§ 7 Il metodo fenomenologico della ricerca [1] Con la caratterizzazione provvisoria dell’oggetto tematico della ricerca (essere dell’ente o senso dell’essere in generale) sembra anche già esser predelineato il suo metodo. Il distacco (Abhebung) dell’essere dall’ente e l’esplicazione dell’essere stesso è compito dell’ontologia. Il metodo dell’ontologia resta altamente problematico finché si prende consiglio dalle ontologie storicamente tramandate o da tentativi analoghi. Poiché nel corso di questa indagine il termine ontologia è usato in senso formalmente ampio, viene a chiudersi da se stessa la via di un chiarimento del metodo mediante l’esame della sua storia. [2] Usando il termine ontologia non si vuole proporre una disciplina filosofica determinata, connessa alle altre. Non si tratta affatto di assolvere i compiti di una disciplina precostituita; al contrario, si tratta semmai di sviluppare una disciplina a partire dalle necessità oggettive di determinate domande e dal modo di trattazione richiesto dalle «cose stesse». [3] Con la domanda direttiva circa il senso dell’essere, l’indagine si trova di fronte al problema fondamentale della filosofia come tale. Il modo di trattazione di questa domanda è quello fenomenologico. Ma con ciò il nostro lavoro non si subordina né a un «punto di vista» né a una «corrente»; perché la fenomenologia non è né l’una né l’altra cosa, né può mai divenire tale, almeno finché comprenda se stessa. L’espressione «fenomenologia» significa primariamente un concetto di metodo [Methodenbegriff, lett.: “concetto-metodo”]. Essa non caratterizza il che-cosa reale [sachhaltige Was] degli oggetti della ricerca filosofica, ma il come [Wie] di quest’ultima. Quanto più genuinamente un concetto di metodo incide realmente, e quanto più ampiamente esso determina l’andamento fondamentale di una scienza, tanto più originariamente esso si radica nel confronto con le cose stesse, e tanto più si allontana da ciò che chiamiamo appigli tecnici, di cui ce ne sono molti anche nelle discipline teoriche. [4] Il termine «fenomenologia» esprime una massima che può esser formulata così: «Alle cose stesse!» e ciò in contrapposizione ad astratte costruzioni, a casuali ritrovati, all’assunzione di concetti solo apparentemente giustificati, a false domande che sovente si trasmettono da una generazione all’altra come «problemi». Si potrebbe tuttavia obiettare che si tratta di una massima affatto ovvia e che esprime soltanto il principio di ogni conoscenza scientifica: non si vede perché un’ovvietà come questa dovrebbe comparire espressamente nella qualificazione di una particolare ricerca. In realtà si tratta di un’«ovvietà» a cui vogliamo avvicinarci, nella misura in cui ciò è rilevante per il chiarimento del procedere di questo trattato. Esporremo soltanto il concetto provvisorio [Vorbegriff, lett.: „pre-concetto“] di fenomenologia. [5] L’espressione è composta di due parti: fenomeno e logos. L’uno e l’altro derivano da termini greci: φαινόμενον e λόγοϛ. Preso superficialmente, il termine fenomenologia è composto in modo 1 analogo a teologia, biologia, sociologia, che noi rendiamo solitamente con scienza di Dio, della vita, della società. In tal caso, fenomenologia verrebbe a significare scienza dei fenomeni. Il concetto provvisorio [Vorbegriff] di fenomenologia deve essere costruito attraverso la caratterizzazione di ciò che si intende coi due termini che lo compongono: «fenomeno» e «logos», e attraverso la fissazione del senso del nome da essi composto. La storia della parola stessa, che nasce presumibilmente nella scuola di Wolff, non ha qui importanza. A - Il concetto di fenomeno [6] L’espressione greca φαινόμενον, a cui risale il termine «fenomeno», deriva dal verbo φαίνεσθαι che significa manifestarsi [sich zeigen]; φαινόμενον significa quindi ciò che si manifesta, il manifestantesi [das Sichzeigende], il manifesto [das Offenbare]; φαίνεσθαι stesso è una forma verbale medio-passiva di φαίνω, illuminare, porre in chiaro; φαίνω deriva dalla radice φα come φῶϛ, la luce, il chiaro, ossia ciò in cui qualcosa può manifestarsi, può rendersi visibile in se stesso. Quale significato dell’espressione «fenomeno», è da tener fermo: ciò-che-si-manifesta-in-se-stesso- [das Sich-an-ihmselbst-zeigende] il manifesto [das Offenbare]. I φαινόμενα, i «fenomeni», sono dunque la totalità [Gesamtheit] di ciò che sta alla luce del giorno oppure che può essere portato alla luce, ciò che i greci a volte identificarono [identifizierten, lett.: “resero identico”] semplicemente con τὰ ὄντα (l’ente). L’ente può dunque manifestarsi da se stesso in maniere diverse, a seconda del rispettivo modo di accesso a esso. Si dà persino la possibilità che l’ente si manifesti come ciò che esso in se stesso non è. In questo manifestarsi l’ente «pare così come…». Tale manifestarsi noi lo chiamiamo sembrare [Scheinen, “parere"]. Così anche in greco l’espressione φαινόμενον, fenomeno, ha il significato di ciò che sembra in un determinato modo, «il parvente» [das »Scheinbare«], la «parvenza» [der »Schein«]; φαινόμενον ἀγαθόν vuol dire un bene che pare essere tale ma che, in «realtà», non è ciò per cui si spaccia. Per una più ampia comprensione del concetto di fenomeno tutto sta nel vedere come ciò che è nominato nei due significati di fenomeno («fenomeno» come ciò che si manifesta e «fenomeno» come parvenza) si connetta strutturalmente. Soltanto perché qualcosa, in base al suo senso, pretende di manifestarsi, cioè di esser fenomeno, esso può manifestarsi come qualcosa che esso non è, cioè può «solo sembrare così come…». In questo significato di φαινόμενον («parvenza») è già incluso il significato originario (fenomeno: il manifesto) come fondante il secondo. All’espressione «fenomeno» assegniamo terminologicamente il significato positivo e originario di φαινόμενον e distinguiamo fenomeno da parvenza, considerando la seconda come modificazione privativa del primo. Entrambi i termini esprimono però qualcosa [was] che, innanzi tutto, 2 non ha nulla a che fare con ciò che si usa chiamare «apparizione» [Erscheinung] o addirittura «mera apparizione». [7] In questo senso si parla dei «sintomi patologici» [»Krankheitserscheinungen«]. Si intendono eventi del corpo che si manifestano [sich zeigen] e che, nel manifestarsi come questi manifestantisi, fanno da «indizi» di qualcosa che a sua volta non si manifesta. L’insorgere di tali eventi, il loro manifestarsi, è associata alla semplice presenza di disturbi che non si manifestano. Apparizione come apparizione «di qualcosa» non significa dunque affatto: manifestare se stesso, ma: annunciarsi di qualcosa che non si manifesta, mediante qualcosa che si manifesta. L’apparire [Erscheinen] è16n un non-manifestarsi. Ma questo «non» non deve assolutamente venir confuso col «non» privativo che come tale caratterizza la struttura della parvenza. Ciò che non si manifesta in quel modo, in cui l’apparente [das Erscheinende] non si manifesta, non può mai neppure sembrare [scheinen]. Indicazioni, presentazioni (Darstellungen), sintomi, simboli, per quanto molto diversi fra di loro, hanno tutti questa struttura formale fondamentale dell’apparire (Erscheinen). [8] Benché l’«apparire» (»Erscheinen«) non sia mai un manifestarsi nel senso del fenomeno, esso è tuttavia possibile soltanto sul fondamento di un manifestarsi di qualcosa. Ma questo manifestarsi che assieme rende possibile l’apparire, non è l’apparire stesso. Apparire è: annunciarsi mediante qualcosa che si manifesta. Quando allora si dice: con la parola «apparizione» (Erscheinung) rinviamo a qualcosa in cui qualcosa appare senza essere esso stesso apparizione, con ciò non abbiamo delimitato (umgrenzt, “circoscritto”) il concetto di fenomeno, lo abbiamo bensì presupposto; e tale presupposizione rimane però occultata [verdeckt], perché in questa determinazione di «apparizione» [»Erscheinung«] l’espressione «apparire» (»erscheinen«) è usata in duplice senso. Ciò in cui qualcosa «appare», significa ciò in cui qualcosa si annuncia, ovvero non si manifesta; mentre nel discorso [Rede]: «senza essere esso stesso ‘apparizione’», la parola «apparizione» significa il manifestarsi. Ma questo manifestarsi appartiene in modo essenziale a quell’«in cui» (Worin) entro il quale qualcosa si annuncia. Dunque, i fenomeni non sono mai apparizioni, anche se ogni apparizione è dipendente da fenomeni. Se si definisce il fenomeno con l’ausilio di un concetto ancora oscuro di «apparizione», tutto è messo sottosopra e una «critica» della fenomenologia su queste basi diviene una impresa ben stramba. [9] La stessa espressione «apparizione» può, di nuovo, avere un significato duplice: da un lato, [può significare] l’apparire nel senso dell’annunciarsi come non manifestarsi, e dall’altro l’annunciante stesso che, nel suo manifestarsi, indica [anzeigt] qualcosa di non manifestantesi. E, infine, il termine apparire può essere usato per significare il senso genuino di fenomeno come manifestarsi. Se si designano questi tre diversi stati di cose con il termine «apparizione», la confusione diventa allora inevitabile. 3 [10] Ma la confusione è in più aggravata in modo essenziale dal fatto che «apparizione» può assumere un altro significato ancora. Se l’annunciante che nel suo manifestarsi indica [anzeigt] il nonmanifesto è inteso come qualcosa che sorge dal non-manifesto stesso, da questo si irradia, in modo tale che il non-manifesto sia concepito come non mai manifestabile per essenza, in questo caso apparizione significa produzione o prodotto, tale però da non esprimere l’essere autentico del produttore: apparizione nel senso di «semplice apparizione». L’annunciante così prodotto manifesta certamente se stesso, ma in modo tale che, in quanto irradiazione di ciò che annuncia, lo vela costantemente in se stesso. Ma questo velante non manifestare non è, di nuovo, parvenza. Kant usa il termine Erscheinung in questa combinazione di significati. Erscheinungen sono per lui, da un lato, gli «oggetti dell’intuizione empirica», ciò che in questa si manifesta. Questo manifestantesi (fenomeno nel senso genuino e originario) è, nel contempo, «apparizione» come annunciante irradiazione di qualcosa che nell’apparizione si nasconde. [11] Poiché per l’«apparizione», nel significato dell’annunciarsi mediante un manifestantesi, è costitutivo un fenomeno, ma questo può però modificarsi in parvenza (Schein), anche l’apparizione può diventare una semplice parvenza. In una particolare illuminazione un individuo può parere tale da avere le guance rosse: questo rossore manifestantesi può esser preso per l’annuncio della presenza di febbre, la quale, a sua volta, indicherebbe, di nuovo, un’indisposizione dell’organismo. [12] Fenomeno, il manifestarsi-in-se-stesso, significa un modo di incontro eminente (ausgezeichnet) di qualcosa. Apparizione [Erscheinung], invece, significa un essente rapporto di rimando nell’ente stesso, tale per cui il rimandante (l’annunciante) è in grado di assolvere la sua funzione possibile solo se si manifesta in se stesso, se è «fenomeno». Apparizione (Erscheinung) e parvenza (Schein) sono essi stessi, in modo diverso, fondati nel fenomeno. La disorientante molteplicità di «fenomeni» che vanno sotto il nome di fenomeno, parvenza, apparizione, semplice apparizione, può essere riordinata solo se è fin dall’inizio compreso il concetto di fenomeno: il manifestantesiin-se-stesso. [13] Se, in questa accezione del concetto di fenomeno, resta indeterminato quale ente venga chiamato in causa come fenomeno, e se resta in generale indeciso se il manifestantesi è ogni volta un ente o un carattere d’essere dell’ente, allora non si è raggiunto che il concetto formale di fenomeno. Quando, però, si comprende il manifestantesi, come ad esempio in Kant, nel senso dell’ente a cui si accede mediante l’intuizione empirica, allora in questo caso il concetto formale di fenomeno giunge ad una applicazione legittima [rechtmäßigen Anwendung]. Fenomeno in questo uso soddisfa [erfüllt] il concetto ordinario di fenomeno. Tale concetto ordinario non è però il concetto fenomenologico di fenomeno. Nell’orizzonte della problematica kantiana, quel che si intende fenomenologicamente per fenomeno può 4 essere illustrato (facendo riserva per altre differenze) dicendo: ciò che nelle apparizioni (Erscheinungen), nel fenomeno in senso ordinario, ogni volta si manifesta preliminarmente e contemporaneamente, benché non tematicamente, può essere portato tematicamente al manifestarsi: e questo così-manifestantesi-in-se-stesso (le «forme dell’intuizione») sono i fenomeni della fenomenologia. Giacché è evidente che spazio e tempo debbono potersi manifestare a questo modo, ossia debbono poter divenire fenomeni, se Kant, affermando che lo spazio è l’in-cui [Worinnen] apriori di un ordine, pretende di formulare una asserzione trascendentale fondata nella cosa stessa [sachbegruendete Aussage]. [14] Ma se, ora, il concetto fenomenologico di fenomeno va compreso in quanto tale, prescindendo dal modo cui il manifestantesi possa più da vicino venir determinato, allora, indispensabile presupposto è il coglimento evidente [Einsicht] del senso del concetto formale di fenomeno e della sua applicazione legittima in un significato ordinario. Prima di poter fissare il concetto preliminare [Vorbegriff] di fenomenologia, occorre delimitare il significato di λόγοϛ, affinché sia chiaro in quale senso la fenomenologia possa in generale essere una «scienza di» fenomeni. B - Il concetto di logos [15] In Platone e Aristotele il concetto di λόγοϛ è plurivoco, e precisamente in modo tale che i diversi significati vanno uno da una parte, uno dall’altra, senza essere guidati positivamente da un significato fondamentale [Grundbedeutung]. Questa è di fatto soltanto apparenza [Schein], che si mantiene finché l’interpretazione [Interpretation] è in grado di afferrare non adeguatamente il significato fondamentale nel suo contenuto primario. Se noi diciamo: il significato fondamentale [Grundbedeutung] di λόγοϛ è discorso [Rede], allora questa traduzione letterale diventerà pienamente valida soltanto muovendo dalla determinazione di ciò che discorso stesso significa. La più tarda storia semantica [Bedeutungsgeschichte] della parola λόγοϛ e, soprattutto, le diverse e arbitrarie interpretazioni della filosofia successiva occultano [verdecken] costantemente il significato autentico [eigentliche Bedeutung] di discorso, che è manifesto in modo abbastanza aperto. Λόγοϛ è «tradotto», cioè sempre interpretato, come ragione, giudizio, concetto, definizione, fondamento, relazione. Ma come può «discorso» modificarsi così che λόγοϛ significhi tutto ciò che è stato enumerato, e per di più nell’ambito di un uso linguistico di carattere scientifico? Anche quando si intende λόγοϛ nel senso di asserzione, l’asserzione, però, nel senso di «giudizio», con questa traduzione apparentemente legittima, il significato fondamentale [Grundbedeutung] può venir mancato [verfehlt], specialmente se giudizio è concepito nel senso di qualcuna delle attuali «teorie del giudizio». Λόγοϛ non significa e comunque non significa 5 primariamente giudizio, se si comprende con ciò un «collegare» o un «prender posizione» (riconoscere o respingere). [16] Λόγοϛ, in quanto discorso, significa piuttosto qualcosa come δηλοῦν, render manifesto ciò di cui, nel discorso, «il discorso» è. Aristotele ha esplicato più precisamente questa funzione del discorso come ἀποφαίνεσθαι (cfr. de interpretatione cap. 1-6. Inoltre Met. Z. 4 e Eth. Nic. Z.) Il λόγοϛ fa vedere (φαίνεσθαι) qualcosa, ovvero ciò su cui il discorso verte; e precisamente lo fa vedere per i discorrenti (forma verbale mediopassiva) ossia per coloro che discorrono fra di loro. Il discorso «lascia vedere» ἀπὸ…, a partire da ciò stesso di cui si discorre. Nel discorso (ἀπόφανσιϛ), nella misura in cui esso è genuino, ciò che [was] è detto deve esser attinto muovendo da ciò intorno a cui si discorre, in modo che la comunicazione discorsiva, in ciò che è detto, renda manifesto e come tale accessibile agli altri ciò intorno a cui discorre. Questa è la struttura del λόγοϛ in quanto ἀπόφανσιϛ. Questo modo del render manifesto nel senso del far vedere esibendo. La preghiera (εὐχή), ad esempio, è anch’essa un render manifesto, ma in un altro modo. [17] Nel compimento [Vollzug] concreto il discorrere (far vedere) ha il carattere del parlare, della verbalizzazione vocale in parole. Il λόγοϛ è φωνή, e precisamente φωνή μετὰ φαντασίαϛ, verbalizzazione vocale in cui qualcosa è ogni volta visto. [18] Ed è soltanto perché la funzione del λόγοϛ come ἀπόφανσιϛ consiste nel far vedere qualcosa mostrando, che il λόγοϛ può avere la forma strutturale della σύνθεσιϛ. Sintesi non significa qui collegamento e connessione di rappresentazioni, manipolazione di eventi psichici, nei cui riguardi nasca poi il «problema» della concordanza di essi, in quanto interni, coi fatti fisici esterni. Qui il συν ha un significato prettamente apofantico e significa: lasciar vedere qualcosa nel suo essere insieme a qualcosa, lasciar vedere qualcosa in quanto qualcosa. [19] E di nuovo, poiché il λόγοϛ è un lasciar vedere, per questo esso può essere vero o falso. Anche qui tutto sta nel liberarsi da un concetto artificioso di verità nel senso di una «concordanza». Questa idea non è per nulla l’elemento primario del concetto di ἀλήθεια. L’«esser vero» del λόγοϛ, in quanto ἀληθεύειν, significa: nel λέγειν, in quanto ἀποφαίνεσθαι, trarre fuori l’ente, di cui è il discorso, dal suo esser nascosto (Verborgenheit) e lasciarlo vedere come non nascosto [Unverborgenes] (ἀληθέϛ), scoprirlo [entdecken, lett.: “disoccultarlo”]. Corrispondentemente l’«esser falso», ψεύδεσθαι, vuol dire ingannare nel senso di occultare [verdecken]: porre (nel modo del lasciar vedere) qualcosa dinanzi a qualcosa e spacciarla in quanto qualcosa che essa non è. [20] Poiché però «verità» ha questo senso e il λόγοϛ è un modo determinato del lasciar vedere, il λόγοϛ non può affatto esser considerato il «luogo» primario della verità. Quando, come oggi ormai tutti fanno, la verità è definita come ciò che appartiene «propriamente» al giudizio, facendo per di più risalire questa tesi ad Aristotele, si cade in un duplice errore: perché il richiamo ad Aristotele è infondato e 6 perché, soprattutto, il concetto greco di verità è frainteso. «Vero» in senso greco, certo più originariamente del λόγοϛ suddetto, è la αἴσθησιϛ, la diretta apprensione sensibile di qualcosa. Poiché una αἴσθησιϛ mira ogni volta ai propri ἴδια, cioè all’ente genuinamente accessibile solo mediante essa e per essa (ad esempio, il vedere ai colori), l’apprensione è sempre vera. Il che significa: il vedere scopre sempre colori, l’udire scopre sempre suoni. «Vero», nel senso più puro e originario, cioè esclusivamente scoprente, cosicché non possa mai occultare, è il puro νοεῖν, l’apprendere, direttamente osservante, delle più semplici determinazioni d’essere dell’ente come tale. Questo νοεῖν non può mai occultare, non può mai esser falso; potrà, tutt’al più, restare un non apprendere, un ἀγνοεῖν, non essere sufficiente all’accesso diretto, adeguato. [21] Ciò che non ha più la forma di attuazione [Vollzugsform] del puro lasciar vedere, ma che, nel mostrare, ricorre di volta in volta a qualcos’altro e fa così vedere qualcosa in quanto qualcosa, assume, con questa struttura sintetica, la possibilità dell’occultare [Verdecken]. La «verità del giudizio», comunque, non è che il contrario di questo occultare [Verdecken], cioè un fenomeno di verità fondato per più aspetti. Realismo e idealismo, con pari fondamentalità, mancano il senso del concetto greco di verità, in base al quale soltanto è possibile comprendere la possibilità di qualcosa come una «dottrina delle idee» quale conoscenza filosofica. [22] Proprio perché la funzione del λόγοϛ sta nel diretto lasciar vedere qualcosa, nel lasciar apprendere l’ente, il λόγοϛ può significare ragione. E proprio perché, di nuovo, λόγοϛ viene usato non soltanto nel significato di λέγειν ma ugualmente in quello di λεγόμενον (il mostrato [das Aufgezeigte] come tale), e poiché questo è null’altro che l’ὑποκεί- μενον (ciò che in ogni interpellare e discutere sta già ogni volta, come semplicemente presente, a fondamento), il λόγοϛ, in quanto λεγόμενον, significa fondamento [Grund], ratio. E infine, poiché λόγοϛ in quanto λεγόμενον può anche significare ciò che è chiamato in questione in quanto qualcosa che diviene visibile mediante la sua relazione a qualcosa, mediante la sua «relazionalità», λόγοϛ assume il significato di relazione e rapporto. [23] Questa interpretazione del «discorso apofantico» può bastare per il chiarimento della funzione primaria del λόγοϛ. C - Il concetto preliminare [Vorbegriff] di fenomenologia [24] Tenendo concretamente presente il prodotto dell’interpretazione di «fenomeno» e di «logos», salta subito agli occhi l’intima connessione tra ciò che è inteso con questi due termini. L’espressione fenomenologia può essere formulata grecamente: λέγειν τὰ φαινόμενα; λέγειν però significa ἀποφαίνεσθαι. Fenomenologia significa allora 7 ἀποφαίνεσθαι τὰ φαινόμενα: lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso. Questo è il senso formale dell’indagine che si dà il nome di fenomenologia. Ma in tal modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: «Alle cose stesse!» [25] Quanto al suo senso, perciò, il termine fenomenologia è diverso da designazioni come teologia e simili. Queste denotano gli oggetti della relativa scienza nel loro rispettivo contenuto reale [Sachhaltigkeit]. «Fenomenologia» non denota l’oggetto delle sue ricerche, né il termine caratterizza il contenuto reale di tali ricerche. La parola informa esclusivamente sul come [Wie] della esibizione e della trattazione del che cosa [Was] deve venir trattato in questa scienza. Scienza «dei» fenomeni significa: un afferramento dei propri oggetti tale che tutto ciò che di essi è in discussione sia trattato in esibizione [Aufweisung] diretta ed in giustificazione [Ausweisung] diretta. Il medesimo significato ha l’espressione, sostanzialmente tautologica, «fenomenologia descrittiva». Qui descrizione non ha affatto il significato di un procedimento del genere di quello impiegato, ad esempio, dalla morfologia botanica. L’espressione ha di nuovo un senso proibitivo: tener lontano ogni determinare non giustificante [nicht ausweisendes Bestimmen]. Il carattere della descrizione stessa, il senso specifico del λόγοϛ, potrà esser fissato prima di tutto soltanto muovendo dalla «realtà» [Sachheit, lett.: “cosità”] di ciò che deve essere «descritto», che deve cioè essere condotto a determinatezza scientifica nel modo di incontro di fenomeni. Formalmente, il significato del concetto formale e ordinario di fenomeno autorizza a chiamare fenomenologia ogni esibizione dell’ente così com’esso si manifesta in se stesso. [26] In riferimento a che cosa il concetto formale di fenomeno deve ora essere deformalizzato in concetto fenomenologico, e come questo si distingue dal concetto ordinario? Che cos’è [Was] ciò che la fenomenologia deve «lasciar vedere»? Che cos’è [Was] ciò che, in un senso eminente [in einem ausgezeichneten Sinne], deve venir chiamato «fenomeno»? Che cosa [Was], per sua essenza, è necessariamente tema di una esibizione esplicita [ausdrueckliche Aufweisung]? Manifestamente, ciò che innanzi tutto e per lo più non si manifesta, ciò che, rispetto a ciò che innanzi tutto e per lo più si manifesta, è nascosto [verborgen], ma è al contempo ciò che appartiene essenzialmente a ciò che innanzitutto e per lo più si manifesta, in modo tale da costituirne il senso o fondamento. 17n. [27] Ma ciò che [Was], in un senso eccellente [in einem ausnehmenden Sinne], resta nascosto [verborgen] o ricade di nuovo nell’occultamento [Verdeckung] o si manifesta solo in modo «distorto» [»verstellt«], non è questo o quell’ente, ma, come le considerazione precedenti hanno mostrato, l’essere dell’ente. Esso può essere occultato così ampiamente che esso cade nell’oblio e la domanda su di lui e sul suo senso viene a mancare. Pertanto, ciò che [Was], in un senso eminente [in einem ausgezeichneten Sinne] esige per il suo più proprio 8 contenuto reale [Sachgehalt] di diventare fenomeno, la fenomenologia lo ha tematicamente «afferrato» quale oggetto. [28] Fenomenologia è modo di accesso a, modo di determinazione giustificante di, ciò che [Was] deve costituire il tema dell’ontologia. Ontologia è possibile soltanto come fenomenologia. Il concetto fenomenologico di fenomeno intende, come manifestantesi, l’essere dell’ente, il suo senso, le sue modificazioni e i suoi derivati. E il manifestarsi [das Sichzeigen] non è un casuale manifestarsi, e nient’affatto qualcosa come apparire [Erscheinen]. L’essere dell’ente non può assolutamente essere qualcosa «dietro» cui stia ancora qualcosa «che non appare». [29] «Dietro» i fenomeni della fenomenologia non c’è essenzialmente nient’altro, ma ciò che deve divenire fenomeno può ben essere nascosto. È proprio perché i fenomeni, innanzi tutto e per lo più, non sono dati, che occorre la fenomenologia. Esser-occultato [Verdecktheit] è il controconcetto [Gegenbegriff] di «fenomeno». [30] I modi del possibile esser-occultato dei fenomeni sono diversi. In primo luogo il fenomeno può esser occultato nel senso che esso è come tale ancora non scoperto. Della sua sussistenza non si ha né conoscenza né ignoranza.13 Ma un fenomeno può essere anche ricoperto [verschüttet]. Sta in ciò: esso era un tempo scoperto, ma ricadde successivamente nell’occultamento. Quest’ultimo può diventare totale; di regola però accade che quel che era prima scoperto risulta ancora visibile, benché solo come parvenza [Schein]. Senonché, quanta parvenza, altrettanto «essere» [Wieviel Schein jedoch, soviel »Sein«]. Questo occultamento nel senso di «distorsione» è il più frequente e il più pericoloso, perché qui le possibilità dell’inganno e dello sviamento sono particolarmente ostinate. Strutture d’essere (e relativi concetti) disponibili, ma velate quanto al loro suolo d’origine [Bodenständigkeit], possono rivendicare il proprio diritto forse all’interno di un «sistema». Grazie alla loro esser costruttivamente agganciate ad un sistema, esse possono spacciarsi per qualcosa di «chiaro», che non ha bisogno di ulteriore giustificazione, e può perciò servire come punto di avvio di un processo deduttivo progrediente. [31] Comunque inteso — nel senso di nascondimento [Verborgenheit], ricoprimento [Verschüttung] o distorsione [Verstellung] — l’occultamento [Verdeckung] ha di nuovo una duplice possibilità. Ci sono occultamenti casuali e occultamenti necessari, cioè tali da radicarsi nel modo di sussistere di ciò che è scoperto. Ogni concetto e principio fenomenologico attinto originariamente è esposto, in quanto asserzione comunicata, alla possibilità della degenerazione [Entartung]. Viene trasmesso in una comprensione vuota, perde il proprio suolo d’origine [Bodenständigkeit] e diventa una tesi astratta [freischwebend, lett.: «sospesa per aria»]. La possibilità dello sclerotizzarsi e del perdere di «presa» di ciò che originariamente l’aveva è insita anche nel lavoro concreto della fenomenologia. E la difficoltà di questa ricerca sta proprio nel renderla critica verso se stessa in un senso positivo. 