POLITICA ECONOMICA
Facoltà di Scienze Economiche e Giuridiche
Corso di Economia aziendale
Prof. MICHELE SABATINO
TEORIE, SCUOLE ED EVIDENZE EMPIRICHE
(parte terza)
La politica monetaria secondo
i keynesiani
1.
2.
3.
A livello generale i keynesiani si mostrano scettici sulla piena
efficacia della politica monetaria per i seguenti motivi:
I ritardi nei meccanismi di trasmissione Ms>ib>rb>rl>I>Y:
L’offerta di moneta condiziona i tassi di interesse nominali a
breve (ib) mentre gli investimenti sono condizionati dai tassi di
interesse reali a lungo (rl);
Gli eventuali inceppamenti del meccanismo a causa della
scarsa elasticità degli investimenti;
Per il manifestarsi di asimmetrie di effetti a seconda della fase
ciclica (una politica restrittiva riesce a ridurre il livello degli
investimenti mentre una politica espansiva spesso non riesce a
rilanciare l’economia); del settore (l’edilizia magari è più
sensibile); delle dimensioni delle imprese; delle condizioni del
mercato (grado di intermediazione bancario e/o capacità di
autofinanziamento delle imprese).
1
La politica monetaria secondo
i keynesiani
4.
5.
Per la capacità dell’autorità monetaria di controllare
effettivamente l’offerta di moneta data anche dall’assetto
istituzionale e dalla disponibilità di credito
Dalla instabilità della domanda di moneta. I keynesiani
rifiutando la teoria quantitativa della moneta e quindi la
relazione stabile con il reddito ritengono poco prevedibile la
risposta del settore privato alle variazioni nell’offerta di moneta.
Conseguentemente la politica monetaria per i keynesiani può
solo essere ausiliaria alla politica fiscale. Se si vogliono evitare
gli effetti sul tasso di interesse di una politica fiscale espansiva
e quindi di spiazzamento della spesa per gli investimenti privati
si potrebbe assecondarla con una politica monetaria espansiva
così da mantenere stabile il tasso di interesse io e ampliare gli
effetti sul reddito Y. Una politica c.d. accomodante potrebbe
essere il finanziamento del disavanzo pubblico con moneta. La
politica monetaria sarebbe stabilizzante del tasso di interesse. 2
La politica monetaria secondo
i keynesiani
i
LM
LM’
i1
io
IS’
IS
Yo
Y1
Y2
Y
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La politica monetaria secondo
i monetaristi
Per i monetaristi si privilegiano gli obiettivi intermedi di tipo
quantitativo quale appunto la quantità di moneta rispetto al tasso di
interesse. Una politica monetaria accomodante infatti, in una
prospettiva di lungo periodo, causa un aumento dell’offerta di
moneta e quindi maggiore inflazione. A sua volta questo fa
aumentare i tassi di interesse e rafforza le aspettative di inflazione.
La relazione di Fisher (1911) secondo cui il tasso di interesse reale
di m/l periodo (determinato dalla propensione al risparmio e
all’investimento) è invariante rispetto alla variazione del tasso di
inflazione atteso (πe) riflettendosi in modo proporzionale solo sui
tassi di interesse nominali:
i = rn + πe
* rn = tasso di interesse naturale riferito al reddito naturale di equilibrio
** nel breve periodo è l’opposto in quanto r non è al livello naturale e
quindi i tassi nominali sono determinati dai tassi reali al netto
dell’inflazione (r = i – π)
In definitiva una politica monetaria espansiva nel breve periodo fa
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scendere i tassi di interesse nominali mentre nel m/lungo periodo
causa inflazione e quindi tassi di interesse nominali maggiori.
La politica monetaria secondo
i monetaristi
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-
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Inoltre secondo i monetaristi la scelta dell’obiettivo intermedio
dipende anche dall’instabilità del sistema:
Il controllo del tasso di interesse stabilizza il reddito se l’instabilità
riguarda il settore monetario (ossia la LM);
Il controllo delle quantità di moneta sono preferibili davanti ad
instabilità reali (ossia shock della IS).
In definitiva i monetaristi ammettono che la neutralità della moneta
sia solo da considerarsi vera nel lungo periodo. Il controllo
dell’offerta di moneta ovviamente è desiderabile anche nel lungo
periodo al fine del controllo dell’inflazione. La necessità poi di regole
fisse evita tassi di interesse indesiderati .
D’altro canto i monetaristi assegnano alla politica monetaria un ruolo
maggiore rispetto ai keynesiani nel breve periodo con effetti reali e
prolungati nel tempo. Al contempo rifiutano politica accomodanti
rispetto a shock reali che causerebbero sicuramente inflazione.
Alla politica monetaria viene attribuito un ruolo più autonomo rispetto
alla politica fiscale.
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La politica monetaria
secondo i monetaristi
Le asimmetrie della politica monetaria sembrano tuttavia
contraddittorie perché in presenza di una politica espansiva è
possibile creare inflazione e quindi incidere sui prezzi anche
durante una fase di recessione diversamente una scelta
monetaria restrittiva (stretta monetaria) adottata in un contesto
inflazionistico finisce nel breve periodo per ridurre il reddito
piuttosto che i prezzi. La politica monetaria causerebbe
stagflazione.
In definitiva secondo i monetaristi occorrono molte precauzioni
poiché le fluttuazioni cicliche sono spesso causate dall’erraticità
dell’offerta di moneta. Inoltre alcune questioni sono state poste
dalle recenti ricerche empiriche:
a) quale aggregato monetario va tenuto sotto controllo?
b) è davvero significativo il legame tra crescita monetaria ed
inflazione (nel breve periodo non sembrerebbe così)?
c) la velocità di circolazione è divenuta più instabile a causa anche
dei nuovi sistemi di pagamento e dalle innovazioni finanziarie)?
Strumenti e strategie della
politica monetaria
La formulazione della politica monetaria distingue tra obiettivi
finali, intermedi e strumenti. Gli obiettivi finali riguardano la
stabilità dei prezzi e l’attività economica in termini di reddito,
occupazione e investimenti.
La FED negli USA pongono entrambi gli obiettivi sullo stesso
piano mentre la BCE considera primario la stabilità dei prezzi e
in subordine le variabili reali.
Per quanto riguarda gli strumenti di politica monetaria essi sono
diversi: la BM base monetaria, le operazioni di mercato aperto,
le variazioni del coefficiente di riserva obbligatoria, i mutamenti
del tasso ufficiale di sconto (c.d. tasso di riferimento). Ma prima
vediamo di chiarire il funzionamento del moltiplicatore della
moneta:
M = H 1/(c + ρ (1-c))
Dove Mè l’offerta di moneta, H è la base monetaria (circolante e
riserve bancarie) ρ il rapporto riserve/depositi, c la propensione
della domanda di moneta detenuta come circolante.
Strumenti e strategie della
politica monetaria
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Le banche centrali controllano tre strumenti:
Vincoli sulle riserve imponendo una riserva obbligatoria che
influenza il valore di ρ e quindi l’offerta di moneta M (↑ρ ↓M);
Prestiti alle banche condizionando sia la base monetaria H ma
anche il tasso di interesse di riferimento applicato;
Operazioni di mercato aperto attraverso la compravendita di titoli di
Stato che influenzano il valore della base monetaria (con l’acquisto
di titoli ↑B ↑H, con la vendita di titoli ↓B ↓H).
All’inizio vi era una preferenza per i keynesiani per la stabilizzazione
dei tassi di interesse quale obiettivo intermedio mentre per i
monetaristi il controllo degli stock di moneta.
Negli ultimi anni le strategie di politica economica perseguite dalla
banche sono state sostanzialmente due:
1) controllo dello stock di moneta (monetary targeting) fissando un
tasso di crescita monetario;
2) controllo dell’inflazione (inflation targeting) come obiettivo
intermedio e non più finale.
Strumenti e strategie della
politica monetaria
Le Banche centrali cercano di realizzare un giusto
compromesso tra le esigenze di credibilità rispetto agli
annunci e la flessibilità data dagli shock improvvisi.
La flessibilità può essere assicurata attraverso una
adeguata banda di oscillazione relativamente ampia
che può essere gestita e anche sforata solo da banche
che godono di una ottima reputazione antiinflazionistica.
