Spagna e Portogallo I due paesi della Penisola iberica hanno una storia politica e civile distinta, ma restano comunque tra essi molte omogeneità e non solo per l’aspetto economico. Dopo il periodo di annessione all’impero napoleonico i due paesi tardano ad uscire dall’arretratezza economica, dominata da un’agricoltura arcaica. All’inizio dell’Ottocento la Spagna conta poco più di 11 milioni di abitanti che dopo un secolo sono saliti a 18,6, rappresentando, comparativamente all’estensione del territorio, uno degli stati con più basso tasso di urbanizzazione nell’Europa Occidentale. Dal punto di vista sociale e politico, la rivolta delle truppe a Cadice del 1820, ricordata in tutti i libri di storia, rappresentò l’inizio di un lungo periodo di lotta contro i sovrani autoritari che dominavano in entrambi i paesi. Le guerre “carliste” si combattono in Spagna lungo quasi tutto il secolo e la guerra civile continua tra esponenti delle fazioni opposte per il sostegno di questo o dell’altro sovrano, per la conquista della democrazia, per la stessa repubblica. Il secolo si chiude con la sconfitta della Spagna nella guerra ispano‐americana e con la perdita di tutte le colonie, con l’eccezione dei domini d’Africa. In Portogallo la situazione non è molto differente. Paese abitato da circa tre milioni di persone all’inizio del secolo, nel 1900 la popolazione è salita a 5,4 milioni di persone. La lotta tra conservatori e liberali si sovrappone alla lotta politica caratterizzata da periodi di governo dittatoriale. Gli scontri dinastici che si svolgono nei due paesi si accompagnano agli scontri tra conservatori e liberali, analogamente con quanto succede anche in altre parti d’Europa nel periodo della restaurazione, ma qui la “guerra civile” diviene endemica e neppure la rivoluzione del 1848 interrompe il perdurare degli scontri, come invece accade in molti paesi che voltano pagina per l’instaurarsi di governi “costituzionali”. Gli scontri e il perdurare della guerra civile durante l’intero Ottocento nella Penisola iberica consumano risorse finanziarie, potenzialmente utilizzabili per lo sviluppo economico, e non permettono la normalizzazione delle attività e degli scambi. I due paesi avevano dominato il mondo qualche secolo addietro e possedevano un grande impero coloniale drasticamente ridimensionato proprio durante il secolo XIX. La perdita delle colonie ridusse le entrate nei due Stati ed aggravò la situazione dei bilanci nazionali, alle prese con disavanzi cronici. L’agricoltura rimaneva allo stato arcaico e limitata all’autoconsumo o al mercato domestico. I contadini pagavano le imposte in natura e quando negli anni quaranta un decreto del governo spagnolo impose il pagamento in moneta, i contadini si ribellarono di fronte all’impossibilità di commerciare i loro prodotti e ricavarne il contante necessario per le esigenze del fisco. La manovra di alienare le proprietà della chiesa e dei nobili, avversi al regime dominante, non ottenne i risultati sperati di ridistribuire la terra ai contadini, in quanto le terre vennero messe all’asta e finirono per essere acquistate dagli aristocratici o dai ricchi borghesi che non apportarono alcun incremento e innovazione tecnologica capace di avviare la svolta verso un’agricoltura moderna e adeguata allo standard dei più avanzati paesi dell’epoca. Si continuava a produrre per il mercato locale e l’aumento della popolazione sia in Spagna che in Portogallo ottenne l’effetto di aumentare le superfici a cereali, senza destinare risorse per migliorare la zootecnia e introdurre meccanismi di crescita della produttività. La produzione agroalimentare legata al vino e alla produzione di liquori (brandy, sharry) rappresentava invece la più importante voce nel commercio estero sia della Spagna che del Portogallo, incidendo fino al 28 per cento nella bilancia all’esportazione della Spagna attorno alla metà dell’Ottocento. Il