Roma, potenza e simbologia: dai boschi sacri al "miglio d`oro"

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Roma, potenza e simbologia: dai boschi sacri al “miglio d’oro”
ROMA, POTENZA E SIMBOLOGIA:
DAI BOSCHI SACRI AL “MIGLIO D’ORO”
di Nicolò Giordano
“Ficus Ruminalis, ad quam eiecti sunt Remus et Romulus”
(Tacito, Annales, XIII, 58)
I
l contributo della civiltà romana al mondo forestale è importante sotto tanti punti di vista. In primo luogo, va ricordato
che la classificazione delle specie botaniche e forestali viene
fatta utilizzando nomi latini. Ciò consente di mantenere un linguaggio scientifico comune, comprensibile in ogni parte del
mondo.
Inoltre, molte della parole e dei termini anche tecnici ancora in
uso oggi hanno una derivazione latina che si è mantenuta nel
tempo. I nomi di alberi e piante hanno spesso un’origine latina.
Ricordiamo ad esempio che alloro, laurus, viene da “laudare”
ovvero lodare, encomiare, mentre l’arancio proviene da aurantia
e aurum = oro. I romani hanno fatto propri, trasformandoli ed
assorbendoli, termini a loro volta spesso di derivazione greca,
celtica o ancora più antica.
Ma ci sono anche casi in cui nomi di piante sono derivati da termini latini che indicavano altre cose: ad esempio il pino loricato
(Pinus heldreichii, H.Christ 1863), specie che si trova in Italia solo
localmente nel Parco nazionale del Pollino, in Calabria, deve il
suo nome alla lorica, poiché la corteccia di tale albero ricorda la
cotta di maglia indossata dai legionari.
I boschi sacri
Nel mondo antico i boschi disegnavano i confini territoriali, fiancheggiavano le vie pubbliche, adombravano i sepolcri ed i sacrari, circondavano le fonti dei fiumi: il luco cipressino delle fonti
del Clitunno, le selve consacrate al Dio Tebro per il fiume Tevere, i querceti presso il Minturno, consacrati alla ninfa Marica (la
Circe dei Greci). I boschi sacri sono ovunque, consacrati alle
*
Vice Questore Aggiunto Forestale.
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divinità e custoditi da sacerdoti.
Ma anche entro Roma, soprattutto nei primi anni della fondazione, erano presenti boschi. Il Colle Aventino, intorno al 300
a.C. era vestito di roveri, lecci ed allori. Sul Celio era un bosco di
querce ed era stato eretto un piccolo tempio consacrato alla ninfa
tutrice della boscaglia.
Fra Esquilino e Viminale sorgeva il bosco consacrato a Diana.
L’acquitrinoso Palatino, prosciugato da Tarquinio Prisco, fino a
Servio Tullio era coperto dal bosco Luperco (ossia Fauno) e da
questo le lupe scendevano al Tevere per dissetarsi.
Lo spazio tra Quirinale e Campidoglio era boscaglia e palude ed
era stato assegnato da Romolo all’asilo dei delinquenti e per
questo detto lucus asylii.
Intorno a Roma, poi sorgevano boschi consacrati che spesso
venivano utilizzati per la celebrazione di riti o per particolari
usi. Da porta Capena, ad esempio si incontrava il luco Camene, ricco di fonti ove le Vestali attingevano l’acqua per le purificazioni quotidiane. Il bosco era ricco di pini, consacrati ai
Buoni Venti (Ventis bonis) ed a Nettuno, patrocinatore delle
pinete.
I sacri boschi dell’agro romano erano pubblici e tenuti in grande
considerazione. Ad essi si aggiungevano le selve dei privati cui
manteneva il precetto della conservazione e del buon governo
forestale. Il bosco (o luco) era considerato parte necessaria ed
integrante d’ogni podere anche per scopi religiosi, tant’é che la
parte orientale d’ogni podere doveva essere riservata a bosco e
consacrata a Silvano ed alle anime degli antenati.
L’aspetto religioso nascondeva, però, anche un secondo fine: far
cresce i boschi d’alto fusto. Infatti, il luco era governato a fustaia,
mentre il bosco profano era deciduo.
Il termine lucus ha un’ origine dubbia, ma con buona probabilità deriva dalla parola “lucum” che in latino significa “apertura nel folto di una foresta”. Per poter consacrare un bosco era
necessario fare delle chiarie ove poter collocare gli altari per i
sacrifici.
Nell’antica Roma, al bosco sacro veniva riservata, infine, anche
la funzione, forse meno conosciuta, di confine naturale anche tra
popoli e Stati.