In questo senso un importante strumento di politica
economica è it il tasso di interesse nominale (a breve)
fissato dalla Banca centrale. Tra le possibili regole un
modo semplice è stato proposto da Taylor con la nota
regola di Taylor:
Strumenti e strategie della
politica monetaria
It = Ît + a (πt – π*t) + b (yt – y*)
Dove Ît è il tasso di interesse nominale obiettivo (tasso di
interesse reale naturale più tasso di inflazione); (πt – π*t) è la
deviazione tra il tasso di inflazione πt è il tasso di inflazione
obiettivo π*t; (yt – y*) è la differenza tra l’output effettivo yt e quello
potenziale y*.
La regola significa che si attua una politica monetaria restrittiva
alzando i tassi di interesse al di sopra del livello normale, quando
l’inflazione è alta (superiore al target) e/o l’economia è in
espansione; viceversa la politica monetaria è espansiva con tassi
di interesse bassi quando l’inflazione è inferiore al target e/o in
recessione.
Resta inteso che tale regola va applicata con dovuta attenzione
anche ala luce dei coefficienti a e b e cioè all’importanza data
all’inflazione e/o al reddito.
L’indipendenza della Banca
Centrale
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3.
Attualmente la politica monetaria è attuata dalle Banche centrali
che hanno acquisito sempre maggiore indipendenza. Tre tipo di
indipendenza:
Indipendenza politica rispetto al governo (rispetto alle procedure
di nomina degli organi di gestione – direttore e CdA)
Indipendenza sugli obiettivi desiderati;
Indipendenza sugli strumenti più appropriati di politica monetaria
Sul tema dell’indipendenza insistono tre scuole:
Quella di Friedman che auspica uno stretto controllo sulla banca
centrale da parte del Parlamento;
Quella dei keynesiani che vogliono minimizzare il ruolo della
Banca centrale volta a gestire solo il servizio del debito pubblico e
quindi accomodante rispetto alla politica fiscale;
Quella più recente di totale autonomia della Banca centrale al fine
di possedere assoluta credibilità nella lotta all’inflazione senza
tuttavia dimenticare di essere accountable e cioè di render conto
del proprio operato all’opinione pubblica.
La prima fase del processo del
integrazione monetario europeo
In Europa nel corso del processo di integrazione europea si
decise di costituire un’area valutaria con cambi fissi i cui margini
di oscillazione rispetto alla parità fossero la metà dei margini
previsti tra le valute internazionali e il $. Questo tentativo è noto
nella storia monetaria dell’Europa come Serpente Monetario
Europeo e rappresenta la prima fase del processo di
integrazione monetaria.
Il mantenimento dei margini di oscillazione (± 2,25% tra le
valute europee e ± 6% per alcuni Paesi deboli tra cui l’Italia)
richiedeva un rigoroso coordinamento tra le politiche
economiche dei paesi comunitari e aiuti adeguati per consentire
il superamento di difficoltà temporanee per i paesi più deboli.
Le frequenti crisi valutarie che colpirono i paesi europei durante
l’esperienza del serpente monetario fecero sì che nel serpente
restassero solo quei paesi con stretti legami di integrazione
economica e commerciale con la Germania (Olanda, Benelux)
gli altri paesi uscirono dagli accordi di cambio del serpente
monetario.
La politica monetaria europea
Il 7 febbraio 1992 venne firmato
il Trattato di Maastricht.
Il Trattato definì le tappe per
l'unificazione monetaria.
All'unità monetaria sarebbero
stati ammessi i paesi che
garantiranno stabilità moneta
(almeno un biennio senza
svalutazioni), bassa inflazione
(non superiore al 1,5%) e bassi
tassi d'interesse (non superiori
al 2%), disavanzo di bilancio
inferiore al 3% del PIL e debito
pubblico inferiore al 60% del
PIL
L'euro
Nel 1999, 11 degli allora 15 paesi membri
dell'Unione europea, facenti parte del Sistema
Monetario Europeo, hanno adottato una moneta
unica: l'euro.
Nel 2007, con la Slovenia, i Paesi dell'eurozona
sono diventati 13. Nel 2008, anche Cipro e Malta
hanno adottato la divisa comune: l'eurozona
contava 15 paesi. Nel 2009, con l'ingresso della
Slovacchia, i Paesi dell'eurozona erano 16. Anche
l'Estonia, nel 2011 ha fatto il suo ingresso
nell'eurozona, che conta ora 17 membri.
Le Aree Valutarie Ottimali
(Mundell)
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4.
Secondo Mundell la possibilità di una unione monetaria fa
conseguire ai paesi che l’adottano una serie di vantaggi che
subentrano i costi:
Abbattimento dei costi di transazione;
Eliminazione del rischio cambio;
Mercati più ampi e maggiore concorrenza;
Sostegno alla crescita economica.
Il costo è dato dalla rinuncia al tasso di cambio e ad una politica
monetaria nazionale indipendente. I costi tuttavia possono
essere ridotti se i mercati sono sufficientemente flessibili e
esiste una forte mobilità del lavoro. Inoltre è necessario
prevedere dei trasferimenti fiscali verso i paesi colpiti da
eventuali shock negativi.
La politica monetaria
europea
Il sistema monetario europeo è gestito dalla BCE- Banca
Centrale Europea che prende le decisioni di politica economica
ed è indipendente dal potere politico. Inoltre ha il divieto di
finanziare il disavanzo pubblico con finanziamento monetario e
ha come obiettivo primario la stabilità dei prezzi. Il target di
inflazione fissato dalla BCE risulta del 2%. Inoltre la BCE adotta
una strategia c.d. dei due pilastri: economico (sulle prospettive
dei prezzi) e monetario (sulle tendenze della quantità di
moneta). Lo strumento principale è il tasso minimo di offerta
sulle operazioni di rifinanziamento principale ossia il tasso
ufficiale di riferimento della BCE.
E’ tuttavia necessario ricordare che ad oggi la politica monetaria
risulta concentrata a livello europeo mentre le politiche fiscali
sono decentrate a livello nazionale. A tale livello esiste solo un
Patto di stabilità e crescita che stabilisce dei limiti ai deficit
eccessivi oltre il 3% rapporto disavanzop/PIL.
Le iperinflazioni
Una delle considerazioni comuni è data dai costi dell’inflazione e che
questa vada contrastata in tutti i modi. Esistono situazioni di iperinflazione sia di tipo (1) vampate inflazionistiche molto intense ma
brevi e (2)inflazioni prolungate meno intense ma più lunghe.
La causa dell’iperinflazione è l’eccessiva crescita monetaria spesso
dovuta a forti disavanzi finanziati con moneta (monetarizzazione del
debito). Tali disavanzi sono dovuti a numerose cause (arretratezza
economica, debolezza del sistema fiscale, classe politica incapace,
ect..).
L’inflazione genera una sorta di tassa o imposta da inflazione in
quanto malgrado il disavanzo non venga finanziato con nuove
imposte l’eccesso di moneta provoca inflazione che a sua volta
decurta sul piano reale i redditi dei cittadini. Il c.d. signorinaggio (gm
= ∆M/M) determina una specie di prelievo sui saldi monetari reali.
Le iperinflazioni
Anche in una visione dinamica l’inflazione comincerà a crescere
dopo un po’, e cioè quando i consumi aumentano e le
aspettative hanno bisogni di un tempo di adeguamento. Nel
lungo periodo i saldi monetari (∆M/P) cominceranno a diminuire
ed il governo sarà costretto ad aumentare gm e quindi π dando
vita ad iperinflazione e quindi ad una accelerazione nella
crescita monetaria e dell’inflazione.
La crescente iperinflazione determina un calo della produzione a
causa delle inefficienze nelle transazioni (troppo movimento di
denaro), dall’incertezza dovuto alla volatilità della moneta,
distorsione ed inefficienza dei prezzi. Inoltre la persistenza può
essere aggravata da processi di indicizzazione dei salari.
Per combattere l’iperinflazione si adottano politiche di
stabilizzazioni con politiche monetarie non accomodanti, riforme
fiscali e riduzione dei disavanzi, politiche di controllo dei prezzi e
salari (politiche dei redditi). Anche se quest’ultima non è ben
vista dai monetaristi.
