraggio della Borsa). Si avvio una prima riforma della P.A. Rimanevano tuttavia tante cose da fare. Dagli anni ’80 alla crisi del 1992 Con la fine della Prima Repubblica, tangentopoli, la svalutazione della lira nel 1992 e la drammatica situazione finanziaria dello Stato italiano si opera una vera e propria inversione di tendenza con l’aumento della pressione fiscale per ridurre il debito e il deficit e un forte processo di privatizzazione. Blocco totale dei trasferimenti assistenziali e dell’industrializzazione dall’alto. Tutto ciò deve tuttavia avvenire in un Paese con una bassa spesa sociale di tipo reale e non assistenziale ad eccezione per quella previdenziale fortemente sperequativa per le nuove generazioni. Gli effetti sono devastanti sul piano dell’occupazione con quote di disoccupati al Sud del 30% e l’aggravarsi del divario. Forte il contributo dei sindacati attraverso l’accordo del 1993 per il contenimento del costo del lavoro e per la lotta all’evasione fiscale. La seconda Repubblica La fine della DC e la nascita a sinistra del PDS ad opera di Achille Occhetto nonché il cambio del sistema elettorale (semi-maggioritario rispetto al proporzionale) decretarono la fine della prima Repubblica. Le elezione del 1994 videro la vittoria del movimento fondato da Silvio Berlusconi, di Forza Italia, che insieme alla Lega Nord, si candidarono alla guida del Paese con idee neo-liberiste e populiste. Lo slogan era quello di una rivoluzione liberale. Tuttavia rimaneva irrisolto il problema dell’enorme debito pubblico con la necessità di politiche di rigore. Tra l’altro l’Italia doveva rispettare gli impegni assunti in sede del Trattato di Maastricht per l’adesione alla moneta unica. Le promesse della svolta neo-liberista non vennero mantenute e il divorzio con la Lega Nord costrinsero Berlusconi a dimettersi nel 1995. Il successivo Governo Dini procedette alla riforma del sistema pensionistico prima di condurre il Paese ad una nuova elezione anticapata. Le cause della crescita italiana Al centro della crescita italiana di questi ultimi decenni prevalgono tre casualità: 1) Le capacità personali ed imprenditoriali; 2) Il ruolo delle istituzioni statali; 3) L’interrelazione tra pratiche organizzative e tecnologie Tali fattori si legano tuttavia ai limiti del capitalismo italiano: bassa accumulazione di capitale, tassi di profitto inferiori, bassi salari e scarsa produzione di tecnologie innovative, scarse risorse manageriali, debole penetrazione dei meccanismi di mercato, familismo dell’impresa e sottocapitalizzazione, forte indebitamento bancario, limitata autonomia dalla classe politica e dallo Stato. Ci troviamo davanti ad una situazione di “modernizzazione senza sviluppo”.