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La terminologia forestale
Tagliare i boschi sacri o danneggiarli era considerato un sacrilegio. Peraltro, era consentito, di tanto in tanto, effettuare dei diradamenti. Da qui derivano alcuni termini forestali che sono rimasti ancora in uso. I Romani chiamavano caesia, da caedo, tagliare,
l’atto di radere il bosco ceduo. Con il termine conlucare (da lucus
facere) si effettuavano, invece, i diradamenti, con tagli saltuari.
È interessante poi notare che nell’antichità il terreno veniva
distinto in pubblico o privato; per ciò concerneva l’uso era,
invece, consacrato (divini juris) o profano (humani juris).
Il terreno consacrato (o la cosa consacrata) veniva a sua volta
distinto in sacro (sacra), religioso (religiosa) o santo (sancta).
Sacre erano quelle cose che, con sovrana approvazione, erano
dai pontefici consacrate agli dei con riti pubblici e solenni. In
particolare anche gli alberi piantati nei sacrari pubblici, i boschi
direttamente dedicati al culto e addirittura il legno degli alberi
sacri deperiti.
Religiose, invece, erano quelle cose che si dedicavano agli estinti (tumuli e luoghi ove si conservavano le ceneri). Quindi, ciascuno poteva destinare una parte del proprio terreno a scopo
religioso, inclusi anche i boschetti ad ornamento di mausolei e
sepolcri. Per gli antichi, la sepoltura sotto gli alberi doveva permettere di far assorbire il corpo del trapassato dalle radici e di
vivificare la materia nella pianta. La compenetrazione tra la
salma e l’organismo arboreo assumeva, quindi, una valenza fortemente simbolica: affondando le radici nella madre terra ed
innalzando il vertice al cielo era come se il defunto espandesse le
braccia, a protezione e salvezza della stirpe, continuando a parlare all’affetto ed alla memoria dei posteri.
Le piante più in uso per questo scopo, oltre al cipresso, erano i
platani, il mirto, le querce ed i melograni.
Gli alberi cui le tradizioni attribuivano origine sacra (tra questi
ricordiamo il fico ruminale di cui parleremo tra breve) erano oggetto di custodia religiosa. Il popolo santificava gli alberi ed i boschi
ergendovi are o simulacri delle divinità, i quali venivano talvolta
appesi ai fusti ed ai rami degli alberi stessi. La consacrazione dei
boschi e degli alberi veniva effettuata con voti e riti solenni.
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L’albero divenuto oggetto sacro prendeva il nome della divinità
ed in generale quello di arbor sancta o di delubro. Il primo era in
genere un albero grande, fronzuto e vegetativamente robusto; il
secondo era un tronco annoso, privo di scorza e rami, intagliato
rozzamente a mò di forma umana.
Gli alberi sacri e simbolici
Il fico ruminale (in latino: ficus ruminalis) fu, secondo il mito
della fondazione di Roma, l’albero di fico selvatico nei pressi del
Tevere sotto il quale Romolo e Remo furono allattati dalla lupa
(e che secondo Livio si chiamava anche Romulare dal fondatore
della città di Roma).
La leggenda
La leggenda di Romolo e Remo narra che i due gemelli nacquero da
Marte e Rea Silvia dopo che il dio della guerra aveva posseduto con
la forza la giovane vestale di Alba Longa. Essendo prole illegittima,
i gemelli vennero quindi strappati alla madre per essere uccisi, ma
un servo pietoso li sottrasse a morte sicura adagiandoli piuttosto in
una cesta, che fu affidata alle acque del Tevere. Trasportata dallo
straripamento del fiume, la cesta si fermò in una pozza sotto il fico
ruminale, nel punto in cui la lupa sarebbe venuta ad allattarli.
Secondo alcune fonti, il fico si ergeva alle pendici del colle Palatino,
nei pressi della grotta chiamata Lupercale, mentre nell’iconografia
è spesso rappresentato con un picchio appollaiato sui suoi rami.
Etimologia
L’etimologia dell’epiteto “ruminale” non è chiara e su di essa fin
dall’antichità molti autori classici (tra gli altri Plinio il Vecchio,
Tito Livio, Varrone, Plutarco e Dionigi di Alicarnasso) hanno formulato varie interpretazioni. Secondo alcuni deriverebbe dal
latino “ruma” (mammella), parola che starebbe all’origine dei
nomi di Romolo e Remo (così come, secondo Herbig, del nome
della città di Roma, col significato di “prosperosa, generosa,
potente”); secondo altri, al contrario, il fico prese il nome da
Romolo, tant’è che gli stessi autori latini lo chiamavano talvolta
ficus Romularis. Altri infine ipotizzano un’etimologia etrusca.
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La sacralità del fico
Ad ogni modo, fin dall’antichità il fico fu collegato alla fondazione di Roma e considerato un albero fausto; era venerato
soprattutto dai pastori, che vi si recavano con offerte di latte. Più
tardi vennero create due nuove divinità, Jupiter Ruminalis e
Rumina.
Sebbene il fico ruminale fosse in origine solamente quello in riva
al Tevere presso il quale si era fermata la cesta con i gemelli
abbandonati, nel corso dei secoli successivi e fino in epoca imperiale altri alberi di fico furono oggetto di venerazione, talvolta
con l’epiteto di “ruminale”.
Tra questi il fico navio (ficus navia), che secondo la leggenda
sorse spontaneo in un luogo colpito da un fulmine (Plinio, Nat.
Hist. 15.77) oppure nacque da un virgulto del fico ruminale ivi
piantato da Romolo. Lo stesso albero sarebbe poi stato trasferito
dal sito originario al Comitium, nei pressi di una statua dell’augure Atto Navio dal quale prese il nome.
Se Tito Livio afferma che nel 296 a.C. gli edili Gneo e Quinto
Ogulnio avevano eretto ad ficum ruminalem un monumento che
rappresentava i gemelli e la lupa, Ovidio racconta che alla sua
epoca (43 a.C. - 18 a.C.) del fico non rimanevano che le vestigia.
Plutarco e Plinio (Naturalis Historia 15.77) narrano invece che
un fico fu piantato nel Foro Romano in quanto ritenuto di
buon auspicio, e che ogni qual volta la pianta moriva veniva
prontamente rimpiazzata con una nuova. Tacito aggiunge (Ann.
13.58) che nel 58 d.C. l’albero ruminale iniziò a inaridire: ciò fu
visto come un cattivo presagio, ma la pianta risorse con gran sollievo della popolazione.
Il foro romano oggi
Della vegetazione originaria, oggi, non è rimasto nulla, anche
perché tutta la zona del Foro romano, Colosseo e Circo Massimo
ha subito nel corso dei secoli pesanti interventi e modifiche.
Già in epoca romana i Fori sono stati più volte oggetto di rimaneggiamenti ed ingrandimenti, ma l’assetto originario degli edifici e degli assetti urbanistici, dopo la caduta dell’impero, ha
risentito dell’abbandono e delle spoliazioni e dei vari cambiaSILVÆ - Anno VI n. 14 - 287
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menti che si sono succeduti, fino ad arrivare alle ultime modifiche apportate durante il ventennio.
La vegetazione, oggi, visibile è costituita prevalentemente da
pini domestici, lecci, cipressi, ulivi ripiantati in epoche successive, comunque già presenti in epoca romana. Possiamo, però,
ricordare due particolarità molto interessanti che attraggono
l’interesse dei visitatori e degli appassionati.
Nella zona dei Fori, davanti ai Rostri, si trova una zona quadrata non pavimentata: qui si trovavano gli alberi simbolici del
fico, dell’olivo (sacro a Giove e Minerva, simbolo di pace e prosperità) e della vite (il vino era tenuto in grande considerazione
nell’antichità), che sono stati ripiantati in epoca recente.
Inoltre, sulla via di S. Gregorio, la cosiddetta via triumphalis, a
ridosso del Colle Palatino e vicino ai ruderi dell’acquedotto
Claudio, fa bella mostra di sé un albero di Giuda o siliquastro
(Cercis siliquastrum, L. 1758) il cui nome deriva dal termine greco
kerkís “navicella” o “spola” e dal latino siliqua “baccello”, in riferimento alla forma dei frutti.
L’esemplare, in ottimo stato, è stato inserito dal Corpo forestale
dello Stato nel primo censimento degli alberi monumentali e, con
la sua splendida fioritura, dona una nota di colore ai luoghi ove è
nata e si è sviluppata la civiltà latina cui siamo tutti debitori.
BOX APPROFONDIMENTI
SILVANO: IL TUTORE DEGLI ISPETTORI FORESTALI
S
ilvano era il nume dei confini (tutor finium). I boschi promiscui ed i poderi erano tutelati da tre Silvani, uno
domestico, tutore della casa e della corte; uno agreste,
protettore del gregge; il terzo orientale, ossia del confine, su
cui gli soleva esser consacrato un bosco. Egli era l’antico Giove
e Mercurio ed era il tutore degli Ispettori forestali, dei negozianti di legname, dei segatori e carpentieri e dei dendrofori
(artigiani addetti alla lavorazione ed allo smercio del legname)
che lo veneravano come custode delle selve.
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Spesso si parla anche di Ercole silvano a motivo della forza
che appunto richiedesi nel loro mestiere, consistente nel
taglio, movimento e trasporto degli alberi ed anche perché in
tempo di guerra queste categorie componevano con i centonari (macchinisti, pompieri e fabbricatori di tende), coi dolabrari
(squadratori ed asciatori) e con altre maestranze consimili il
treno delle legioni delle legioni.
Silvano era anche il Dio della selvicoltura: veniva rappresentato con una pianticela di cipresso, fornita di radici, posta nella
mano. La coltivazione del cipresso, infatti, godeva d’una particolare protezione delle leggi ed era assai studiata e diffusa
dai Romani.
Un breve elenco dei boschi sacri dell’antica Roma
Lungo la Via Appia si protraevano i sacri boschi boschi della
dea Egeria e delle Muse. Era la c.d selva Aricina in prossimità
del lago di Nemi. Lungo la Via Salaria sorgeva il luco della dea
Laverna, protettrice dei malandrini e dei ladri.
A poca distanza da Ostia vi era il luco Semele. Lungo la via
Campana, alla destra del Tevere ed a cinque miglia da Roma,
era posto il luco della dea Dia. Sulla via Nomentana, fuori
della porta Canicula sorgeva il luco della dea Robigina; sulla
via Laurentina, a sei miglia da Roma vi era il luco del dio Termine.
Entro Roma antica si ricordano il colle Aventino, coperto di
querce da rovere, lecci ed allori. Sul monte Celio vi era un
bosco di querce. Ai piedi dell’Esquilino stava il luco Mefite e
quello di Giunone Lucina. Fra l’Esquilino ed il Viminale vi era
un bosco consacrato a Diana. Il monte Gianicolo presentava
un bosco così come il Palatino, coperto dal bosco Luperco.
Presso la porta Libitinia vi era l’omonimo lucus il cui boscame
era riservato per costruire feretri e roghi.
Presso la Nomentana stava il bosco Petelino, mentre presso la
porta Carmentale (ora porta del popolo) vi era il luco di Anna
Perenna. Fuori doi porta Nevia (oggi S. maria Maggiore, sorgeva la selva Nevia.
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Le origini del Palatino
Secondo la mitologia romana, il Palatino (più precisamente il
pendio paludoso che collegava il Palatino al Campidoglio,
chiamato Velabro) fu il luogo dove Romolo e Remo vennero
trovati dalla Lupa che li tenne in vita allattandoli nella “Grotta del Lupercale“, forse recentemente localizzata. Secondo
questa leggenda, il pastore Faustolo trovò gli infanti e, assieme a sua moglie Acca Larentia, allevò i bambini. Quando
Romolo, ormai adulto, decise di fondare una nuova città, scelse questo luogo.
La casa Romuli effettivamente era una capanna ricostruita e
restaurata più volte, situata nell’angolo nord-ovest della collina, dove poi sorse la casa di Augusto. Scavi del 1946 hanno
effettivamente trovato in questo sito resti di capanne dell’età
del Ferro, confermando appieno la tradizione leggendaria.
Il nome del colle aveva la stessa radice di quello della dea
Pales, alla quale era dedicata l’antichissima tradizione della
festa delle Palilia o Parilia, che si tenevano il 21 aprile e che
coincidevano col giorno della fondazione della città.
Aveva sede qui anche la festa dei Lupercalia, legata alla mitica lupa (Luperco è il difensore dei lupi): partendo dalla grotta
del Lupercale, ai piedi del Palatino, una processione di sacerdoti-lupi vestiti di pelli caprine si dirigeva verso il Tevere e poi
faceva il giro del colle frustando chiunque venisse a loro tiro
soprattutto le donne: era un rito di fecondità. La leggenda dei
mitici gemelli allattati dalla lupa ci è pervenuta in redazioni
ben più tarde di queste tradizioni, a partire da Tacito.
Gli Imperatori Romani costruirono i loro palazzi sul Palatino.
Le rovine dei palazzi di Augusto, Tiberio e Domiziano sono
ancora visibili. Lo stesso termine palazzo deriva dal Palatium
latino, a sua volta derivante da Palatino.
Dal XVI secolo il colle fu proprietà della famiglia Farnese e fu
occupato dagli Horti Palatini Farnesiorum, o Giardini, tuttora in
parte conservati al di sopra dei resti della Domus Tiberiana.
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Bibliografia
Angela A. (2010); “Impero. Viaggio nell’Impero di Roma seguendo
una moneta”, RAI Eri, Roma.
Di Bérenger A. (1859-1863); ”Dell’antica storia e giurisprudenza
forestale in Italia”, Stabilimenti tipo-litogtrafici di G. Longo, Treviso e Venezia.
Saragosa G. (1999); “Alberi: etimologia, storia, miti e leggende”,
Scuderi Editrice, Avellino.
Alcune informazioni sono state tratte attingendo dalla rete ed in particolare da “Wikipedia”.
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