Le iperinflazioni e le indicizzazioni
Per i keynesiani le indicizzazioni invece accentuano le
fluttuazioni soprattutto se gli shock sono dal lato
dell’offerta amplificando le variazioni del reddito reale.
Per i monetaristi le indicizzazioni sono positive perché
stabilizzano gli shock e le fluttuazioni del reddito. In
tal caso la retta di offerta aggregata S* sarebbe una
retta verticale anche nel breve periodo minimizzando
le fluttuazioni da reddito conseguenti agli spostamenti
della domanda aggregata. Infine secondo i
monetaristi l’indicizzazione eliminerebbe il fenomeno
del drenaggio fiscale (fiscal drag).
Le iperinflazioni e le
indicizzazioni
Il fiscal drag si presenza durante fenomeni di inflazione e in
presenza di un sistema impositivo progressivo in cui invece di
avere T=τY come nei sistemi proporzionali si ha una funzione
T=τ(Y)Y
Essendo l’aliquota (τ) una funzione crescente del reddito (a
scaglioni progressivamente più elevati al crescere del reddito). Ciò
non crea problemi in presenza di un sistema progressivo sul
reddito reale (Y€=PY) ma in realtà la tassazione avviene sul reddito
nominale. In tal caso l’inflazione fa salire i percettori di reddito
verso scaglioni più alti (↑Y€ perché ↑P) facendo aumentare il
prelievo fiscale a in presenza di un reddito reale costante. Ciò
richiede l’indicizzazione degli scaglioni di imposta
La politica fiscale secondo i
keynesiani e i monetaristi
La scuola keynesiana considera la politica fiscale l’unica politica
efficace. In assenza di spiazzamento l’effetto sulla domanda
aggregata è diretto con incrementi della spesa pubblica e indiretto
con variazioni delle imposte e dei trasferimenti.
Inoltre la politica fiscale è più selettiva perché può essere
manovrata e il moltiplicatore fiscale può svolgere una azione
disaggregata a seconda che si interviene sugli investimenti, sulle
uscite correnti o sulle imposte.
Tuttavia concordano con i monetaristi sulla difficoltà della scarsa
flessibilità alla riduzione della spesa pubblica (irreversibilità) e
altresì alla scarsa controllabilità dei flussi di spesa.
Spesso inoltre si verificano delle asimmetrie:
a) l’incremento della spesa pubblica per politiche espansive;
b) l’incremento delle imposte per politiche restrittive.
La politica fiscale secondo i
keynesiani e i monetaristi
Per i monetaristi le politiche fiscali e di stabilizzazione in genere
nel m/l periodo non hanno efficacia con effetti reali sono sul livello
dei prezzi. Pertanto gli effetti della politica fiscale sono solo di
breve periodo, legati alla domanda aggregata senza verifiche
sull’offerta e infine con effetti sul reddito nominale.
Nello schema IS-LM il conseguente l’aumento dei prezzi finisce
per spostare la LM verso l’alto sx (a causa della riduzione delle
scorte reali M/P) annullando gli effetti della politica fiscale.
Argomenti dei monetaristi contro la politica fiscale sono:
a) in primo luogo nessun effetto reale sul reddito naturale Yn ma
sulla composizione della domanda aggregata con un effetto
spiazzamento sugli investimenti privati (∆G = - ∆I)
∆Yn = ∆C + ∆I + ∆G = o
Al di là dell’inclinazione della LM le conseguenze della politica
fiscale sono l’aumento dei prezzi e la riduzione della quantità reale
di moneta che spinge la LM verso l’alto a destra.
La politica fiscale secondo i
keynesiani e i monetaristi
b) in secondo luogo per le interrelazione sul lato dell’offerta e sulla
sua composizione. L’aumento della spesa pubblica potrebbe ridurre
il reddito naturale per gli effetti disincentivanti dell’alta tassazione
sul settore privato e sulle inefficienze del sistema di
regolamentazione pubblica.
In definitiva l’espansione del debito pubblico può causare inflazione
e i meccanismi di indicizzazione presenti in alcune voci di bilancio
possono a sua volta accelerare il processo inflattivo, aumentare i
tassi di interesse nominale e la spesa per gli interessi sul debito.
Tuttavia anche i monetaristi non escludono che la spesa pubblica,
quando è orientata agli investimenti pubblici (accumulazione di
capitale in infrastrutture, sociale, umana, ect..) accresce la
produttività del sistema economico e quindi anche l’offerta
aggregata con uno spostamento della S di lungo periodo. Il
problema quindi riguarda solo il livello della spesa pubblica ma
anche la sua composizione.
Le modalità di finanziamento ed
il pareggio di bilancio
Vediamo le modalità di finanziamento della spesa pubblica e il vincolo
di bilancio dell’operatore pubblico:
D = G – T = ∆M + ∆B
In cui il (D) Disavanzo pubblico è dato da spesa pubblica (G inclusi i
trasferimenti) meno tassazione (T) uguale al suo finanziamento tra
nuova moneta ∆M o emissione di nuovi titoli ∆B. Il disavanzo può
essere finanziato o con la tassazione T o con moneta M o con titoli B.
Keynesiani e monetaristi concordano comunque che nel lungo periodo
il bilancio deve tornare in pareggio (G=T). Infatti anche in condizioni di
pareggio di bilancio il moltiplicatore fiscale del bilancio esplica a
“somma zero” i suoi effetti in quanto ∆Y=∆G. Inoltre una tassazione
proporzionale sul reddito (T=τY) funge da stabilizzatore in quanto D=
∆G -τ∆Y. Analogamente anche l’analisi disaggregata delle entrate può
rilevare effetti diversi sul reddito e sul livello dei prezzi.
In definitiva i keynesiani sono disponibili ad una politica di deficit
spending e quindi di disavanzi come politiche anticicliche e
temporanee mentre per i monetaristi il pareggio di bilancio è sufficiente.
Il problema infine non è tanto sull’esistenza di un disavanzo ma sul suo
livello (il peso del settore pubblico e il livello di tassazione).
Finanziamento del debito
con moneta o titoli
Il finanziamento del disavanzo con moneta D=∆M è una delle
possibilità e, a parere di keynesiani e monetaristi, risulta essere
il più espansivo di tutti, in quanto, pur non essendo una politica
fiscale “pura”, finisce per sposare sia la IS che la LM con un
effetto maggiore sul reddito.
Nel lungo periodo tuttavia le probabili conseguenze del
finanziamento tramite moneta sono le spinte inflazionistiche con
una perdita del potere di acquisto dello stock di moneta
posseduto dagli agenti economici. In questo senso il rischio
inflazionistico del finanziamento del disavanzo con moneta ha
convinto gi economisti dell’adozione di regole e vincoli tali da
proibirne l’utilizzo.
Il finanziamento tramite titoli dipende invece dall’orizzonte
temporale di breve (si limita all’analisi dei flussi – effetto
spiazzamento), medio (si considerano le variazioni di stock –
attività finanziarie – effetto ricchezza), lungo (quando di impone
il rispetto del vincolo di bilancio – sostenibilità del debito).
Effetti spiazzamento ed effetti
ricchezza
Esaminiamo gli effetti di un finanziamento del disavanzo attraverso titoli
nel breve periodo D=∆B. Il disavanzo pubblico provoca uno spostamento
della IS verso destra IS’ con un aumento dei tassi di interesse da i a i1 e
del reddito da Yo a Y1. Si verifica un effetto spiazzamento in quanto
l’aumento del tasso di interesse riduce l’effetto sul reddito.
Nel medio periodo bisogna introdurre anche l’effetto ricchezza. Secondo
i monetaristi il finanziamento attraverso titoli provoca un aumento della
ricchezza aggregata e percepita dagli agenti economici con
cambiamento nel comportamento. Un incremento dei titoli in portafoglio
dei risparmiatori provoca un aumento della ricchezza posseduto e quindi
un aumento altresì delle attività liquide e quindi della domanda di moneta
con uno spostamento verso l’alto della LM. Tutto ciò provocherà una
ulteriore riduzione dell’effetto sul reddito che si aggiungerà all’effetto
spiazzamento. A volte tale spostamento della LM potrebbe essere tale
da annullare la politica fiscale con effetti negativi sul reddito. Secondo i
keynesiani tale effetto è improbabile che sia tale da provocare un effetto
negativo. Senza considerare l’effetto ricchezza sui consumi con un
ulteriore spostamento della IS verso destra.
