Alessandro Allemano
FEUDALESIMO E FEUDALITÀ
Carlo Magno, re dei Franchi, vincitore dei Longobardi nel 774 e imperatore dall’anno 800,
organizzò il suo impero sulla base di quello romano. Come l’impero romano era suddiviso in
regioni, così anche il nuovo fu organizzato in contee – o comitati – e marche, queste ultime
più vaste e poste di solito lungo i confini.1 Conti e marchesi, di origine franca o sassone
(tedesca), erano dall’Imperatore messi a capo di tali macro-regioni, con il compito di rappresentare il potere imperiale e di amministrarle.2 Considerata la vastità di questi territori, essi
furono ulteriormente suddivisi «in zone meno estese e queste ancora in parti più piccole, a
capo delle quali furono posti funzionari con incarichi analoghi a quelli dei loro superiori».3
Si venne quindi a formare una struttura amministrativa piramidale che aveva al proprio
vertice l’Imperatore e poi a seguire una serie di vassalli, sotto cui stavano altri funzionari
minori detti valvassori e valvassini. Costoro godevano di una serie di tasse e balzelli imposti
alle popolazioni e delle rendite derivanti dai territori amministrati e dovevano a loro volta
pagare alcuni tributi al loro diretto superiore.
Ciascuno di questi funzionari entrava in possesso della propria autorità mediante la cerimonia dell’investitura: essa gli conferiva un beneficio che, con termine derivato dal germanico, ebbe il nome di feudo. In seguito il termine “feudo” passò a indicare anche il territorio
su cui il signore esercitava i suoi diritti.
Varie sono le ipotesi sull’origine del termine “feudo”: le più accreditate lo fanno derivare
dal longobardo fiu, “beni” e odh, “proprietà”, o dal termine gotico faheids, “usufrutto”.4 Altri
studiosi, meno correttamente, pensano che abbia attinenza con il termine latino fides,
“fedeltà”.
Taluni ritengono che il sistema feudale in realtà sia nato già sotto i Longobardi, discesi in
Italia nel 468: «Coi Longobardi erasi già avuta la prima orditura del sistema feudale; e col
dominio dei Franchi si rese più regolare questo sistema nel fatto, reso più generale dalla inamovibilità delle terre concedute, e nel complesso dei diritti e doveri tra il concedente e il
beneficiato. Così il feudo servì, per così dire, quale anello di transizione fra la civiltà antica e
quella del medio evo».5
Dopo la morte di Carlo Magno, il sistema feudale iniziò a trasformarsi in senso ereditario,
mentre in origine alla morte del feudatario il territorio a lui soggetto ritornava al re, che lo
assegnava a un altro signore. Con il passare degli anni, i vassalli legarono «sempre più a sé i
1
L’impero carolingio comprendeva, oltre all’Italia settentrionale, la Toscana, e l’Umbria (ex Ducato longobardo
di Spoleto), anche tutta l’Europa continentale, dai confini con la Spagna fino a quelli con la Russia.
2
Il Monferrato, inizialmente compreso nel Ducato d’Italia, fu poi riorganizzato nella Marca d’Italia, con capitale Ivrea; dalla Marca d’Italia a metà del X secolo re Berengario II costituì una serie di marche minori: il Monferrato, con il Savonese, fu assegnato alla Marca di Liguria Occidentale.
3
C. FERRARIS, Vignale e il Monferrato dalle origini al 1713, GRIFL, 2002, p. 51.
4
O. PIANIGIANI, Vocabolario etimologico della lingua italiana, v. I, Roma, Soc. Ed. Dante Alighieri, 1907; ad
vocem “feudo”.
5
P. BARINETTI, Diritto romano. Parte generale, Milano, Vallardi, 1864, p. 42.
1
propri inferiori, cosicché i Re non poterono più comandare sui feudi minori».6
La classificazione dei feudi
La complessa legislazione in materia di feudi, investiture, diritti e doveri dei vassalli fu
regolata a partire dal Medioevo da un’apposita branca del diritto, detta diritto feudale.