9 [32] Agli oggetti della fenomenologia, il modo di incontro dell’essere e delle strutture d’essere nel modus del fenomeno deve in primo luogo essere strappato. Perciò, il punto di partenza [Ausgang] dell’analisi, così come l’accesso [Zugang] al fenomeno, e il passaggio [Durchgang] attraverso gli occultamenti predominanti richiedono una peculiare assicurazione metodologica. Nell’idea dell’afferramento e della esplicazione «originari» ed «intuitivi» dei fenomeni c’è proprio il contrario dell’ingenuità di un casuale, «immediato» e pacifico «star a guardare». [33] Sulla base del concetto preliminare [Vorbegriff] di fenomenologia che abbiamo delimitato, possono ora esser fissati nel loro significato anche i termini «fenomenico» e «fenomenologico». «Fenomenico» è detto ciò che [was] nel modo di incontro del fenomeno è dato ed esplicabile; perciò si parla di strutture fenomeniche. Per «fenomenologico» si intende invece tutto ciò che appartiene al modo di esibizione [Aufweisung] e di esplicazione, e ciò che costituisce la concettualità richiesta da questa ricerca. [34] Poiché fenomeno, in senso fenomenologico, è sempre e soltanto ciò che [was] costituisce essere, ma essere è ogni volta essere dell’ente, per giungere a mettere lo scoperto l’essere, c’è prima bisogno di una corretta presentazione dell’ente. Questo si deve parimenti manifestare nella modalità di accesso che è genuinamente propria di esso. In tal modo, diviene fenomenologicamente rilevante il concetto ordinario di fenomeno. Il compito preliminare [Voraufgabe] di un’assicurazione «fenomenologica» dell’ente esemplare come punto di partenza per l’analitica autentica è già sempre predelineato muovendo dal fine di questa analitica stessa. [35] Considerata materialmente [sachhaltig genommen], la fenomenologia è la scienza dell’essere dell’ente: ontologia. Nel corso dei chiarimenti che abbiamo dati circa i compiti dell’ontologia, risultò la necessità di una ontologia fondamentale [Fundamentalontologie], che ha a tema l’ente privilegiato ontologico-onticamente, l’Esserci, in modo da portarsi di fronte al problema cardinale, la domanda sul senso dell’essere in generale.18n Dall’indagine stessa risulterà: il senso metodico della descrizione fenomenologica è l’interpretazione [Auslegung]. Il λόγοϛ della fenomenologia dell’Esserci ha il carattere dell’ἑρμηνεύειν, per il tramite del quale l’autentico senso d’essere e le strutture fondamentali del suo proprio essere vengono resi noti alla comprensione d’essere propria dell’Esserci. La fenomenologia dell’Esserci è ermeneutica nel significato originario della parola, secondo il quale essa designa il lavoro di interpretazione. Poiché però, attraverso lo scoprimento del senso dell’essere e delle strutture fondamentali dell’Esserci in generale, viene prodotto l’orizzonte di ogni indagine ontologica ulteriore concernente l’ente difforme dall’Esserci, questa ermeneutica è «ermeneutica» anche nel senso della elaborazione delle condizioni di possibilità di qualsiasi ricerca ontologica. E infine, poiché l’Esserci vanta il primato ontologico rispetto ad ogni essente (in quanto ente avente la possibilità 10 dell’esistenza), l’ermeneutica, nella sua qualità di interpretazione dell’essere dell’Esserci, acquista un terzo senso specifico (che, filosoficamente parlando, è primario), quello di analitica dell’esistenzialità dell’esistenza. Pertanto in questa ermeneutica, che elabora ontologicamente la storicità dell’Esserci quale condizione ontica della possibilità della storiografia, getta le sue radici ciò che può esser detto «ermeneutica» solo in senso derivato: la metodologia delle scienze storiche dello spirito. [36] L’essere, in quanto tema fondamentale della filosofia, non è un genere dell’ente, e tuttavia riguarda ogni ente. La sua «universalità» è da ricercarsi più in alto. L’essere e la struttura dell’essere si trovano al di sopra di ogni ente e di ogni determinazione possibile di un ente. L’essere è il transcendens puro e semplice.19n La trascendenza dell’essere dell’Esserci è eminente perché in essa hanno luogo la possibilità e la necessità dell’individuazione più radicale. Ogni aprimento dell’essere in quanto transcendens è conoscenza trascendentale. La verità fenomenologica (l’apertura dell’essere) è veritas transcendentalis. [37] L’ontologia e la fenomenologia non sono due diverse discipline che fanno parte della filosofia assieme ad altre. I due termini denotano entrambi la filosofia stessa nel suo oggetto e nel suo procedimento. La filosofia è ontologia universale fenomenologica, muovente dall’ermeneutica dell’Esserci, la quale, in quanto analitica dell’esistenza, 20n ha fissato il capo del filo conduttore di ogni domandare filosofico nel punto da cui tale domandare salta fuori ed in cui è risospinto. [38] Le ricerche che seguono sono state possibili solo sulla base posta da Edmund Husserl, con le cui Ricerche logiche la fenomenologia fece irruzione. Le discussioni del concetto preliminare [Vorbegriff] di fenomenologia indicano che l’essenziale per essa non sta nell’esser realmente effettiva come «corrente» filosofica.21n Più in alto della realtà effettiva sta la possibilità. La comprensione della fenomenologia consiste esclusivamente nell’afferrarla come possibilità.14 [39] Per quanto concerne la goffaggine e la «ineleganza» di espressione delle analisi che seguono, si può aggiungere che un conto è informare sull’ente raccontando, e un altro è cogliere l’ente nel suo essere. Per questa seconda impresa mancano non solo la maggior parte delle parole, ma, prima di tutto, la «grammatica». Se ci è lecito richiamare precedenti analisi sull’essere, impareggiabili quanto al loro livello, si paragonino le sezioni ontologiche del Parmenide di Platone o il quarto capitolo del settimo libro della Metafisica di Aristotele con qualche passo narrativo di Tucidide, e si vedrà quale sforzo inaudito fu richiesto ai greci dai loro filosofi in fatto di formulazioni linguistiche. Quando le forze siano essenzialmente inferiori e, per di più, l’ambito ontologico da esplorare assai più arduo di quello che fu pre-dato ai greci, è inevitabile che crescano anche la prolissità della elaborazione concettuale e la durezza dell’espressione. 11 § 54 Il problema dell’attestazione di una possibilità esistentiva autentica [1] Cercato è un poter-essere autentico dell’Esserci che sia da questo stesso attestato nella sua possibilità esistentiva. Anzitutto occorre che sia questa attestazione stessa a lasciarsi trovare. Se tale attestazione deve «dar ad intendere» all’Esserci esso stesso nella sua esistenza autentica possibile, avrà le proprie radici nell’essere dell’Esserci. L’esibizione fenomenologica di una attestazione di questo genere racchiude perciò in sé la dimostrazione della sua origine dalla costituzione d’essere dell’Esserci. [2] L’attestazione deve dar ad intendere un poter-esser-se-Stesso [Selbstseinkoennen] autentico. Con l’espressione «se-Stesso» [»Selbst«] abbiamo risposto alla domanda intorno al Chi è [Wer] dell’Esserci. L’ipseità [Selbstheit] dell’Esserci fu determinata formalmente come una maniera di esistere e cioè non come un ente semplicemente-presente. Non io stesso [ich selbst], ma il Si-stesso [Man-Selbst] è per lo più il chi è [Wer] dell’esserci. L’esser se-Stesso autentico si determina come una modificazione esistentiva del Si, che è da delimitare esistenzialmente. In che cosa consiste questa modificazione esistentiva e quali sono le condizioni ontologiche della sua possibilità? [3] Con la perdizione dell’Esserci nel Si, tutto è già ogni volta deciso circa il più immediato poter-essere fattizio dell’Esserci, cioè circa i compiti, le regole, le misure, l’urgenza e la portata dell’essere-nelmondo prendente e avente cura. Il cogliere [Ergreifen] queste possibilità d’essere il Si l’ha già da sempre sottratto all’esserci. Il Si ha già sempre esonerato l’Esserci dal cogliere [Ergreifen] queste possibilità di essere. Il Si nasconde perfino il tacito sgravamento che esso compie dalla esplicita scelta di queste possibilità. Resta indeterminato chi «propriamente» [»eigentlich«] scelga. Questo privo di scelta esser presi da nessuno, per il quale l’Esserci è irretito nell’inautenticità, può essere revocato soltanto se l’Esserci, dalla perdizione nel Si, va a appositamente a riprendersi per riportarsi a sé stesso. Senonché, questo andare a riprendere deve avere quel modo di essere per la cui omissione [Versaeumnis, “inosservanza”, “inadempimento”, “mancanza”] l’Esserci si è perduto nell’inautenticità. L’andare a riprendersi [das Sichzurueckholen] dal Si, cioè la modificazione esistentiva del Si-stesso [Man-Selbst] in autentico esser-se-Stesso [Selbstsein], deve compiersi (sich vollziehen) come recuperare [Nachholen] una scelta. Ma recuperare la scelta significa scegliere questa scelta stessa, decidersi per un poter-essere a partire dal proprio se-Stesso. È anzitutto scegliendo la scelta che l’Esserci rende possibile a se stesso il suo autentico poter-essere. [4] Poiché però è perduto nel Si, si deve prima trovare. Per trovarsi in generale, deve venir «mostrato» a lui stesso nella sua possibile autenticità. L’Esserci ha bisogno dell’attestazione di un poter-esserese-stesso, che esso ogni volta già è secondo la possibilità. 12 [5] Nella seguente interpretazione [Interpretation] si pretende che una siffatta attestazione sia quel che all’autointerpretazione quotidiana [alltaegliche Selbstauslegung] dell’esserci è noto come voce della coscienza morale [Stimme des Gewissens]. Che il «fatto» [Tatsache] della coscienza morale sia contestato, che la sua funzione di istanza per l’esistenza dell’Esserci sia diversamente valutata, che ciò che «la coscienza morale dice» sia interpretato in vari modi, dovrebbe indurci a rigettare questo fenomeno se non fosse che proprio la «dubbiosità» [»Zweifelhaftigkeit«] di questo fatto [Faktum], ossia dell’interpretazione di esso, non stesse proprio a dimostrare che ci troviamo innanzi a un fenomeno originario dell’Esserci. L’analisi che segue pone la coscienza morale nella progettazione [Vorhabe] tematica di una indagine puramente esistenziale con intento ontologicofondamentale. [6] Innanzi tutto bisogna ripercorrere la coscienza morale quanto ai suoi fondamenti e alle sue strutture esistenziali e renderla visibile come fenomeno dell’Esserci, tenendo ben ferma la costituzione d’essere di questo ente finora chiarita. L’analisi ontologica della coscienza morale così impostata precede ogni descrizione psicologica delle «esperienze vissute» della coscienza morale e la loro classificazione, ed è estranea a ogni «spiegazione» biologica, cioè a ogni dissolvimento del fenomeno. Ma non minore è la sua distanza da ogni spiegazione della coscienza morale di natura teologica e anche da ogni assunzione di questo fenomeno come base per la dimostrazione dell’esistenza di Dio o di una coscienza «immediata» di Dio [Gottesbewusstsein]. [7] Tuttavia, anche in questa indagine limitata della coscienza morale, il suo risultato non dovrà né esser sopravvalutato, né fatto oggetto di rivendicazioni distorte e così sminuito. La coscienza morale, in quanto fenomeno dell’Esserci, non è un fatto (Tatsache) accidentale e semplicemente-presente. Questo fenomeno «è» soltanto nel modo di essere dell’Esserci e si dà a conoscere come fatto (Faktum) sempre e solo con e nell’esistenza fattizia [faktischen Existenz]. L’esigenza di una «prova empirico-induttiva» della «fattualità» (»Tatsaechlichkeit«) della coscienza morale e della legittimità della sua «voce» riposa su un stravolgimento ontologico del fenomeno. Cade in questo stravolgimento anche ogni critica «altezzosa» della coscienza morale che veda in essa un evento occasionale e non un «fatto (Tatsache) universalmente noto e constatabile». Il fatto (Faktum) della coscienza morale in quanto tale non si lascia sottoporre a prove e controprove di questo genere. Il che non attesta affatto una sua manchevolezza, ma è semplicemente l’indice della sua difformità ontologica dalla semplicepresenza nel mondo-ambiente. [8] La coscienza morale dà ad intendere «qualcosa», essa dischiude (erschliesst, “rende accessibile”). Da questa caratterizzazione formale scaturisce la prescrizione di riprendere il fenomeno nella schiusura (Erschlossenheit, “accessibilità”) dell’Esserci. Questa costituzione fondamentale dell’ente che noi stessi di volta in volta siamo, è costituita dalla situazione emotiva, dalla comprensione, dalla deiezione 13 e dal discorso. L’analisi più approfondita della coscienza morale la rivela come chiamata [Ruf]. Il chiamare [Rufen] è un modo del discorso [Rede]. La chiamata della coscienza morale [Gewissensruf] ha il carattere del richiamo [Anruf] dell’Esserci al suo più proprio poter-essere-se-stesso e ciò nel modo dell’incitamento [Aufruf] al suo più proprio essere-colpevole. [9] Questa interpretazione [Interpretation] esistenziale è necessariamente lontana dalla comprensibilità ontica quotidiana, benché ponga davanti [herausstellt, lett.: “produca”] i fondamenti ontologici di ciò che l’interpretazione ordinaria della coscienza morale, entro certi limiti, ha sempre compreso e concettualizzato sotto forma di «teoria» della coscienza morale. L’interpretazione esistenziale ha bisogno perciò di essere messa alla prova [Bewährung], mediante una critica dell’interpretazione ordinaria della coscienza morale. Muovendo dal fenomeno posto davanti [lett.: “prodotto”], si potrà stabilire in che misura esso attesta un poter-essere autentico dell’Esserci. Alla chiamata della coscienza morale corrisponde un possibile sentire (Hören). La comprensione del richiamo [Anrufverstehen] si rivela come un voler-aver-coscienza-morale. Ma in questo fenomeno sta quel cercato scegliere esistentivo della di scelta di se-Stesso che noi, corrispondentemente alla sua struttura esistenziale, chiamiamo decisione (Entschlossenheit “risolutezza”]. Con ciò è data l’articolazione dell’analisi di questo capitolo: i fondamenti ontologicoesistenziali della coscienza morale (§ 55); il carattere di chiamata della coscienza morale (§ 56); la coscienza morale come chiamata della Cura (§ 57); comprensione del richiamo e colpa (§ 58); l’interpretazione esistenziale e l’interpretazione ordinaria della coscienza morale (§ 59); la struttura esistenziale del poter-essere autentico attestato dalla coscienza morale (§ 60). § 55 I fondamenti ontologico-esistenziali della coscienza morale [1] L’analisi della coscienza morale prende avvio da un reperto indifferente di questo fenomeno: che essa, in qualche modo, dà ad intendere qualcosa. La coscienza morale dischiude [erschließt, “apre”, “rende accessibile”] e appartiene perciò alla cerchia dei fenomeni esistenziali che costituiscono l’essere del Ci in quanto apertura (Erschlossenheit, “accessibilità”).142 Le sue strutture più universali, cioè la situazione emotiva, la comprensione, il discorso e la deiezione, sono già state dispiegate. La collocazione della coscienza morale in questo complesso fenomenico non è un’applicazione schematica delle strutture a suo tempo rintracciate a un «caso» particolare di apertura dell’Esserci. Al contrario, l’interpretazione della coscienza morale non solo vuol essere un ampliamento della precedente analisi dell’apertura del Ci, ma anche un suo più originario afferramento in relazione 14 all’essere autentico dell’Esserci. [2] Per il tramite dell’apertura (Erschlossenheit, “essere accessibile”), l’ente che noi chiamiamo Esserci è nella possibilità di essere il suo Ci. Col suo mondo, l’esserci c’è (ist…da) per esso stesso, e ciò innanzi tutto e per lo più in modo da essersi reso accessibile (erschlossen) il suo poter-essere a partire dal «mondo» di cui si prende cura. Il poteressere in cui l’Esserci esiste si è già ogni volta affidato a possibilità determinate. E ciò perché l’Esserci è un ente gettato, il cui esser-gettato è reso accessibile (erschlossen, “dischiuso”, “aperto”), in modo più o meno chiaro e profondo, da un esser emotivamente intonato. Della situazione emotiva (tonalità affettiva [Stimmung]) fa cooriginariamente parte la comprensione. Così l’Esserci «sa» l’affar suo nei propri riguardi, e ciò in quanto si è progettato in possibilità di se stesso, cioè in possibilità che esso, immedesimato col Si, si è lasciato prescrivere [vorgeben] dallo stato interpretativo pubblico del Si-stesso. Ma questa prescrizione [Vorgabe] è resa esistenzialmente possibile dal fatto che l’Esserci, in quanto comprendente con- essere, può star a sentire (hören) gli altri. Perdendosi nella pubblicità del Si e nelle sue chiacchiere, l’Esserci non ascolta [überhört] il proprio se-Stesso. Se l’Esserci deve poter-essere sottratto alla perdizione del non- ascoltarsi (Sichüberhören) - e se lo deve proprio attraverso se stesso - è necessario che esso possa anzitutto trovarsi, che possa trovare quel seStesso che esso ha trascurato di sentire prestando ascolto (Hinhören) al Si. Questo dare ascolto dev’essere interrotto, cioè dev’essere data all’Esserci, dall’Esserci stesso, la possibilità di un sentire che interrompa il prestare ascolto. La possibilità di una interruzione di questo genere è data da un venir improvvisamente chiamati (unvermittelt Angerufenwerden). La chiamata (Ruf) interrompe il non ascoltantesi prestar ascolto (das sich überhörende Hinhören) al Si dell’Esserci soltanto se essa, in corrispondenza col suo carattere di chiamata, suscita un sentire in tutto opposto al sentire perduto. Laddove quest’ultimo sentire è stordito dal «chiasso» e dalla rumorosa equivocità della chiacchiera ogni giorno «nuova», la chiamata deve chiamare senza rumore, inequivocamente (unzweideutig), senza offrire appiglio per la curiosità. Ciò che dà ad intendere chiamando in questo modo è la coscienza morale. [3] Noi concepiamo la coscienza morale come un modo del discorso. Questa articola la comprensibilità. Definendo la coscienza morale come chiamata, non intendiamo affatto far ricorso a una «immagine», quale ad esempio la rappresentazione kantiana della coscienza morale come un tribunale. Soprattutto non dobbiamo dimenticare che il discorso, e quindi anche la chiamata, non implicano necessariamente la verbalizzazione sonora. Ogni espressione e ogni «esclamazione» presuppongono già il discorso. Quando l’interpretazione quotidiana parla di una «voce» della coscienza morale, non intende alludere a una comunicazione verbale che non ha effettivamente [faktisch] luogo; «voce», qui, significa dar-a-intendere. Nella tendenza ad aprire, propria della chiamata, c’è un momento di urto, di brusco scuotimento. Viene 15 chiamato dalla lontananza nella lontananza. È colpito dalla chiamata chi vuole venir ripreso [zurueckgeholt]. [4] Con questa caratterizzazione della coscienza morale è soltanto delineato l’orizzonte fenomenico per l’analisi della sua struttura esistenziale. Il fenomeno non è paragonato a una chiamata, ma, in quanto discorso, è compreso muovendo dalla schiusura (Entschlossenheit) costitutiva dell’Esserci. La considerazione evita sin dal principio la via che si offre per prima all’interpretazione della coscienza morale, e che la riconduce a una facoltà dell’anima (intelletto, volontà o sentimento) o la spiega come un suo prodotto. Di fronte a un fenomeno come la coscienza morale salta subito agli occhi l’inadeguatezza ontologico-antropologica di ogni astratta classificazione di facoltà dell’anima o di atti personali. § 56 Il carattere di chiamata della coscienza morale [1] Del discorso (Rede, “parlare”, logos-leghein) fa parte ciò-su-cui il discorso [das beredete Worueber, kata ti] discorre. Il discorso da chiarimenti su qualcosa e ciò sotto un determinato riguardo. Da ciò su cui il discorso discorre [Aus dem so Beredeten], il discorso attinge ciò che di volta in volta esso, in quanto questo discorso, dice, il detto come tale [das Geredete als solches, “il parlato come tale”, legomenon]. Nel discorso, in quanto comunicazione [Mitteilung], ciò che è detto è reso accessibile al con-esserci di altri e, per lo più, nella forma della pronuncia verbale nel linguaggio (Sprache, “lingua”, fr. “parole”). [2] Nella chiamata della coscienza morale, che cos’è [Was ist] ciò di cui si discorre [das Beredete], ovvero il chiamato [das Angerufene, “appellato”]? Manifestamente l’Esserci stesso. Questa risposta è tanto incontestabile quanto indeterminata. Se la chiamata avesse uno bersaglio (Ziel, “scopo”, “obiettivo”) così vago, non sarebbe per l’Esserci che un’occasione per far attenzione a sé. Ma l’Esserci è tale nella sua essenza che esso, con l’apertura del suo mondo, è dischiuso (erschlossen) a se stesso, cosicché già da sempre si comprende. La chiamata colpisce (trifft) l’Esserci in questa suo quotidiano-medio giàsempre-comprendersi prendente cura. Dalla chiamata viene colpito il Si-stesso del con-essere con gli altri prendente cura. [3] A che (woraufhin) l’Esserci è chiamato? Al proprio sé. Non [è chiamato] a ciò a cui l’Esserci, nell’essere-assieme pubblico, conferisce valore, a ciò che esso può, di cui si prende cura, che ha afferrato [ergriffen], per cui si è impegnato, da cui si è lasciato coinvolgere. L’Esserci, quale risulta mondanamente compreso per se stesso e per gli altri, è in questo richiamo ignorato (übergangen, , “tralasciato”, “eluso”, “disdegnato”). Di ciò la chiamata rivolta al se-Stesso non prende minimamente atto (nimmt … das mindeste Kenntnis, “non ha la menoma conoscenza”). Poiché soltanto il Sé-stesso del Si- Stesso [das Selbst des Man-selbst] è chiamato e indotto a sentire, il Si si ritira in sé. 16 Tuttavia, il fatto che la chiamata ignori [“eluda”, “disdegni”] il Si e lo stato interpretativo pubblico dell’Esserci, non significa affatto che essa non colpisca insieme (mittrifft) anche il Si. Proprio nell’ignorare (im Uebergehen, “nell’eludere”, “nel disdegnare”) essa respinge nella insignificanza (Bedeutungslosigkeit) il Si avido di pubblica reputazione. Il Sé, però, deprivato (beraubt) nel richiamo [im Anruf] di questo rifugio e di questo nascondiglio, è condotto a se stesso per il tramite della chiamata [durch den Ruf]. [4] Il Si-stesso è richiamato il Sé. Non si tratta però del Sé quale possibile «oggetto» di apprezzamenti o del Sé della inconsistente, eccitata e curiosa anatomia della propria «vita interiore», e neppure del Sé della del semplice stare a guardare «analitico» gli stati d’animo e i loro retroscena. Il richiamo del Sé-stesso nel Si-stesso non lo relega in sé nel senso di un’interiorità che lo separerebbe dal «mondo esterno». Tutto ciò, la chiamato lo salta [ueberspringt] e lo disperde, per richiamare unicamente il Se-stesso, il quale, nondimeno, non è mai altrimenti che nel modo dell’essere-nel-mondo. [5] Ma come dobbiamo determinare il ciò-che-viene-detto di questo discorso [das Geredete dieser Rede]? Che cosa ( Was) la coscienza morale grida (zurufen) al chiamato? A rigore, nulla. La chiamata non asserisce nulla, non dà alcuna informazione su eventi mondani, non ha nulla da raccontare. Meno che meno aspira ad inaugurare un «soliloquio» (»Selbstgespraech«, “colloquio tra sé e sé”) nel se-Stesso richiamato. Al se-Stesso richiamato non è gridato (zu-gerufen) «nulla»; esso è incitato [aufgerufen] a se-Stesso, cioè al suo più proprio poter-essere. La chiamata, secondo la sua tendenza di chiamata, non coinvolge il se-Stesso richiamato in una «negoziazione» (Verhandlung, “trattativa”), ma, quale incitamento al suo poter-essere più proprio, è un chiamar-dinanzi [Vor-rufen], un chiamare al «proscenio» l’Esserci nelle sue possibilità più proprie. [6] La chiamata non ha bisogno di pronuncia sonora (Verlautbarung). Essa nemmeno proferisce parola, ma non resta per questo oscura e indeterminata. La coscienza morale parla unicamente e costantemente nel modo del tacere. Con ciò essa non solo non perde nulla in fatto di percepibilità, ma costringe l’Esserci, chiamato e incitato, alla silenziosità di se stesso. La mancanza di una formulazione verbale di ciò che nella chiamata viene invocato (gerufen) non condanna il fenomeno alla nebulosità di una voce misteriosa, ma sta semplicemente a indicare che la comprensione dell’«invocato» (des »Gerufenen«) non può aggrapparsi all’attesa di una comunicazione o di qualcosa di simile. [7] Ciò nonostante, quel che la chiamata dischiude (erschliesst) è univoco, anche se essa, nel singolo esserci a seconda delle sue possibilità di comprensione, può andar incontro ad una diversa interpretazione. Al di là dell’apparente indeterminatezza del contenuto della chiamata, non può non esser colta la sicura traiettoria [Einschlagsrichtung, “direzione d’impatto”] della chiamata. La chiamata non ha bisogno di un primo ricercare a tastoni di colui che 17 deve esser richiamato, non abbisogna di alcun segno di riconoscimento che permetta di stabilire se è o no proprio lui ad essere inteso. Nella coscienza morale, le «illusioni» non sorgono per uno stravedere (strachiamare [Sichver-rufen]) da parte della chiamata, ma solo per il modo in cui la chiamata è udita, cioè per il fatto che essa, anziché essere compresa autenticamente, è stornata dal Si in un negoziante (verhandelnden) dialogo tra sé e sé e così pervertita nella sua tendenza di schiudimento (Erschliessungstendenz). [8] Occorre tener fermo: la chiamata con cui caratterizziamo la coscienza morale è richiamo del Si-stesso nel suo Sé; in quanto tale è incitamento del Sé al suo poter-esser-sé, e perciò una chiamata dell’Esserci di fronte alle proprie possibilità. [9] Ma potremo ottenere un’interpretazione ontologica adeguata della coscienza morale solo quando avremo posto in chiaro non soltanto chi sia il chiamato nella chiamata della coscienza morale, ma chi sia che chiama, in quale rapporto il chiamato stia col chiamante e come debba essere ontologicamente inteso questo «rapporto» come connessione d’essere. § 57 La coscienza morale come chiamata della Cura [1] La coscienza morale incita il se-Stesso dell’Esserci dalla sua dispersione nel Si. Il se-Stesso richiamato resta indeterminato e vuoto nel suo che-cosa (Was). L’in quanto che cosa l’Esserci, innanzi tutto e per lo più, comprende se stesso nell’interpretazione a partire dall’ente di cui si prende cura, è ignorato (uebergangen) dalla chiamata. E tuttavia il se-Stesso è univocamente (eindeutig) e inequivocabilmente (unverwechselbar) colpito. Non solo il richiamato è investito dalla chiamata «senza riguardo alla persona», ma il chiamante resta a sua volta in una vistosa indeterminatezza. Non solo esso [scil.: il chiamante, der Rufer] si rifiuta di rispondere alle domande concernenti il suo nome, il suo stato, la sua origine e il suo rango, ma il chiamante, benché nella chiamata non finga affatto, non concede la minima possibilità di rendersi familiare a una comprensione dell’Esserci orientata «mondanamente». Il chiamante della chiamata – ciò appartiene al suo carattere fenomenico – tiene assolutamente lontano da sé ogni «notorietà». Sottoporsi a osservazione o a discorso va contro il suo modo di essere. L’indeterminatezza e l’indeterminabilità che caratterizzano il chiamante non sono un nulla, ma un suo positivo contrassegno distintivo (Auszeichnung). Esse attestano che esso si risolve [aufgehen] unicamente nel puro e semplice «incitare a…», e che solo in quanto tale esso vuol essere ascoltato, e che non vuole chiacchiere su di sé. Non è allora il fenomeno stesso a richiedere che la domanda sul Chi del chiamante non abbia luogo? Certamente sì, per lo stare a sentire esistentivo (existentiellen Hoeren) della chiamata effettiva della coscienza morale (faktischen Gewissenruf); non, però, per l’analisi esistenziale dell’effettività (Faktizitaet) del chiamare e dell’esistenzialità (Existentialitaet) dello stare a sentire. 