Effetti spiazzamento ed effetti
ricchezza
LM’
i
LM
i1
io
IS’
IS
Y
Yo Y2 Y1
Tipi di disavanzo e stabilizzatori
automatici
Disavanzo totale: l’indebitamento netto che risulta dalla contabilità
nazionale Dt = Gt – Tt;
Disavanzo corrente: uscite ed entrate delle spese correnti al netto di
quelle in conto capitale Dc = Gc – Tc;
Disavanzo primario: spesa pubblica primaria al netto delle spese per il
pagamento degli interessi sul debito Gp = Gt – iB;
Disavanzo di pieno impiego: calcolato sulla base di un reddito di pieno
impiego Ds=D(Y*);
Disavanzo reale: include tra le spese solo i pagamenti per gli interessi
secondo il tasso reale ovvero al netto della perdita di valore del debito
dovute all’inflazione Dπ = D – π B.
Spesso il disavanzo aumenta o decresce a secondo di due elementi:
(a) variazioni spontanee delle voci di spesa del debito dovute al ciclo
economico; (b) variazioni dovute a decisioni dei policymakers. Nel
primo caso si tratta di stabilizzatori automatici che si attivano
autonomamente al variare del reddito (sussidi di disoccupazione,
imposte proporzionali).
Tipi di disavanzo e stabilizzatori
automatici
Gli stabilizzatori automatici agiscono come segue:
Se l’economia entra in recessione diminuisce il reddito e quindi le
imposte e si riduce il gettito fiscale (↓T), inoltre la riduzione del
reddito provoca l’aumento della disoccupazione e quindi l’aumento
dei sussidi di disoccupazione. Se l’economia è in fase espansiva si
verificano variazioni di segno opposto.
In questo senso il disavanzo pubblico è uno stabilizzatore
automatico.
Diversamente per gli stabilizzatori automatici i policymakers possono
intervenire attivamente attraverso il sistema impositivo. Se le
imposte sono proporzionali al reddito T=τY (dove τ è l’aliquota di
imposta) il gettito di imposta può variare al variare o del reddito o
dell’aliquota (politica fiscale attiva). Per eliminare l’effetto ciclico del
disavanzo bisognerebbe parlare di disavanzo di pieno impiego (Y*) o
disavanzo teorico Ds. In situazione di recessione il disavanzo totale
Dt dovrebbe essere maggior di Ds. Diversamente sarebbe
auspicabile Ds=0 e che in recessione Dt>0 e in una fase espansiva
Dt<0.
Regole sui bilanci pubblici
Il crescere del disavanzo e le teorie monetariste hanno motivato la
necessità di regole anche per il bilancio pubblico in un trade-off tra
credibilità e flessibilità.
Un disavanzo pubblico è visto positivo sia in presenza di
stabilizzatori automatici sia dell’approccio tax-smoothing quando
cioè il costo di eventi eccezionali viene distribuito nel tempo
innalzando le imposte presenti distribuendo l’onere dell’evento tra
le generazioni presenti e future.
Al di fuori di questi due casi i disavanzi pubblici non sono
auspicabili perché ai benefici presenti sui consumi si aggiungono i
costi dovuti ad una maggiore tassazione futuro e quindi anche a
conflitti infra e intra-generazionali. Spesso ciò è provocato da
comportamenti politico-istituzionali opportunistici e da una elevata
instabilità politica.
La regola di bilancio in assoluto è il pareggio di bilancio pubblico
preferibilmente inserito anche in Costituzione. Tuttavia situazioni di
Dt=0 diventano troppo rigide ed eliminano la possibilità di una
politica fiscale.
Regole sui bilanci pubblici
1)
2)
Un approccio innovativo è quello del Patto di
Stabilità e Crescita PSC dell’UE che impone un
vincolo sovra-nazionale per le politiche fiscali
lasciando agli Stati membri le modalità per
raggiungerlo. Due obiettivi:
Un tetto rapporto deficit/PIL pari al 3% (al di
sopra scattano sanzioni e una procedura
concordata con la Commissione UE di rientro);
Il pareggio del bilancio pubblico nel medio
periodo Dt=0
Tuttavia l’esperienza mostra come risulta difficile
il rispetto di queste regole anche alla luce
dell’ultima modifica ai regolamenti di attuazione
(fiscal compact)..
Regole sui bilanci pubblici
Il fiscal compact, noto anche come patto di bilancio, è il
trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance
dell'Unione economica e monetaria che è stato firmato nel
marzo 2012 da 25 Stati dell'UE.
I principali punti contenuti nei 16 articoli del trattato sono:
- L'impegno ad avere un deficit strutturale che non deve
superare lo 0,5% del Pil e, per i Paesi il cui debito è inferiore al
60% del Pil, l'1;
- ogni Stato deve garantire le correzioni automatiche quando
non raggiunga gli obiettivi di bilancio concordati ed è obbligato
ad agire con scadenze determinate;
- il deficit pubblico, come previsto dal Patto di stabilità e
crescita, dovrà essere mantenuto sempre al di sotto del 3% del
Pil; in caso contrario scatteranno sanzioni semi-automatiche.
Disavanzi, debito e “premi al
rischio”
-
-
Partendo dalla precedente relazione sul disavanzo pubblico riportiamo la
seguente relazione scorporando alla spesa pubblica la spesa per il
pagamento degli interessi sul debito (i gli interessi e B lo stock di debito)
mentre G’ la spesa al netto del costo degli interessi G’=G-iB e quindi G’-T il
disavanzo primario.
Dt = G’t + iBt – Tt = ∆Bt + ∆Mt
Due tipi di interdipendenze:
(a) Il nesso tra politica monetaria e fiscale e (b) l’interdipendenza
temporale tra decisioni di politica economica in tempi diversi. Riguarda alla
relazione di interdipendenza ci si riferisce al pagamento del debito
pubblico (servizio del debito) con il pagamento degli interessi sullo stock di
debito accumulato. In questo caso il disavanzo D è interamente finanziato
con titoli B (il caso dell’Unione Europea) e la componente endogena di
formazione del debito dovuta al pagamento degli interessi si
autoalimenterebbe:
↑D > ↑B > ↑ (i x B)t+1 > ↑D t+1
Tale situazione può peggiorare quando il tasso di interesse è endogeno e
dipende dal livello del debito i=f(B) e quindi incorpora il premio per il rischio
default – fallimento nonché dalle aspettative dei mercati.
Disavanzi, debito e “premi al
rischio”
1)
2)
I premi di rischio incorporano due componenti aggiuntive:
Il rischio di svalutazione nel caso in cui il governo decidesse di
monetarizzare il debito creando inflazione e svalutazione;
Il rischio ripudio nel senso di fallimento.
Tali componenti aumentano al modificarsi della fiducia su quel
governo e sulla credibilità relativamente alle politiche di rientro. In
tal senso il governo può procedere con una disciplina di bilancio
o con una disciplina di mercato attraverso l’aumento dei tassi di
interesse e il conseguente disincentivo a creare disavanzi. Anche
una politica monetaria restrittiva senza un governo credibile
rischio di accrescere il rischio instabilità e condurre al tracollo il
debitore. In questo senso molti keynesiani auspicano una politica
monetaria accomodante di riduzione dei tassi di interesse e
quindi di ricondurre il disavanzo entro un circolo virtuoso piuttosto
che vizioso. Inoltre sono auspicabili politiche coordinate sia sul
piano
monetario
che
fiscale
anche
in
funzione
dell’interdipendenza temporale.
Disavanzi, debito e “premi al
rischio”
Infine molte scelte di coordinamento sono dettate dalla
considerazione che il finanziamento del debito con titoli
significa un onere per le generazioni future. E’ quindi
necessario porre un vincolo intertemporale di bilancio
imponendo la riduzione di disavanzi futuri e la possibilità di
disavanzi presenti se motivati da eventi eccezionali o
investimenti pubblici.