La classificazione dei feudi era materia alquanto complessa e controversa, tanto che
ancora nell’Ottocento si scriveva che «nell’imbroglio feudale quelli che più vi hanno studiato
meno ne sanno».7
Si distinguevano innanzitutto “feudi nobili”, quando in seguito all’investitura il feudatario
era riconosciuto nobile dal principe, e “feudi ignobili” (o borghesi, o rustici), che «non richiedevano e non davano nobiltà».8 Si potevano poi avere “feudi antichi e aviti” o “feudi nuovi”:
i primi giungevano all’attuale possessore dai loro avi, mentre gli altri erano concessi per la
prima volta. Un’altra distinzione era tra “feudi personali”, quando il beneficio cessava alla
morte dell’investito, e “feudi ereditari”. Inoltre, c’erano “feudi alienabili” e “feudi inalienabili”, a seconda che potessero essere venduti o meno.
In base alla linea successoria si potevano avere “feudi mascolini” e “feudi per maschi e
femmine”, anche se in genere «la successione femminile avveniva solo quando venivano a
mancare tutti i rappresentanti maschi, anche collaterali, di una famiglia».9 In fatto di successione si dicevano “feudi reversibili” quelli che, in difetto di discendenza mascolina del vassallo, dovevano ritornare immediatamente al sovrano.10
In base al grado di fedeltà richiesta potevano aversi feudi “ligi” e “non ligi”. Il concessore
di un feudo ligio11 «non riconosceva altro superiore nel mondo che il suo signore diretto, e
poneva tutti i suoi beni, eziandio quelli non compresi nel vincolo feudale, sotto la giurisdizione del medesimo».12
Si diceva “feudo d’onore” quello che non imponeva al concessore altro vincolo se non
«una dimostrazione d’onoranza, spesso acconsentita nelle parole, violata nei fatti».13
Quando nei feudi si seguiva la pura ragione feudale, questi di dicevano “retti, puri, semplici e propri”: il vassallo non aveva obblighi di particolari servizi a favore del principe, ma
doveva semplicemente conformarsi a tutti i doveri generali imposti a tutti i feudatari. Se
veniva espressamente imposto un particolare obbligo, il feudo diveniva “condizionale”, o
“pattovito”.
6
C. FERRARIS, op. cit., p. 52.
C. BOTTA, Storia d’Italia, v. V, Milano, Silvestri, 1843, p. 451.
8
G. MOLA DI NOMAGLIO, Feudi e nobiltà negli Stati di Savoia, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2006, p. 180.
Molto spesso comunque l’investito di un feudo era già nobile: in caso contrario, avvenuta l’investitura, richiedeva un’apposita abilitazione al sovrano.
9
Ibid.
10
Vigeva in tal caso la cosiddetta lex salica, importata dal diritto dei Franchi: secondo tale legge le donne erano
escluse dalla successione sia nella proprietà di beni personali che di concessioni feudali. In virtù di tale legge
presso molte dinastie, tra le quali quella sabauda, le donne sono escluse dalla successione al trono.
11
Il termine “ligio” proviene dal latino ligare (legare, avvincere). Infatti un tale tipo di investitura comportava
un vincolo e un obbligo strettissimi verso il principe.
12
F. SCLOPIS, Storia della antica legislazione del Piemonte, Torino, Bocca, 1833, p. 411.
13
Ibid. In effetti, anche se la soggezione formale verso il signore era perfetta, nella realtà il feudatario spesso si
comportava come padrone assoluto nel territorio a lui concesso, quasi “dimenticandosi” che al di sopra di lui
c’era comunque il principe.
7
2
Un feudo poteva infine essere definito “gentile” quando spettava a un’intera famiglia
(gens, in latino) piuttosto che a un singolo individuo.
Le prerogative feudali
I feudi monferrini ebbero sempre caratteristiche rurali, considerati i territori su cui si
estendevano. In essi si distinguevano proprietà demaniali, di pertinenza dell’autorità centrale
– Imperatore, Re o vassallo – che rappresentava allora quello che noi diremmo “lo Stato”, e
proprietà personali del feudatario locale, della Chiesa e dei pochi proprietari che ancora non
avevano ceduto al signore locale i loro possedimenti. Nel possesso feudale esistevano di
solito una parte signorile (fattoria rurale o villa di origine romana) direttamente gestita dal
proprietario e detta pars dominica, comprendente anche le terre direttamente annesse all’abitazione civile con le abitazioni dei servi e le attività artigianali (curtis), e una pars massaricia
con i terreni concessi dal feudatario in affitto ai contadini con quel contratto di mezzadria che
porterà alle estreme conseguenze nel XIX secolo la sostanziale iniquità della sua natura: fare
a metà di tutto, sia delle spese che delle entrate, tra padrone e lavoratore.