contagio della “peste” della vite, la filossera importata dalle Americhe negli ultimi decenni dell’Ottocento e che dalla Francia si diffonde nella penisola iberica colpì il settore vitivinicolo riducendo drasticamente la produzione e quindi le esportazioni. Tommaso Fanfani, Storia Economica, McGraw‐Hill, © 2010, ISBN 6608‐7 Nel settore della trasformazione l’industria del cotone sfruttava il privilegio delle importazioni di materia prima da Cuba e da Portorico, colonie spagnole fino al 1900. Quando le colonie vennero perse, l’industria tessile concentrata a Barcellona, non riuscì a mantenere il livello di competitività precedente e decadde prima che il settore avesse potuto funzionare da volano per innestare, come era accaduto in altri paesi, il processo di industrializzazione. La potenzialità produttiva della Penisola iberica suscita l’interesse di imprenditori e aziende estere, specialmente inglesi, non tanto per il fatto che vi si poteva sperare l’avvio del processo di industrializzazione e dunque il rendimento sicuro per gli investimenti effettuati, ma principalmente per lo sfruttamento delle risorse minerarie presenti nella Penisola, sia ferro che carbone, sia piombo che rame. La bilancia commerciale spagnola ottenne benefici dalle esportazioni dei minerali, ma lo sfruttamento delle miniere era affidato per lo più a compagnie e ad imprenditori esteri. I ricavi ottenuti dall’estrazione e vendita all’estero dei minerali non venivano generalmente impiegati nelle attività economiche interne, a cominciare dalla costruzione degli impianti per la lavorazione delle materie prime estratte: i capitali venivano impiegati in altre piazze europee, dagli stessi imprenditori o dalle società finanziarie a cui essi facevano riferimento. Insomma la ricchezza prodotta transitava in Spagna senza una ricaduta sull’economia nazionale tale da innestare il processo di industrializzazione del Paese. La costruzione delle ferrovie e delle infrastrutture, che abbiamo detto rappresentare uno dei momenti iniziali dei percorsi d’industrializzazione durante il XIX° secolo, non registrava la dinamica auspicabile e solo nel decennio Cinquanta il governo emanò provvedimenti che potevano incentivare gli investitori esteri a promuovere le costruzioni ferroviarie, oltre che a dedicare le proprie attività nella formazione di banche e di istituti di credito. Gli incentivi proposti dal governo ottennero l’effetto auspicato e le linee ferroviarie cominciarono ad essere realizzate utilizzando ingegneri esteri, materiale rotabile e macchinari importati dalla Francia o dall’Inghilterra, senza che si verificasse il legame tra costruzioni ferroviarie e sviluppo dell’industria meccanica e siderurgica locale. Per di più le ferrovie inizialmente venivano poco utilizzate con la conseguenza che molte società ferroviarie finirono per fallire, a fronte degli alti costi per la realizzazione e dei bassi ricavi derivanti dall’uso da parte dei passeggeri e del trasporto merci. In Portogallo la prima linea ferroviaria venne inaugurata nel 1856 e la sorte del settore fu analoga a quella delle ferrovie spagnole. Il momento di miglioramento nelle condizioni di sviluppo per la Spagna si verifica alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, quando le ferrovie cominciano a remunerare gli investitori e lo sfruttamento dell’estrazione dei minerali e del carbone trova impiego nell’industria per la produzione siderurgica. E’ un cambiamento che non consente comunque di parlare ancora di un vero e proprio take off. Occorrerà attendere ancora per vedere la Spagna nel nucleo dei paesi più industrializzati, mentre per il Portogallo il percorso sarà addirittura più complesso e lento. E’ soprattutto la situazione politica che rallenta la Penisola iberica a raggiungere lo standard di area industrializzata del mondo. Tommaso Fanfani, Storia Economica, McGraw‐Hill, © 2010, ISBN 6608‐7