Modelli di sostenibilità tengono conto di questi elementi e si
riferiscono alla sostenibilità economica (rapporto Debito/PIL)
e la sostenibilità finanziaria secondo cui vi è un limite alla
vendita di titoli anche ricercando compratori all’estero con
flussi aggiuntivi di nuovo risparmio. Ciò anche al fine di un
equilibrio tra titoli privati/titoli pubblici o tra debito
pubblico/ricchezza finanziaria.
Sostenibilità del debito
Tre soluzioni:
1) Ripudio del debito con perdita di reputazione, redistribuzione
della ricchezze, instabilità finanziaria e fallimento di banche;
2) Monetarizzazione del debito con la creazione di inflazione, la
perdita di valore del debito e la c.d. imposta da inflazione;
3) Rimborso del debito. Per fare ciò bisogna stabilizzare il
rapporto debito/pil e procedere all’annullamento del disavanzo
primario (G’-T). Gli avanzi primari concorreranno a rendere
solvibile il debito riducendo il servizio del debito e rendendolo
rimborsabile nel tempo. Tra le ipotesi di sostenibilità il modello
dell’economista Domar (1944) sembra il più significativo.
Le politiche di rientro del
debito
(a)
(b)
(c)
(d)
Accrescere il finanziamento monetario avendo cura di verificare
il rischio inflazione;
Agire sulla crescita del reddito che possa ridurre il rapporto
debito/PIL;
Intervenire sul tasso di interesse anche se spesso in una
economia aperta è una variabile esogena e comunque dipende
dal volume del debito stesso;
Agire sul saldo primario di bilancio sia sul fronte della spesa
pubblica (riduzione e/o razionalizzazione) sia sul fronte delle
entrate tributaria ed extra-tributarie (aumento delle imposte con
effetti redistributivi).
Tuttavia qualsiasi intervento deve tenere conto della gradualità
al fine di non compromettere il tasso di crescita dell’economia e
la stabilizzazione del rapporto debito/PIL.
Le politiche di gestione del
debito
Al fine di minimizzare il servizio del debito il Tesoro prova a manovrare i
tassi di interesse mediante una politica di gestione del debito anche
attraverso la diversificazione degli strumenti finanziari.
In via esemplificativa campi di intervento sono:
-
-
-
La tipologia dei titoli, scadenza e vita media de debito;
Struttura dei tassi di interesse;
Indicizzazioni reali, finanziarie e valutarie dei titoli;
Modalità di collocazione (meccanismi d’asta e fissazione prezzo-base);
Rapporti mercato primario e secondario;
Collocamento all’estero dei titoli pubblici.
In caso di crisi di fiducia le autorità statali possono intervenire emettendo
debito a lunga maturità e distribuito nelle stesse scadenze così da essere
ripagato gradualmente accrescendo le possibilità di rimborso.
Per ridurre l’intervento dei governi (futuri) spesso si prevede l’emissione di
titoli indicizzati per evitare che i governi futuri possano essere incentivati a
ricorrere all’imposta di inflazione. La gestione del debito è efficace tuttavia
quando è all’interno di un processo di rientro e riduzione anche attraverso la
riduzione dei tassi di interesse.
Le politiche economiche in
economia aperta
(1)
(2)
(3)
L’evoluzione economica degli ultimi decenni è stata caratterizzata
dalla crescita degli scambi commerciali e finanziari tra i diversi
paesi e a processi di integrazione economica (processo di
globalizzazione)
Tre aspetti principali:
Apertura del mercato dei beni con importazione ed esportazione
di merci e prodotti e riduzione dei costi di trasporto e
comunicazione;
Apertura dei mercati finanziari e riduzione dei controlli ai
movimenti di capitale con forte liberalizzazione e integrazione
finanziaria;
Apertura e mobilità dei fattori produttivi sia a seguito delle
migrazioni (fattore lavoro) che del decentramento produttivo e
localizzazione di fasi della produzione.
Tutto ciò costringe gli stati a ragionare anche del raggiungimento
di un obiettivo “esterno” (equilibrio dei conti con l’estero) da
aggiungersi a quello “interno” (occupazione, reddito, inflazione).
Bilancia dei pagamenti e
regime dei cambi
Le transazioni economiche realizzatesi, in un determinato periodo di
tempo, tra residenti e non residenti in un’economia vengono registrate
nella Bilancia dei Pagamenti.
La bilancia dei pagamenti è articolata in tre sezioni:
Conto corrente, dove vengono registrate le transazioni relative a beni
e servizi, i redditi da lavoro dipendente e da capitale, i trasferimenti
correnti;
Conto capitale, (trasferimenti connessi all'espatrio o rimpatrio
definitivo di emigrati, remissione di debiti e altri trasferimenti non
finalizzati al consumo);
Conto finanziario, (investimenti diretti, gli investimenti in titoli, derivati,
altri investimenti, attività liquide detenute dall'autorità monetaria).
Generalmente si definiscono Partire correnti e Movimenti di Capitale.
Bilancia dei pagamenti e
regime dei cambi
Il mercato nel quale si scambiano le diverse valute utilizzate nelle
transazioni è chiamato mercato valutario. In questo mercato
vengono determinati i prezzi delle monete (tassi di cambio).
Il Tasso di cambio nominale E è il prezzo di una valuta rispetto ad
un’altra valuta. Apprezzamento/deprezzamento è il processo di
variazione del prezzo della valuta.
Il Tasso di cambio reale Er rappresenta invece il prezzo di una
valuta tenendo conto del rapporto dei prezzi nazionali ed esteri. Er
= (PxE)/P* dove P è il livello dei prezzi nazionale e P* quello del
paese estero.
L’Indice di competitività invece è il reciproco tasso di cambio reale
γ = 1/Er = P*/(P x E). Un apprezzamento del tasso di cambio reale
(una diminuzione di γ) indica una perdita di competitività in quanto
aumentano i prezzi delle merci nazionali espresso in moneta estera
rispetto ai prezzi del paese estero. Un aumento di Er fa peggiorare
il saldo commerciale, ovvero una riduzione delle partite correnti,
delle esportazioni. Un deprezzamento del tasso di cambio reale è
associato ad un aumento della competitività sui mercati.
Bilancia dei pagamenti e
regime dei cambi
Tre le teorie che spiegano le determinanti dei cambi:
-
L’approccio monetario che sostiene che il livello dei cambi viene
determinato dall’incontro tra domanda e offerta di valuta e che gli
squilibri dei pagamenti aggiustano il cambio: un surplus corrisponde
ad un eccesso di offerta di valuta che ne causa un deprezzamento
e viceversa;
L’approccio di portafoglio che considera la detenzione di moneta
come una attività finanziaria alla quale corrisponde una
determinazione della relazione rischio-rendimento;
L’approccio della parità del potere di acquisto dove il livello del
tasso di cambio dipende dal livello del paniere dei prezzi dei due
paesi e la variazione percentuale del cambio è pari alla variazione
percentuale del rapporto tra i prezzi nei due paesi.
-
-
Bilancia dei pagamenti e
regime dei cambi
Il tasso di cambio può essere lasciato variare liberamente nei mercati, con
o senza dei limiti al di là dei quali la Banca Centrale interviene in difesa
della valuta nazionale, oppure in un regime di cambi fissi.
Un regime di cambi fissi vincola le operazioni di mercato aperto al
mantenimento di un tasso di cambio con una misura di riferimento, che può
essere un'altra valuta.
Se ogni Banca Centrale è impegnata a tenere un prezzo valuta
nazionale/riserva (es. euro/oncia d'oro) predefinito, questo garantisce una
stabilità dei cambi, anche se l'offerta di moneta può essere variata
adeguando le riserve auree. Tendenzialmente, per il cambio incrociato,
sarà stabile anche il cambio fra valute nazionali ancorate all'oro.
I deprezzamenti/svalutazioni della moneta nazionale causano una
maggiore competitività di prezzo delle merci nazionali e un miglioramento
delle partite correnti viceversa provocano un deflusso netto di capitali
mentre un apprezzamento o rivalutazione comportano un afflusso di netto
capitali e un peggioramento delle partite correnti.
Esistono meccanismi di aggiustamento automatici della bilancia di
pagamento a seconda dei saldi delle partite correnti e dei movimenti di
capitale.