18 [2] Ma c’è in generale necessità di porre ancora espressamente la questione del Chi chiami? L’Esserci non porta forse con sé la risposta a questa domanda in modo altrettanto univoco (eindeutig) che in quella circa il richiamato nella chiamata? Nella coscienza morale, l’Esserci chiama se stesso. Questa comprensione del chiamante può essere più o meno viva nell’ascolto effettivo della chiamata. Ontologicamente, però, non è affatto sufficiente rispondere che l’Esserci è ad un tempo il chiamato e il chiamante. Ma allora, l’Esserci «ci» è [ist «da»], in quanto chiamato, non diversamente che in quanto chiamante? Funge forse da chiamante il più proprio poter-essere-se-Stesso? [3] La chiamata non è mai né progettata né preparata né volutamente effettuata (vollzogen) da noi stessi. «Esso» chiama, contro la nostra attesa e persino contro la nostra volontà. D’altra parte la chiamata indubbiamente (zweifellos) non viene da un altro che sia nel-mondoinsieme a me. La chiamata viene da (aus) me e tuttavia su (ueber) di me. [4] Questo reperto fenomenico non va destituito di senso (ist nicht wegzudeuten). Da esso ha infatti preso le mosse anche l’interpretazione della voce della coscienza morale come un potere (Macht) estraneo pervasivo nell’Esserci. Seguendo tale direzione interpretativa, si pone alla base di questo potere un possessore, o si assume esso stesso come persona annunciantesi (Dio). All’inverso, si tenta di respingere questa interpretazione del chiamante come espressione di un potere estraneo, e al contempo di spiegare riduzionisticamente (wegerklaeren, lett.: “cancellare, destituire di senso qualcosa spiegandolo”) la coscienza morale in generale in modo «biologico». Entrambe queste interpretazioni sorvolano (ueberspringen, “passano oltre”) precipitosamente il reperto fenomenico. Il procedere viene facilitato da una tacita tesi-guida, ontologicamente dogmatica: ciò che è, ossia ciò che, come la chiamata, è di fatto (tatsaechlich), deve essere semplicemente presente; ciò che non può essere oggettivamente dimostrato in quanto semplicemente-presente, non è affatto. [5] Contro questa precipitosità metodica occorre tenere ben fermo, non solo il reperto fenomenico come tale – cioè che la chiamata è diretta a me provenendo da me sopra di me –, ma anche la predelineazione ontologica, in ciò contenuta, del fenomeno in quanto fenomeno dell’Esserci. Solo la costituzione esistenziale di questo ente può offrire il filo conduttore per l’interpretazione del modo di essere dello «esso» [»Es«] che chiama. [6] L’analisi si qui svolta della costituzione dell’essere dell’Esserci mostra forse una via per rendere comprensibile ontologicamente il modo di essere del chiamante e quindi del chiamare? Il fatto che la chiamata non sia effettuata (vollzogen) esplicitamente da me, ma che sia «esso» a chiamare, non autorizza ancora a cercare il chiamante in un ente non conforme dall’Esserci. Certo, ogni volta l’Esserci esiste sempre effettivamente [faktisch]. Esso non è un auto-progettarsi sospeso per aria; bensì — determinato, grazie (durch) all’esser-gettato [Geworfenheit], come fatto [Faktum] dell’ente che esso è — esso 19 venne ogni volta già, e rimane costantemente, rimesso (ueberantwortet, “affidato”, “consegnato”) all’esistenza. Ma l’effettività [Faktizitaet, “fatticità”] dell’Esserci si distingue essenzialmente dalla fattualità [Tatsaechlichkeit] di un semplicementepresente. L’Esserci esistente non va incontro (begegnet) ad esso stesso come ad un qualcosa di semplicemente presente nel mondo. Né, però, l’esser-gettato (Geworfenheit) inerisce all’Esserci come carattere inaccessibile e irrilevante per la sua esistenza. In quanto gettato, esso è gettato nell’esistenza. Esso esiste come ente che ha da essere così come è, e come può essere. [7] Che (Dass) l’Esserci effettivamente sia, può anche esser nascosto (verborgen) quanto al suo perché; il «che» stesso (das »Dass« selbst), però, è dischiuso (erschlossen) all’Esserci. L’esser-gettato dell’ente appartiene alla schiusura del «Ci» [Erschlossenheit des »Da«] e si rivela (enthuellt sich) costantemente nel rispettivo esseremotivamente-situato (Befindlichkeit). Questo [scil: l’esseremotivamente-situato] porta l’Esserci, in modo più o meno esplicito e autentico, davanti al suo «che è [dass es ist] e che, in quanto è l’ente che è, ha da essere potendo essere». Ma per lo più la tonalità emotiva (Stimmung) chiude [verschliesst] l’esser-gettato. Davanti a questo esser-gettato, l’Esserci si rifugia nell’alleggerimento della presunta libertà del Si-stesso. Abbiamo definito tale fuga come fuga dinanzi allo spaesamento (Unheimlichkeit) che determina fondamentalmente l’essere-nel-mondo singolarizzato. Lo spaesamento si rivela (enthuellt sich) autenticamente nella situazione emotiva fondamentale dell’angoscia e, in quanto schiusura più elementare dell’Esserci gettato, pone il suo essere-nel-mondo davanti al nulla del mondo; di fronte a questo nulla l’Esserci si angoscia nell’angoscia per il più proprio poter-essere. E se il chiamante della chiamata della coscienza morale fosse l’Esserci nel profondo del suo sentirsi emotivamente spaesato? [8] Contro di ciò non parla nulla; in suo favore parlano invece tutti i fenomeni che sono stati fin qui posti in rilievo per la caratterizzazione del chiamante e del suo chiamare. [9] Il chiamante, nel suo Chi (Wer), non è «mondanamente» determinabile mediante nulla. Esso è l’Esserci nel suo spaesamento, l’originario gettato essere-nel-mondo in quanto non-essere-a-casapropria, il nudo «che» (»Dass«) nel nulla del mondo. Al Si-stesso quotidiano, il chiamante non è familiare — qualcosa come una voce estranea. Che mai vi può essere di più estraneo al Si, perduto nel variegato «mondo» di cui si prende cura, del se-Stesso isolato nel suo spaesamento e gettato nel nulla? «Esso» chiama, e tuttavia non dice nulla di udibile da un orecchio immerso nelle cure e curioso, nulla che possa passare indifferentemente da orecchio a orecchio ed essere pubblicamente chiacchierato. Che può mai avere da raccontare l’Esserci dallo spaesamento del suo essere-gettato? Che cosa (Was) gli rimane d’altro, infatti, all’infuori di quel poter-essere di se stesso 20 svelato nell’angoscia? Come potrebbe chiamare altrimenti se non incitando a questo poter-essere di cui ad esso unicamente importa? [10] La chiamata non racconta storie e chiama anche senza verbalizzazione sonora. La chiamata parla nel modo spaesante del tacere. E ciò perché la chiamata non chiama il richiamato alle chiacchiere pubbliche del Si, ma lo chiama indietro da queste al silenzio del poter-essere esistente. Ed in che cosa si fonda la spaesante, «disabituale» e fredda sicurezza con cui il chiamante colpisce il chiamato, se non nel fatto che l’Esserci singolarizzato su di sé nel suo spaesamento è per esso stesso assolutamente inconfondibile? Che cosa sottrae all’Esserci in modo tanto radicale la possibilità di rifugiarsi nell’equivoco, fraintendendosi e disconoscendosi, se non lo stato di abbandono nell’esser affidato (die Verlassenheit in der Ueberlassenheit) ad esso stesso? [11] Lo spaesamento è il modo fondamentale, anche se quotidianamente coperto, dell’essere-nel-mondo. L’Esserci stesso, come coscienza morale, chiama dal fondo di questo suo essere. «Mi chiama» è una discorso eminente dell’Esserci. La chiamata, emotivamente pervasa di angoscia, fa sì che l’Esserci possa progettarsi nel suo poter-essere più proprio. La chiamata della coscienza morale, compresa esistenzialmente, annuncia ciò che prima abbiamo semplicemente asseverato: lo spaesamento incalza l’Esserci e minaccia il suo oblio nella perdizione. [12] L’affermazione che l’Esserci è ad un tempo il chiamante e il chiamato ha perso ora la sua formale vuotezza ed ovvietà. La coscienza morale si rivela come chiamata della Cura: il chiamante è l’Esserci che, nell’esser-gettato (esser-già-in…), si angoscia per il suo poteressere. Il richiamato è questo Esserci stesso, incitato al suo più proprio poter-essere (esser-avanti-a-sé). E incitato è l’Esserci mediante il richiamo dalla deiezione nel Si (esser-già-presso-il mondo di cui ci si prende cura). La chiamata della coscienza morale, cioè la coscienza morale stessa, trova la sua possibilità ontologica nel fatto che l’Esserci, nel fondamento del suo essere, è Cura. [13] Non c’è quindi bisogno di prender rifugio in potenze non conformi all’esserci, tanto più che il regresso verso di esse illumina tanto poco lo spaesamento della chiamata, che esso piuttosto lo annienta. La ragione di fuorvianti «spiegazioni» della coscienza morale non starà in fondo nel fatto che, già nella fissazione del reperto fenomenico della chiamata, lo sguardo è stato troppo limitato e l’Esserci è stato tacitamente presupposto in una casuale determinazione o indeterminazione ontologica? Perché cercare una via d’uscita in potenze estranee prima di assicurarsi che, nell’impostazione dell’analisi, l’essere dell’Esserci non sia stato sottovalutato, concependolo come innocuo soggetto (Subjekt), in qualche modo presente, dotato di coscienza (Bewusstsein) personale? [14] Eppure sembra che l’interpretazione del chiamante – che dal punto di vista mondano è «nessuno» – come una potenza riposi sul riconoscimento non prevenuto della sussistenza di qualcosa di 21 «oggettivamente rinvenibile». Ma, a ben guardare, questa interpretazione è null’altro che una fuga davanti alla coscienza morale, una scappatoia dell’esserci, con la quale esso se la svigna passando per la sottile parete che, per così dire, separa il Si dallo spaesamento del proprio essere. Tale interpretazione della coscienza morale suole anche spacciarsi come riconoscimento della chiamata nel senso di una voce obbligante in modo generale e non «semplicemente soggettivo». Ancor di più: questa coscienza morale «generale» è elevata a «coscienza morale universale» (Weltgewissen) , la quale, per il suo carattere fenomenico, è un «esso», un «nessuno», che dunque parla, come questo indeterminato, nel singolo «soggetto». [15] Ma questa «coscienza morale pubblica» che altro è se non la voce del Si? Alla dubbia invenzione di una «coscienza morale universale» l’esserci può arrivarci solo perché la coscienza morale, nel suo fondamento e nella sua essenza, è ogni volta mia. E ciò non solo nel senso che è ogni volta il poter-essere più proprio a essere richiamato, ma anche perché la chiamata proviene dall’ente che io stesso di volta in volta sono. [16] Nella nostra interpretazione del chiamante, fondata esclusivamente sul carattere fenomenico del chiamare, la «potenza» della coscienza morale non è né sminuita né resa «semplicemente soggettiva». All’opposto, solo in essa hanno via libera l’inesorabilità e l’inequivocabilità della chiamata. L’«oggettività» del richiamo trae la sua legittimità soltanto nella misura in cui l’interpretazione lasci ad esso la sua «soggettività», la quale però rifiuta il predominio del Sistesso. [17] Contro questa interpretazione della coscienza morale come chiamata della Cura si potrebbero tuttavia sollevare le seguenti obiezioni: che fondamento può avere un’interpretazione della coscienza morale così lontana dall’«esperienza naturale»? In qual modo la coscienza morale potrà fungere da incitamento al più proprio poter-essere quando essa, innanzi tutto e per lo più, non fa che rimproverare e ammonire? La coscienza morale parla in modo così indeterminato e vuoto di un poter-essere più proprio dell’Esserci, o piuttosto parla in modo ben determinato e concreto degli errori e delle omissioni che hanno già avuto luogo o che si intendevano commettere? Il richiamo che abbiamo stabilito proviene dalla «cattiva» coscienza morale o dalla «buona»? La coscienza morale fornisce qualcosa di positivo o svolge una funzione esclusivamente critica? [18] La legittimità di queste perplessità è incontestabile. Da un’interpretazione della coscienza morale si può esigere che «si» riconosca in essa il fenomeno così com’esso è esperito quotidianamente. Ma soddisfare tale esigenza non significa riconoscere la comprensione ontica ordinaria della coscienza morale quale istanza prima dell’interpretazione ontologica. D’altra parte le obiezioni suddette risultano premature nella misura in cui l’analisi della coscienza morale da esse presa di mira non è stata ancora portata a termine. Finora abbiamo semplicemente tentato di ricondurre la 22 coscienza morale, in quanto fenomeno dell’Esserci, alla costituzione ontologica di questo ente. E ciò in vista del compito di render comprensibile la coscienza morale come un’attestazione nell’Esserci stesso del suo poter-essere più proprio. [19] Ciò che la coscienza morale attesta giunge a piena determinazione soltanto se è stato delimitato con sufficiente chiarezza quale carattere debba avere l’ascoltare che corrisponde in modo genuino al chiamare. La comprensione autentica, «conseguente» alla chiamata, non è una semplice appendice del fenomeno della coscienza morale, un evento che accade e potrebbe anche mancare. L’esperienza vissuta della coscienza morale si può cogliere nella sua pienezza soltanto a partire dalla comprensione del richiamo e assieme ad essa. Se il chiamante e il richiamato sono ogni volta il medesimo Esserci proprio, ne consegue che in ogni non-sentire-ascoltando (Ueberhoeren) la chiamata, in ogni fraintendersi, è insito un determinato modo di essere dell’Esserci. Una chiamata a vuoto a cui «non segue nulla» è una finzione inconcepibile da un punto di vista esistenziale. «Che non segue nulla» significa qualcosa di conformemente all’esserci positivo. [20] Così, allora, soltanto l’analisi della comprensione del richiamo è in grado di condurre all’esplicito chiarimento di ciò che la chiamata dà ad intendere. Ma solo muovendo dalla precedente caratterizzazione ontologico-universale della coscienza morale, è possibile capire esistenzialmente quel «colpevole!» evocato nella coscienza morale. Tutte le esperienze e le interpretazioni della coscienza morale sono concordi nel riconoscere che la «voce» della coscienza morale parla in qualche modo di «colpa». § 58 Comprensione del richiamo (Anrufverstehen) e colpa [1] Per cogliere fenomenicamente ciò che è udito (das Gehoerte) nella comprensione del richiamo (Anrufverstehen), bisogna tornare di nuovo al richiamo (Anruf). Richiamare il Si-stesso significa incitare il seStesso più proprio al suo poter-essere, e precisamente in quanto Esserci, cioè in quanto essere-nel-mondo prendente cura e con-essere con gli altri. L’interpretazione esistenziale di ciò a cui la chiamata incita, se si comprende rettamente nelle sue possibilità metodiche e nei suoi compiti, non può quindi pretendere di delimitare alcuna singola e concreta possibilità dell’esistenza. Ciò che può e vuole essere fissato, non è il di volta in volta esistentivamente evocato (Gerufene) nel rispettivo Esserci, ma ciò che appartiene alla condizione esistenziale di possibilità del poter-essere di volta in volta effettivo-esistentivo. [2] La comprensione esistentivamente-udente della chiamata è tanto più autentica quanto più incondizionatamente l’Esserci ode e comprende il suo esser-richiamato e quanto meno il senso della chiamata è pervertito da ciò che si dice, si sente dire e si ritiene valido. Ma qual è l’elemento costitutivo essenziale dell’autenticità della 23 comprensione del richiamo? Che cos’è ciò che è dato essenzialmente ad intendere di volta in volta nella chiamata, anche se non sempre è effettivamente compreso? [3] Abbiamo già risposto a questa domanda con la tesi: la chiamata non «dice» nulla di cui si possa discorrere; non dà notizia di eventi mondani. La chiamata pone l’Esserci innanzi al suo poter-essere, e ciò in quanto chiamata che viene dallo spaesamento. Il chiamante è certamente indeterminato, ma il da-dove esso chiama non è indifferente per il chiamare. Questo da-dove – lo spaesamento dell’esser-gettato nell’isolamento – è «evocato» assieme al chiamare, cioè è dischiuso insieme ad esso. Il da-dove viene la chiamata chiamando-innanzi-a (Vorrufen auf…) coincide con il verso-dove del richiamo che chiama indietro (des Zurueckrufens). La chiamata non dà ad intendere un poter-essere ideale e universale: essa dischiude il poteressere come il poter-essere ogni volta individuato d’un rispettivo Esserci. Il carattere di apertura della chiamata è determinato pienamente solo se è inteso come richiamo-indietro chiamante-innanzi (vorrufenden Rueckruf) . È a partire dalla chiamata così intesa che diviene possibile chiedersi che-cosa (Was) essa dia ad intendere. [4] Ma la risposta alla domanda circa che-cosa la chiamata dice non potrà forse essere data più facilmente e sicuramente col «semplice» rinvio a ciò che è in genere udito (gehoert) o non-udito-ascoltando (ueberhoert) in tutte le esperienze comuni della coscienza morale? E cioè che la chiamata appella l’Esserci come «colpevole!», oppure, come accade nella coscienza morale ammonente, rinvia ad un possibile esser-«colpevole», o ancora, come accade nella «buona» coscienza morale, che essa conferma una «consapevolezza di mancanza di colpa»? Se almeno quel «colpevole!» che è «concordemente» (uebereinstimmend) riscontrato nelle esperienze e nelle interpretazioni della coscienza morale non fosse determinato in modi così nettamente contrastanti! Ma anche se il senso di questo «colpevole!» si potesse determinare univocamente (einstimmig), il concetto esistenziale di questo esser-colpevole continuerebbe a restare oscuro. Se tuttavia l’Esserci appella se stesso come «colpevole!», da dove potremo ricavare l’idea di colpa se non dall’interpretazione dell’essere dell’Esserci? Ma allora rinasce il problema: chi dice come (wie) noi siamo colpevoli e che cosa (was) significa colpa? L’idea di colpa non può certo essere escogitata arbitrariamente e poi appiccicata all’Esserci. Se è mai possibile una comprensione dell’essenza della colpa, tale possibilità dovrà essere prefigurata nell’Esserci. Dove troveremo la traccia che possa guidare allo svelamento del fenomeno? Ogni ricerca ontologica concernente fenomeni come la colpa, la coscienza morale, la morte deve prender le mosse da ciò che di essi «dice» l’interpretazione quotidiana dell’Esserci. Nel modo d’essere dell’Esserci deiettivo è implicito al tempo stesso che la sua autointerpretazione è per lo più «orientata» inautenticamente e non coglie l’«essenza» del fenomeno; e ciò perché le è estranea l’impostazione ontologica del problema originaria e adeguata. Tuttavia, in ogni visione manchevole è insieme svelato un rinvio 24 all’«idea» originaria del fenomeno. Ma da dove prendiamo il criterio per determinare il senso esistenziale originario di «colpevole!»? Dal fatto che questo «colpevole!» funge da predicato dell’«io sono». E se ciò che l’interpretazione inautentica intende come «colpa» fosse insito nell’essere dell’Esserci in quanto tale, e precisamente in modo che l’Esserci fosse colpevole in quanto esiste di volta in volta effettivamente? [5] L’evocazione (Berufung) del «colpevole!» concordemente udito non è perciò ancora la risposta al problema del senso esistenziale dell’invocato nella chiamata (im Ruf Gerufenen). Questo deve prima esser concettualizzato, affinché sia possibile rendere comprensibile che cosa significa l’evocato «colpevole!», come e perché l’interpretazione quotidiana ne travisa il significato. [6] La comprensibilità quotidiana assume l’«esser-colpevole» (»Schuldigsein«) innanzi tutto nel senso di «esser in debito» (»Schulden haben«), «avere un conto aperto con qualcuno». Si deve restituire un qualcosa a qualcuno che lo rivendica. Questo «esser colpevole» nel senso di «indebitarsi» (»schulden«) è una maniera di con-essere con gli altri nel quadro del prendersi cura procurando, producendo eccetera. Modi di tale prendersi cura sono anche il privare, il prendere a prestito, il defraudare, il sottrarre, il rubare, cioè il non dar soddisfazione in qualche modo a rivendicazioni di possesso avanzate da qualcuno. L’essere colpevole di questo tipo è sempre riferito a ciò che è oggetto possibile del prendersi cura. [7] Esser colpevole ha allora l’ulteriore significato di «esser colpa di» [»schuld sein an«, “essere responsabile di”] cioè di esser motivo, esser autore di qualcosa o anche «esser occasione» di qualcosa. Nel senso di questo «aver colpa» di qualcosa si può «esser colpevole» senza «essere in debito» con qualcuno o essergli debitore. Viceversa, si può esser in debito di qualcosa presso qualcuno senza tuttavia averne colpa [esserne responsabile]. Un altro può «fare debiti» presso un terzo «per me». [8] Questi significati ordinari dell’esser-colpevole, come l’«aver debiti presso» o l’«aver colpa di» [“esser responsabile di”], possono confluire e determinare un comportamento che chiamiamo «rendersi colpevole» [»sich schuldig machen«, “rendersi debitore”] cioè: essendo colpevole di aver-debiti, ledere un diritto e rendersi così punibile. L’esigenza che non viene soddisfatta, però, non è necessariamente riferita a un possesso, può regolare in generale l’essere-assieme pubblico. Il «rendersi colpevole» nella violazione in senso giuridico (Rechtsverletzung), quale abbiamo ora chiarito, può però assumere anche la forma di un «rendersi-colpevole verso altri». Ciò non accade in virtù della violazione come tale, ma per il fatto che è colpa mia [“è mia responsabilità”] se l’altro, nella sua esistenza, è messo a repentaglio, è indotto in errore, è rovinato. Questo rendersi-colpevole verso altri è possibile senza violazione della legge «pubblica». Il concetto formale dell’esser-colpevole nel senso dell’essersi-resocolpevole verso l’altro può essere determinato così: esser-causa [Grundsein, “esser fondamento”, “esser ragione”, “esser motivo”] di 25 una deficienza nell’Esserci dell’altro in modo tale che questo essercausa stesso si determini, muovendo dal suo per-che, come «difettivo». Questa difettività consiste nel non soddisfare una esigenza che concerne l’esistere come con-essere con gli altri. [9] Resterebbe da vedere come nascano queste esigenze e in qual modo siano da concepirsi in base a tale origine i rispettivi caratteri di esigenza e di legge. Comunque, l’esser-colpevole, nell’ultimo significato di violazione di un’«esigenza morale», è un modo di essere dell’Esserci. Ciò vale certamente anche per l’esser-colpevole come «rendersi punibile», «indebitarsi» e «aver colpa di» [“esser responsabile di”]. Anche questi sono comportamenti dell’Esserci. Quando si concepisce l’«esser gravati di colpa morale» come una «qualità» dell’Esserci, si dice in realtà ben poco. Questa interpretazione rivela soltanto che una siffatta caratterizzazione non basta a definire ontologicamente questo genere di «determinazione d’essere» dell’Esserci rispetto ai comportamenti precedentemente analizzati. Il concetto di colpa morale è così poco chiarito dal punto di vista ontologico che poterono divenire e restare predominanti interpretazioni di questo fenomeno che fanno rientrare in tale concetto anche l’idea delle punibilità e perfino quella dell’aver debiti presso…, o addirittura interpretazioni che lo determinano a partire da queste idee. Ma in tal modo il «colpevole!» è ancora una volta ricondotto nell’ambito del prendersi cura nel senso del calcolo inteso a pareggiare le rivendicazioni. [10] Il chiarimento del fenomeno di colpa (Schuldphaenomen), che non è necessariamente connesso all’«aver debiti» o alla violazione in senso giuridico, può riuscire solo se prima si pone la questione di fondo dell’esser-colpevole dell’Esserci, cioè se si concepisce l’idea di «colpevole!» a partire dal modo di essere dell’Esserci. [11] A tal fine l’idea di «colpevole» deve esser formalizzata quanto occorre affinché i fenomeni di colpa ordinari, legati al con-essere con gli altri prendendo cura, cadano fuori. L’idea di colpa non solo deve essere innalzata oltre l’ambito del prendersi cura calcolante, ma deve anche essere sciolta dal riferimento al dovere e alla legge, violando i quali si diventa colpevole. Anche in questo caso la colpa è ancora necessariamente assunta come deficienza, come mancanza di qualcosa che può e deve essere. Ma «mancare» significa non essersemplicemente-presente. Deficienza come non-esser-presente di qualcosa di dovuto è una determinazione d’essere della semplicepresenza. In questo senso all’esistenza non può mancare per essenza nulla, non perché essa sia completa, ma perché il carattere del suo essere è del tutto diverso da quello della semplice-presenza. [12] Senonché, dell’idea di «colpevole!» è proprio il carattere del non. Se il «colpevole!» deve poter determinare l’esistenza, si presenta allora il problema ontologico di chiarire sul piano esistenziale il caratteredi-«non» (»Nichtcharakter«) di questo «non». Inoltre, all’idea di «colpevole!» appartiene quel che nel concetto di colpa come «aver colpa di» [“esser responsabile di”] è indifferentemente espresso, ossia, l’esser causa di… [das Grundsein fuer…, “esser fondamento di…”, 26 “esser motivo di….”, “esser ragione di….”]. L’idea formale esistenziale di «colpevole!» la definiamo quindi così: esser-causa di un essere che è determinato da un «non», cioè esser-causa di una nullità. Se l’idea del «non», quale si trova nel concetto di colpa esistenzialmente compreso, esclude il riferimento a ogni sorta di semplice-presenza (o possibile o richiesta), se, conseguentemente, l’Esserci non deve affatto esser commisurato a qualcosa di semplicemente-presente o di valido che esso stesso non sia o che non sia nel suo modo di essere (cioè non esista), allora viene meno la possibilità, riguardo all’esser causa di una mancanza, di calcolare come «manchevole» un siffatto essente-causa stesso stesso. Muovendo da una mancanza «causata» in modo conforme all’esserci, dal non adempimento di un’esigenza, non si può affatto calcolare la manchevolezza della «causa». L’esser causa di… non ha bisogno di avere il medesimo carattere del «non» proprio del «privativo» che in esso si fonda e da esso scaturisce. La causa non ha bisogno di ricevere indietro la propria nullità soltanto da ciò che essa causa. Ma allora ne consegue: l’esser-colpevole non risulta anzitutto da un indebitamento, ma, al contrario, questo diviene possibile solo «a causa di» di un originario esser-colpevole. È possibile esibire qualcosa di simile nell’essere dell’Esserci? E come è possibile, in generale, sul piano esistenziale? [13] L’essere dell’Esserci è la Cura. Essa comprende in sé l’effettività (esser-gettato), l’esistenza (progetto) e la deiezione. Essendo, l’Esserci è gettato, non è condotto nel suo Ci da se stesso. Essendo, l’Esserci è determinato come un poter-essere (Seinkoennen, “esser in grado di essere”) che gli appartiene, ma tuttavia non in quanto se lo sia dato da sé. Esistendo, esso non può aggirare il proprio esser-gettato, come se il «che c’è e ha da essere» potesse esser svincolato dal suo esser se-Stesso e portato come tale nel Ci. Ma l’esser-gettato non sta alle spalle dell’Esserci come un evento fattuale (tatsaechlich), irrelativo all’Esserci e semplicemente accaduto a esso: l’Esserci, fin quando è, è costantemente (in quanto Cura) il proprio «che». In quanto questo ente, affidato al quale esso unicamente può esistere come l’ente che esso è, esso è esistendo la causa del suo poter essere. Benché non abbia esso stesso posto la causa, l’esserci riposa nel peso di quest’ultima, che la tonalità emotiva gli rende manifesto come disagio. [14] In qual modo (wie) l’Esserci è questa causa gettata? Unicamente progettandosi nelle possibilità in cui è stato-gettato. Il se-Stesso, che come tale ha da accollarsi la causa di se stesso, non può mai insignorirsi di questa causa; ma, esistendo, ha da assumere l’esser-causa. L’aver da essere la proprio causa gettata (geworfenes Grund, “fondamento gettato”, “ragione gettata”) è il poter-essere in cui ne va nella Cura. [15] Essendo-causa, cioè esistendo come gettato, l’Esserci è costantemente in ritardo rispetto alle proprie possibilità. Esso non è mai esistente in anticipo (vor) rispetto alla propria causa, ma sempre solo dalla propria causa e in quanto propria causa. Esser-causa significa, quindi, non esser mai, fondamentalmente, signore dell’essere più 27 proprio. Questo non rientra nel senso esistenziale dell’esser-gettato. L’Esserci, essendo-causa, è, come tale, una nullità di se stesso. Ma «nullità» non significa affatto non esser-presente, insussistenza; essa concerne un «non» che è costitutivo dell’essere dell’Esserci, del suo esser-gettato. Il carattere-di-non di questo non si determina esistenzialmente: essendo se-Stesso, l’Esserci è l’ente gettato in quanto se-Stesso; svincolato dalla causa, non in virtù di se stesso, ma in se stesso, per essere in quanto questa causa. L’Esserci non è esso stesso la causa del suo essere nel senso che questa causa derivi da un progetto dell’Esserci; ma l’Esserci, in quanto se-Stesso, è l’essere della causa. Questa causa è sempre e solo causa di un ente il cui essere ha da accollarsi l’esser-causa. [16] L’Esserci è la sua causa esistendo, ossia è tale da comprendersi a partire da possibilità e, così comprendendosi, esser l’ente gettato. Dal che deriva: potendo essere, l’Esserci sta di volta in volta o nell’una o nell’altra possibilità; esso costantemente non è un’altra [possibilità], e vi ha rinunciato nel progetto esistentivo. Il progetto, in quanto di volta in volta gettato, non è soltanto determinato dalla nullità dell’essercausa, ma è essenzialmente nullo proprio in quanto progetto. Questa determinazione non indica affatto, daccapo, una qualità ontica come l’«inefficienza» o il «disvalore», ma è un costitutivo esistenziale della struttura dell’essere del progettare. La nullità di cui parliamo fa parte dell’esser-libero dell’Esserci per le sue possibilità esistentive. Ma la libertà è solo nella scelta di una possibilità, cioè nel sopportare di nonaver-scelto e di non-poter-scegliere le altre. [17] Tanto nella struttura dell’esser-gettato quanto in quella del progetto è insita per essenza una nullità. Essa è la causa della possibilità della nullità dell’Esserci non-autentico nella deiezione, in cui esso di volta in volta già da sempre effettivamente è. La Cura stessa, nella sua essenza, è totalmente permeata di nullità. Perciò la Cura, cioè l’essere dell’Esserci, significa in quanto progetto gettato: il (nullo) esser-causa di una nullità. Il che significa: l’Esserci è, come tale, colpevole; ammessa che sia legittima la determinazione esistenziale formale della colpa come esser-causa di una nullità. [18] La nullità esistenziale non ha affatto il carattere di una privazione, di una manchevolezza rispetto a un ideale proclamato e non raggiunto nell’Esserci. È l’essere di questo ente a esser nullo precedentemente a tutto ciò che può progettare e per lo più raggiunge, a esser nullo già come progettare. La nullità non compare occasionalmente nell’Esserci per inerirgli come una qualità oscura che esso – qualora fosse abbastanza progredito — potrebbe anche rimuovere. [19] Ciò nonostante il senso ontologico della nullezza di questa nullità esistenziale resta ancora oscuro. E ciò vale anche per l’essenza ontologica del «non» in generale. L’ontologia e la logica hanno preteso molto dal «non» e, di conseguenza, hanno fatto vedere a tratti le sue possibilità, senza però giungere al suo disvelamento ontologico. L’ontologia trovò il «non» e ne fece uso. Ma è proprio così ovvio che ogni «non» significhi una negatività nel senso di una deficienza? La 28 sua positività si esaurisce nel costituire un «passaggio»? Perché ogni dialettica si rifugia nella negazione, senza essere in grado di fondarla essa stessa dialetticamente, o almeno di determinarla in quanto problema? È mai stato posto il problema dell’origine ontologica della nullezza o, in primo luogo, si sono almeno cercate le condizioni sulla cui base può essere posto il problema del «non», della sua nullezza e della sua possibilità? E dove mai queste condizioni potranno esser reperite se non nella chiarificazione tematica del senso dell’Esserci in generale? [20] I concetti di privazione e di manchevolezza, oltre tutto poco chiari, non sono sufficienti nemmeno per l’interpretazione ontologica del fenomeno della colpa, anche se, intesi in termini sufficientemente formali, ammettono un’ampia utilizzazione. Meno che mai, però, è possibile orientare la ricerca intorno al fenomeno esistenziale della colpa sull’idea del malum in quanto privatio boni. Bonum e privatio provengono entrambi dall’ontologia della semplice-presenza, non diversamente dall’idea di «valore» che da ciò essi «tirata fuori». [21] L’ente il cui essere è la Cura non solo si può coprire di colpe effettive, ma è colpevole nel fondamento del suo essere; questo essercolpevole costituisce la condizione ontologica della possibilità che l’Esserci, esistendo, diventi colpevole. Questo esser-colpevole essenziale è cooriginariamente la condizione esistenziale della possibilità del bene e del male «morale», cioè della moralità in generale e della possibilità delle sue modificazioni effettive. L’esser-colpevole originario non può essere determinato in base alla moralità perché questa già lo presuppone per se stessa. [22] Ma quale esperienza parla in favore di questo esser-colpevole originario dell’Esserci? Non si trascuri però la contro-domanda: la colpa «c’è» (ist… da) solo quando si risveglia una consapevolezza della colpa? Oppure, proprio nel fatto che la colpa «dorme» si annuncia l’originario esser colpevole? Che l’esser-colpevole, innanzi tutto e per lo più, resti non aperto e che la deiettività dell’Esserci lo mantenga nella chiusura, non fa che rivelare la nullità di cui abbiamo discorso. L’esser-colpevole è più originario di ogni sapere che lo concerne. Soltanto perché l’Esserci è colpevole nel fondo del suo essere e soltanto perché, in quanto gettato nella deiezione, si chiude a se stesso, diviene possibile la coscienza morale, se è vero che la chiamata in fondo dà ad intendere questo esser-colpevole. [23] La chiamata è chiamata della Cura. L’esser-colpevole costituisce l’essere che noi denominiamo Cura. Nello spaesamento, l’Esserci sta originariamente con se stesso. Lo spaesamento porta l’Esserci in cospetto della sua integra nullità che rientra nella possibilità del suo poter-essere più proprio. Poiché nell’Esserci, in quanto Cura, ne va del suo essere, è dallo spaesamento che l’Esserci si incita, quale Si-stesso effettivamente deietto, al suo poter-essere. Il richiamo è un richiamoindietro chiamando-innanzi (ein vorrufende Rueckruf): Innanzi (vor) alla possibilità di assumere, esistendo, quell’ente gettato che l’Esserci è; indietro (zurueck) nell’esser-gettato, per comprenderlo come la nulla 29 causa che l’Esserci, esistendo, ha da assumere. Il richiamo-indietro chiamando-innanzi, proprio della coscienza morale, dà ad intendere all’Esserci che esso – nulla causa di un progetto nullo stando nella possibilità del suo essere — deve andare riprendersi dall’essersiperduto nel Si; dà cioè ad intendere all’Esserci che è colpevole. [24] Ciò che l’Esserci dà così ad intendere, sarebbe allora una semplice notizia di sé stesso. E l’ascoltare corrispondente ad una tale chiamata non sarebbe allora che un prender atto del fatto «colpevole!». Ma se la chiamata ha il carattere di incitare a…, questa interpretazione della coscienza morale non condurrà ad un completo pervertimento della funzione della coscienza morale? «Incitare all’esser-colpevole» non verrà a significare incitare alla malvagità? [25] Anche l’interpretazione più forzata della coscienza morale si rifiuterà di attribuirle questo senso di chiamata. Ma che significa allora «incitare all’esser colpevole»? [26] Il senso di chiamata diviene chiaro solo se la comprensione, anziché assumere un concetto di colpa derivato (nel senso di colpevolezza «risultante» da un’azione o da una omissione), si atterrà al senso esistenziale dell’esser-colpevole. Un’esigenza di questo genere non è arbitraria, se si tiene presente che la chiamata della coscienza morale muove dall’Esserci e si indirizza esclusivamente all’Esserci stesso. Ma in tal caso l’incitare al proprio esser-colpevole equivale a un chiamare-innanzi a quel poter-essere che, in quanto Esserci, già sempre sono. Questo ente non ha bisogno di contrarre una «colpa» mediante azioni od omissioni, esso non deve che essere autenticamente quel «colpevole!» che, essendo, è. [27] L’ascolto genuino del richiamo equivale allora all’autocomprensione dell’Esserci nel suo poter-essere più proprio, cioè a un autoprogettarsi nel poter-divenir-colpevole più proprio e autentico. Il comprendente lasciarsi-chiamare-innanzi a questa possibilità porta con sé il rendersi libero da parte dell’Esserci per la chiamata: la disponibilità per il poter-esser-chiamato. Comprendendo la chiamata, l’Esserci è obbediente (hoerig) alla sua possibilità di esistenza più propria. Ha scelto se stesso. [28] Con questa scelta, l’Esserci rende possibile a se stesso quel più proprio esser-colpevole che resta invece precluso al Si-stesso. La comprensione comune, propria del Si, non conosce che l’ottemperanza o la violazione di regole pratiche e norme pubbliche. Essa procede computando manchevolezze ed escogitando compensazioni. Si è già sottratta all’esser-colpevole più proprio per parlare a voce tanto più alta di mancanze. Ma nel richiamo il Si-stesso è richiamato all’essercolpevole che è più proprio del suo se-Stesso. La comprensione della chiamata è una scelta; non però della coscienza morale che, in quanto tale, non può essere scelta. Ciò che è scelto è l’aver-coscienza morale come esser-libero per il più proprio esser-colpevole. Comprensione del richiamo significa: voler-aver-coscienza morale. [29] Con questa espressione non si vuole alludere al voler avere una «buona coscienza morale» e neppure alla sollecitazione volontaria 30 della chiamata, ma unicamente alla disponibilità per l’essere chiamati. Il voler-aver-coscienza morale è tanto lontano dalla ricerca di colpevolezze effettive quanto lo è dalla tendenza a una liberazione dalla colpa in quanto esser «colpevole!» essenziale. [30] Il voler-aver-coscienza morale è invece il presupposto esistentivo più originario per la possibilità del divenir-colpevole effettivo. Comprendendo la chiamata, l’Esserci lascia agire in sé il se-Stesso più proprio in base al poter-essere che ha scelto. Solo così l’Esserci può essere responsabile. Ma ogni agire è di fatto necessariamente «incosciente» (»gewissenlos«), non soltanto perché non evita colpe morali effettive, ma perché, con-essendo già sempre con gli altri sul nullo fondamento del suo nullo progettare, si è reso colpevole nei loro confronti. In tal modo il voler-aver-coscienza morale diventa l’accettazione della essenziale mancanza di coscienza morale entro la quale soltanto sussiste la possibilità esistentiva di essere «buono». [31] Sebbene nell’immediato la chiamata non dia nulla a conoscere, essa non è soltanto critica, bensì positiva. La chiamata apre il poteressere più originario dell’Esserci in quanto esser-colpevole. La coscienza morale si rivela quindi come un’attestazione appartenente all’essere dell’Esserci, in cui l’Esserci è chiamato davanti al suo poteressere più proprio. Questo poter-essere autentico, così attestato, può essere definito esistenzialmente in modo più concreto? Prima di tutto bisogna chiedersi: l’analisi da noi compiuta di un poter-essere attestato dall’Esserci stesso potrà vantare una sufficiente evidenza finché non sia stato fugato il timore che la coscienza morale sia stata interpretata unilateralmente col riportarla alla costituzione dell’Esserci, senza tener conto dei dati noti all’interpretazione ordinaria della coscienza morale? Nell’interpretazione da noi proposta, il fenomeno della coscienza morale è ancora riconoscibile così com’esso «realmente» è? Non sarà stata eccessiva la sicurezza con cui abbiamo desunto l’idea della coscienza morale dalla costituzione dell’Esserci? [32] Si deve ora garantire anche alla comprensione ordinaria della coscienza morale la via d’accesso all’ultimo passo della interpretazione della coscienza morale, ossia alla delimitazione esistenziale del poter essere autentico attestato nella coscienza morale. A tal fine, c’è bisogno della dimostrazione esplicita della connessione fra i risultati dell’analisi ontologica e le esperienze quotidiane della coscienza morale. Da: M. Heidegger, Essere e tempo (tr. di P. Ciccarelli) 31 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 2 Da: Filosofia e cultura, vol. 3b, Il Novecento (La Nuova Italia, 20o7) capitolo: Martin Heidegger (a cura di P. Ciccarelli) Introduzione Heidegger L a filosofia di Heidegger ruota tutta intorno a un problema molto antico, posto per la prima volta dai pensatori greci agli esordi della filosofia occidentale: il problema dell’essere. Non si tratta però di un semplice ritorno al passato. Heidegger muove infatti dall’insegnamento del suo maestro Edmund Husserl, il fondatore della fenomenologia. Il problema dell’essere coincide cioè con quello dell’apparire o manifestarsi degli enti. Per Heidegger, però, l’apparire non dipende, come Husserl aveva sostenuto, dalla coscienza, dipende bensì dall’attività pratica umana. Questa è la tesi di fondo espressa nella sua opera principale, Essere e tempo, nella quale vengono analizzati i due modi principali dell’attività umana: l’esistenza inautentica e l’esistenza autentica. Quella inautentica è l’esistenza quotidiana, nella quale l’uomo si immedesima con il mondo in cui vive, lasciandosi guidare acriticamente dalle convenzioni sociali. L’esistenza autentica è invece l’esperienza umana della libertà. 1 Alla fine degli anni Trenta, Heidegger riesamina criticamente alcuni presupposti basilari di Essere e tempo. Si convince così che l’apparire non dipende, come lui stesso aveva sostenuto, dall’uomo, ma è un puro e semplice evento storico che non ha né causa né autore. Si tratta dell’evento o storia dell’essere, con la quale l’uomo è in contatto soprattutto grazie al linguaggio. La filosofia diventa così per Heidegger essenzialmente interpretazione delle parole di pensatori e poeti del passato, nelle quali la storia dell’essere si è resa manifesta. In base a questa interpretazione o meditazione storica, Heidegger denuncia il nichilismo dell’umanità occidentale, il fatto cioè che l’essere sia stato dimenticato o considerato come equivalente a nulla. Espressione suprema del nichilismo occidentale è la tecnica moderna. L’opera di Heidegger è stata tradotta e studiata in tutto il mondo, riscuotendo consensi e suscitando critiche, talvolta anche aspre. L’attualità di Heidegger è da attribuire anzitutto alla sua capacità di interrogarsi criticamente sull’identità culturale dell’Occidente. Vita e opere Martin Heidegger nacque a Meßkirch, in Germania, nel 1889. Dopo aver intrapreso studi teologici, nel 1919 decise di allontanarsi dal cattolicesimo per dedicarsi completamente alla filosofia. Studiò con il neokantiano Heinrich Rickert (1863-1936), ma l’impronta decisiva al suo pensiero fu impressa dal fondatore della fenomenologia, Edmund Husserl (1859-1938). Non tardò ad acquisire notorietà pubblica con lezioni, tenute nelle Università di Friburgo e Marburgo, che affascinarono gli ascoltatori per l’inaudita radicalità e spregiudicatezza del modo di leggere i testi filosofici. Notorietà che si consolidò e allargò oltre i confini della Germania quando Heidegger pubblicò il suo primo importante libro, Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927). La personalità di Heidegger presenta una sconcertante mescolanza di radicalismo critico, a tratti anche rivoluzionario, e di filisteismo morale. Ne è prova la sua pronta adesione al nazionalsocialismo nel 1933 (un episodio su cui torneremo più avanti, v. §§ 3.1 e 3.3.1). Da un lato, Heidegger spronava i suoi colleghi filosofi e scienziati a non starsene in disparte, ad assumersi eroicamente la propria responsabilità partecipando attivamente alla «rivoluzione nazionalsocialista». Dall’altro, però, accettava compromessi meschini, come accadde ad esempio quando, in occasione di una nuova edizione di Essere e tempo, in ossequio alla politica antisemita del regime tolse la dedica al suo maestro Husserl, ebreo. Anche l’atteggiamento dopo la guerra non è privo di ambiguità. Dopo essere stato sospeso dall’insegnamento per ordine delle forze di occupazione, Heidegger accettò di buon grado l’aiuto offertogli da allievi e estimatori per riabilitarlo. Si difese da chi gli rimproverava le trascorse scelte politiche, dicendo di essersene subito pentito e di aver poi sempre mantenuto un atteggiamento ostile nei confronti del regime. Eppure, in nessuno degli Il Novecento 2 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 3 scritti e in nessuna delle conferenze pubbliche tenute dal dopoguerra in poi, troviamo una presa di posizione chiara e univoca contro il nazismo. Ostinato, e da molti giudicato gravissimo, fu il silenzio di Heidegger sui temi più inquietanti legati al passato politico del suo paese, ossia la deportazione e lo sterminio degli ebrei. Morì nel 1976. Tra le sue opere, oltre al già ricordato Essere e tempo: La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto (Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, 1916), Kant e il problema della metafisica (Kant und das Problem der Methapysik, 1929), Che cos’è metafisica? (Was ist Metaphysik?, 1929), Dell’essenza del fondamento (Vom Wesen des Grundes, 1929), La dottrina platonica della verità (Platons Lehre der Wahrheit, 1942), Dell’essenza della verità (Vom Wesen der Wahrheit, 1943), Lettera sull’«umanismo» (Brief über den «Humanismus», 1946), L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes, 1950 ma risalente al 1935-36), Il detto di Anassimandro (Der Spruch des Anaximan- i Martin Heidegger der, 1950) Introduzione alla metafisica (Einführung in die Metaphysik, 1953, ma risalente al 1935), Il principio del fondamento (Der Satz vom Grund, 1957), Abbandono (Gelassenheit, 1959), In cammino verso il linguaggio (Unterwegs zur Sprache, 1959), Nietzsche (Nietzsche, 1961), La tecnica e la svolta (Die Technik und die Kehre, 1962), Sulla cosa del pensiero (Zur Sache des Denkens, 1969). 2 2.1 Problema dell’essere e analitica esistenziale Il primo Heidegger: la fenomenologia dell’esistenza umana Problema dell’essere e analitica esistenziale Il primo libro importante di Heidegger, rimasto altresì il più famoso, Essere e tempo si apre con una strana affermazione: «la domanda sull’essere è oggi dimenticata». Compito della filosofia è anzitutto «ricordare» la domanda sull’essere (o «problema dell’essere», Seinsfrage) al fine di fare dell’essere il tema specifico di una scienza apposita, l’ontologia. Sennonché, a parte questi e altri brevi cenni contenuti nell’introduzione, il libro non tratta affatto dell’essere. Tratta bensì di un «ente particolare», quell’ente cioè che, rispetto a tutti gli altri enti, ha la «peculiarità» di «comprendere l’essere». È l’ente che pone la domanda sull’essere: l’uomo o, secondo la terminologia adottata da Heidegger, l’«esserci» (Dasein). In Essere e tempo, il termine «esserci» è sempre sinonimo di “uomo”: un uso terminologico dovuto al ruolo che l’indagine sull’uomo svolge nell’ambito del progetto più generale abbozzato, ma non realizzato, in Essere e tempo, l’edificazione di una «scienza dell’essere» od «ontologia generale». L’uomo è l’esserci nel senso che è l’essere che è anzitutto dato, ossia l’essere che «c’è», qui e ora, ogni volta che ne venga posto il problema. L’espressione “ci” contenuta nella parola “esserci” chiama dunque direttamente in causa l’e3 Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 4 Di cosa si occupa Essere e tempo? In sintesi Il progetto di Essere e tempo è una indagine ontologica basata su una critica del soggetto trascendentale infatti prima di edificare una scienza dell’essere occorre svolgere una analitica esistenziale (ossia un’analisi dell’esserci dell’uomo – Dasein) sperienza umana dell’essere. Affinché si possa edificare una vera e propria scienza dell’essere, occorre dunque prima svolgere un’analisi dell’essere dell’uomo, o «analitica esistenziale» (l’aggettivo “esistenziale” viene da “esistenza”, appellativo dato da Heidegger all’essere dell’uomo). attenzione, glossa su tre righi Il problema dell’essere nell’antichità Il tema dell’essere su cui Heidegger richiama l’attenzione è antico quanto la filosofia stessa. È infatti il tema del pensiero filosofico greco sin da Parmenide ❚ v. vol. I, capitolo, pp. 000-000 ❚. C’è però un’evidente differenza tra il modo antico e quello heideggeriano di porre il problema dell’essere. In Parmenide, infatti, la nozione di “essere” è definita in opposizione a quella di “esserci”. Parmenide stabilisce cioè una separazione netta tra l’essere, o «verità», e quella che chiama doxa, l’«opinione», ossia il modo in cui le cose appaiono all’esperienza umana (il sostantivo doxa deriva infatti dal verbo dokèin, “apparire”, “mostrarsi”). Si tratta della medesima separazione che Platone stabilisce tra il mondo delle idee, accessibile solo alla mente, e la realtà visibile. Già Platone, ma soprattutto Aristotele avverte la necessità, per così dire, di “gettare un ponte” tra la dimensione della verità dell’essere e quella dell’opinione umana. Tanto nella filosofia antica quanto in quella medioevale, però, il discorso sull’essere (ontologia) si congiunge con difficoltà al discorso sull’uomo (antropologia) e, per questa ragione, viene per lo più articolato come discorso su Dio (teologia), inteso come l’unico ente in grado di conseguire una conoscenza assolutamente vera. Il problema della coscienza nel pensiero moderno Proprio questa difficoltà a far coesistere ontologia ed esperienza umana determina, nel corso della filosofia moderna, il progressivo accantonamento del problema dell’essere e lo spostamento dell’attenzione su un’altra questione, il problema della coscienza. A questa tradizione moderna, che parte da Cartesio e passa per Kant e l’idealismo classico tedesco (Fichte, Hegel, Schelling), si ricollega il maestro di Heidegger, Edmund Husserl ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 4, pp. 000-000 ❚. Come testimoniano i corsi universitari tenuti da Heidegger negli anni Venti, Essere e tempo nasce da un confronto critico con la fenomenologia di Husserl. Richiamandosi alla necessità di porre il problema dell’essere, Heidegger intende anzitutto rivolgere una critica alla tradizione moderna. Per capire perché mai Heidegger ponga un problema così singolare e, per così dire, “superato” come il problema dell’essere, occorre dunque per prima cosa capire la sua critica a Husserl. 2.2 Il confronto critico con Husserl L’idealismo fenomenologico di Husserl In un corso universitario del 1925, intitolato Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs), Heidegger individua nel pensiero di Husserl un dogma, ossia un presupposto ereditato dalla tradizione senza adeguata giustificazione. Si tratta dell’«idealismo fenomenologico» di Husserl, più precisamente, della tesi secondo cui il manifestarsi delle cose, dunque il «fenomeno» nel senso strettamente fenomenologico dell’espressione, ha luogo soltanto nella coscienza e per la coscienza ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 5, pp. 000-000 ❚. Husserl dà cioè per scontato che, ad esempio, il manifestarsi di un albero si possa spiegare soltanto presupponendo che vi sia una coscienza che lo percepisce (o lo ricorda, lo immagina, lo giudica scientificamente ecc.). Il percepire (o il ricordare, l’immaginare, il giudicare) è il vissuto di coscienza grazie al quale l’albero si manifesta. La fenomenologia è di conseguenza per Husserl riflessione sui modi della coscienza nei quali tutto ciò che è si manifesta. Il problema fenomenologico della trascendenza Più in particolare, la fenomenologia ha il compito di spiegare il darsi alla coscienza soggettiva di ciò che è oggettivo, ossia di ciò che si manifesta come un in sé indipendente dal soggetto. L’albero, infatti, qualunque sia il modo in cui lo colgo (sia quindi che lo percepisca, lo immagini, lo Il Novecento 4 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 5 giudichi ecc.) si presenta come un oggetto, ossia come qualcosa che è indipendente dal mio coglierlo. Husserl chiama questa indipendenza dell’oggetto dal soggetto la sua «trascendenza»: la cosa percepita trascende, sta oltre la coscienza, dunque sta fuori della coscienza che la percepisce. La fenomenologia husserliana riconduce la trascendenza dell’oggetto all’«immanenza» dei vissuti intenzionali, la spiega cioè come un prodotto della coscienza. In parole più semplici, l’albero si manifesta come indipendente dalla coscienza che lo percepisce perché, secondo Husserl, la coscienza stessa attribuisce all’albero questa sua indipendenza da lei. Per Husserl, quindi, non c’è essere che non sia essere di coscienza, giacché anche tutto quanto si presenta come altro dalla coscienza è tale, in realtà, soltanto nella coscienza e per la coscienza. La critica di Heidegger al coscienzialismo moderno Heidegger critica il primato attribuito da Husserl alla coscienza, ossia il suo «coscienzialismo» o «soggettivismo». Lo critica però rimanendo sul terreno stesso della fenomenologia, condividendo cioè con Husserl il problema che, secondo Heidegger, l’idealismo non riesce a risolvere. Quale problema? Il problema fenomenologico, cioè dell’indagine filosofica circa l’apparire, il manifestarsi di ciò che è. Benché Heidegger trasformi profondamente la terminologia di Husserl (soprattutto nella sua seconda fase, come vedremo), il suo può essere definito un pensiero fenomenologico. Diverse sono però le vie fenomenologiche aperte da Husserl e da Heidegger. Husserl, considerando la coscienza come luogo d’origine dell’apparire, rimane saldamente legato alla tradizione soggettivistica moderna iniziata da Cartesio. Heidegger, invece, criticando il primato della coscienza, cerca di aprire all’indagine fenomenologica una via nuova, alternativa a quella moderna. Il primato della presenza percettiva in Husserl Questa esigenza di liberarsi dalla tradizione moderna, viva e presente lungo tutto lo svolgimento del pensiero di Heidegger, nasce da una considerazione tanto semplice quanto basilare circa la natura del fenomeno, ossia dell’apparire stesso. Per Husserl, l’apparire di qualcosa significa anzitutto il suo essere presente. La cosa si manifesta quando è presente «direttamente» o – come Husserl ama dire – «in carne e ossa». Tutti gli altri modi di manifestazione (come ad esempio, il ricordo, l’immaginazione, il simbolismo matematico ecc.) sono modi soltanto indiretti, dunque secondari e imperfetti. La «presentazione» dell’oggetto, ossia la sua percezione diretta, ha dunque un primato rispetto a tutte le forme di manifestazione nelle quali l’oggetto rimane ancora in parte assente. La critica di Heidegger alla presenza percettiva Heidegger contesta il primato attribuito da Husserl alla presenza. L’apparire – osserva Heidegger – non ha luogo anzitutto nella forma della percezione diretta, ossia dell’avere in presenza l’oggetto da parte della coscienza. Si tratta, in fondo, di un’osservazione ovvia che ciascuno di noi può fare riflettendo, ad esempio, su quanto accade ora, mentre ci troviamo nella nostra stanza a studiare. Dinanzi a noi c’è il libro, la penna, la scrivania, il computer, accanto c’è la finestra, la porta ecc. La domanda che guida il pensiero fenomenologico di Heidegger è: in che senso tutte queste cose «ci sono», «sono qui»? Noi possiamo, certo, guardare separatamente ciascuna di esse, considerarle cioè in sé come oggetti presenti dinanzi a noi. Tuttavia, il libro, la penna, la scrivania, il computer, la finestra, la porta ecc. ci sono anche o René Magritte, La rivelazione del presente (1936, New York, collezione privata). La critica di Heidegger al suo maestro Edmund Husserl ruota attorno al concetto di presenza e al primato che Husserl aveva ad essa attribuito. Per Heidegger, invece, fenomeno è soprattutto ciò che non si manifesta rimanendo assente. 5 Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 6 Per Heidegger il primato della presenza non è valido In sintesi Non c’è niente che determini l’esistenza. L’esistenza precede l’essenza (Gli enti, ad esempio, si manifestano in quanto mezzi adatti a uno scopo). Esistere significa anzitutto attuare possibilità di agire (e non semplicemente conoscere oggetti). La prassi precede la conoscenza. senza che vi prestiamo attenzione. Il libro, ad esempio, è qui ma non lo vediamo come libro, piuttosto lo leggiamo per apprenderne il contenuto. La penna accanto al libro c’è ma non ci facciamo caso, e se vi prestiamo attenzione è soltanto per afferrarla e scrivere. La sedia su cui siamo seduti c’è senza che la guardiamo, né la guardiamo quando la spostiamo per alzarci. Se ci alziamo e apriamo la porta, non osserviamo direttamente la porta, né guardiamo la maniglia che afferriamo per aprirla. Insomma, anzitutto le cose ci sono, dunque si manifestano, appaiono senza essere «tematicamente» presenti, senza cioè essere il tema esplicito di una percezione diretta. Possono divenire «tematiche», possono essere percepite, ma «innanzitutto e per lo più» non sono oggetti percepiti, dunque non hanno il carattere della presenza. Il non manifestarsi del fenomeno in senso fenomenologico 2.3 Per comprendere il senso di queste osservazioni occorre tener presente quanto abbiamo già detto, ossia che, pur criticando Husserl, Heidegger intende rimanere sul terreno della fenomenologia. Questo implica però una revisione radicale del concetto stesso di fenomeno. Fenomeno non è soltanto ciò che si manifesta, ma anche e soprattutto ciò che rimane assente e che dunque, in un certo senso, non si manifesta. Sembra un paradosso, ma è in realtà quanto risulta dalle osservazioni che abbiamo appena fatto. Il libro, la penna, la sedia, la porta, la maniglia, l’intera stanza con tutto quanto vi è contenuto si manifesta rimanendo assente. Per accorgercene basta riflettere su quanto ci accade in questo momento. Il rapporto che c’è ora tra me e il libro non è di tipo percettivo, cioè io non vedo il libro, ma lo leggo. Lo stesso vale per la sedia: non la percepisco, ma ci sto seduto. Parimenti per la maniglia: non la osservo, ma la afferro per aprire la porta. L’essere nel mondo L’ente in quanto mezzo utilizzabile Il rapporto con le cose che abbiamo appena esemplificato è chiamato in Essere e tempo «prendersi cura» o anche «commercio», «avere a che fare» con gli enti. Nel prendersi cura, ossia nell’atteggiamento pratico dell’uomo, gli enti si manifestano in quanto mezzi adatti a un determinato scopo ❚ Lettura 1 ❚. Il libro si manifesta nel leggerlo, la penna nello scrivere, la porta nell’aprirsi e consentire il passaggio. Il libro, la penna, la sedia, la porta sono cioè anzitutto enti «utilizzabili». Un utilizzabile – questa è appunto la sua peculiarità fenomenologica – si manifesta assentandosi, sottraendosi alla percezione diretta. Per poter scrivere, infatti, non devo guardare la penna; questa deve – afferma Heidegger – «ritirarsi nella sua utilizzabilità», non deve diventare vistosa, presentarsi isolatamente. La penna diventa vistosa soltanto quando, ad esempio, non scrive più perché è finito l’inchiostro, ossia quando costringe a interromperne l’utilizzo. Utilizzabilità e semplice presenza Heidegger chiama il modo d’essere degli enti utilizzabili «utilizzabilità». Con il termine «modo d’essere» Heidegger intende l’apparire, il manifestarsi dell’ente. Un altro modo d’essere, dunque un’altra forma di apparire, è la «semplice presenza». L’ente diventa una semplice presenza quando è considerato come oggetto. È così, ad esempio, quando osservo un libro per metterne in evidenza analiticamente le proprietà, quando cioè affermo: “questo libro è un solido di forma rettangolare, è lungo 20 centimetri, largo 15, alto 5, pesa 500 grammi, è di colore bianco, è composto da una copertina, un certo numero di pagine ecc.” La semplice presenza è dunque il modo di apparire degli enti allorché divengono oggetti di conoscenza. Il Novecento 6 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 7 Il sistema di rimandi La conoscenza che mira a determinare l’ente in quanto semplice presenza è secondo Heidegger soltanto uno dei possibili modi in cui l’uomo si rapporta agli enti. Ma non è il modo primario. Primario è invece il prendersi cura, il rapporto pratico nel quale gli enti appaiono come mezzi utilizzabili adatti a uno scopo. Nell’apparire come mezzi, gli enti si inseriscono in quello che Heidegger chiama «sistema di rimandi». Ogni singolo mezzo cioè rimanda allo scopo possibile a cui è adatto, scopo che, a sua volta, è sempre mezzo che rimanda a un altro scopo possibile. La sedia rimanda alla possibilità di stare seduti, lo stare seduti alla possibilità di leggere il libro, il leggere il libro alla possibilità di apprendere la lezione ecc. Il sistema dei rimandi è dunque la totalità, l’insieme unitario delle connessioni tra i mezzi Il concetto di mondo e la critica dell’io come sfera immanente La totalità dei rimandi è chiamata da Heidegger anche «mondo». L’essere dell’esserci (così, ricordiamo, Heidegger chiama l’uomo) è un «essere nel mondo». Anche questa nozione centrale dell’analitica esistenziale implica una critica nei riguardi di Husserl e, più in generale, della tradizione soggettivistica. Affermando che l’esserci è in se stesso un essere nel mondo, Heidegger vuole contrastare l’idea di origine cartesiana secondo cui l’uomo sarebbe anzitutto chiuso nel proprio io, in quella che Husserl chiamava l’«immanenza di coscienza», e debba quindi cercare il modo di uscire da sé, ossia di trascendere la propria immanenza per entrare in contatto con oggetti posti fuori di lui. Essere nel mondo significa che l’esserci è in se stesso «trascendente», è cioè – afferma Heidegger – «già sempre fuori di sé presso il mondo». Che cosa significa? Torniamo ai nostri esempi. Nello stare seduti sulla sedia, nel leggere il libro, nello scrivere con la penna, nell’aprire la porta, tutti questi enti non ci stanno semplicemente di fronte come oggetti estranei. Ci sono bensì familiari nel senso che sono commisurati a noi, al nostro poterli usare, e noi stessi ci adattiamo perciò alla loro forma. La penna, ad esempio, è anzitutto una cosa che può essere afferrata e dunque è fatta a misura della nostra mano (per questo il termine tedesco usato da Heidegger per “utilizzabile” è Zuhandenes, che letteralmente significa: “ciò che è portata di mano”). Per usare la penna, però, occorre imparare a disporre le dita, la mano, il braccio e tutto il corpo in un certo modo. Usare un mezzo significa cioè saperlo padroneggiare con il corpo, dunque non osservarlo astrattamente dall’esterno, ma «immedesimarsi», fare tutt’uno con esso. Questa immedesimazione con il mezzo, necessaria al suo funzionamento, è appunto l’essere fuori di sé presso il mondo. 2.4 Autenticità e inautenticità 2.4.1 La fonte aristotelica: pòiesis e praxis L’antecedenza della prassi alla conoscenza Mostrando che gli enti con cui l’esserci è quotidianamente in rapporto sono anzitutto mezzi utilizzabili, e soltanto secondariamente semplici presenze oggetto di osservazione teorica, Heidegger, per così dire, assegna alla prassi un primato sulla teoria. Esistere significa anzitutto attuare possibilità di agire e non semplicemente conoscere oggetti ❚ Lettura 1 ❚. L’origine storica di quest’idea nell’Ottocento< GLOSSA SENZA A CAPO> È questa un’idea largamente diffusa nella cultura europea, non soltanto filosofica, sin dall’Ottocento. Basti pensare al maggior esponente del romanticismo tedesco, Goethe ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 0, pp. 000-000 ❚, che aveva fatto dire al protagonista di un suo celebra dramma, il Faust: «in principio fu l’azione». E, per restringerci alla filosofia, si pensi alle critiche dell’idealismo speculativo di Hegel da parte di Marx ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 0, pp. 000-000 ❚ e di Kierkegaard ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 0, pp. 000-000 ❚. Si pensi inoltre alla veemente polemica nei confronti dell’ideale platonico e cristiano della vita contemplativa e ascetica e alla celebrazione dell’attività creatrice in Nietzsche ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 0, pp. 000-000 ❚. Il ritorno all’Etica nicomachea di Aristotele Sennonché, nel riprendere questa idea tipicamente ottocentesca del primato dell’attività pratica sul conoscere, Heidegger avverte l’esigenza di articolare il concetto della prassi umana meglio di quanto non sia stato fatto in epoca moderna. A tal fine, ricorre soprattutto all’opera di un filosofo antico: l’Etica nicomachea di Aristotele ❚ v. vol. 1, nome capitolo, § 0, pp. 000-000 ❚. Più in particolare, in un corso universitario su Platone e Aristotele che precede la pubblicazione di Essere e tempo ed è intitolato Il Sofista di Platone (Platon: Sophistes, pubblicato nel 1992, ma tenu7 Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 8 to nel 1924-25), Heidegger analizza la distinzione aristotelica tra due forme di attività umana: la pòiesis, il produrre nel senso del “fare”, e la praxis, l’“agire” in senso vero e proprio. Normalmente non distinguiamo il fare dall’agire, o meglio ci rappresentiamo l’agire come un fare. Per Aristotele, invece, si tratta di attività fondamentalmente diverse. Entrambe sono attività, hanno cioè un fine o uno scopo a cui tendono. L’una, però, la pòiesis, ha il fine fuori di sé, mentre l’altra, la praxis, ha il fine in se stessa. Heidegger interpreta questa distinzione in senso fenomenologico. Secondo lui, cioè, distinguendo la praxis dalla pòiesis Aristotele ha inteso distinguere due modi di manifestarsi dell’essere umano. Storie per approfondire Il carattere fenomenologico della pòiesis: l’eclissarsi del produttore nel prodotto Riflettiamo su un esempio di pòiesis: la produzione di un tavolino da parte del falegname. Affermando che la pòiesis è un’attività che non ha il fine in se stessa, Aristotele intende dire che gli atti compiuti dal falegname per produrre il tavolino (dunque, la progettazione, la scelta del legname, il montaggio, la rifinitura ecc.) sono tutti orientati verso uno scopo che sta oltre gli atti stessi. Ciò significa, sotto il profilo fenomenologico, che l’apparire del produttore è secondario rispetto all’apparire dell’opera da produrre. La realizzazione del tavolino è infatti un modo di rendere manifesto qualcosa. Grazie alla produzione, cioè, la cosa prodotta appare, diventa presente. Benché, però, debba il proprio apparire all’attività del produrre, la cosa prodotta appare soltanto quando l’attività del produrre è cessata. In altre parole, nel momento in cui il tavolino è realizzato, diventa cioè concretamente presente, l’attività del falegname è finita. Nel tavolino non vediamo più il falegname che l’ha prodotto. Si comprende allora il rilievo fenomenologico che ha per Heidegger la nozione aristotelica di pòiesis. Nella produzione, il produttore scompare, dilegua nel prodotto. L’atto del manifestare si eclissa nella cosa manifestata. Heidegger e la riflessione sul politico: Leo Strauss e Hannah Arendt Benché il primo Heidegger abbia prestato scarsa attenzione al fenomeno della politica, due suoi studenti, Leo Strauss (1899-1973) e Hannah Arendt (1906-1975), hanno ricevuto da lui l’impulso a porre questo tema al centro dei propri interessi. Negli anni Venti, essi frequentarono un corso universitario nel quale Heidegger attirò la loro attenzione su due testi della filosofia greca, il Sofista di Platone e l’Etica Nicomachea di Aristotele. Un punto, in particolare, sembra essere stato per loro decisivo: il rilievo dato da Heidegger alla differenza tra il modo di vita del filosofo, ossia di colui che ricerca la verità, e quello di chi si occupa di affari pubblici, cioè il politico in senso lato (il retore, l’avvocato, il capo di un partito, lo stratega militare ecc.). Strauss e Arendt arrivarono così a maturare una convinzione che, nonostante gli esiti differenti delle loro riflessioni, è comune a entrambi: la filosofia intrattiene un rapporto conflittuale con la sfera politica. Una “filosofia politica” è, dunque, a rigor di termini, impossibile. La filosofia nasce infatti soltanto nel momento in cui viene messa radicalmente in questione la dimensione dell’opinione (quella che i greci chiamavano dòxa), dimensione che è invece propria dell’agire politico. Molto diverse sono, però, le conseguenze che Strauss e la Arendt traggono da questa consapevolezza. Per Strauss si tratta anzitutto di difendere la filosofia dagli imperativi della politica. Strauss scopre così che, per Il Novecento difendersi dal potere politico, i filosofi antichi e della prima modernità (Cartesio, Spinoza, Hobbes, Leibniz ecc.) adottarono un’abile tecnica comunicativa, la «scrittura essoterica». Essendo consapevoli, cioè, che la filosofia deve necessariamente mettere in discussione le convenzioni su cui si fonda il potere politico e corre quindi sempre il pericolo di diventare oggetto di persecuzione, i filosofi comunicavano i propri insegnamenti “tra le righe”, in modo indiretto, stando attenti a non offendere l’opinione comune. La Arendt, il cui pensiero è più chiaramente legato a quello di Heidegger, solleva un problema diverso: riflettere sulle questioni civili senza lasciarsi condizionare da pregiudizi che scaturiscono da esperienze estranee alla sfera politica. Ad esempio, a causa di un modo di pensare che ha un’origine filosofica e quindi necessariamente “antipolitica”, siamo di norma inclini a considerare l’imprevedibilità e la provvisorietà dei risultati dell’azione politica come difetti da cui occorre liberarsi. Comunemente, cioè, si attribuisce al pensiero politico il compito di prevedere nel modo più esatto possibile i comportamenti umani. La Arendt giudica un atteggiamento del genere, basato sull’idea tipicamente scientifica della prevedibilità degli eventi fisici, incompatibile con la sfera politica. Se infatti – osserva – un’azione umana fosse completamente prevedibile, non sarebbe più un’azione umana. Avrebbe perso quelle caratteristiche che rendono l’azione diversa da un processo fisico, ossia, anzitutto la libertà e, quindi, l’imprevedibilità e la provvisorietà. 8 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 9 Il rendersi visibile dell’agente nella praxis La praxis, l’agire in senso vero è proprio si distingue dalla pòiesis perché il suo scopo consiste nell’esecuzione stessa degli atti necessari a compierlo. Un esempio di praxis che si trova spesso negli scritti di Aristotele è l’attività del suonare uno strumento musicale. Quando suoniamo uno strumento, ad esempio il flauto, siamo impegnati in un’attività il cui fine è l’attività stessa. Se infatti cessa l’attività, cessa anche il suono. Il manifestarsi del suono coincide dunque con il manifestarsi di colui che suona. Il suono non è dunque un prodotto che appare successivamente all’attività del suonare lo strumento, mentre il tavolino appare soltanto dopo l’esecuzione degli atti necessari alla sua costruzione. Il suono, dunque lo scopo del suonare, coincide con l’atto stesso del suonare. Questa elementare osservazione aristotelica ha per Heidegger un’importanza decisiva. Essa indica infatti che la prassi umana può attuarsi in due modi fenomenologicamente opposti. Se si attua come produzione, l’attività umana scompare nel prodotto, se invece si attua come azione in senso proprio, si rende visibile in se stessa. Esistenza autentica, o propria, e esistenza inautentica, o impropria Benché non ne faccia esplicita menzione, in Essere e tempo Heidegger si serve della distinzione aristotelica tra pòiesis e praxis per individuare due diversi modi di essere dell’esserci, cioè dell’uomo: l’esistenza inautentica e l’esistenza autentica. Pur essendo entrambe attività pratiche, nell’una, l’esserci non si rivela, nell’altra si rivela a se stesso. Si osservi, al proposito, che la radice della parola tedesca che rendiamo in italiano con “autenticità”, Eigentlichkeit, è eigen, “proprio”. L’esistenza inautentica è dunque l’esistenza “non propria”, “impropria”, che non si appropria di sé, ossia che non incontra se stessa in quello che fa. L’uomo è viceversa autentico quando agisce in modo da svelare quello che gli è proprio. Si tratta, a guardar bene, di una distinzione del tutto ovvia. Quando, ad esempio, di una attività ripetitiva e noiosa, come imparare a memoria un testo o compilare bollettini postali, diciamo che è “alienante”, intendiamo appunto dire che ci aliena o espropria di quello che siamo capaci di fare, ossia che non consente di mostrarci nella nostra individualità. Attività creative che chiamano direttamente in causa le nostre attitudini personali, ad esempio una partita di calcio o la risoluzione di un quiz di intelligenza, consentono invece di mostrarci in quello che abbiamo di più proprio. 2.4.2 Il decadimento dell’esserci e il «si» impersonale Gli strumenti come possibilità di attuare la libertà Si tenga anzitutto presente un’avvertenza che Heidegger stesso fa all’inizio dell’analisi dell’esistenza inautentica. Con «inautenticità» Heidegger non intende un modo di vivere privo di valori o immorale. Intende, molto semplicemente, la consueta prassi quotidiana, la vita vissuta in base alle possibilità offerte dalle circostanze in cui l’uomo viene giorno per giorno a trovarsi. Come abbiamo visto, il quotidiano prendersi cura delle cose è in sostanza il loro utilizzo come strumenti per fare qualcosa. Gli strumenti offrono dunque all’uomo la possibilità di realizzare i suoi progetti pratici, gli consentono cioè di attuare la sua libertà. Il carattere vincolante degli strumenti Sennonché, gli strumenti offrono possibilità di attuare la libertà, ma le pongono anche vincoli. Vincoli necessari al funzionamento stesso degli strumenti. Come abbiamo osservato, infatti, per essere utilizzabile il mezzo deve rimanere assente, o meglio, deve manifestarsi assentandosi. Lo strumento funziona, cioè, non quando è osservato, quando si crea quella distanza tra l’uomo e l’ente che consente la conoscenza oggettiva, bensì quando colui che usa il mezzo fa tutt’uno con esso, vi «si affida» cioè completamente. Proprio questa immedesimazione, necessaria al funzionamento dello strumento, ne fa un vincolo per colui che lo utilizza. La dipendenza da ciò che rende indipendenti Il carattere vincolante dei mezzi ci è noto per esperienza diretta. A tutti è infatti capitato di fare qualche volta esperienza dell’irritante sensazione di impotenza che sopraggiunge quando si rompe un mezzo, ad esempio l’automobile, su cui facciamo normalmente affidamento. In casi simili ci accorgiamo di essere dipendenti da quello che, per altro verso, rappresenta uno straordinario ampliamento delle nostre possibilità. Siamo cioè dipendenti da quello che ci rende indipendenti. Scopriamo di essere dipendenti dall’automobile quando si guasta, perché quotidianamente vi facciamo affidamento e, ad esempio, programmiamo la nostra giornata contando sul fatto che possiamo usarla. Se improvvisamente non funziona, non possiamo andare al lavoro, rispettare gli appuntamenti presi, insomma, non riusciamo più a venire a capo di nulla. 9 Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 10 La dipendenza delle attitudini tecnico-pratiche dagli strumenti La paradossale dipendenza dell’uomo dagli strumenti che lo rendono per altro verso indipendente è espressa da Heidegger con la seguente formula: «l’esserci comprende se stesso a partire dagli enti che incontra nel mondo». Al proposito, occorre tener presente che, quando parla di «comprendere» o «comprensione» (Verstehen), Heidegger non intende un atto di natura teorico-conoscitiva. Intende invece un’attitudine pratica, ossia l’«esser capace di essere» o «saper fare qualcosa» (Sein-können). Si tratta perciò di un sapere, ma nel senso tecnicopratico che intendiamo quando diciamo, ad esempio, di “saper andare in bicicletta”, “saper nuotare”, “sapere come si compila un modulo” e simili. Che l’esserci comprenda se stesso a partire dagli enti che incontra nel mondo significa dunque che il suo saper fare, ossia le sue attitudini dipendono dagli strumenti che consentono di metterle in pratica. Più in particolare, gli strumenti vincolano la prassi umana alle possibilità determinate che essi permettono di realizzare. Un martello, ad esempio, consente di conficcare chiodi, ma non consente di scrivere e, viceversa, una penna consente di scrivere ma non consente di conficcare chiodi. Il decadimento da sé dell’esistenza inautentica La prassi umana quotidiana è dunque essenzialmente un “produrre” nel senso, prima chiarito, del termine aristotelico pòiesis. Al pari della pòiesis aristotelica, infatti, il prendersi cura pratico di cui parla Heidegger è un’attività orientata verso uno scopo che sta al di là, ossia fuori, all’esterno dell’attività stessa. Ciò significa che l’esserci «si disperde» nei mezzi di cui fa uso. L’essere nel mondo è dunque un perdersi o – per usare il termine tecnico che troviamo in Essere e tempo – un Verfallen, espressione traducibile in italiano con «decadimento» (o anche «deiezione»), da intendere però secondo il duplice significato del «decadere da sé» dell’esserci e del suo contemporaneo «cadere nel mondo» di cui l’esserci si prende cura. Il conformismo del «si» impersonale La perdita di sé o decadimento che caratterizza l’essere nel mondo dell’esserci non riguarda però soltanto il singolo individuo. Riguarda bensì anche quello che Heidegger chiama l’«essere assieme», dunque la dimensione sociale, intersoggettiva dell’esistenza umana. L’esistenza inautentica è anche e soprattutto un «essere assieme» inautentico. Si tratta, in sostanza, di quello che siamo soliti chiamare “conformismo”, ossia la tendenza ad allinearsi alle opinioni dei più, a comportarsi secondo schemi prestabiliti, a rendersi uniformi alla collettività. Heidegger parla, in proposito, di predominio di un «si impersonale» (Man è la parola con la quale in tedesco si designa il soggetto di frasi impersonali: ad esempio, man sagt, “si dice”): l’esserci inautentico agisce e pensa così come si agisce e si pensa (tema anticipato da Nietzsche, ❚ v. vol. III, nome capitolo, Lettura 2 ❚). Caratteristiche dell’esistenza inautentica sono secondo Heidegger i La spersonalizzazione nella società di massa è stato uno dei temi della Pop Art: ecco la «chiacchiera», la «curiosità» e l’«equivoco». La come Roy Lichtenstein raffigura se stesso in chiacchiera è il modo vacuo di discorrere di cose o di vi- questo Autoritratto (1978, collezione privata). cende umane, basato sulla ripetizione acritica di pregiudizi comunemente accettati. La curiosità è un desiderio di conoscenza fine a se stesso, che si appaga della superficie delle cose senza mai essere disposto a andare a fondo. Chiacchiera e curiosità fanno sì che nel vivere l’uno con l’altro predomini l’equivoco ossia l’incomprensione reciproca. 2.4.3 Il problema del sé e l’insufficienza della soluzione tradizionale L’autenticità come scoperta della libertà C’è un tratto che accomuna i diversi aspetti dell’esistenza inautentica: l’esserci inautentico, secondo Heidegger, «fugge da se stesso», dunque si nasconde a stesso, non si rivela per quello che è. Si tratta di quella incapacità di essere propriamente se stessi designata dalla parola tedesca Uneigentlichkeit, che traduciamo con “inautenticità”, ma che letteralmente significa “non proprietà”, “improprietà” (il termine Uneigentlichkeit è infatti formato da un, “non”, e Il Novecento 10 0140.p000-000_heidegger.qxd In sintesi 12-12-2006 16:07 Pagina 11 L’essenza dell’uomo e l’esistenza autentica per Heidegger è il da-sein (ossia la sua esistenza) Che cos’è l’essenza dell’uomo? å siamo abitatori del tempo, gettati nel mondo, consapevoli della nostra morte. dunque la morte è la possibilità che rende ogni possibilità impossibile pertanto la vita autentica accetta la morte, facendo propria la dimensione dell’angoscia e non si disperde nell’inautentico. l’inautentico si rivela nella chiacchiera e nelle occupazioni frenetiche. eigen, “proprio”). Giunto a questo punto dell’analitica esistenziale, Heidegger si chiede: c’è un modo d’essere in cui l’esserci è propriamente se stesso? Un modo di vita, cioè, nel quale l’uomo non fugge da se stesso, ma si rivela invece per quello che propriamente è? Il problema può sembrare di semplice soluzione, e tale è per lo più sembrato, secondo Heidegger, nella tradizione filosofica. Da Socrate fino a Husserl, infatti, si è concordemente ritenuto che l’uomo acceda a se stesso grazie a un atto di riflessione interiore, grazie cioè alla conoscenza di sé. Sennonché, una soluzione del genere è per Heidegger necessariamente inadeguata. Per lui, infatti, l’esistere umano non è anzitutto conoscere, ma agire. La prassi ha un primato sulla teoria. Affidare il compito di manifestare l’esserci a un atto conoscitivo quale la riflessione interiore, come ha per lo più fatto la tradizione filosofica, significherebbe attribuire alla conoscenza maggiore importanza che alla prassi. L’esistenza autentica quale autorivelazione dell’agente Per Heidegger, dunque, non si tratta di trovare una via di conoscenza capace di condurre l’uomo dinanzi alla sua vera natura. Si tratta piuttosto di individuare quei modi d’essere in cui l’esserci non si nasconde a se stesso, non si immedesima cioè negli strumenti che usa, non decade da sé cadendo nel mondo, non si conforma acriticamente agli schemi del «si» impersonale. Saranno modi di essere “pratici” nel senso della praxis di Aristotele, dunque azioni tali da far sì che l’agente si riveli a se stesso nell’atto in cui agisce, come accade al flautista dell’esempio aristotelico, il quale, suonando, produce il suono, ma esibisce al contempo anche se stesso. Azioni di questo tipo sono i fenomeni esistenziali che Heidegger chiama «angoscia» ed «essere per la morte». La necessità di un’analisi fenomenologica e non psicologica della dimensione emotiva L’angoscia è uno «stato d’animo» ossia un modo di quella che Heidegger chiama «situatività emotiva» (Befindlichkeit, ❚ Lettura 2 ❚). Stati d’animo sono ad esempio, la paura (a torto, secondo Heidegger, confusa con l’angoscia), l’allegria, la noia, la depressione, il pudore ecc. Si tratta dunque di quelli che normalmente chiamiamo “sentimenti” o “stati psicologici”. Heidegger avverte però che la natura degli stati d’animo è totalmente travisata quando si considerano in modo psicologico, ossia come proprietà di una sfera psichica, interna, soggettiva, estranea alla sfera mondana, esterna, oggettiva. Anche negli stati d’animo l’esserci è in rapporto con il mondo, non rimane isolato nella propria privata interiorità. Gli stati d’animo sono dunque fenomeni in senso fenomenologico, ossia modi di apparire degli enti. 11 Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 12 L’autorivelazione emotiva nella paura Che cosa appare negli stati d’animo? Pensiamo a un caso che è sicuramente capitato a tutti: lo spavento che ci prende quando, camminando distrattamente lungo un viale, avvertiamo improvvisamente la presenza di un cane che, dietro un cancello, si rivolge a noi ringhiando e abbaiando. In un caso simile, ci assale la paura perché il cane ci appare come qualcosa di minaccioso. Perché nasca il sentimento di paura, però, non è sufficiente che qualcosa si riveli minaccioso. La paura nasce dal fatto che la minaccia si manifesta nelle nostre immediate vicinanze. Se infatti osserviamo il cane di lontano, oppure se siamo sin da principio consapevoli che c’è una rete a proteggerci, anche se sappiamo che si tratta di un cane pericoloso, di norma non ne abbiamo paura. Ciò significa che il sentimento di paura nasce soltanto quando la minaccia ci coinvolge, ci riguarda direttamente. In termini fenomenologici: la minaccia fa paura quando ci si manifesta in modo tale da renderci manifesti a noi stessi. La paura fa sì che l’esserci si riveli a se stesso. Il rivelarsi all’esserci del suo essere gettato Tutti gli stati d’animo sono secondo Heidegger modi in cui l’esserci si rivela a stesso. Non si tratta però di atti di riflessione o di autopercezione nel quale l’io osservi se stesso come un oggetto. Al contrario, negli stati d’animo l’esserci avverte la propria esistenza come una possibilità da attuare, ossia come un «aver da essere». La paura, infatti, non è soltanto paura «di» qualcosa (del cane, ad esempio), ma anche sempre paura «per» qualcosa (ad esempio, per la nostra integrità fisica). Ciò per cui abbiamo paura, ossia ciò che sentiamo minacciato è sempre una nostra attuale possibilità di fare qualcosa: se il cane ci mordesse, non potremmo compiere ciò che stavamo facendo, ad esempio, continuare la nostra passeggiata. Rivelando l’esistenza come possibilità, la paura, così come ogni altro stato d’animo, fa sì che l’uomo avverta – afferma Heidegger – la propria «gettatezza » (Geworfenheit). L’esistenza umana è «gettata», è cioè una condizione precaria, priva di garanzie, irrimediabilmente esposta al rischio del fallimento. La cura come costrizione a essere liberi Non si leggano però queste parole di Heidegger come espressione di un esangue pessimismo, come un ammonimento a considerare insensato ogni progetto e ideale di vita, insomma come un invito alla rassegnazione. Per Heidegger, infatti, il carattere di gettatezza dell’esistenza implica il contrario della rassegnazione. Essendo gettata, l’esistenza è «affidata» all’uomo come un compito da attuare e verso cui egli è responsabile. Si rifletta, per capire questo punto, sul significato dell’espressione “affidare”. Quando qualcosa o qualcuno – ad esempio, un bambino – ci viene affidato, veniamo a trovarci in una condizione che è, insieme, libera e non libera. Per un verso, siamo liberi di disporre di ciò che ci viene affidato: un bambino affidato alla nostra cura va guidato e educato. Per altro verso, però, proprio questa libertà ci pone vincoli ben precisi: nell’aver cura di un bambino dobbiamo mirare al suo bene, siamo cioè responsabili della sua crescita. Il bambino suscita la nostra apprensione perché, per tutto il tempo in cui è affidato alla nostra cura, ci pone costantemente dinanzi alla necessità di agire, di prendere decisioni nei suoi riguardi, di valutare ciò che è bene e ciò che è male per lui. La cura di un bambino che ci è stato affidato è dunque una condizione nella quale siamo, per così dire, “costretti a esser liberi”: la libertà è avvertita come un «peso», un’incombenza a cui non possiamo sottrarci. Per designare il rapporto dell’esserci con la propria esistenza, Heidegger usa l’espressione «cura» (Sorge) nel senso appena chiarito. L’esserci ha cura della propria esistenza, si trova cioè nella necessità di assumere su di sé il peso della libertà di agire. L’angoscia come stato d’animo autentico La paura, così come la maggior parte degli stati d’animo, pur rivelando all’esserci il fatto di essere gettato nella propria esistenza, è però secondo Heidegger un modo per evitare di assumersi il peso della libertà. La paura offre all’uomo una via di fuga dalla costrizione di essere libero: gli consente di rifugiarsi nel «si» impersonale. Le possibilità di esistenza a cui l’uomo è rinviato nella paura non sono cioè possibilità liberamente progettate, sono bensì passivamente accettate in conformità a ciò che gli altri fanno. Diverso è invece il caso di quello che Heidegger chiama lo «stato d’animo fondamentale» o «autentico»: l’angoscia ❚ Lettura 3 ❚, un tema centrale già in Kierkegaard ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 0, pp. 000-000 ❚. L’effetto liberatorio dell’angoscia Benché apparentemente simile alla paura, l’angoscia (Angst) presenta una caratteristica che la distingue da tutti gli altri stati d’animo. L’angoscia – afferma in sostanza Heidegger – è uno stato d’animo senza oggetto. Non c’è propriamente niente che susciti l’angoscia. O meglio, ciò che Il Novecento 12 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 13 suscita l’angoscia non è, come accade nella paura, questo o quell’ente che si incontra nel mondo, ma è il mondo stesso come tale. Quando è angosciato, l’esserci avverte l’insensatezza di tutto quello che normalmente per lui ha senso. Lo stato d’animo dell’angoscia produce cioè un effetto «spaesante» o «inquietante» (unheimlich) perché priva l’esserci dell’abituale confidenza con l’ambiente circostante. Nell’angoscia – afferma Heidegger – l’uomo «non si sente più a casa propria», avverte cioè che ogni possibilità di agire che il mondo gli offre non ha più senso, non rappresenta più uno scopo degno di essere perseguito. Ciò non significa però che l’angoscia inibisca o paralizzi l’azione. Al contrario, secondo Heidegger, l’angoscia, rivelando l’insensatezza di ogni singolo scopo determinato, libera l’esserci dalla tendenza inautentica a interpretare se stesso e le proprie possibilità di agire accettando acriticamente quello che impersonalmente tutti pensano e tutti fanno. L’angoscia, insomma, libera l’uomo dall’inautenticità e lo dispone a esistere autenticamente. Autenticità e inautenticità come diversi di modo di esistere Ma che cosa significa, propriamente, esistere in modo autentico? Che cosa deve fare l’uomo, in concreto, per essere autentico? La risposta a queste domande in Essere e tempo può apparire deludente. Heidegger, infatti, non stabilisce nessuno scopo, ideale, valore concreto da realizzare. La differenza tra autenticità e inautenticità non risiede cioè in un diverso contenuto dell’esistenza, ma soltanto in un diverso modo di esistere. Abbiamo già osservato che quando Heidegger parla di «modo di essere» intende l’apparire, il manifestarsi di ciò che è. L’esistenza autentica è appunto un diverso modo di manifestarsi del medesimo contenuto che si manifesta nell’esistenza inautentica. Nell’esistenza inautentica, l’esserci fugge da se stesso, ossia, si nasconde, non si manifesta a se stesso. Ciò significa che le possibilità di agire, i progetti, gli scopi, i valori che lo guidano non sono vissuti da lui come sue libere scelte. Nascondendosi a se stesso, l’esserci non afferra le possibilità di esistenza in quanto proprie possibilità, possibilità cioè a cui si può dire sì o no, ma soltanto come schemi di comportamento prestabiliti a cui si deve adeguare in ossequio all’autorità del «si» impersonale. L’angoscia, rivelando l’insensatezza del mondo, libera l’esserci da questa tendenza inautentica a fuggire da sé, lo spinge cioè a porsi dinanzi a se stesso e a riconoscere senza finzioni rassicuranti il proprio essere gettato nell’esistenza. La rivelazione autentica di sé come scoperta della libertà finita In altre parole, l’angoscia fa sì che l’uomo scopra la propria libertà. Non si tratta però di una libertà senza vincoli. Quella umana è – afferma Heidegger – una «libertà finita», vale a dire, non è infinita come la libertà creatrice che la tradizione filosofico-teologica attribuisce all’onnipotenza divina. Che la libertà umana sia finita significa essenzialmente due cose. Significa anzitutto che l’esserci è costretto a concretizzare di volta in volta la propria libertà in una scelta determinata la quale esclude inevitabilmente altre possibili scelte. Significa inoltre che una volta compiuta la scelta, abbracciato un ideale, optato per un fine, l’uomo rimane vincolato alla necessità di portarlo a compimento. L’esistenza umana è insomma caratterizzata da quella condizione duplice, libera e vincolata a un tempo, che abbiamo sopra esemplificato riflettendo su che cosa implichi aver cura di qualcosa o qualcuno che ci è stato affidato. Ciò significa, secondo Heidegger, che l’esserci è autenticamente libero quando sceglie le sue possibilità di esistenza in vista della propria morte. L’esserci è autentico, cioè, quando esiste come «essere per la morte» o «anticipazione della propria morte». La scelta autentica resa possibile dall’essere per la morte Parlando di essere per la morte, Heidegger non allude alla necessità di pensare alla morte o, peggio, di suicidarsi. La morte è presa da lui in considerazione come la «la possibilità più propria» dell’esserci. Tra tutte le possibilità, osserva infatti Heidegger, la morte è una possibilità assolutamente eccezionale, perché è «la possibilità dell’impossibilità dell’esistenza come tale». Ciò significa che nell’anticipazione della propria morte, l’esserci si trova confrontato con l’«impossibilità», ossia con la negazione della possibilità come tale, dunque con il limite oltre il quale l’esistenza non può andare. La morte non offre niente da realizzare, niente che possa essere concretamente attuato, giacché rappresenta l’annullamento di ogni possibilità di esistenza concretamente realizzabile nel mondo. La morte è infatti il non essere più nel mondo dell’esserci. Tuttavia, come abbiamo già osservato a proposito dell’insensatezza del 13 Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 14 o Edvard Munch, Il letto di morte (Oslo, Munchmuseet, 1896). Heidegger identifica la vita autentica con l’accettazione della morte come possibilità più propria, incondizionata, insuperabile e certa dell’Esserci. L’autenticità si manifesta nella decisione anticipatrice di progettare la propria esistenza come un essere per la morte. mondo sperimentata nell’angoscia, l’anticipazione dell’annullamento di ogni possibilità mondana, secondo Heidegger, non implica affatto la paralisi dell’azione. Al contrario, soltanto anticipando la propria morte, l’uomo è in grado di scegliere autonomamente le possibilità di esistenza e di non conformarsi acriticamente agli schemi del «si» impersonale. 3 3.1 Il secondo Heidegger: il pensiero dell’essere come evento La svolta antiumanistica Il clima culturale esistenzialista tra le due guerre Alla sua apparizione nel 1927, Essere e tempo suscitò consensi in Germania, in Francia e in altri paesi europei. A determinarne il successo fu anzitutto il rilievo che Heidegger aveva conferito ad aspetti dell’esistenza umana che la filosofia del tempo, soprattutto quella che si insegnava all’università, aveva trascurato: la dimensione della vita pratica quotidiana, l’emotività, il carattere tragico della libertà, il senso della mortalità ecc. Essere e tempo andava incontro a un’esigenza culturale che aveva già trovato espressione nel primo diffondersi dell’esistenzialismo, determinato dalla ripresa di Kierkegaard da parte del teologo Karl Barth (1886-1968) e dai primi scritti di Karl Jaspers (1883-1969). La lettura di Essere e tempo divenne decisiva nella formazione di altri pensatori esistenzialisti come il teologo Rudolph Bultmann (1884-1976) e, soprattutto, il maggiore esponente dell’esistenzialismo francese, Jean-Paul Sartre (1905-1980) ❚ v. vol. III, L’esistenzialismo, § 0, pp. 000-000 ❚. L’interpretazione esistenzialista di Essere e tempo Essere e tempo fu avvertito come un libro rivoluzionario perché poneva finalmente al centro l’uomo nella sua esistenza concreta. Per farsi un’idea dell’effetto di rottura suscitato dall’analitica esistenziale si pensi soltanto alla differenza tra l’aspirazione di fondo della fenomenologia di Heidegger e quella del suo maestro Husserl. Per Husserl il problema fondamentale della fenomenologia non era sostanzialmente diverso dal problema sul quale la filosofia da Platone in poi si era continuamente affaticata senza mai trovare, secondo lui, una soluzione adeguata: il problema dell’episteme o «scienza rigorosa» ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 4 e 6, pp. 000-000 ❚. Husserl era cioè persuaso che la ragione umana, qualora fosse riuscita a realizzare il suo scopo, giungere a un sapere incontrovertibile, assolutamente certo e al riparo da ogni possibile dubbio, avrebbe gradatamente risolto ogni problema umano. In Essere e tempo, nonostante l’evidente presenza dell’insegnamento husserliano, non c’è più traccia dell’entusiasmo razionalistico che animava Husserl. Mentre Husserl si richiamava ai «compiti infiniti della ragione», da realizzare grazie all’applicazione rigorosa del metodo fenomenologico, Heidegger batteva l’accento sulla «finitezza» dell’esistenza, vale a dire, sul carattere limitato e dunque problematico e aperto di ogni risultato pratico o teorico conseguito dall’attività umana. Proprio questa tonalità esistenzialista e antropologica di Essere e tempo ne favorì il successo in un’epoca – gli anni tra la prima e Il Novecento 14 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 15 la seconda guerra mondiale – segnata da profondissime inquietudini, incertezze e crisi di carattere morale, politico e sociale ❚ v. vol. III, Crisi della civiltà?, § 0, pp. 000-000 ❚. La smentita dell’interpretazione esistenzialistica Sennonché, subito dopo la seconda guerra mondiale, Heidegger pubblica uno scritto, la Lettera sull’«umanismo» (Brief über den «Humanismus», 1946), nel quale avverte che l’interpretazione esistenzialistica di Essere e tempo ne aveva frainteso il vero significato. La polemica è diretta, in particolare, contro lo slogan che fa da titolo a un saggio di Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo (L’existentialisme est un humanisme, 1946). Heidegger richiama l’attenzione sul fatto che l’analitica dell’esistenza umana era stata concepita in Essere e tempo come «preparazione» o «elaborazione» di un problema filosofico di gran lunga più importante e urgente del problema dell’uomo, su cui l’esistenzialismo insisteva: il problema dell’essere. L’indagine svolta in Essere e tempo non aveva cioè un carattere antropologico, bensì ontologico. Il discorso sull’uomo – l’antropologia – era soltanto una «via» per giungere al discorso sull’essere – l’ontologia –. Nel richiamare l’attenzione su questo, però, Heidegger segnalava anche che il progetto intrapreso in Essere e tempo, ossia l’«elaborazione del problema dell’essere», era andato incontro a un fallimento. La svolta come mutamento dell’orientamen to umanistico di Essere e tempo Per ragioni che tra poco cercheremo di chiarire, Heidegger ritiene che il pensiero esposto in Essere e tempo debba necessariamente compiere una «svolta» (Kehre). Per comprendere questa nozione, si rifletta sulla metafora della “via”, del “cammino” e del “sentiero”, metafora presente, non a caso, nei titoli delle raccolte heideggeriane dei saggi successivi a Essere e tempo, come Sentieri interrotti (Holzwege, 1950), In cammino verso il linguaggio (Unterwegs zur Sprache, 1959), Segnavia (Wegmarken, 1967). Come si è appena detto, l’analisi dell’esistenza umana era stata concepita da Heidegger come una via per giungere a quello che sin dalle pagine introduttive era stato indicato come il vero scopo della ricerca: il chiarimento del senso dell’essere in generale, vale a dire l’ontologia. La svolta a cui si richiama la Lettera sull’«umanismo» va appunto intesa come il mutamento della direzione della via percorsa dall’analitica esistenziale. Heidegger invita cioè la filosofia contemporanea a abbandonare proprio quell’orientamento antropologico e, più in generale, «umanistico» che gli interpreti esistenzialisti di Essere e tempo avevano invece accentuato. Invitando alla svolta, dunque, Heidegger suggerisce implicitamente che l’esistenzialismo umanistico non era stato introdotto arbitrariamente in Essere e tempo dai suoi interpreti, era bensì, per così dire, un suo “esito indesiderato” da cui occorre ora guardarsi per imboccare una strada alternativa. Motivi biografici della svolta All’origine della svolta del pensiero di Heidegger sono da individuare motivi di carattere sia biografico sia teorico. Sotto il profilo biografico, occorre anzitutto tener presente che, nel 1933, l’anno in cui Hitler prende il potere in Germania, Heidegger aderisce al nazismo assumendo la carica di rettore dell’Università di Friburgo. In quell’occasione pronunciò un discorso, L’autoaffermazione dell’università tedesca (Die Selbstbehauptung der deutschen Universität, 1933), entusiasticamente animato dalla persuasione che il nuovo regime offrisse una straordinaria possibilità di rinnovamento delle istituzioni politiche e sociali. Era convinto che fosse arrivato il momento propizio alla realizzazione dell’utopia di Platone, che nella Repubblica aveva assegnato ai filosofi il ruolo di supremi ph?lakes, «duci reggitori» dello stato. Ammoniva perciò la filosofia e la scienza contemporanea a intervenire attivamente nella «rivoluzione nazionalsocialista». Heidegger non tardò però a rendersi conto che il nuovo tiranno non aveva affatto intenzione di lasciarsi condurre dai filosofi ma, al contrario, mirava alla completa politicizzazione della cultura, a ridurla cioè a semplice strumento di propaganda dell’ideologia di partito. Dopo nemmeno un anno, Heidegger si dimise dalla carica di rettore e si dedicò esclusivamente all’insegnamento. L’esigenza di ripensare l’essenza dell’agire La fallimentare esperienza politica con il nazismo indusse Heidegger a riflettere su un problema che, come abbiamo visto, era già stato al centro di Essere e tempo: il rapporto tra teoria e prassi o tra pensare e agire. L’esigenza di mutare l’orientamento umanistico e antropologico dell’analitica esistenziale è strettamente connesso con questa riflessione. Non a caso, il testo in cui si parla della svolta, La lettera sull’umanismo, scritto immediatamente dopo il crollo della Germania nazista, si apre con un’affermazione che può essere letta anche come un’autocritica: 15 Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 In sintesi 16:07 Pagina 16 Gli interessi del secondo Heidegger riflessione Opere successive a Essere e tempo sull’essenza dell’agire, sul rapporto tra prassi umana e verità, sulla fondazione, sulla differenza ontologica polemica contro l’esistenzialismo umanista «Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire». Sotto il profilo strettamente teorico, quindi, la svolta trae origine dalla critica del modo in cui, in Essere e tempo e in altri scritti immediatamente successivi, era stato concepito l’agire umano. Più in particolare, nella seconda metà degli anni Trenta, Heidegger rimette in discussione il rapporto tra prassi umana e verità. 3.2 L’essenza della verità e il problema della fondazione differenza ontologica La verità come adeguamento Per comprendere i motivi teorici della svolta occorre dunque prendere le mosse dalla riflessione che Heidegger dedica al concetto di verità. Già in Essere e tempo e, successivamente, nelle parti iniziali di una conferenza intitolata Dell’essenza della verità (Vom Wesen der Wahrheit, 1943), Heidegger critica quello che lui considera il «concetto corrente della verità come adeguamento» ❚ Lettura 4 ❚. Si tratta della concezione, ovvia anche per il senso comune, secondo cui la verità è una proprietà della conoscenza, in particolare di quella conoscenza che è «conforme» o «adeguata» alla realtà conosciuta. La frase “la neve è bianca”, ad esempio, è vera perché, in effetti, ossia nella realtà stessa, la neve è bianca. L’affermazione “la neve è nera” è invece falsa perché, di fatto, la neve non è nera. L’una è vera perché si adegua alla realtà, l’altra falsa perché non vi si adegua. Il problema dell’origine della differenza tra l’atto conoscitivo e il suo oggetto Perché mai criticare una simile ovvietà? Si tenga presente che quella di Heidegger è una critica fenomenologica. Mira cioè anzitutto a rendere manifesti i presupposti che i sostenitori della concezione criticata danno per scontati senza riflettervi. Ebbene, se si dice che la verità consiste nell’adeguarsi della conoscenza (il giudizio o la rappresentazione “la neve bianca”) allo stato di cose (la neve bianca reale) si presuppone, consapevolmente o inconsapevolmente, che l’atto conoscitivo è differente dall’oggetto conosciuto. Heidegger pone in sostanza il problema dell’origine di questa differenza. Un problema che, secondo lui, l’intera tradizione filosofica occidentale non era stata fino ad allora in grado di risolvere in modo adeguato. Più in particolare, Heidegger ritiene che nessuna teoria della conoscenza o gnoseologia possa venire a capo del problema, giacché la differenza tra conoscenza e oggetto conosciuto è da intendere come un caso particolare della «differenza ontologica» o «differenza tra essere ed ente». Il conoscere è cioè, secondo lui, un particolare modo di essere dell’ente conosciuto. Il problema dell’origine della differenza tra atto conoscitivo e oggetto conosciuto è dunque un problema ontologico e non gnoseologico. La differenza tra essere e ente Ma che cosa vuol dire che la conoscenza è un modo di essere della cosa conosciuta? Si ricordi quanto abbiamo più volte osservato, ossia che, per Heidegger, l’ontologia è essenzialmente fenomenologia. L’essere dell’ente è cioè da intendere come il suo apparire, manifestarsi, svelarsi o venire alla presenza. Il «modo di essere di qualcosa» non è altro che il suo apparire (v. sopra § 2.2). Affermando che il conoscere è un modo di essere dell’ente, Heidegger intende dunque dire che, nel conoscere, l’ente si presenta, appare, si svela. La conoscenza è un modo di essere dell’ente nel senso che è il manifestarsi (l’essere) della cosa conosciuta (l’ente). I termini “essere” e “ente” stanno dunque a significare l’azione (espressa dal verbo “essere”) grazie alla quale qualIl Novecento 16 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 17 cosa (espresso dal nome “ente”) è, ossia si manifesta. In base a questa concezione ontologicofenomenologica, la conoscenza è quel particolare modo di essere o presentarsi nel quale l’ente si presenta come differente dal suo stesso essere o presentarsi. La conoscenza come differenza ontologica Questo ragionamento consente a Heidegger di mostrare che l’asserzione, così come ogni atto conoscitivo è uno svelamento soltanto secondario o «derivato», fondato cioè su uno svelamento preliminare o «originario», grazie al quale l’ente si manifesta come ciò a cui la conoscenza deve adeguarsi. In altre parole, Heidegger sostiene che, quando si asserisce qualcosa intorno alla Storie Chiariamo questo concetto con un esempio concreto. Un atto conoscitivo è, ad esempio, l’asserzione “la neve è bianca”. Essa manifesta o – come Heidegger dice anche – «svela» l’ente, la neve bianca reale. Asserire significa svelare l’ente, nell’asserzione si produce uno «svelamento». I termini “svelamento” e “svelatezza” sono il calco letterale della parola greca che designa la verità: alètheia (da a-, “non”, e lèthe, “nascondimento”, “velatezza”). “Svelato” significa dunque “vero”. Quello conoscitivo, però, è uno svelamento, per così dire, “condizionato” o “subordinato”. L’asserzione “la neve è bianca”, infatti, è vera, ossia svela l’ente se e solo se la neve è effettivamente bianca, dunque se ciò che l’espressione linguistica esprime è conforme allo stato di cose reale. Per stabilire se l’asserzione (“la neve è bianca”) è conforme alla cosa asserita (la neve bianca reale) occorre verificarla. Occorre, ad esempio, guardare direttamente la neve e constatarne l’effettiva bianchezza. È dunque l’ente in se stesso (la neve bianca reale) il «criterio» o la «misura» in base alla quale possiamo stabilire se l’asserzione (“la neve è bianca”) è vera o falsa, se cioè è svelante o velante. per approfondire La verità come svelamento A-lètheia: i Greci e noi Heidegger ha prestato sempre grande attenzione al mondo greco. Le sue interpretazioni dei presocratici, dei poeti tragici, di Platone e Aristotele muovono tutte da una convinzione di fondo: benché sia la base della nostra moderna civiltà occidentale, il mondo greco è divenuto per noi pressoché inaccessibile. In altre parole, noi pensiamo e agiamo in base a principi che sono stati scoperti per la prima volta dai Greci, ma non siamo più in grado di comprendere perché pensiamo e agiamo, per così dire, “in modo greco”. Prendiamo ad esempio il concetto di «verità», un principio per noi indispensabile, di cui facciamo uso ogni giorno. Senza di esso, infatti, non vi sarebbero tribunali (dove i testimoni “giurano di dire la verità”), istituzioni scientifiche (in cui “si ricerca la verità”), passaporti (che “attestano la vera identità” di una persona), banconote (che, per avere valore, “non devono essere false”) ecc. Ebbene, secondo Heidegger, il fatto che cose come tribunali, enti di ricerca, passaporti, banconote abbiano così grande importanza nella nostra vita quotidiana attesta la «presenza» dell’antica Grecia tra noi. I filosofi greci furono infatti i primi a porre a tema il concetto di “verità” (in greco: <PAROLA GRECA>, alètheia) e a farne un principio del pensare e dell’agire quotidiani. Si rifletta, però, sulla natura di questa presenza. Heidegger non intende tanto quella che possiamo percepire direttamente quando, ad esempio, visitando un sito archeologico nel sud dell’Italia (l’antica magna Grecia), vediamo le rovine di un tempio. Si tratta, piuttosto, di una presenza che non appare direttamente, di una «presenza assente». 17 Una presenza che, quanto più «rimane assente», «si cela», «si ritrae», tanto più ci tiene in suo dominio, impedendoci di riflettervi sopra criticamente. Ritornare al mondo greco significa dunque per Heidegger riflettere criticamente su noi stessi, sui principi che informano il modo di vivere occidentale. La scoperta più importante fatta da Heidegger in questa sorta di “viaggio a ritroso” nell’identità dell’Occidente riguarda proprio il concetto di verità (scoperta contestata, in realtà, da alcuni filologi classici). La parola alètheia – osserva Heidegger – è composta dalla a privativa (“non”) e dal verbo lanthànein (“nascondersi”). Heidegger ne conclude che, quando i Greci usavano questa parola, la intendevano come a-lètheia, «non nascondimento», «non velatezza». Avvertivano cioè che la verità reca in sé un nesso indissolubile tra la presenza e l’assenza. “Vero” era per loro, anzitutto, quello che è stato portato alla luce strappandolo a un occultamento. Ad esempio, vero è l’ordine naturale delle cose, ordine che non è immediatamente evidente, giace per lo più nascosto, occultato dalle convenzioni, dalle opinioni e dai costumi comunemente condivisi. La verità è insomma il risultato di una critica della tradizione. Che cosa significa per Heidegger questa scoperta filologica? Significa che i Greci non soltanto pensavano e agivano, come anche noi facciamo, in base al principio della verità, ma erano anche consapevoli del modo in cui questo principio si impone, ossia come una presenza inestricabilmente connessa con l’assenza. Per Heidegger, la differenza tra noi e i Greci sta tutta qui: noi ci lasciamo guidare acriticamente dai principi scoperti dai Greci, i Greci sapevano invece di essere guidati da tali principi. Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 18 i Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1915-1964. Si tratta di una delle prime sculture ready-made (“già fatte”), costituita da una ruota mobile fissata a uno sgabello. «Questa macchina – afferma Duchamp – non ha altra intenzione che quella di sbarazzarsi dell’apparenza di opera d’arte […].Voleva porre fine al desiderio di creare l’opera d’arte». realtà, la realtà stessa è già svelata come il criterio oggettivo di tutto quello che possiamo dire al suo riguardo. Si comprende allora perché, per Heidegger, quella tra conoscenza e oggetto conosciuto è una differenza tra essere ed ente (o differenza ontologica). Presentandosi come il criterio a cui l’atto conoscitivo deve adeguarsi, l’ente si presenta altresì come altro, dunque come differente dal modo di essere che esso assume nell’atto conoscitivo stesso. La dipendenza della conoscenza dalla svelatezza dell’ente in quanto tale La cosa si chiarisce meglio se riflettiamo sul significato del verbo “rappresentare”, con il quale per lo più designiamo l’attività della mente in genere. Il sostantivo “rappresentazione” deriva dal latino repraesentatio che significa letteralmente “ripresentazione”, “presentazione di ciò che è già presente”. Perché questo raddoppiamento del presente e della presenza? Perché qualsiasi rappresentazione, anche una puramente fantastica come, ad esempio, l’immagine di un abitante di Marte, allude sempre a qualcosa che sta oltre la sfera del nostro attuale rappresentare. In ogni rappresentazione, quindi, il rappresentato si presenta come altro, ossia come già presente rispetto alla presentazione che ne stiamo facendo. In questo senso, la rappresentazione è un ripresentare, un presentare ancora una volta ciò che è già presente. Non c’è rappresentazione conoscitiva (o immaginativa, simbolica ecc.) che non presupponga l’essere già presente del rappresentato in quanto differente dalla rappresentazione attuale che ne abbiamo. Heidegger chiama questa presenza preliminare dell’ente, in quanto differente dall’attività rappresentativa, «svelatezza dell’ente in quanto tale». La differenza ontologica quale fondamento del riferirsi della conoscenza alla realtà Sembra un ragionamento molto astratto ma, a guardare bene, Heidegger non fa altro qui che evidenziare un’ovvietà per indurci a riflettervi sopra criticamente. Quando diciamo “la neve è bianca”, o in qualsiasi altra asserzione sulla realtà, intendiamo naturalmente esprimere il sussistere oggettivo di un fatto o di uno stato di cose reale. Lo stato di cose reale (la neve bianca sussistente di fatto) a cui si riferisce l’asserzione (“la neve è bianca”) è dunque il criterio in base al quale diciamo quello che diciamo. In altri termini, quando asseriamo qualcosa riguardo alla realtà, non vogliamo dare semplicemente espressione a una nostra privata impressione soggettiva, ma intendiamo cogliere le cose così come sono indipendentemente dalla rappresentazione con cui le cogliamo. In ogni asserzione facciamo dunque valere, implicitamente o esplicitamente, la pretesa che quello che asseriamo si riferisca alla realtà. Lo differenza ontologica su cui Heidegger richiama l’attenzione è la «ragione» o il «fondamento» che ci consente di avanzare questa ovvia pretesa di riferirci alla realtà. 3.3 Il carattere problematico della differenza ontologica Le due soluzioni del problema della differenza ontologica Proprio perché ovvia, la pretesa avanzata in ogni conoscenza di riferirsi alla realtà non diviene abitualmente oggetto di riflessione critica. Nel conoscere diamo cioè per scontato che l’ente sia il criterio o la misura della conoscenza stessa, che sia cioè differente dall’essere. Portando alla luce il fenomeno della differenza ontologica o svelatezza dell’ente in quanto tale, Heidegger Il Novecento 18 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 19 intende altresì indicarne il carattere problematico. La differenza ontologica esige cioè una fondazione filosofica che sia in grado di dimostrarne l’origine. Come abbiamo già osservato, Heidegger ritiene che nessuna filosofia abbia sinora fornito una soluzione soddisfacente a questo problema. Benché in non pochi luoghi lasci intendere che il problema rimanga per lui in sostanza aperto, prima e dopo la svolta Heidegger prospetta due soluzioni differenti. Due soluzioni che differiscono per il diverso ruolo che viene attribuito alla volontà e, dunque, all’agire dell’uomo. 3.3.1 La differenza ontologica come apertura umana La soluzione trascendentale La prima soluzione, adottata in Essere e tempo e negli scritti immediatamente successivi, consiste nell’attribuire all’uomo la peculiare facoltà di «aprire» o «attuare» la differenza ontologica. Si tratta di una soluzione umanistica o antropologica con la quale Heidegger, pur criticandone i limiti, rimane parzialmente legato alla tradizione filosofica. Più in particolare, come afferma in Kant e il problema della metafisica (Kant und das Problem der Metaphysik, 1929), intende realizzare quello che, a suo parere, rappresenta il progetto incompiuto della filosofia trascendentale kantiana, ossia la «fondazione della metafisica». Il termine “metafisica” è un altro nome per designare l’apertura della differenza ontologica, dunque lo svelamento dell’ente in quanto tale che precede e fonda ogni conoscenza. La fondazione trascendentale della conoscenza fisica compiuta da Kant nella Critica della ragion pura è, secondo Heidegger, soltanto un momento di un più ampio, ma incompiuto, progetto kantiano di fondazione della differenza ontologica. L’autonomia della volontà e lo svelamento La soluzione del problema della differenza ontologica prima della svolta si ispira dunque al trascendentalismo kantiano. Heidegger si richiama anche alla Critica della ragion pratica di Kant e, in particolare, al tema dell’autonomia della volontà morale. Kant aveva attribuito all’uomo la facoltà di agire liberamente, ossia di determinare la propria volontà indipendentemente da ogni movente sensibile ❚ v. vol. II, nome capitolo, § 0, pp. 000-000 ❚. Nell’Essenza del fondamento (Vom Wesen des Grundes, 1929) e in altri corsi universitari degli stessi anni, Heidegger collega esplicitamente il concetto della volontà libera al problema della differenza ontologica. Lo svelamento dell’ente in quanto tale viene così definito come «l’azione originaria dell’esistenza umana, nella quale tutto l’esistere in mezzo all’ente deve essere radicato». In altre parole, per Heidegger, lo svelamento preliminare, grazie al quale l’ente si presenta come differente dall’essere rendendo così possibile la conoscenza, è il risultato di un’iniziativa umana. Il volontarismo teologico nel tardo medioevo Benché Heidegger faccia soprattutto riferimento al trascendentalismo kantiano (oltre che a Nietzsche), la fondazione della verità nella libertà del volere richiama in realtà un’altra dottrina filosofica, sostenuta nel tardo Medioevo soprattutto da Duns Scoto e Occam ❚ v. vol. II, nome capitolo, pp. 000-000 ❚: il volontarismo. Si tratta di una concezione sorta, come era consueto in epoca medioevale, per risolvere problemi di carattere teologico. La questione era se l’atto di volontà con cui Dio ha creato il mondo fosse stato o no conforme a un piano razionalmente comprensibile, dunque a una verità che avesse fatto da guida al volere divino. I volontaristi più radicali non ammettevano nessuna verità preesistente alla volontà di Dio, perché altrimenti si sarebbe dovuto anche ammettere che la libertà divina non è completamente libera. Non essendo possibile concepire niente che preesista all’atto di creazione del mondo, non potendosi cioè ammettere nessuna limitazione della libertà divina, la volontà di Dio è da considerare indipendente da ogni verità che non sia essa stessa il risultato di una decisione divina. Nel volontarismo teologico l’intelletto (o conoscenza) è dunque completamente subordinato alla volontà (o prassi). Il carattere volontaristico e attivistico della soluzione trascendentale La soluzione trascendentale del problema della differenza ontologica negli scritti heideggeriani dei primi anni Trenta presenta una certa analogia con questo schema concettuale volontaristico. Schema che Heidegger, naturalmente, non riferisce a Dio, ma all’uomo. In particolare, Heidegger accentua nel senso volontaristico appena chiarito un’idea cardine di Essere e tempo, quella secondo la quale l’uomo è l’unico tra tutti gli enti a possedere, come suo carattere essenziale, la capacità di comprendere l’essere (v. sopra § 2.1). In Essere e tempo, Heidegger aveva inoltre 19 Heidegger Storie per approfondire 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 20 Heidegger e il nazismo: l’illusione della filosofia al potere. Una questione ancora assai controversa è quale sia il rapporto tra la filosofia di Heidegger e la sua scelta politica a favore del nazismo. Una questione analoga a quella che, nel secondo dopoguerra, è sorta in Italia a proposito di Giovanni Gentile, importante filosofo e eminente personalità politica del regime fascista (v. vol. III, cap. 00, § 3.2). Nel Novecento non mancano altri casi di filosofi schierati a fianco di regimi politici tirannici, basati sulla repressione violenta della libertà. Si pensi ai numerosi filosofi e uomini di cultura comunisti, come ad esempio l’ungherese György Lukács (1885-1971) e, in Francia, Jean-Paul Sartre, che hanno dato pubblicamente il proprio consenso a una dittatura totalitaria come quella di Stalin, ferocemente avversa a ogni espressione di dissenso. Si tratta di un fatto non nuovo nella storia della filosofia. Già Platone, infatti, aveva manifestato la propria propensione per la dittatura tentando di diventare consigliere di un tiranno, Dionigi di Siracusa. Il rapporto tra filosofia e tirannide si può interpretare in modi diversi. Un primo modo consiste nell’individuare quali sono gli elementi ideologici che rendono affine una certa filosofia al regime politico tirannico. Il caso di Heidegger, osservato da questa angolazione prospettica, appare a molti indubbio. Molti interpreti, cioè, ritengono che quella di Heidegger sia stata una filosofia irrazionalista, ostile alla scienza, all’argomentazione razionale, alla libertà di pensiero, politicamente incline, quindi, a forme di governo come la dittatura. Si può tuttavia avanzare un’interpretazione diversa e, forse, meno sommaria della questione. L’accusa di irrazionalismo è infatti spesso indizio della preconcetta volontà di liquidare l’avversario senza capirlo. E, nel caso della filosofia di Heidegger, il rimprovero di essere un pensiero ostile alla libertà umana appare particolarmente inadeguato, visto il rilievo assolutamente centrale che questa nozione assume in tutta la sua opera. Sembra dunque più corretto spiegare la scelta politica di Heidegger come il frutto di un’illusione. È l’illusione, ricorrente nella storia della filosofia, di potersi servire della dittatura come di uno strumento, più rapido ed efficace di altre forme di governo, per condurre la filosofia al potere e rendere così compiutamente razionale la vita politica. Non c’è dubbio quindi che a Heidegger vada rimproverata la sconcertante incapacità di capire in tempo gli evidenti propositi criminali di Hitler e della sua cricca. Ma si tratta appunto di mancanza di intelligenza politica e di scarso coraggio civile, non di affinità ideologica tra la sua filosofia e la brutale mitologia irrazionalista propagandata dai nazisti. inteso la nozione di «comprensione» (Verstehen) in senso non teoretico ma pratico, ossia come la capacità dell’esserci di progettare la propria esistenza (v. sopra § 2.4.2). Estendendo all’ente in quanto tale questa nozione di comprensione pratica, che in Essere e tempo rimaneva invece ancora limitata all’esistenza umana, Heidegger conferisce al proprio pensiero un carattere volontaristico e, per così dire, “attivistico”. Dalla capacità umana di svelamento – si legge ad esempio nella conferenza sull’Essenza della verità – «nascono le decisioni semplici e rare della storia». Non è un caso che gli scritti nei quali viene prospettata questa soluzione volontaristica del problema della differenza ontologica risalgano agli anni in cui Heidegger compì la fatale scelta di impegnarsi in politica. 3.3.2 La soluzione antivolontaristica: la differenza ontologica come evento La differenza ontologica come evento In concomitanza con il suo ritiro dalla vita pubblica, Heidegger inizia la revisione critica della propria concezione della prassi umana e del suo rapporto con la verità. Dalla seconda metà degli anni Trenta, in particolare dal secondo dei due volumi intitolati Nietzsche (Nietzsche, 1961, ma risalente al decennio 1936-46) fino a scritti tardi come Abbandono (Gelassenheit, 1959), Heidegger assume una posizione nettamente antivolontaristica. La differenza ontologica o verità dell’ente in quanto tale non viene cioè più concepita come il prodotto di una libera decisione umana, bensì come un «accadimento» o «evento storico» (Ereignis) di cui né l’uomo né nessun altro ente è causa. La storia assume ora un rilievo molto diverso da quello che aveva prima della svolta. Prima della svolta, la storia era concepita da Heidegger come un dominio specificamente umano contrapposto alla natura. Un dominio nel quale veniva a espressione quella facoltà di agire liberamente che Heidegger riservava esclusivamente all’uomo, negandola agli enti non umani. Dopo la svolta Heidegger parla della storia in termini molto diversi, a una prima lettura piuttosto oscuri. Parla infatti del «destino dell’essere» che si esprime nel linguaggio mediante «appelli» ai quali l’uomo si trova di volta in volta a dover «rispondere». Che vorrà mai dire Heidegger con queste enigmatiche parole? Cerchiamo di chiarirle analizzando distintamente due temi: la storia (§ 3.3.2.1) e il linguaggio (§ 3.3.2.2) Il Novecento 20 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 21 qui ci sono sotto-sotto paragrafi e sotto-sotto-sotto paragrafi:mi sa che è la prima volta che succede… X ora ho messo in rosso i sotto-sotto-sotto paragrafi, ma se si decide di metterli farò nuovo stile. 3.3.2.1 La storia dell’essere come svelamento senza autore Il senso verbale dell’espressione essere: l’azione dell’accadere Per comprendere il significato del concetto heideggeriano di «storia dell’essere» occorre anzitutto guardarsi dall’interpretarlo nel modo più ovvio e banale. Heidegger non intende affermare che la prassi umana è soggetta al potere discrezionale di un’entità superiore – l’essere – che, come una sorta di burattinaio, reggerebbe i fili delle vicende che si svolgono sul palcoscenico della storia. Non è questo quello che Heidegger intende dire. Intende semmai dire proprio il contrario, ossia che non c’è nessun principio che governi l’accadere storico. Si ricordi ancora una volta che Heidegger usa l’espressione “essere” in senso fenomenologico. L’essere è cioè il manifestarsi di ciò che è, il venire alla presenza dell’ente. Al pari di ogni altro verbo (“camminare”, “mangiare”, “vedere” ecc.), l’espressione “essere” indica un’azione. O meglio, indica l’azione dell’accadere in quanto tale, l’azione nella quale qualcosa in generale accade, si presenta. Accadere e ordine causale dell’accadere L’espressione “storia dell’essere”, osservata sotto questo profilo, risulta composta da due parole aventi il medesimo significato. Per “storia” si intende infatti normalmente l’accadere, dunque il manifestarsi di qualcosa. Quando ad esempio parliamo della “storia dei Romani”, intendiamo l’insieme degli avvenimenti rilevanti (di carattere politico, sociale, culturale, economico ecc.) nei quali gli uomini in un tempo e in uno spazio determinati si sono manifestati e ci si rendono oggi manifesti grazie alle testimonianze di tali avvenimenti (narrazioni, monumenti, resti archeologici ecc). Per lo più, però, associamo a questo significato del termine storia anche l’idea di un ordine secondo il quale gli avvenimenti si sono prodotti. La storia ci appare allora come il risultato di azioni compiute da persone o forze determinate. Quando pensiamo agli avvenimenti storici, cioè, tendiamo a identificarli con qualcuno o qualcosa che li compie. Gli avvenimento ci appaiono allora come conseguenze di una causa. L’avvenimento storico e la successiva esigenza di comprenderlo Ad esempio, diciamo che la crisi economica subita dalla Germania nel 1929 fu la causa dell’avvento al potere di Hitler, individuiamo cioè una forza economica come autrice dell’avvenimento. Oppure diciamo che l’invasione tedesca della Polonia nel 1939 scatenò la seconda guerra mondiale. Questo modo di ragionare per cause è giustificato dall’esigenza di spiegare, comprendere, rendere ragione degli avvenimenti, un’esigenza che nasce sempre dopo che sono accaduti. Non è difficile accorgersi, però, che quando si riconduce un avvenimento a una causa determinata, ossia a qualcuno o qualcosa che l’ha compiuto, si finisce inevitabilmente con l’“immobilizzare”, per così dire, il carattere dinamico di ogni avvenimento. Un avvenimento storico, nel momento in cui accade, non è altro che se stesso, è cioè qualcosa di imprevisto, dunque qualcosa che, propriamente, non ha né causa né autore. Le intenzioni stesse di chi è protagonista di un avvenimento storico, ad esempio le intenzioni di Hitler quando dà l’ordine di invadere la Polo- i Passato e presente si confrontano in un processo interpretativo tipico di molta pittura contemporanea: il quadro di Magritte qui a destra (Prospettiva: Madame Recamier di David, 1950) ripropone – con una macabra variazione – il soggetto di un famoso dipinto del 1771 di Jacques-Louis David (Ritratto di Madame Recamier, Parigi, Louvre). 21 Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 22 nia, rappresentano soltanto, per così dire, “uno degli infiniti fili” di quella gigantesca “trama” di fatti che, soltanto retrospettivamente, quando cioè l’avvenimento si sarà compiuto, potrà essere individuata come “seconda guerra mondiale”. La storicità di ogni pensare e agire umano Con le espressioni «storia dell’essere», «evento» o anche «verità dell’essere» Heidegger designa proprio questa dimensione della storia come un accadere che non ha nessun autore o causa, dunque nessun ente a cui possa venir ricondotto. In altre parole, dopo la svolta, Heidegger considera lo svelare come un essere (nel senso verbale della parola) senza ente, uno svelamento senza autore. Si comprende meglio, a questo punto, che cosa implichi la svolta antiumanistica. Affermando che la differenza ontologica, dunque la svelamento grazie al quale l’ente in quanto tale si impone come criterio della conoscenza, è un destino della storia dell’essere, Heidegger colloca sia il pensare sia l’agire umano in una prospettiva integralmente storica. Non ammette più quindi, come invece faceva prima della svolta, un primato della prassi sulla teoria. Tanto l’agire quanto il pensare sono modalità di un puro svelare o venire alla presenza che non è opera né dell’uomo né di nessun altro ente. L’impossibilità di dominare e calcolare l’evento In altri termini, secondo Heidegger, quando pensiamo e agiamo, noi non siamo mai la causa, ossia non produciamo il nostro pensare e agire. Possiamo, certo, produrre concetti (idee, dottrine, ideologie) o cose (scarpe, automobili, centrali nucleari). Con le moderne tecniche di manipolazione genetica, siamo persino in grado di produrre esseri umani così come produciamo scarpe, facendo sì, cioè, che vengano fuori perfettamente conformi a un modello. Tuttavia, secondo Heidegger, non saremo mai in grado di produrre l’essere, dunque l’accadere, il manifestarsi della produzione stessa. Anche là dove, come accade nella tecnica contemporanea ❚ v. sotto § 3.3.3 e Lettura 5 ❚, tutto viene ricondotto alla capacità umana di «disporre» o «dominare» grazie all’«organizzazione» e al «calcolo», questa stessa capacità illimitata di disposizione e dominio rimane «indisponibile» e «indominabile». Ci si chiederà: che fare allora? La conseguenza che Heidegger invita a trarre da questa radicale storicizzazione di ogni attività umana è, in fondo, molto semplice. Si tratta in sostanza di «meditare» sull’evento, ossia di tenere desto il ricordo del puro e semplice accadere che l’uomo non può né dominare né calcolare in anticipo. Una conseguenza che, a chi chiede alla filosofia indicazioni per concrete soluzioni pratiche, appare certo molto deludente. Al proposito, però, non si dimentichi la circostanza biografica in cui è maturato questo pensiero, ossia la delusione riguardo a quella «rivoluzione nazionalsocialista» a cui Heidegger era andato incontro con le più grandi speranze. Fu anzitutto questa delusione a persuadere Heidegger dell’impossibilità di ogni soluzione tecnica, dunque volontaristica e attivistica, dei problemi del mondo contemporaneo. 3.3.2.2 Il linguaggio e il confronto critico con la tradizione occidentale La filosofia come interpretazione o meditazione storica Dagli anni Trenta in poi, molti degli scritto e dei corsi universitari di Heidegger sono dedicati alla lettura di testi filosofici, dai frammenti dei presocratici fino ai libri di Nietzsche. Particolare attenzione inoltre viene da lui prestata all’arte, in particolare alla poesia di Hölderlin ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 0, pp. 000-000 ❚. Il secondo Heidegger indica dunque come compito del pensiero l’«interpretazione» (Erörterung) o «meditazione storica» (Besinnung) sui testi in cui prende corpo quella che chiamiamo “tradizione occidentale”. A questa indicazione di Heidegger ha fatto seguito una parte rilevante dell’attuale filosofia contemporanea, in particolare l’ermeneutica di Hans Georg Gadamer ❚ v. vol. III, L’ermeneutica, § 0, pp. 000-000 ❚ e, con atteggiamento più critico, il decostruzionismo di Jacques Derrida ❚ v. vol. III, nome capitolo, pp. 000-000 ❚. L’appartenenza dell’uomo allo svelamento testimoniata dal parlare Perché, secondo Heidegger, la filosofia deve confrontarsi con la tradizione? Il motivo è strettamente connesso alla soluzione del problema della differenza ontologica adottata dopo la svolta. Conseguenza decisiva di tale soluzione è, come abbiamo visto, l’affermazione secondo cui il pensiero umano è soltanto un modo della storia dell’essere, dunque dell’evento dello svelamento. L’uomo non è autore dello svelamento né quando agisce né quando pensa. Pur non essendone l’autore, però, l’uomo, così come ogni altro ente, «appartiene» all’essere, è, per così dire, “immerso” nello svelamento. C’è un modo di essere dell’uomo, dunque un suo modo di manifestarsi, secondo Heidegger, nel quale la sua «appartenenza allo svelamento» diventa parIl Novecento 22 Storie per approfondire 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 23 Perché i poeti? Perché i poeti? (Wozu Dichter?, 1950, ma risalente al 1946) è il titolo di una conferenza di Heidegger che riecheggia un verso del poeta da lui più amato, il tedesco Friedrich Hölderlin (1770-1840). Nell’elegia Pane e vino (Brod und Wein) Hölderlin si era infatti chiesto: «Perché i poeti in un tempo di miseria?». Nella conferenza, Heidegger afferma che poeti sono coloro che «scendono nell’abisso» e, facendo così esperienza della «notte del mondo», si mettono sulle tracce degli «dèi fuggiti». Per comprendere simili affermazioni, così suggestive ma anche così provocatoriamente lontane dal linguaggio consueto della filosofia, occorre anzitutto prestare attenzione all’anno in cui Heidegger tenne la conferenza: 1946. Siamo dunque nell’immediato dopoguerra, nella Germania bombardata e ridotta a un cumulo di macerie e occupata dalle potenze alleate. Parole come «abisso», «notte del mondo», «fuga degli dèi» danno immediata espressione lirica alla miseria, al dolore, alla lacerazione del momento presente. Esprimono cioè l’esperienza concreta di quello che Nietzsche aveva chiamato «nichilismo europeo». «Perché i poeti?» è quindi una domanda volutamente paradossale, giacché chiede il senso o lo scopo di una esperienza il cui “oggetto” è proprio il «nulla», la mancanza di senso, l’assenza di direzione o scopo. Wozu? significa infatti, letteralmente,“a che scopo?”,“verso dove?”. In un luogo e in un momento che verranno di lì a poco icasticamente ritratti dal titolo di un film del regista italiano Roberto Rosselini (19061977), Germania anno zero (1948), Heidegger poneva dunque la domanda sul senso dell’insensatezza. Si chiedeva cioè quale fosse lo scopo e la direzione di una esperienza di mancanza di scopo e di direzione che ogni tede- sco, e non soltanto i poeti, stava tragicamente vivendo sulla propria pelle. Nella conferenza, Heidegger non dà risposte, non pretende cioè di attribuire un senso alla mancanza di senso, né considera la poesia uno strumento per superarla. Il richiamo ai poeti, però, serve a marcare la differenza tra due atteggiamenti umani: l’atteggiamento dei tecnici, che vogliono dominare la mancanza di senso organizzando in modo sempre più esatto e capillare la vita umana, e l’atteggiamento dei poeti, che invece «scendono nell’abisso» della «notte del mondo» sulle «tracce degli dèi fuggiti». I primi, per Heidegger, non sono capaci di «sopportare» la mancanza di senso, cercano di dimenticarla dando sfogo alla propria «volontà di potenza» e finiscono così con l’accrescere l’insensatezza. Per Heidegger, infatti, la guerra non è altro che lo scatenamento di questa volontà di dominio tecnico. I poeti, invece, sono in grado di sopportare la «miseria» del proprio tempo. Heidegger assegna perciò alla poesia e, più in generale, all’arte il compito di «preparare» gli uomini a un possibile mutamento del loro destino storico. Per Heidegger è infatti evidente che nessuna tecnica umana potrà mai rischiarare la «notte del mondo». Il nichilismo non può cioè essere superato tecnicamente, perché la tecnica è l’espressione suprema del nichilismo. Il paesaggio che fa da sfondo alla conferenza, le macerie dell’«anno zero» della Germania sono per Heidegger la più eloquente testimonianza del carattere inesorabilmente distruttivo della tecnica. Senonché, proprio l’esperienza non tecnica della «notte del mondo», di cui i poeti si fanno portavoce, può essere l’occasione per un «nuovo inizio» della storia umana. I poeti sono dunque per Heidegger una sorta di “profeti” che annunciano agli uomini la possibile via d’uscita dal nichilismo tecnico. ticolarmente evidente: il parlare. Il parlare è infatti evidentemente uno svelare. Quando diciamo qualcosa, ad esempio, “fuori piove”, rendiamo manifesta la pioggia che sta cadendo. Il senso non soggettivistico del possesso umano del linguaggio Ma c’è di più: l’uomo è l’unico tra tutti gli enti animati e inanimati a essere dotato del linguaggio. Che il linguaggio sia una caratteristica specificamente umana è noto da lungo tempo, come attesta l’antica definizione greca dell’essenza dell’uomo come «animale dotato di discorso» (zoòn logon echon). Sennonché Heidegger, nel richiamare l’attenzione su questa definizione, precisa che non va intesa nel senso che l’uomo sia l’autore del parlare. Non va inteso cioè in senso soggettivistico. Il parlare, in quanto svelare, è piuttosto il modo d’essere nel quale l’uomo diviene manifesto. Quando diciamo “fuori piove”, infatti, non manifestiamo soltanto l’evento atmosferico che sta avendo luogo, ma rendiamo inevitabilmente manifesti anche noi stessi. O meglio, rendiamo manifesti noi stessi a qualcun altro che in questo momento ci sta ascoltando. Se non c’è nessuno che ci sente, le nostre parole – come si dice – “cadono nel vuoto”, ossia non ha luogo alcuna manifestazione, né quella della pioggia, né quella che ci riguarda. La possibilità offerta all’uomo di rispondere all’appello del linguaggio Muovendo da queste elementari osservazioni fenomenologiche riguardo al parlare o «dire», Heidegger giunge all’affermazione paradossale secondo cui ciò che parla, ossia il «parlante», non è propriamente l’uomo, ma il linguaggio stesso. Si faccia attenzione: Heidegger non dice che il linguaggio sia un’entità trascendente che parla per bocca dell’uomo, bensì, proprio al contrario, che il parlare, così come ogni altro accadere dello svelamento, non è causato 23 Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 24 x risparmiare una pagina, secondo me questo è il punto migliore x tagliare: è una "zona" piena di box che, oltretutto, sono anche molto lunghi Storie per approfondire L’ascoltare e il ringraziare come autoriflessione dell’umanità occidentale Secondo Heidegger, la tradizione storica è il susseguirsi delle risposte date dall’uomo all’appello del linguaggio. Possiamo ora capire meglio perché Heidegger ritenga che il compito del pensiero sia il confronto con la tradizione. Rispondendo all’appello che il linguaggio ha loro rivolto, i pensatori e i poeti che ci hanno preceduto non hanno fatto altro, in sostanza, che comprendere se stessi. Nelle loro parole si è, per così dire, “sedimentato” e “conservato” lo svelamento, il venire alla presenza, l’evento, l’accadere dell’essere nel quale l’umanità è divenuta quello che è. L’interpretazione della tradizione o meditazione sulla storia dell’essere è per Heidegger un «porsi all’ascolto» delle «parole essenziali» di pensatori e poeti grazie alle quali l’evento dell’essere si è reso manifesto. A tale scopo Heidegger ricorre sovente alle etimologie, vale a dire, allo studio dell’origine delle parole. Si tratta, a dire il vero, di etimologie che la linguistica contemporanea considera in molti casi prive di fondamento scientifico, frutto di semplici giochi di parole. Un esempio di questo controverso metodo etimologico è l’affinità rilevata da Heidegger tra le espressioni che nella lingua tedesca designano le attività del denken, “pensare”, e del danken, “ringraziare”. In base a questa consonanza, Heidegger ritiene che il pensie- La domanda «che cos’è una cosa?» e le scarpe di Van Gogh Heidegger pone, in diverse occasioni, una strana domanda: «Che cos’è una cosa?». Una domanda strana e singolare perché, a ben vedere, la comprendiamo soltanto se già possediamo una risposta. La domanda chiede infatti che cosa una cosa è. Presuppone dunque implicitamente proprio quella nozione di “cosa” che pone invece esplicitamente in questione. Si tratta quindi di una domanda che gira in circolo. Un circolo che sembra il frutto di un inutile gioco speculativo, ma che, invece, secondo Heidegger è presente in modo latente in ogni nostra esperienza, anche la più comune. Qualsiasi cosa, cioè, guardiamo, sentiamo, odoriamo, amiamo, odiamo, dimentichiamo ecc. è sempre, ad un tempo, nota e ignota, familiare ed estranea, saputa e non saputa, presente e assente. Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (1950), Heidegger mostra che questa caratteristica paradossale di ogni esperienza umana giunge ad espressione soprattutto nelle opere d’arte. Più precisamente, Heidegger afferma che l’opera d’arte «pone in opera la verità». Cerchiamo di capire meglio. Il saggio sull’arte comincia proprio con la domanda: «Che cos’è una cosa?». Diversamente, però, da quanto accade in altri suoi testi in cui il problema viene sollevato, Heidegger si serve qui di un esempio tratto dalle arti figurative: un quadro del pittore olandese Vincent Van Gogh (1853-1890) raffigurante un paio di scarpe visibilmente deformate dall’uso. Heidegger immagina che siano scarpe da lavoro di una contadina, e se ne serve per chiarire che cosa sia un mezzo o strumento, ossia una cosa che serve a qualcos’altro. La caratteristica di ogni strumento, infatti, è di essere in Il Novecento rapporto con quello a cui serve. Un paio di scarpe, ad esempio, rinvia necessariamente ai piedi, in funzione dei quali le scarpe sono state prodotte. Un paio di scarpe non è dunque una cosa isolata, ma rende implicitamente presente una quantità di altre cose (i piedi, le gambe, l’uomo che le calza, il suo camminare, la materia di cui le scarpe sono fatte ecc). Per rendere espliciti questi riferimenti occorre interpretarli, seguire cioè i rinvii contenuti in quello che abbiamo dinanzi. Nell’interpretare il quadro di Van Gogh, Heidegger non fa altro che esplicitare, dunque seguire, i possibili rinvii contenuti nell’immagine delle scarpe. Ecco allora che, secondo Heidegger, «dall’interno logoro» delle scarpe «si palesa la fatica del cammino percorso lavorando», sul «cuoio» vediamo depositato l’«umidore» e il «turgore del terreno», «sotto le suole» avvertiamo «la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala» ecc.Tutto ciò, naturalmente, non è contenuto nel quadro nello stesso modo in cui vi sono contenuti i colori, le pennellate, la tela e tutto quanto lo costituisce materialmente.Tuttavia, questi e altri rinvii che ciascuno di noi può vedere mettendosi dinanzi all’immagine di Van Gogh fanno indubbiamente parte del quadro. Ne fanno parte come una sorta di alone in cui è contenuto l’assente, l’ignoto, l’estraneo, l’implicito a cui il presente, il noto, il familiare, l’esplicito rinvia. Non è difficile, a questo punto, capire perché Heidegger dica che l’arte è la «messa in opera della verità». Sappiamo, infatti, che la verità è per Heidegger la «svelatezza», ossia il nesso tra presenza e assenza (v. box A-letheia). Il quadro di Van Gogh mette in opera le verità nel senso che espone il nesso della presenza con l’assenza, dell’esplicito con l’implicito, del familiare con l’estraneo. 24 ro filosofico debba assumere l’atteggiamento di chi accoglie un dono, ossia «rendere grazie» all’evento dell’essere che «si dona» nella parola. La concezione del pensiero come ascolto e ringraziamento può essere considerata come un modo diverso di mettere in atto l’atteggiamento né dall’uomo né da nessun altro ente. Tuttavia, come abbiamo appena osservato, il parlare è svelante soltanto se c’è qualcuno che ascolta o – come Heidegger dice – che è «appellato». Da ciò segue, secondo Heidegger, che lo svelamento linguistico offre all’uomo, per così dire, “un margine d’iniziativa”. Benché non sia autore del parlare, l’uomo può «rispondere all’appello che il linguaggio gli rivolge». 16:07 Pagina 25 Tra gli scritti heideggeriani raccolti in In cammino verso il linguaggio (1959) ce ne è uno che si intitola Da un colloquio dal linguaggio (Aus einem Gespräch von der Sprache). È un dialogo tra due personaggi, l’uno chiamato «l’interrogante», l’altro «il giapponese». Si tratta del resoconto di un colloquio realmente avvenuto tra Heidegger e un suo ospite venuto dal Giappone, attento studioso del pensiero heideggeriano e della letteratura tedesca. Inoltre, particolare importante in questo contesto, l’ospite straniero aveva tradotto in giapponese alcune opere di Heidegger. L’incontro tra i due diventa così l’occasione per una riflessione sul linguaggio e, in particolare, sulla possibilità di tradurre da lingua a un’altra. La discussione si concentra, tra l’altro, su una parola giapponese, iki, espressione che potremmo considerare approssimativamente equivalente a “seduzione della bellezza”. L’«interrogante», dunque Heidegger stesso, esprime la propria difficoltà a comprendere quello che iki veramente significa per un madrelingua giapponese. Più in particolare, la difficoltà consiste nel fatto che, tradotta in tedesco, la parola assume inevitabilmente, per così dire, un “significato occidentale”. Secondo una tradizione che parte da Platone, la bellezza è l’apparire sensibile di ciò che non è sensibile, ossia del «sovrasensibile» o «ideale».Tradotta in una lingua occidentale, la parola iki assume dunque secondo Heidegger una connotazione “metafisica” nel senso letterale del termine di origine greca, vale a dire significa qualcosa “che sta al di là” (in greco: metà) di ciò che è “fisicamente”, ossia sensibilmente,“presente”. Grazie ad alcuni chiarimenti dell’ospite giapponese, il dialogo giunge a mostrare che la parola iki è intesa dai madrelingua in modo completamente diverso. Si osservi, al proposito, che il termine è usato per designare la particolare seduzione esercitata dalle geishe, le donne che sin dall’antichità, in Giappone, intrattenevano gli ospiti di sesso maschile delle case da tè danzando, cantando e conversando amabilmente. Si tratta dunque di una seduzione artistica, strettamente legata, però, alla sfera dell’erotismo e della sessualità, dunque del corpo e della sensibilità. Si comprende dunque perché la traduzione occidentale, ossia “metafisica” della parola porti completamente fuori strada. Ci potremmo però chiedere perché mai l’«interrogante» insista sulla difficoltà a intendere quello che la parola propriamente significa. Non è sufficiente osservare che l’iki è legato all’erotismo, al corpo, non ha cioè nulla di metafisico, ideale o sovrasensibile? Cosa c’è qui, ancora, da interrogare, da mettere in questione? In realtà, il senso del dialogo sta proprio in questo insistere sull’interrogazione (per questo Heidegger chiama se stesso l’«interrogante»). Heidegger intende cioè richiamare l’attenzione sul fatto che le distinzioni metafisiche, in particolare la distinzione paradigmatica della metafisica occidentale, quella tra sensibile e sovrasensibile, è, per così dire, “incorporata” nella lingua stessa che parliamo. Ne deriva che anche quando proviamo a correggerne le parole, precisando ad esempio che iki designa una forma di seduzione soltanto corporea, siamo costretti a distinguere ciò che è corporeo da ciò che non lo è. Le lingue occidentali recano dunque con sé una «grammatica metafisica», costringono cioè a pensare in base a categorie come sensibile/sovrasensibile o soggetto/oggetto, materiale/spirituale ecc. Senonché, proprio il fatto che le categorie, i principi, i modi di pensare metafisici hanno questa natura linguistica consente, secondo Heidegger, di «oltrepassare» la metafisica. Come? Tentando di fare esperienza dell’«accadere» della lingua, ad esempio, traducendola in una radicalmente diversa o, più in generale, facendo dialogare mondi linguisticamente eterogenei come l’Occidente e l’Oriente. La traduzione e il dialogo fra culture estranee richiede però la disposizione a «rispondere all’appello del linguaggio», ossia a fare esperienza del linguaggio come ciò che struttura il nostro modo di pensare. L’intero dialogo col giapponese è la messa in scena di questa esperienza della lingua occidentale, esperienza rivolta a superarne la grammatica metafisica. più tipico della filosofia: la riflessione su di sé. Non si tratta però evidentemente né di una riflessione psicologica, né della riflessione trascendentale che, secondo la filosofia moderna da Cartesio a Husserl, consente di accedere alla soggettività umana come a una fonte di certezza incontrovertibile, al riparo del divenire storico. L’uomo al quale le interpretazioni offerte da Heidegger danno accesso è soltanto una figura storicamente determinata, più in particolare, è la figura assunta dall’umanità occidentale dall’antichità greca ai nostri giorni. g 3.3.3 Occidente e metafisica L’oltrepassamento della metafisica e il problema della tecnica La meditazione storica del secondo Heidegger persegue uno scopo essenzialmente critico. Non si tratta di accertare quanto è accaduto nel passato e di farne così un modello a cui il presente debba tornare. Si tratta, piuttosto, di comprendere l’originarsi storico del presente, ossia dell’umanità occidentale così come essa è attualmente. La domanda che guida la meditazione storica è insomma: “chi siamo noi occidentali?”. Per comprendere la risposta di Heidegger occorre tornare al problema della differenza ontologica. La sua tesi è infatti che l’umanità occidentale è l’a25 Heidegger prirsi della differenza ontologica, ossia l’imporsi dell’ente in quanto tale. L’espressione “Occidente” diventa cioè sinonimo di “metafisica”. Occorre qui fare attenzione al capovolgimento di significato che, con la «svolta», subisce la parola “metafisica”. Storie 12-12-2006 Che cos’è l’iki? Il colloquio di Heidegger con un giapponese p gg per approfondire 0140.p000-000_heidegger.qxd 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 26 Il capovolgimento del significato della metafisica dopo la svolta Avevamo osservato che, già prima della svolta, Heidegger intendeva con “metafisica” la differenza ontologica, ossia l’imporsi dell’ente come criterio del conoscere e dell’agire liberamente voluto dall’uomo. Dopo la svolta, questo significato del termine “metafisica” in parte si mantiene, ma assume però una connotazione nettamente negativa. La metafisica diventa espressione, non già della libertà, ma di una «necessità» o «costrizione» (Not) che vincola dispoticamente tanto la conoscenza quanto la prassi. Il mutamento del giudizio di Heidegger riguardo alla metafisica è diretta conseguenza della nuova soluzione da lui data dopo la svolta al problema della differenza ontologica. Come avevamo visto, la differenza ontologica, o svelatezza dell’ente in quanto tale, è il manifestarsi o svelarsi dell’ente come differente dall’essere. In altre parole, l’ente è svelato in quanto tale quando si presenta come indipendente dall’atto di svelamento che lo fa essere presente (v. sopra § 3.2). La necessità di portare a compimento la metafisica prima della svolta Sennonché, in base alla dottrina volontaristica che precede la svolta, lo svelarsi dell’ente come indipendente e altro dall’essere accade grazie all’uomo e, in particolare, alla sua capacità di “creare liberamente”, per così dire, lo svelamento. Con ciò Heidegger intendeva proseguire quella che gli sembrava essere la linea di pensiero predominante e più feconda dell’intera tradizione filosofica occidentale da Platone fino a Husserl: la concezione metafisica dell’uomo come origine della verità. Di più: Heidegger assegnava a se stesso il compito di «portare a compimento» questo umanismo metafisico. A suo giudizio, infatti, la metafisica tradizionale richiedeva di essere perfezionata. In particolare, Heidegger riteneva che la metafisica si fosse fino a quel momento limitata a svelare l’ente in quanto tale in modo soltanto parziale, come ad esempio era accaduto a Kant, che non era andato in sostanza oltre lo svelamento della natura, ossia della «regione» degli oggetti della conoscenza fisico-matematica. La metafisica – come Heidegger diceva prima della svolta in Kant e il problema della metafisica – andava dunque «ripetuta», ossia portata a compimento realizzando integralmente il suo progetto di svelamento dell’ente in quanto tale. L’oltrepassamento della metafisica Heidegger prima della svolta vedeva dunque la metafisica come una possibilità che la filosofia doveva finalmente mettere in pratica realizzandone le potenzialità ancora inespresse. Con la svolta, la posizione di Heidegger riguardo al «compito del pensiero» e, più in generale, riguardo alla possibilità stessa di una traduzione pratica della filosofia muta radicalmente. Non si tratta più ora di portare a compimento quello che la metafisica aveva lasciato incompiuto ma, semmai, di «oltrepassare la metafisica», ossia di criticare e abbandonare il suo progetto di svelare l’ente in quanto tale. Ma che cosa significa, in concreto, oltrepassare o «superare» la metafisica? Heidegger invita a lasciarsi alle spalle quello che considera l’atteggiamento più caratteristico dell’umanità occidentale. È, in sostanza, l’atteggiamento che rende il pensiero una funzione della prassi, che ne fa cioè uno strumento per modificare, guidare, trasformare, dominare la realtà in vista di scopi posti dall’uomo. La metafisica va oltrepassata perché fornisce il principio che giustifica teoricamente questa subordinazione del pensiero alla prassi. Principio che coincide con la soluzione umanistica che Heidegger stesso aveva dato al problema della differenza ontologica prima della svolta. Affermando, infatti, che lo svelamento grazie al quale l’ente si presenta come indipendente dallo svelamento stesso è opera dell’uomo, Heidegger aveva vincolato la svelatezza, dunque la verità, il pensiero, la teoria alle esigenze pratiche dell’uomo. Metafisica e tecnica Con la svolta Heidegger diventa dunque consapevole che l’apertura umana della differenza ontologica, ossia la metafisica, l’umanismo, il soggettivismo e tutto quanto è per lui sinonimo di “Occidente”, ha un carattere essenzialmente tecnico. Proviamo a chiarire con un esempio. Se intendiamo abbreviare la distanza tra due città costruendo un’autostrada, dobbiamo anzitutto procurarci la rappresentazione esatta di tale distanza, poi dei mezzi che occorrono per aprire la via, dei materiali necessari per costruirne le strutture ecc. Ciascuna delle rappresentazioni che precedono e rendono possibile la costruzione dell’autostrada è uno svelamento nel quale le cose si presentano in modo oggettivo, indipendentemente cioè dai modi soggettivi in cui ne facciamo quotidianamente esperienza. Si tratta dunque di rappresentazioni che presuppongono l’apertura della differenza ontologica. La distanza oggettiva tra le due città, ad esempio, è del tutto indipendente dal senso della distanza che avvertiamo quando viaggiamo dall’una all’altra. In viaggio, infatti, la distanza rimane legata alla nostra soggettiva esperienza, allo stato d’animo, ad Il Novecento 26 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 27 o Vincent Van Gogh, Un paio di scarpe (1886, Amsterdam Rijksmuseum). Nell’Origine dell’opera d’arte (1936) Heidegger conduce un’analisi approfondita del dipinto di Van Gogh: le scarpe non vengono colte nel loro funzionamento, ma sono sospese da ogni funzione e, proprio in virtù di ciò, ci si accorge che sono cose. La cosa, quindi, è cosa solamente nell’opera d’arte e non perché questa coglie la bellezza, ma perché mostra la cosa nel suo essere cosa: diventando opera d’arte, l’oggetto si preserva dalla dissoluzione, perché lo sguardo estetico, sostiene Heidegger, è uno sguardo che preserva. esempio all’ansia di arrivare in tempo che dilata il percorso, alla gioia di incontrare qualcuno all’arrivo che rende la strada interessante e varia, alla noia del ritorno che la rende vuota e ripetitiva ecc. La misurazione esatta prescinde ovviamente da tutto ciò per presentare la distanza così come è in se stessa, ossia come una quantità numerica. Oggettività e dominio tecnico della realtà Qual è la differenza tra la distanza vissuta in occasione di un viaggio e la distanza misurata in modo esatto? La prima è indissolubilmente legata al suo modo di presentarsi, al punto che non è mai la stessa distanza, ma varia di volta in volta a seconda delle circostanze (un viaggio di lavoro, ad esempio, è diverso da una vacanza, l’andata è sempre diversa dal ritorno). La distanza esatta è invece indipendente dal suo modo di presentarsi. Tuttavia, proprio questa indipendenza oggettiva della distanza dal modo soggettivo di presentarsi ne fa qualcosa che sta a disposizione del fare umano e può così essere modificato. Soltanto se misurata esattamente, infatti, la distanza tra due città può essere abbreviata, ad esempio costruendo viadotti e gallerie. Soltanto in quanto oggettiva, quindi, la distanza diventa suscettibile di essere modificata, trasformata, ordinata e dominata da parte dell’uomo. La tecnica come compimento della metafisica Risulta a questo punto chiaro il nesso tra l’esigenza, sollevata da Heidegger dopo la svolta, di oltrepassare la metafisica e il problema della tecnica. Una delle tesi centrali del secondo Heidegger è infatti che la metafisica «si compie» nella tecnica moderna. Si faccia però attenzione al significato strettamente fenomenologico che assume in Heidegger il termine “tecnica”. Per Heidegger, la tecnica non è, o non è soltanto, l’insieme dei dispositivi escogitati dall’ingegneria umana per soggiogare le forze della natura e consentire la completa antropizzazione del pianeta. Espressione della tecnica non sono soltanto la ruota, il martello, il motore, la bomba atomica ecc. Heidegger intende la tecnica in senso fenomenologico, ossia come un modo di manifestarsi delle cose. La ruota e la bomba atomica rientrano dunque certamente nell’ambito della tecnica, ma nel senso specifico che, al pari di tutti gli altri dispositivi, fanno sì che gli enti appaiano in un determinato modo. In particolare, la tecnica moderna fa sì che l’ente appaia come un «fondo», ossia come qualcosa il cui essere consiste nel puro e semplice «stare a disposizione» del fare umano ❚ Lettura 5 ❚. La tecnica è, in altre parole, quella svelatezza nella quale l’ente si presenta come tale da essere suscettibile di manipolazione, organizzazione, calcolo, dominio ecc. Il nichilismo tecnicometafisico Si comprende dunque meglio il senso dell’affermazione di Heidegger secondo cui la metafisica si compie nella tecnica. La tecnica non è altro che il definitivo compiersi, ossia realizzarsi, concretizzarsi del progetto metafisico che secondo Heidegger guida l’intera storia occidentale (e avrebbe guidato Heidegger stesso prima della svolta): fare dello svelamento dell’ente in quanto tale un prodotto dell’uomo. Nello svelamento tecnico, cioè, l’essere dell’ente, ossia l’accadere in cui le cose si 27 Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 28 manifestano appare come il risultato del volere umano. Ciò significa che tanto la metafisica quanto la tecnica sono per Heidegger espressioni del «nichilismo». Concepire l’essere come ciò che è posto dalla volontà umana equivale infatti per Heidegger a negargli ogni significato autonomo, renderlo dunque pari a nulla (l’espressione “nichilismo” viene dal latino nihil, “nulla”). Il carattere nichilistico della riduzione tecnica della cosa a funzione Chiariamo questa concezione con un esempio concreto. Pensiamo al modo in cui un albero da frutta si presenta allo sguardo di un ingegnere biochimico. Che cosa vede un ingegnere biochimico quando analizza, ad esempio, un arancio? Vede le diverse funzioni chimiche che presiedono al nascere del frutto, l’arancia che possiamo cogliere e mangiare. Il suo sguardo non si limita però a rilevare processi naturali. Nel comprendere le funzioni chimiche, l’ingegnere vede anzitutto le possibilità di modificarle e combinarle in modo da creare qualcosa che l’albero da solo non può creare. Ad esempio, modificandone opportunamente il patrimonio genetico, il biochimico può far sì che l’albero produca arance di dimensioni, colore e peso omogenei, più adatte alla vendita. Il biochimico vede dunque l’arancio anzitutto come qualcosa che può essere manipolato, ossia adattato in modo potenzialmente infinito a funzioni che possono anche non avere alcun rapporto con l’arancio. È il caso delle più recenti tecniche di produzione dei cosiddetti “organismi geneticamente modificati” (OGM), grazie alle quali, ad esempio, cellule di origine animale possono essere utilizzate per modificare le caratteristiche proprie di una specie vegetale. La violazione tecnica dei vincoli naturali Sono esempi, questi, tratti dall’attualità più recente che si adattano bene a chiarire quello che Heidegger intende per nichilismo. Il modo di considerare l’arancio da parte del biochimico è infatti caratterizzato dal fatto che, per lui, la cosa non ha alcuna essenza propria. Il biochimico non suppone cioè che vi sia un principio che renda l’arancio un arancio, che lo distingua cioè, ad esempio, da un pero o da una mucca o da un uomo. Nell’ottica dello svelamento tecnico, distinzioni ontologiche elementari, ovvie per il senso comune, come quella tra piante, animali e uomini, diventano irrilevanti. Ciò che è tecnicamente rilevante è infatti soltanto la disponibilità delle cose ad essere funzioni in vista di scopi che non hanno alcun legame con le cose stesse. Si pensi, in proposito, alla differenza tra l’antica pratica di incrociare varietà diverse di piante mediante il cosiddetto “innesto” e le manipolazioni genetiche consentite dalla moderna bioingegneria. L’agricoltore che innesta un mandarino su un arancio interviene nel processo di maturazione del frutto modificandone la finalità (il mandarancio anziché l’arancia). Si tratta però soltanto della deviazione di un corso naturale compiuta in vista di uno scopo anch’esso naturale. Una deviazione, dunque, che rimane intimamente vincolata alla natura. Le tecniche di bioingegneria, ad esempio la clonazione, ossia la produzione di individui aventi identico corredo genetico, mira invece proprio a oltrepassare il principale vincolo imposto dalla natura, la cosiddetta “biodiversità” o varietà genetica tra gli individui. Il nichilismo come oblio dell’essere Heidegger ritiene che la metafisica e il suo compimento tecnico, dunque il definitivo imporsi dell’ente abbia fatto sì che l’essere venisse completamente «dimenticato» (o «obliato»). All’«oblio dell’essere» Heidegger riconduce aspetti della modernità che considera in modo fortemente critico, come ad esempio la «fuga degli dei», ossia il definitivo tramonto della forza di coesione esercitata dalle religioni, «la distruzione della terra», la «massificazione dell’uomo», il «prevalere della mediocrità». La modernità è insomma considerata da Heidegger come un’epoca di profonda decadenza. Si tratta di una diagnosi critica che avvicina Heidegger alla tradizione culturale conservatrice e antimoderna nata dalla reazione alla Rivoluzione francese ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 0, pp. 000-000 ❚. Occorre notare, però, che il concetto heideggeriano di oblio dell’essere o nichilismo non allude a una “restaurazione” o ritorno a un passato idealizzato. Oblio dell’essere significa, molto semplicemente, l’oblio dell’accadere, dell’evento nel quale ogni ente viene alla presenza. La meditazione storica, l’interpretazione dei testi filosofici e poetici, dunque il confronto con la tradizione serve a oltrepassare la metafisica e il nichilismo, ossia a destare l’umanità contemporanea dal suo secolare oblio dell’essere. Ciò significa che per Heidegger la meditazione storica, benché critica verso ogni volontarismo, può avere un effetto liberante, dunque un rilievo pratico. Il ricordo dell’essere, del venire alla presenza, dell’accadere senza soggetto della storia, può preparare l’Occidente a liberarsi un giorno dalla costrizione a pensare e agire in modo tecnico. Il Novecento 28 0140.p000-000_heidegger.qxd 4 12-12-2006 16:07 Pagina 29 Attualità di Heidegger La prima ricezione dell’opera di Heidegger Il pensiero di Heidegger ha avuto grande influenza, non soltanto sulla filosofia ma anche su ampi settori della cultura del Novecento. Tradotte in tutto il mondo, le sue opere hanno suscitato e suscitano ancora oggi reazioni diverse, talvolta aspramente contrapposte. La storia della sua ricezione va suddivisa in due fasi nettamente distinte. La prima, precedente alla seconda guerra mondiale, è caratterizzata dalla prevalenza di un’interpretazione sostanzialmente positiva, quella basata sulla lettura esistenzialista di Essere e tempo a cui abbiamo già fatto cenno ❚ v. § 3.1 ✉. Fa eccezione la stroncatura da parte di un esponente del positivismo logico ❚ v. vol. III, nome capitolo, pp. 000-000 ❚, Rudolf Carnap (1891-1970), che nel 1932 sottopose ad analisi logica alcune frasi di Heidegger e ne concluse che si trattava di proposizioni insensate. Occorre però osservare che, agli occhi di Carnap, Heidegger rappresentava soltanto un esempio particolarmente vistoso di un uso incontrollato del linguaggio quale poteva essere rimproverato a quasi tutte le filosofie del passato. Si trattava, in altre parole, di una critica alla metafisica in generale allo scopo di smascherarne il carattere non conoscitivo e escluderla così dal novero delle discipline scientifiche in senso stretto. Le accuse di irrazionalismo nel dopoguerra Ben più roventi sono invece le controversie suscitate da Heidegger dopo la seconda guerra mondiale. Polemiche la cui asprezza di toni si spiega con la circostanza biografica che abbiamo più volte richiamata, ossia con il breve ma fatale coinvolgimento di Heidegger con il regime nazista. Molti interpreti, soprattutto in Germania e in Francia, hanno ritenuto che le scelte politiche di Heidegger fossero diretta conseguenza di un atteggiamento ostile ai principi della razionalità che, ancora implicito in Essere e tempo, si palesa senza alcuna reticenza nelle opere successive alla svolta. Letto in questa chiave interpretativa, il «pensiero dell’essere» del secondo Heidegger è stato accostato al misticismo, ossia a un atteggiamento essenzialmente affine alla fede religiosa. Heidegger stesso ha fornito non pochi appigli a questa interpretazione del suo pensiero. Alcune sue affermazioni dal tono spiccatamente oracolare sono diventate emblematiche: «sorge la scienza, sparisce il pensiero», oppure: «soltanto un dio ci può salvare». Se a queste affermazioni si aggiunge l’enigmaticità che, come abbiamo visto, caratterizza lo stile degli scritti successivi alla svolta, si comprende bene come mai il filosofo tedesco di origine ebraica Karl Löwith (1897-1973), che era stato allievo di Heidegger e fu poi costretto all’esilio a causa delle leggi naziste contro gli ebrei, abbia potuto definire il suo maestro il «mistagogo dell’essere». Löwith vede cioè in Heidegger una sorta di sacerdote di un culto religioso primitivo che, esercitando le arti della persuasione irrazionale, ha saputo raccogliere attorno a sé adepti fanaticamente convinti di possedere la verità. Non molto diversa è la critica del maggior esponente della «Scuola di Francoforte», Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969) ❚ v. Critica della razionalità tecnica, pp. 000-000 ❚, che definisce il linguaggio di Heidegger un «gergo dell’autenticità». Secondo Adorno, Heidegger è sostanzialmente un reazionario, qualcuno, cioè, che intende “reagire” allo sconquasso civile determinato dalla razionalizzazione capitalistica. Il suo enfatico richiamo alla vita autentica è dunque un tentativo, secondo Adorno necessariamente votato al fallimento, di preservare l’uomo dalle forme di dominio create dell’organizzazione sociale capitalistica, forme di dominio che Heidegger presenta falsamente quali modi di vita inautentici. A questo scopo Heidegger ha creato un «gergo», ossia una lingua speciale che sollecita nell’ascoltatore, non già la riflessione critica, ma l’adesione cieca e irrazionale, e contribuisce così a suscitare una fede settaria, essenzialmente affine al fanatismo ideologico dei nazionalsocialisti. L’ateismo di principio della filosofia In tempi più recenti, l’interpretazione in chiave irrazionalistica ha incontrato meno sostenitori. La pubblicazione di corsi universitari e scritti inediti, consentendo di comprendere meglio la formazione culturale di Heidegger, ha contribuito a una valutazione più obiettiva del significato della sua opera. Significato che è anzitutto filosofico e non religioso. Benché infatti abbia costantemente sottolineato l’importanza del «sacro» nella vita umana, su un punto Heidegger è stato sempre chiaro: l’essere non è Dio. Non infrequenti sono inoltre le sue dichiarazioni a proposito del carattere essenzialmente ateo del pensiero filosofico. L’affermazione già citata, sovente addotta a testimonianza della sua ispirazione religiosa, secondo cui «soltanto un 29 Heidegger 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 30 dio ci può salvare», si limita in realtà a esprimere la convinzione, condivisa da tanti filosofi razionalisti di ogni epoca, che senza base religiosa non è possibile alcuna vita umana associata. Anche l’ostilità nei confronti della razionalità scientifica espressa nel motto «sorge la scienza, sparisce il pensiero», non è affatto nuova nella storia della filosofia e, soprattutto, non è necessariamente un’espressione di irrazionalismo. Si pensi ad esempio a Hegel, il più vigoroso sostenitore del carattere intimamente razionale della realtà. Anche per lui, le scienze sono basate sul principio dell’astrazione intellettuale che conosce la realtà dividendola e mantenendola separata e, di conseguenza, non è in grado di afferrarne la vera natura. È opportuno, al proposito, richiamare il giudizio particolarmente equilibrato dato dalla filosofa tedesca di origine ebraica Hannah Arendt (1906-1975), che fu allieva di Heidegger ed ebbe con lui anche una relazione sentimentale intensa e dolorosa. In un breve testo, scritto in occasione dell’ottantesimo compleanno del maestro, Heidegger ha ottant’anni (Martin Heidegger ist achtzig Jahre alt, 1969), Arendt stigmatizza coloro che pretendono di stabilire affinità tra il pensiero di Heidegger (o, a seconda dei casi, quello di Platone, Lutero, Hegel, Nietzsche ecc.) e il totalitarismo nazista. Arendt sostiene invece che Heidegger, come pochi altri nel Novecento, ha testimoniato l’estraneità del modo di vita del filosofo, incentrato sull’esperienza solitaria del pensare, rispetto alla vita politica, basata invece sulla condivisione di un mondo comune. Letture consigliate Il domandare critico come pietas del pensiero L’attualità, se non addirittura l’esemplarità dell’opera di Heidegger sta anzitutto nella capacità di porre in atto un’interrogazione filosofica radicale, facendo così comprendere che la filosofia consiste essenzialmente in un domandare critico che sappia però porsi all’altezza dell’oggetto interrogato. Emblematica è, a questo proposito, la frase con cui si chiude il saggio sulla Questione della tecnica (Die Frage nach der Technik, 1954; ❚ Lettura 5 ❚): «il domandare è la pietà del pensiero». Frase assai suggestiva nella quale si trovano associati due atteggiamenti antitetici: il domandare, dunque l’atteggiamento critico del filosofo che non riconosce altra autorità che non sia quella della verità; e la pietas, parola che nella religione romana designava la fedeltà e il rispetto nei riguardi della propria appartenenza (famigliare, politica, religiosa, culturale). Ricordando che l’identità culturale dell’Occidente è il risultato dell’incontro tra questi due atteggiamenti, Heidegger ha additato il pericolo che deriva dalla tentazione di dissociarli. Ha cioè mostrato come la critica razionale non possa essere esercitata senza memoria storica, né è possibile richiamarsi a radici storiche senza alimentare la capacità critica. Il pericolo di una tale dissociazione è insito, a suo avviso, nella tecnica, il tema più attuale della sua opera. Un tema che Heidegger affronta escludendo anzitutto che se ne possa dare un giudizio semplificante: esecrandola come fonte di tutti i mali contemporanei o, all’opposto, celebrandola come unico strumento in grado di curarli. Heidegger si limita a mostrare la paradossale ambivalenza della tecnica moderna, figlia tanto del domandare che dissolve ogni tradizione quanto di una specifica tradizione, quella, come abbiamo visto, formatasi in Occidente grazie alla metafisica. Benché, quindi, non formuli programmi né offra soluzioni, l’opera di Heidegger è in grado di suscitare in chi voglia leggerla senza pregiudizi la vigilanza critica necessaria a individuare e capire i problemi del mondo contemporaneo. AA. VV., Heidegger, a cura di F. Volpi, Roma-Bari, Laterza, 1997 R. Safranski, Ein Meister aus Deutschland, München/Wien Carl Hanser Verlag, 1994; trad. it. di N. Curcio, Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, Milano, Longanesi, 1996 R. Schürmann, Heidegger on Being and Acting: From Principles to Anarchy, Bloomington, Indiana University Press, 1986: trad. it. di G. Carchia, Dai principî all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, Bologna, Il Mulino, 1995 O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Pfullingen, Verlag Günther Neske, 1990; trad. it. di G. Varnier, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, Napoli, Guida, 1991 G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Roma-Bari, Laterza, 1981 H. Arendt, Martin Heidegger ist achtzig Jahre alt, in «Merkur» X (1969), pp. 893-902; trad. it. di N. Curcio, Martin Heidegger compie ottant’anni, in AA. VV., Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Roma, Donzelli, 1998, pp. 63-73. