769916765 Wood, I figli della libertà La rivoluzione americana si espresse in una guerra di indipendenza e perciò non mancò di aspetti violenti, comportando fra l’altro l’emigrazione di un gran numero di lealisti. Resta però il fatto che il tentativo compiuto da molti storici di leggerla in termini di conflitto sociale non ha dato risultati convincenti, così che essa appare poco rivoluzionaria se paragonata alla rivoluzione inglese di Cromwell o a quella francese successiva di pochi anni. Se queste ricerche non hanno raggiunto il loro obiettivo, ha scritto lo storico americano Gordon S. Wood, è stato perché «le condizioni sociali genericamente considerate alla base di una rivoluzione – povertà ed emarginazione economica – non erano presenti nell’America coloniale […]. I coloni bianchi americani non erano un gruppo oppresso, non dovevano liberarsi di catene opprimenti. » Eppure sarebbe sbagliato parlare solo di una rivolta coloniale, limitata agli assetti politici ma fondamentalmente conservatrice, e non scorgere la vera rivoluzione che mutò profondamente la società americana. Prima della rivoluzione Questo è il tema che sta al centro del libro di Gordon Wood I figli della libertà. Alle origini della democrazia americana (più efficace il titolo originale, The Radicalism of the American Revolution, 1991), Giunti, Firenze 1996. Negli anni compresi circa fra il 1740 e il 1830 Wood vede il succedersi di tre fasi, che in parte si sovrappongono cronologicamente fra di loro, ma che posseggono una fisionomia ben definita e occupano ciascuna una delle tre parti in cui il libro è diviso (“La monarchia”, “Il repubblicanesimo”, “La democrazia”). Nei due o tre decenni che precedono la rivoluzione, le colonie americane non sembravano possedere una struttura sociale nettamente differente da quella dell’Inghilterra, benché là non esistesse né una nobiltà ereditaria, né il potere gerarchico dei vescovi. Nondimeno il mondo dei “gentiluomini”, i ricchi proprietari terrieri, deteneva un indiscusso primato che (non solo in Virginia e in Carolina) si esprimeva in termini di prestigio e deferenza e godeva di taciti privilegi: «l’influenza personale doveva costituire la fonte principale di reclutamento e mobilità in ogni settore.» Per certi versi, anzi, le colonie, oltre ad aver conservato i caratteri tradizionali di una società che presupponeva l’esistenza di una monarchia, possedevano anche aspetti realmente arcaici rispetto a quella inglese, visto che metà della loro popolazione si trovava in condizioni di non libertà (non soltanto gli schiavi africani, ma anche i servi bianchi a contratto). Per altri aspetti, tuttavia, la società americana era già molto diversa da quella inglese. All’interno della categoria dei liberi non vi erano differenze immense di ricchezza; i due terzi degli inglesi non aveva nessun genere di proprietà, mentre nelle colonie la grande maggioranza dei bianchi liberi possedeva terra. Anche per i servi bianchi, pur essendo essi sempre sostituiti da nuovi arrivi, si apriva prima o poi la prospettiva della proprietà. Bastava trasferirsi verso la frontiera occidentale meno popolata delle colonie per trovare terra da acquistare. In secondo luogo, l’enorme importanza aggregante della religione si esprimeva in una grande varietà di chiese prive di qualsiasi organizzazione (accanto a quella anglicana vi erano a decine quelle di calvinisti, luterani e non conformisti di tutte le specie), che imponevano di fatto il pluralismo e rendevano molto fluide le gerarchie sociali. Dalla repubblica alla democrazia Nella società americana convivevano perciò il tradizionale rispetto per i gentiluomini e una forte mobilità sociale favorevole a esaltare il valore del lavoro e dell’uguaglianza. Lo spirito rivoluzionario si manifestò prima di tutto come rifiuto della subordinazione al potere gerarchico che 1 769916765 aveva le sue radici in un’Inghilterra divenuta lontana ed estranea. «Nel 1776 gli americani giunsero alla conclusione di essere naturalmente portati per il repubblicanesimo proprio perché erano un popolo di possidenti» (ogni uomo era infatti un proprietario fondiario effettivo o potenziale). Essi accettarono però la guida di gentiluomini come Washington e Jefferson e il principio che la guida del governo doveva essere affidata a uomini dotati di cultura e solide fortune, i quali, non avendo da trarre nessun personale tornaconto, si sarebbero davvero comportati in maniera disinteressata. Per questo motivo ai deputati del congresso non fu per lungo tempo riconosciuto il diritto a una retribuzione. La rivoluzione non poté però fermarsi alla fase repubblicana. Quando cadde il divieto inglese di insediarsi oltre gli Allegheny, si aprì alla colonizzazione di una popolazione giovane (per due terzi sotto i 25 anni) e in rapido aumento un immenso territorio, che si allargò continuamente nei decenni seguenti e che offriva possibilità illimitate ai coraggiosi. Senza nessun inquadramento dall’alto, la mobilità geografica e sociale assunse in America dimensioni e velocità che non avevano precedenti nella storia. In questo nuovo mondo «tutti erano uguali, gente comune rappresentata nel modo migliore da altra gente comune, e questa era la democrazia.» Pochi anni dopo l’approvazione della costituzione del 1787 e le presidenze di Washington e Jefferson, la più profonda rivoluzione si rivelava essere quella che portava alla ribalta il self-made man e una società nella quale tutti erano membri della classe media, livellati e tenuti insieme dalla circolazione del denaro e dal primato degli interessi. 2