Bilancia dei pagamenti e
regime dei cambi
Consideriamo un regime di cambi flessibili:
in presenza di un disavanzo della bilancia di pagamenti si avrà un
eccesso di valuta estera (il valore degli acquisti di merci estere
supera quello delle vendite di beni nazionali) che si riflette in un
deprezzamento della moneta nazionale. Il deprezzamento
comporterà un aumento della competitività delle merci nazionali e
un miglioramento delle partite correnti che annullerà lo squilibrio
iniziale.
Viceversa in presenza di un avanzo della bilancia di pagamenti si
avrà un eccesso di valuta nazionale (il valore delle vendite di
merci nazionali supera quello degli acquisti di beni esteri) che si
riflette in un apprezzamento della moneta nazionale.
L’apprezzamento comporterà una diminuzione della competitività
delle merci nazionali e un peggioramento delle partite correnti
che annullerà lo squilibrio iniziale.
Bilancia dei pagamenti e
regime dei cambi
Consideriamo un regime di cambi fissi:
In presenza di un eccesso di domanda di valuta estera associata
ad un disavanzo iniziale della bilancia di pagamento si avrà una
riduzione della moneta in circolazione (le banche devono pagare
le merci estere dei clienti acquistando valuta estera) ovvero della
offerta di moneta.
Al contrario un avanzo della bilancia dei pagamenti causa un
aumento dell’offerta di moneta (i clienti esteri pagano le merci in
moneta nazionale). Se la Banca centrale non sterilizza gli effetti
dell’eccesso di offerta di moneta si avrà una vera e propria
politica monetaria espansiva con aumento del reddito e una
riduzione del tasso di interesse con aumento delle importazioni e
deflusso dei capitali.
Sistema aureo
Il sistema aureo (o, in inglese, gold standard) è un sistema monetario nel
quale la base monetaria è data da una quantità fissata d‘oro. Si possono
distinguere tre casi: nel primo l'oro viene usato direttamente come moneta
(circolazione aurea); nel secondo viene usata cartamoneta totalmente
convertibile in oro, dal momento che il valore in oro della moneta
complessivamente emessa è pari alla quantità di oro conservata dalla
banca centrale (circolazione cartacea convertibile totalmente in oro);
infine, nel terzo caso, le banconote sono convertibili solo parzialmente,
risultando il valore della quantità di banconote emessa un multiplo del
valore dell'oro posseduta dallo stato (circolazione cartacea convertibile
parzialmente in oro).
Per tutto l’Ottocento e gli inizi del Novecento si è avuto un sistema di
cambi fissi basato sul gold standard caratterizzato da notevoli scambi
internazionali e commerciali.
Con la depressione del 1929, in seguito ad una politica tariffaria restrittiva
e alla caduta degli scambi internazionali, a partire dal 1931 i Paesi
decisero di sospendere il Gold standard.
Conferenza di Bretton Woods
Dagli accordi di Bretton Woods scaturì il Gold exchange standard.
La caratteristica di Bretton Woods era l'obbligo per ogni paese di adottare una
politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso
rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale, consentendo solo
delle lievi oscillazioni delle altre valute.
Fino all'inizio degli anni ‘70, il sistema fu efficace nel controllare i conflitti
economici e nel realizzare gli obiettivi comuni degli stati, sempre con le stesse
immutate condizioni che l'avevano generato. L’aumento della spesa pubblica
statunitense mise in crisi il sistema: di fronte all'emissione di dollari e al
crescente indebitamento degli USA, aumentavano le richieste di conversione
delle riserve in oro. Ciò spinse nel 1971, il presidente Nixon ad annunciare la
sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Le riserve statunitensi si
stavano pericolosamente assottigliando. La fine agli accordi di Bretton Woods
consentì al dollaro di essere svalutato dando inizio alla fluttuazione dei cambi.
Lo standard aureo fu quindi sostituito da un sistema di cambi flessibili.
Teorie della bilancia dei
pagamenti
L’apertura verso gli scambi commerciali e finanziari oltre ad
ampliare gli obiettivi e gli strumenti di politica economica modifica
l’efficacia degli strumenti tradizionali.
Ad esempio il moltiplicatore della politica fiscale è meno efficace
perché oltre ad aumentare la domanda interna si rivolge anche a
prodotti esteri e quindi raggiunge solo in parte la produzione
nazionale. Così come la finanza internazionale amplia i margini di
finanziamento del debito pubblico.
Altro elemento è quello del possibile conflitto tra obiettivi interni
(piena occupazione, pareggio di bilancio) e obiettivi esterni
(pareggio del saldo commerciale o stabilità dei movimenti di
capitale). Si ampliano quindi obiettivi e strumenti di politica
economica. I tempi di aggiustamento automatico della bilancia dei
pagamenti o sono troppo lunghi o comunque non sono così
automatici come si immagina. A questo punto diventa importante
la giusta assegnazione degli obiettivi e degli strumenti per
raggiungerli (Es. la politica monetaria per la bilancia dei
pagamenti e la politica fiscale per il reddito di piena occupazione).
Teorie della bilancia dei
pagamenti
Tuttavia la teoria keynesiana propone un’analisi macroeconomica in
cui obiettivo interno ed esterno spesso sono in conflitto: il livello degli
investimenti che assicura l’equilibrio delle partite correnti non
necessariamente garantisce una situazione di piena occupazione.
Due condizioni di squilibrio: (i) pareggio delle partite correnti e
disoccupazione; (ii) piena occupazione e disavanzo commerciale.
Si tratta allora di individuare il livello di equilibrio degli investimenti
che consenta il raggiungimento simultaneo dei due obiettivi. Gli
investimenti sono funzione delle esportazioni. Tanto maggiore sono
le esportazioni quanto maggiore è il reddito nazionale, tanto maggior
sono gli investimenti compatibili con il pareggio delle partite correnti.
L’equilibrio macroeconomico (interno ed esterno) realizzabile
teoricamente è nella realtà difficile da raggiungere proprio per la
variabilità dei comportamenti degli agenti economici (propensione ad
importare, ect..). Il sistema difficilmente raggiunge un equilibrio
simultaneo! I meccanismi automatici difficilmente entrano in funzione
o necessitano di tempi lunghi.
Teorie della bilancia dei
pagamenti
Tra gli strumenti utilizzati il primo posto spetta alla manovra del
tasso di cambio. Quando la bilancia dei pagamenti è in avanzo si
rivaluterà (apprezzerà) il tasso di cambio; se il problema è un
disavanzo allora sarà opportuna una svalutazione (deprezzamento)
del cambio.
L’effetto tuttavia dipenderà da alcune condizioni:
(i) la manovra conduce ad aggiustamenti delle partite correnti solo
se l’elasticità dell’import/export è maggiore di uno;
(ii) non devono esserci rigidità sul lato dell’offerta, il sistema
produttivo deve essere in grado di rispondere agli stimoli della
maggiore domanda;
(iii) le variazioni del tasso di cambio devono raggiungere i
consumatori finali e non a beneficio dei profitti dei venditori;
(iv) se le quantità import/export non si modificano la manovra
peggiora solo il saldo delle partite correnti poiché aumentano i
valori;
(v) le manovre del tasso di cambio non devono alimentare attese di
svalutazioni creando instabilità e deflusso sui capitali.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
Il modello IS-LM-BP (Mundell e Fleming) rappresenta
un’estensione del modello IS-LM poiché considera
l’equilibrio sul mercato dei beni, sul mercato della
moneta e dei conti con l’estero. L’ipotesi sottostante è
che il mercato dei beni e della moneta raggiungano
l’equilibrio grazie a modifiche endogene del reddito e
del tasso d’interesse. Al tempo stesso, nel breve
periodo, vi può essere disequilibrio nei conti con
l’estero che si traduce in un movimento endogeno o
del tasso di cambio o della quantità di moneta.
Bisogna tener presente che i due elementi di rilievo
sono:
– La mobilità dei capitali finanziari
– Il regime di cambio in vigore
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
La somma algebrica delle partire correnti PC e movimenti di
capitale MK può costituisce il saldo della bilancia dei pagamenti
BP=PC+MK e corrisponde ad un afflusso o deflusso di valuta
estera a seconda che il saldo sia positivo o negativo; nel caso di
afflusso BP>0 viceversa di deflusso BP<0 in caso di equilibrio
BP=0. Tuttavia il saldo può essere a pareggio in presenza di
avanzo/disavanzo delle partite correnti e/o dei movimenti di
capitale.
Le determinanti principali delle PC - Partite Correnti sono le
importazioni Q e le esportazioni X. Le importazioni dipendono
positivamente dal reddito Y e negativamente dalla competitività γ.
Viceversa le esportazioni dipendono dal reddito del resto del
mondo (Yw) che dall’indice di competitività. Di conseguenza le
partite correnti dipendono:
PC = X – Q = PC (Y, Yw, γ)
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
Per quanto riguarda i movimenti di capitale MK i fattori dipendono dal
tasso di interesse nazionale i, il tasso di interesse estero iw e dalle
aspettative sul tasso di cambio Ee. Un aumento di i attrae capitali esteri al
contrario di iw che peggiora il saldo finanziario.
MK = MK (i, iw, Ee)
Come detto il saldo complessivo della bilancia dei pagamenti è pari alla
somma delle due sezioni (PC e MK) e quindi:
BP = PC + MK = PB (Y, Yw, γ, i, iw, Ee)
Di conseguenza il saldo della Bilancia dei pagamenti dipende
negativamente dal reddito nazionale e positivamente dal tasso di
interesse interno. Un relazione lineare positiva Y e i chiamata BP. I punti
che si trovano al di fuori della BP rappresentano condizioni di
disequilibrio (avanzo sopra – disavanzo sotto).
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
BP verticale
i
BP
BP orizzontale
iw
Y
Yo
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
L’aspetto rilevante dell’inclinazione della BP è la
sensibilità al tasso di interesse internazionale (iw):
maggiore è la reattività dei movimenti di capitale
rispetto al tasso più piatta sarà la BP. La BP è
orizzontale se i capitali sono infinitamente sensibili
al tasso di interesse internazionale. La BP è
verticale se i capitali sono del tutto insensibili a
variazioni del tasso di interesse.
Vediamo adesso gli effetti delle politiche
macroeconomiche utilizzando il modello IS-LM-BP
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
Gli effetti delle politiche economiche in
un’economia aperta con cambi fissi
In generale gli effetti degli squilibri della BP si
riversano sulla variazione della base monetaria.
Se la BP è in avanzo (disavanzo) si ha un
aumento (diminuzione) della domanda di
moneta domestica e quindi un’emissione (ritiro)
di base monetaria per mantenere costante il
tasso di cambio.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
Nel caso di una politica fiscale espansiva bisogna sempre distinguere in
termini di grado di mobilità dei capitali finanziari. Se i capitali sono molto
mobili prevale l’attivo del movimento dei capitali finanziari, mentre se sono
poco mobili prevale il saldo delle partite correnti.
Si avrà che, in presenza di un disavanzo nella BP, si distrugge base
monetaria mentre, in presenza di un avanzo nella BP, si crea base
monetaria. Tali effetti sposteranno la LM verso sx nel caso di disavanzo e
verso dx nel caso di avanzo.
Quando i capitali sono poco mobili una politica fiscale espansiva nel breve
periodo aumenta il reddito ed il tasso d’interesse ma causa un deficit nei
conti con l’estero che, in regime di cambi fissi, determina una diminuzione
della BM che equivale ad una politica monetaria restrittiva. Gli effetti di
lungo periodo saranno una diminuzione del reddito ed un aumento del
tasso di interesse.
Quando i capitali sono molto mobili la politica fiscale espansiva comporta
un avanzo nei conti con l’estero che, in cambi fissi, comporta un aumento di
BM, cioè una politica monetaria espansiva che aumenta, nel lungo periodo,
il reddito e riduce il tasso d’interesse. L’effetto espansivo sul reddito di una
politica fiscale espansiva con cambi fissi è esaltato nel lungo periodo se i
capitali finanziari sono molto mobili mentre viene ridotto nel caso di bassa
mobilità.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia
aperta
(a)
(b)
economia con cambi fissi e movimenti di capitali poco mobili;
economia con cambi fissi e movimenti di capitale mobili.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
In generale l’effetto di una politica monetaria espansiva è un
aumento del reddito ed una diminuzione del tasso d’interesse.
Relativamente ai conti con l’estero ciò comporta un passivo
della BP.
In regime di cambi fissi ciò comporta una distruzione di BM
endogena come in una politica monetaria restrittiva spostando
a sx la LM. In altre parole la LM inizia a tornare indietro fino
all’equilibrio nei conto con l’estero.
L’effetto espansivo della politica monetaria viene così annullato
qualunque sia il grado di mobilità dei capitali finanziari.
La politica monetaria in un regime di cambi fissi è totalmente
inefficace nel lungo periodo e può avere effetti soltanto
transitori.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
(a)
(b)
economia con cambi fissi e movimenti di capitali poco mobili;
economia con cambi fissi e movimenti di capitale mobili.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
Assenza di mobilità dei capitali finanziari
Tale evenienza si verifica quando esistono delle norme che vietano
l’ingresso e l’uscita di capitali finanziari da un dato paese. Come
conseguenza la curva BP sarà perfettamente verticale dato che il livello del
tasso d’interesse non influenza i conti con l’estero diversamente dal reddito
interno.
Considerando la Figura successiva, immaginiamo di perseguire come
obiettivo di politica economica il pareggio nei conti con l’estero ed il pieno
impiego e di avere a disposizione uno strumento di politica monetaria ed
uno di politica fiscale. Se partiamo dalla regione F bisogna attuare politiche
espansive, mentre trovandoci nella regione G avremmo di fronte un
conflitto. L’obiettivo di pieno impiego richiederebbe una politica espansiva,
mentre un l’obiettivo di pareggio nei conti con l’estero una politica restrittiva.
Per evitare di dover attendere i meccanismi di aggiustamento automatici si
ricorre a nuovi strumenti di politica economica.
– Si può far deprezzare (o svalutare) il tasso di cambio più velocemente
rispetto al meccanismo automatico (Italia negli anni Settanta)
– Diversamente si potrebbero rimuovere le norme di legge che bloccano la
libera circolazione dei capitali rendendo la BP una curva positivamente
inclinata.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
La situazione attuale è più vicina alla perfetta
mobilità dei capitali finanziari.
Ciò implica una BP perfettamente orizzontale in
corrispondenza di un tasso d’interesse interno
uguale a quello estero e quindi i titoli emessi dai
diversi paesi sono sostituti perfetti.
Il flusso di capitali finanziari si dirigerà verso quel
paese che offre un tasso d’interesse superiore agli
altri.
In queste situazioni il tasso d’interesse interno è
vincolato ai valori di quello estero tanto da poter
diventare un vincolo e non uno strumento per il
policy-maker.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
Gli effetti delle politiche economiche in un’economia aperta con
cambi flessibili
Se i capitali finanziari sono molto mobili è ragionevole pensare che
prevalga il movimento del saldo dei capitali e viceversa.
Nel grafico successivo il punto B, che si può trovare al di sotto (deficit BP)
oppure al di sopra (surplus BP) della curva BP, non rappresenta
l’equilibrio finale. Dato il regime di cambi flessibili, il tasso di cambio
varierà di conseguenza raggiungendo l’equilibrio. In particolare, nel caso
di capitali poco mobili, dove la BP è in passivo si avrà un deprezzamento
del tasso di cambio e viceversa. Il deprezzamento causerà uno
spostamento della curva IS verso dx a causa dell’effetto positivo sulla
domanda generato dalla maggiore competitività e dalla nuova curva BP. Il
deprezzamento continuerà fino a quando il punto di intersezione tra IS-LM
sarà al di sotto della BP e non cadrà proprio sulla curva BP.Il punto C,
equilibrio di lungo periodo, è caratterizzato da un livello di reddito e tasso
d’interesse ancora maggiore. I meccanismi di aggiustamento automatico
hanno rafforzato gli effetti di aumento del reddito iniziati dalla politica
fiscale espansiva.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
Nel lungo periodo e se i capitali sono molto mobili, l’aumento del
tasso di interesse causato dalla politica fiscale espansiva
comporta un avanzo della BP. Ciò causa un apprezzamento del
cambio che sposta la BP e la IS verso sx.