Il feudatario, almeno in epoca medievale, deteneva il potere assoluto sull’intero suo territorio, ad eccezione dei beni della Chiesa, che erano immuni dalla sua giurisdizione.
Una delle più importanti prerogative era l’amministrazione della giustizia. Generalmente il
feudo era concesso con la clausola del “mero e misto imperio”, che consisteva nella facoltà di
giudicare sia le cause penali più gravi (mero imperio) che quelle di minore entità (misto
imperio).
Il mero imperio conferiva al feudatario la facoltà di condannare a morte gli individui riconosciuti colpevoli dopo un processo che di solito era piuttosto sommario: «carceri, tormenti,
e patibolo, con uno spaventevole corredo di pene accessorie erano i mezzi a lui nella universale confusione affidati».14 Per la verità nei nostri feudi di campagna non si arrivava quasi
mai alla pena capitale: in genere si comminavano castighi corporali per i nullatenenti e
sostanziose pene pecuniarie per i più facoltosi. Non erano previste pene detentive, se non in
attesa del giudizio e spesso con l’esercizio della tortura. I proventi della giustizia feudale
andavano sempre al signore locale, il quale era solito amministrare tali affari tramite un suo
delegato, detto giusdicente, o podestà, o castellano.
Si diceva poi “giurisdizione” la facoltà di giudicare le cause civili e di godere dei particolari benefici derivanti dal feudo. In materia legislativa, il feudatario aveva spesso il potere di
emanare vere e proprie leggi che nei primi tempi non erano neppure messe per iscritto. Egli
stesso non poteva essere incriminato per atti commessi nell’ambito del suo feudo, dovendo
rispondere solo di reati compiuti contro altri signori di rango pari o superiore al suo.
L’atto con cui il principe (o signore diretto) concedeva il feudo al suo vassallo si diceva
investitura. Essa era di due specie: “propria, reale e personale”, quando comportava la consegna delle terre e avveniva pronunciando una semplice formula alla presenza del concedente o
di un suo delegato, e “impropria, o abusiva”. Quest’ultima si compiva spesso con la consegna
all’investito della spada o del bastone di comando: la concessione del mero e misto impero
avveniva sempre con la remissione della spada. A seconda delle usanze locali, l’investitura
impropria si svolgeva in modo simbolico «e consisteva nel presentare una zolla di terra, un
sasso, un ramoscello».15
La vera e propria cerimonia di investitura era preceduta dall’omaggio e dalla fedeltà.
14
F. SCLOPIS, op. cit., p. 406. «A significazione d’onore» nei feudi si tenevano erette le forche e dalla loro forma
e altezza si poteva capire la maggiore o minore dignità del feudatario.
15
F. MOISÈ, Storia dei dominii stranieri in Italia, v. I, Firenze, Batelli, 1839, p. 252.
3
L’omaggio stava a significare la sottomissione del vassallo al signore e si chiudeva sempre
con lo scambio del bacio tra i due protagonisti; la fedeltà consisteva nella prestazione di un
giuramento, che si poteva fare anche per lettera o per procura.
Le bannalità
Il feudo era per il signore locale una miniera inesauribile di beni in natura e di introiti in
denaro. Il feudatario godeva di una lunga serie di diritti, detti “bannalità”.16 Essi consistevano nella privativa assoluta di molti servizi essenziali per la vita del villaggio; il loro esercizio era sottoposto al pagamento di forti diritti di monopolio a favore del titolare del feudo. Si
avevano ad esempio bannalità di moleggio, forno, torchio, macello, esercizio di osteria, caccia, pesca, raccolta della legna e pascolo sulle terre demaniali, graspolaggio e spigolaggio,
uso delle strade (pedaggio), stallaggio. Chi avesse voluto quindi panificare, avrebbe dovuto
pagare un balzello per macinare la farina e un altro per cuocere il pane; chi avesse osato portare il grano a un altro mulino, sarebbe stato sanzionato con pene pecuniarie molto forti. Allo
stesso modo era colpito da altri balzelli chi avesse ereditato per potere entrare in possesso di
quanto in suo diritto. In virtù del cosiddetto “diritto d’ùbena” o “albinaggio” il feudatario
poteva incamerare i beni posseduti sul territorio del feudo dagli stranieri non naturalizzati.
L’esercizio del commercio era fortemente scoraggiato dall’imposizione di forti dazi sia in
entrata che in uscita dal feudo, ovviamente tutti intascati dal signore, così come esisteva
un’apposita bannalità anche sulle fiere e i mercati che si svolgevano nell’ambito del feudo e
un’altra che imponeva un diritto di privativa per la vendita di vino a favore del signore
locale.17
Altri diritti feudali erano le taglie, forme di imposizione diretta che si richiedevano ai sudditi nelle più svariate occasioni e fonti di innumerevoli fastidi per chi ne era gravato: gran
parte delle comunità risultavano sempre in arretrato con la soddisfazione delle taglie, sia ordinarie che straordinarie, e costantemente le autorità si rivalevano sui proprietari con il sequestro delle messi e degli attrezzi agricoli: chi proprio non pagava, alla fine poteva vedersi confiscare un po’ di terreno, poi messo all’incanto.
Altre imposizioni straordinarie potevano gravare le comunità in quattro casi particolari:
quando il signore compiva la sua prima campagna militare, quando – fatto prigioniero –
doveva riscattarsi, quando maritava una figlia e quando doveva affrontare spese per essere
investito cavaliere.
Come se ciò non bastasse, tutti i sottoposti del feudatario – esclusi i soli ecclesiastici –
erano tenuti a prestare gratuitamente ogni anno un determinato numero di giornate lavorative.
Questi lavori, detti corvées, consistevano, ad esempio, nell’esecuzione di scavi per rinforzare
il castello feudale, oppure nel taglio di legna nei boschi feudali, o ancora in condotte di merci
per conto del signore.
In seguito tali prestazioni gratuite si trasformeranno nelle cosiddette “comandate” o
“roide”, imposte dai Comuni ai diversi proprietari sulla base dei loro possedimenti fondiari.
Generalmente tali obblighi, distinti in giornate di lavoro e giornate di condotte, servivano a
riparare le strade pubbliche, perennemente dissestate.18 Nei tempi antichi i particolari che
non volessero prestare la loro opera per le corvées potevano esserne esentati pagando un
16
Così dette «perché il divieto di contravvenirvi era di regola imposto mediante un’ordinanza o banno signorile». (Grande dizionario UTET, ad vocem).
17
Tale bannalità era detta in francese banvin.
18
L’esercizio delle comandate restò attivo fino al secondo dopoguerra, come è attestato dai ruoli tuttora conservati negli archivi comunali. Se ne parlerà più diffusamente nel capitolo riguardante le strade e la viabilità.
4
apposito balzello, detto alla francese droit de hauban.19
Anche la condizione dei contadini non era delle più floride. In molti casi essi diventavano
proprietà personale del feudatario, si legavano indissolubilmente alla terra che lavoravano e
potevano essere venduti assieme a questa: erano i “servi della gleba”, privi affatto di ogni
diritto e soggetti soltanto a obblighi nei confronti del loro padrone.
Ma i signori esigevano dai loro sottoposti anche altre corresponsioni. Quando i feudatari
maggiori – dalle nostre parti i marchesi, poi duchi, del Monferrato – si recavano in visita ai
loro vassalli, agli uomini del paese il signore locale richiedeva una fornitura completa di
foraggio e biada per i cavalli dell’ospite: era questo il “diritto di fodro”, tassa dapprima
straordinaria che in tempi successivi si convertirà in uno stabile tributo in denaro o in altri
beni in natura (“ordinario”).
Per concludere, i paesi erano anche tenuti a fornire al feudatario un certo numero di
uomini in caso di guerra (“possanza della spada”): costui doveva, infatti, onorare la sua sottomissione al diretto superiore, mettendogli a disposizione un reparto di armati, i cui ufficiali
erano membri della famiglia feudataria locale.
Il feudatario aveva generalmente a disposizione come sua residenza il castello locale, che
«oltre ad essere riparo dei rustici, era luogo sicuro di raccolta delle messi ed intorno ad esso
si coagularono le abitazioni dei villici per assicurarsi la protezione del castello che, in epoche
di generale insicurezza, rappresentava asilo e difesa contro aggressioni di rapinatori e vendette di vicini».20
In qualche caso il feudatario poteva essere un ecclesiastico particolarmente potente per la
giurisdizione che gli era affidata: è il caso dell’Abate di Grazzano, superiore della casa religiosa fondata da Aleramo verso la metà del X secolo. Costui aveva potere non solo spirituale
ma anche secolare sul territorio circostante, che gli era riconosciuto come vero e proprio
feudo, amministrava la giustizia per mezzo di un suo vicario e godeva di ingenti rendite, né
più né meno come i signori laici.21 All’abate pro tempore competeva il titolo di “Signore di
Grazzano” per antica investitura.
L’ “incanto del Monferrato”
Tra la metà del XVI secolo e l’inizio del XVII i Gonzaga, che erano succeduti ai Paleologi
nel dominio del Monferrato, sempre a corto di denaro sia per il tenore di vita eccessivamente
dispendioso che conducevano, sia per le spese di guerra che periodicamente dovevano affrontare, decisero di elargire diritti feudali in cambio di tanto denaro sonante.
«Per rimpinguare le loro esauste casse, pensarono di creare nuovi feudi, concedendo titoli
nobiliari di conti o marchesi a piene mani, a famiglie facoltose mantovane e genovesi, ed
anche piemontesi e lombarde: titoli e relativi feudi che venivano profumatamente pagati».22
Nel corso di circa un secolo il numero dei vassalli monferrini salì da circa 80 a oltre 300. Tra
Alto e Basso Monferrato, 24 terre (tra cui Moncalvo) erano “immediate”, vale a dire soggette
ai Gonzaga senza l’intermediazione di un feudatario, mentre la stessa famiglia mantovana
19
Cfr. per una lunga lista di diritti feudali: G. DE SAINT FARGEAU, Encyclopédie des jeunes étudiants et des gens
du monde, t. Ier, Paris, Hachette, 1833, p. 292.
20
A. DI RICALDONE, Castel Vero - Castel Boglione dall’età ligure al XX secolo, Alessandria, Edizioni dell’Orso,
1998, p. 72.
21
Altrettanto succedeva per i Superiori delle abbazie di Crea, Rocca delle Donne, Pontestura, Spigno, Lucedio e
Vezzolano.
22
D. TESTA, Storia del Monferrato, III ed., Cavallermaggiore, Gribaudo, 1996, p. 260.
5
esercitava diritti parziali su circa un centinaio di feudi.
Buona parte delle nuove signorie locali fu appannaggio delle famiglie liguri desiderose di
nobilitarsi e alle quali la Repubblica di Genova non concedeva titoli aristocratici: nelle terre a
sud del Tanaro si vennero quindi a creare feudi dei Doria, degli Spinola, dei Pallavicini, dei
Grimaldi.
La perenne fame di denaro dei Gonzaga portò anche alla frammentazione di molti feudi
monferrini, fino ad allora affidati a un solo feudatario per volta, al quale spettava l’intera giurisdizione. Ora si pervenne a una suddivisione del feudo in “punti di giurisdizione” tra più
signori, uniti in “consorzio feudale”, che esercitavano i loro diritti solo per una determinata
parte dell’anno. I paesi monferrini ebbero quindi dei consignori, a volte appartenenti a rami
diversi di una stessa famiglia.
Il feudo, o la parte di giurisdizione, spesso tornava nel diretto possesso del vassallo maggiore, che lo rimetteva all’incanto al migliore offerente.
Tale proliferazione di titoli feudali sfociò in un’inflazione di nobili, in buona parte provenienti da famiglie borghesi che potevano contare su un ingente patrimonio: è il caso, ad
esempio, dei Magnocavallo, che erano facoltosi speziali a Casale. Accanto a questi nuovi
nobili esistevano però anche famiglie gentilizie di antico lignaggio, nobili già sotto i primi
Paleologi e addirittura casati di stirpe aleramica, come i marchesi del Carretto.
Per riuscire a mettere un po’ d’ordine nelle intricate vicende di feudi tanto spezzettati,
Evandro Baronino, cancelliere del Senato di Monferrato, dovette redigere nel 1604 un lungo
e dettagliato elenco dei paesi monferrini, con le rispettive ragioni feudali e l’indicazione del
numero degli abitanti (“bocche”) e delle famiglie (“fuochi”).23
Fedecommessi e primogeniture
Talora sul feudo signorile – soggetto a un solo signore – gravava il “fedecommesso”, una
clausola giuridica che obbligava l’erede legittimo a conservare indivisa la proprietà, e ciò per
evitare un’eccessiva dispersione dei possedimenti.24
Mediante fedecommesso infatti il testatore istituisce erede o legatario un soggetto determinato (detto “istituito”), il quale ha l’obbligo di conservare e godere i beni ricevuti, che alla
sua morte andranno automaticamente a un soggetto diverso (detto “costituito”) indicato dal
testatore stesso.
Già presente nel diritto romano, nell’età moderna l’istituto del fedecommesso si diffuse
moltissimo e in molte varianti. «L’idea di vivere in qualche modo nella memoria dei posteri,
l’istinto di dar legge alle cose sue ed alle persone anche dopo morte, la prevalenza [...] del
così detto lustro delle famiglie, anche talvolta lo spirito di beneficenza, moltiplicarono i fedecommessi e tutta la serie immensa di istituzioni analoghe in maniera sorprendente. Il danno
sociale era cresciuto nella stessa misura. Odii nelle famiglie, liti interminabili, incoraggiamento all’ozio ed alla mala fede, ingiusta ripartizione dei beni, tolta dal commercio e dal
libero scambio gran parte della ricchezza sociale erano i danni più sentiti e lamentati».25
Il desiderio di mantenere indiviso il patrimonio famigliare portava spesso anche all’istituzione delle primogeniture o maggioraschi: si trattava di una forma particolare di fedecom23
Le città, le terre, ed i castelli del Monferrato descritti nel 1604 da Evasio Baronino, pubbl. a stampa a cura di
Giuseppe Giorcelli in «Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessandria», 1904.
24
Il termine deriva dal latino fides, “fiducia” e committere, “affidare”.
25
F. BETTINI, Repertorio generale alfabetico della giurisprudenza degli Stati Sardi, Torino, Unione Tipografico
Editrice, 1861, p. 587.
6
messo in cui l’erede designato era il maschio primogenito della famiglia. Era anche in questo
caso un istituto giuridico pensato per trasmettere il patrimonio immobiliare indiviso e così
mantenere intatta la proprietà nel tempo. «Tecnicamente fedecommesso e primogenitura sono
due cose diverse e tuttavia sono accomunati dal fatto di vincolare l’erede sia dal punto di
vista della disponibilità del patrimonio – che non potrà in alcun modo essere diviso, venduto,
donato, dato in dote, e nemmeno ipotecato – sia da quello della libertà di testare: colui che
istituisce il vincolo stabilisce, infatti, chi debba succedere nella titolarità del patrimonio, non
solo alla prima generazione, ma anche in quelle successive, “all’infinito”».26 I grandi signori,
volendo devolvere parte delle loro proprietà anche ai figli cadetti, potevano richiedere una
deroga al sovrano e così fondare feudi più piccoli affidati a rami dello stesso casato. In genere
però ai cadetti maschi era interdetto ereditare e il loro destino era spesse volte la carriera delle
armi o quella ecclesiastica; le femmine erano destinate al convento oppure date in sposa ad
altri nobili, anche per costituire alleanze tra i diversi casati.
Sotto i Savoia
Quando ai Gonzaga successero i Savoia, le cose non cambiarono di molto. Il duca, poi re,
piemontese incominciò ad avocare a sé in via preventiva e provvisoria i feudi “sospetti”, concessi dall’ultimo Gonzaga per servigi resigli durante la guerra che gli sarebbe stata fatale.27
Nel 1720 Vittorio Amedeo «proclamò l’avocazione al demanio di tutti quei beni feudali
che per incuria o necessità politiche i principi avevano abbandonato ai vassalli. Il diritto del
demanio di ricuperare i suoi beni senza indennizzo di sorta ai possessori fu applicato con la
maggiore asprezza: i feudatari furono chiamati in giudizio; nelle cause fra il fisco ed i feudatari giudicò un tribunale con l’incarico di respingere le pretese dei privati».28
Lo Stato rientrò quindi in possesso di un’ingente quantità di terre da mettere in vendita,
proprio come già aveva fatto Vincenzo Gonzaga: dall’oro dei forzieri delle famiglie borghesi
sorse una nuova nobiltà, che con disprezzo i nobili di antico lignaggio chiamarono “la nobiltà
del 1722”. Si trattava di commercianti, alti funzionari, professionisti «che a lungo andare finì
per fondersi con la vecchia nobiltà creata nel secolo precedente o derivata da vecchi elementi
del basso medioevo».29 Si stima che in poco più di 70 anni i Savoia «vendettero circa 1300
patenti di nobiltà a una pletora di candidati impazienti», con un conseguente «declassamento
e graduale declino della vecchia nobiltà generica, il cui diritto a occupare una posizione di
privilegio si fondava sulla consuetudine e sull’esibizione di uno stile di vita dai tratti distintivi».30
Le tariffe stabilite in materia di feudalità erano varie e complesse, a seconda del grado di
giurisdizione che si voleva ottenere e del corrispondente titolo nobiliare. Per conseguire l’ereditarietà anche in linea femminile su un feudo stabilito come solo maschile si pretendevano
da 600 lire (signoria) a 1200 lire (marchesato). Per ottenere una maggiore disponibilità si
dovevano sborsare da 1200 a 2400 lire.
26
G. ABBATTISTA, Storia moderna, Roma, Donzelli, 2001, pp. 205-206.
È il caso del feudo di Penango, Cioccaro e Patro, smembrato nel 1704 da Moncalvo e concesso in feudo a
Jean Galbert de Campistron, segretario del re di Francia, che aveva prestato al Gonzaga una forte somma di
denaro per le spese militari. “Congelato” a favore di Vittorio Amedeo II, fu restituito al francese solo nel 1715.
28
F. COGNASSO, I Savoia, Milano, Dall’Oglio, 1971, p. 448.
29
Ibid.
30
A. L. CARDOZA, Patrizi in un mondo plebeo. La nobiltà piemontese nell’Italia liberale, Roma, Donzelli,
1999, p. 10.
27
7
Un feudo ritornato di spettanza erariale veniva riassegnato al migliore offerente, dopo che
la Regia Camera di Conti aveva pubblicato un apposito manifesto con l’elenco dei diritti da
incantarsi.
L’abolizione delle feudalità e un debole ritorno di fiamma
Il vecchio sistema feudale, che affondava le proprie radici giuridiche nella notte del
Medioevo, si rivelava frattanto sempre più inadeguato alle mutate condizioni sociali
dell’Europa settecentesca. Fu la Rivoluzione francese del 1789 a dargli il colpo di grazia. Nei
giorni caldi di quel luglio che aveva visto insorgere la popolazione parigina contro i privilegi
del vecchio regime si giunse a proclamare l’abolizione della feudalità, il 4 agosto. «Si aboliscono le colombaie, le riserve di caccia, le prestazioni dovute al signore, le giurisdizioni feudali e quel poco che resta della servitù della gleba».31
Il risentimento popolare contro le prerogative feudali si risolse spesso in atti sconsiderati e
furibondi che portarono alla distruzione di stemmi antichi alzati dai nobili nei loro possedimenti, dispersione di archivi, scempio di antichità e opere d’arte. Questo spirito egalitario
porterà presto a definire la feudalità come un «governo dispotico e arbitrario di potenti,
signori e nobili, che fonda la sua origine sul diritto del più forte».32
I fermenti rivoluzionari seppure un po’ in sordina si fecero sentire anche nel vicino Piemonte. Qui il debole re Carlo Emanuele IV, stremato dall’appena conclusa prima guerra
d’invasione napoleonica e da pericolose insorgenze popolari esacerbate da condizioni economiche quasi al collasso, dovette fare buon viso a cattiva sorte e adeguarsi. Il 27 luglio 1797,
proprio nei giorni in cui tutto lo Stato continentale era scosso da tumulti di piazza e ad Asti
veniva proclamata la repubblica giacobina, il sovrano firmò un editto con il quale aboliva i
diritti e le prerogative feudali, riducendone i redditi all’allodio, proibendo anche l’istituzione
di fedecommessi e primogeniture. «Abbiamo rilevato» diceva il Re «che le comuni doglianze
cadono sulli dritti feudali e ci siamo determinati a provvedervi prontamente, sicuri che gli
stessi feudatari per l’antico loro attaccamento all’interesse dello Stato sono disposti a farne di
buon animo un sacrifizio necessario al massimo bene della pubblica tranquillità».
L’allodio era un titolo di proprietà personale individuale non ereditaria, non derivante
quindi da un’investitura feudale ma da un semplice atto di acquisto. Si contrappone perfettamente al concetto di feudo o beneficio: la principale differenza rispetto a questo è il fatto che
le terre allodiali sono libere da ogni vincolo verso terzi (il signore da cui il feudatario era
stato investito).
Un bene allodiale poteva essere tranquillamente alienato, ma restava collettabile, cioè soggetto all’imposizione fiscale, mentre i beni feudali ne erano esenti.33
Anche la legislazione “francese” confermò l’abolizione di qualunque forma di feudalità,
comprese le bannalità e senza alcun diritto di indennizzo, con decreto del Governo Piemon-
31
A. CASTELOT, 1789-1795: cronaca della Rivoluzione francese, Milano, Mursia, 1989, p. 95.
G. DE SAINT FARGEAU, op. cit., p. 287.
33
Cfr. L. VIGNA - V. ALIBERTI, Dizionario di diritto amministrativo, v. I, Torino, Favale, 1840, ad vocem “allodio”. Il termine deriva da due parole barbariche e significa “piena proprietà”; nell’antica società germanica i
possessori di beni allodiali, privilegiati rispetto agli altri, erano detti “arimanni”, cioè “uomini liberi”, per distinguerli dai vassalli. Gradualmente però l’antico allodio si trasformò in beneficio e in feudo, perdendo le primitive
caratteristiche di libero possesso.
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tese in data 12 ventoso anno VII (2 marzo 1799).34
Tuttavia, al ritorno dei Savoia sul trono nel 1814 tutte le disposizioni repubblicane vennero abolite e tornarono in vigore le vecchie Regie Costituzioni: così, anche se non furono
ristabiliti i diritti feudali soppressi una ventina di anni prima dal fratello dell’attuale sovrano,
tuttavia si consentì nuovamente l’istituzione di fedecommessi e primogeniture e furono
restaurate le bannalità non coattive.35 Sembrò, per la verità, una conferma sebbene moderata
delle vecchie forme di feudalità. «Non vollero il principe e i ministri piemontesi», scrisse uno
storico alquanto critico, «smettere in tutto il brutto vezzo di accarezzare i privilegi feudali;
ché anzi, a malgrado di tante leggi stampate, pubblicate e con magnifiche lodi esaltate, spesso
in vantaggio dei nobili provvedevano in via di grazia sovrana con le regie patenti ed i biglietti
regii. Veramente questo Piemonte è la terra classica delle contraddizioni!».36
«Il ripristino ebbe, tuttavia, vita e fortune limitate, anche in considerazione del fatto che le
nuove norme non ebbero in alcun caso valore retroattivo e, di fronte alla notevole consistenza
dei beni primogeniali passati di mano»,37 non produssero effetti apprezzabili nella suddivisione della proprietà fondiaria.
Parecchi ex feudatari, per la verità, intrapresero azioni legali per ottenere indennizzi a
fronte dell’abolizione dei diritti feudali: alcuni tentativi andarono a buon fine, ma altri, come
quello del conte Messier nei confronti del Comune di Grana, fallirono abbastanza clamorosamente.
Sarà solo nel 1851 che si aboliranno definitivamente in Piemonte sia le bannalità (24 febbraio) che i maggioraschi e le primogeniture (18 febbraio), ponendo fine a una serie di abusi
che ormai stridevano con l’avanzare del progresso sociale ed economico della nazione e con
l’innegabile principio di uguaglianza di tutti gli individui.
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Appena importata in Italia, l’amministrazione francese (sia quella provvisoria del 1798 che la definitiva iniziata dal giugno 1800 e durata oltre dieci anni) introdusse un particolare calendario “repubblicano”, completamente sfasato rispetto a quello tradizionale, assai complicato da usare e come tale del tutto sgradito ai nuovi
sudditi. I 12 mesi erano indicati con riferimento alle condizioni meteorologiche o ai lavori agricoli caratteristici.
Analogamente si introdusse la cosiddetta “ora di Francia”, sistema di scansione della giornata che iniziava alla
mezzanotte; in precedenza si adoperava un antichissimo sistema (“ora d’Italia”) derivante dal calendario
romano, secondo il quale la giornata iniziava al declinare del dì, circa le attuali sei di sera.
35
La materia fu regolata dai decreti 21 maggio 1814 e 28 novembre 1817.
36
G. MARTINI, Storia d’Italia continuata da quella del Botta dall’anno 1814 al 1822, t. II, Milano, Libreria Brigola, 1861, p. 60.
37
G. MOLA DI NOMAGLIO, op. cit, p. 30.
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