L’effetto ottenuto dalla politica fiscale espansiva che ha innalzato
sia il reddito sia il tasso d’interesse, viene attenuato dai
meccanismi automatici che si mettono in opera a seguito
dell’avanzo registrato in bilancia dei pagamenti.
In un regime di cambi flessibili, gli effetti espansivi di una politica
fiscale espansiva saranno esaltati nel lungo periodo qualora i
capitali finanziari siano poco mobili, mentre saranno attenuati nel
caso di elevata mobilità dei capitali finanziari.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
(a)
(b)
economia con cambi flessibili e movimenti di capitali poco mobili;
economia con cambi flessibili e movimenti di capitale mobili.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
Il caso della perfetta mobilità dei capitali
Nel caso in cui vi sia perfetta mobilità dei capitali e quindi una
curva BP perfettamente orizzontale, la politica fiscale
espansiva sarà totalmente inefficace nel lungo periodo e gli
effetti sul reddito e tasso d’interesse saranno soltanto
transitori.
Successivamente allo shock positivo la IS inizierà ad arretrare
a causa della minore competitività dovuta, nel lungo periodo,
al progressivo apprezzamento del cambio fino a tornare nella
posizione iniziale.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
La politica monetaria
A seguito di una politica monetaria espansiva la LM si
sposterà verso dx comportando un aumento del reddito ed
una diminuzione del tasso di interesse. Relativamente ai
conti con l’estero si avrà un passivo nei conti con l’estero che
provoca un deprezzamento del tasso di cambio.
Questo ha effetti positivi sulla domanda e quindi si ha uno
spostamento della IS a dx.
Nel breve periodo, i meccanismi di aggiustamento
automatico, in un regime di cambi flessibili, esaltano l’effetto
espansivo della politica monetaria sul reddito mentre
riducono
il
decremento
del
tasso
d’interesse
indipendentemente dal grado di mobilità dei capitali finanziari
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
(a)
(b)
economia con cambi flessibili e movimenti di capitali poco mobili;
economia con cambi flessibil e movimenti di capitale mobili.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia aperta
Conclusioni
Un sistema di cambi fissi garantisce un quadro generale
caratterizzato da minore incertezza a favore dello scambio di beni e
servizi. Inoltre la maggiore difficoltà di svalutare il tasso di cambio
permette di ridurre il rischio di inflazione importata imponendo una
maggiore disciplina per ottenere vantaggi competitivi senza l’aiuto
del tasso di cambio.
Tuttavia l’offerta di moneta dipende dall’esito della bilancia dei
pagamenti e quindi si riscontrano delle limitazioni all’autonomia
discrezionale della politica monetaria che, comunque, è inefficace
nel lungo periodo. Infine diventa necessario detenere scorte
valutarie per intervenire sui mercati internazionali per soddisfare la
domanda.
Gli effetti delle politiche
macroeconomiche in economia
aperta
I sostenitori dei cambi flessibili mostrano come in questo caso si possa
godere di un grado di libertà in più poiché le modificazioni del tasso di
cambio diventano delle possibili risposte a shock esogeni. Inoltre non vi è
necessità di detenere ampie scorte valutarie. Tra gli aspetti negativi di tale
sistema di cambio vi è sicuramente il rischio di generare inflazione
importata e il tentativo di aumentare la competitività senza migliorare la
struttura economica.
In via teorica entrambi i sistemi di cambi sono immuni ad attacchi
speculativi contro le valute. In realtà si verificano lo stesso in entrambi i
casi.
A tale proposito Krugman sostiene che una volta scelto il sistema di
cambio bisogna attenersi o a una totale astensione dall’intervento nel
caso di cambi flessibili o ad una condotta rigidissima verso le parità nel
caso di cambi fissi.
I keynesiani mostrano una preferenza per i cambi flessibili così da poter
sostenere la domanda tramite deprezzamento.
I monetaristi preferiscono sistemi di cambi fissi così da limitare la
discrezionalità della politica economica.
Politica monetaria e relazioni
finanziarie internazionali
Con il crollo degli accordi di Bretton Woods il sistema valutario
internazionale è stato caratterizzato da una forte flessibilità che ancora
oggi contraddistingue le relazioni valutarie (dollaro, yen, euro, sterlina).
All’interno della UE da un sistema di cambi semi-fissi si è passati ad una
moneta unica con il Trattato di Maastricht nel 1992.
In un sistema di cambi fissi e di mobilità internazionale dei capitali,
secondo il trilemma di Mundell si perde la sovranità monetaria. La
perdita di sovranità monetaria può essere vantaggioso legandosi alla
politica monetaria di un altro paese. E’ questo il caso del c.d. pegging e
cioè alla rinuncia della politica monetaria legandola a quella di un’altra
valuta di riferimento e quindi acquistare credibilità antinflazionistica.
L’esperienza dell’Argentina tuttavia insegna che ciò pur se aumenta la
credibilità internazionale lega il paese al ciclo economico del paese di
riferimento(gli USA) e quindi crea problemi di instabilità.
Diversamente se un paese vuole gestire autonomamente la propria
politica economica deve o rinunciare al cambio fisso o alla mobilità dei
capitali.
Politica monetaria e relazioni
finanziarie internazionali
Un aspetto rilevante è la dimensione del Paese. I paesi grandi sono
caratterizzati da un grado di apertura internazionale relativamente basso e
quindi le modificazione dei tassi di cambio hanno implicazioni sul sistema
economico relativamente basse. Al contrario per i paesi piccoli in cui il
tasso di cambio rappresenta una variabile cruciale avendo altresì limitate
risorse valutarie.
Il peso delle economie e le decisione dei singoli paesi possono influire
sugli altri paesi interagendo in cui contesto asimmetrico. Il modello centroperiferia analizza un sistema asimmetrico in cui le scelte di politica
economica del paese centro sono prese in funzione della politica interna
(Gli Stati Uniti) mentre queste influiscono sui paesi “periferici”. Un impulso
del paese centro si trasmette agli altri paesi che spesso sono indotti a
modificare le proprie scelte politiche.
Politiche restrittive in USA quali l’aumento del tasso di interesse,
costringono gli altri paesi ad alzare i tassi di interesse per evitare un
eccessivo deflusso di capitali e mantenere l’equilibrio della bilancia dei
pagamenti. Negli ultimi decenni l’eccessiva deregulation dei mercati
finanziari hanno accresciuto la mobilità dei capitali.
Politica monetaria e relazioni
finanziarie internazionali
La politica di deregulation ha creato opportunità di
investimento all’interno dei paesi attraverso l’investimento di
capitali provenienti da altri paesi ma altresì ha prodotto
l’instabilità crescente dei mercati finanziari (crisi del debito
estero degli anni ’80, crisi dei paesi asiatici del 1997, crisi
della Russia del 1998) fino alla recente crisi del 2008-09 e
la relativa recessione.
Gli interventi delle Banche centrali hanno attenuato gli effetti
della crisi del 2008-09 facendo tuttavia aumentare debiti e
deficit anche grazie al coordinamento delle politiche
monetario
Politica monetaria e relazioni
finanziarie internazionali
L’atteggiamento rispetto al commercio internazionale ha configurato nel
corso del tempo due atteggiamenti fondamentali: da una parte il
liberalismo e quindi una tendenza ad eliminare gli ostacoli al libero
scambio e dall’altra il protezionismo ovvero della tendenza di proteggere
le produzioni nazionali alla concorrenza estera.
I favorevoli del liberalismo propongono la teoria dei vantaggi comparati
in cui due paesi si specializzano in prodotti diversi avendone un
vantaggio reciproco e comparato (Ricardo) mentre i favorevoli al
protezionismo, soprattutto nella prima fase (J.S.Mill), per rafforzare
l’industria nascente. Tuttavia il protezionismo riduce l’efficienza e
scarica le difficoltà agli altri paesi avviando un circolo vizioso di
restrizioni e dazi. Inoltre il protezionismo non consente ai paesi
emergenti di immettersi in un percorso di crescita (il caso dei paesi di
nuova industrializzazione Corea del Sud, Singapore, Malaysia, Hong
Kong, Taiwan, Thailandia). Le recenti teorie sulla crescita endogena
hanno visto nel commercio internazionale un modo per amplificare le
tendenze positive.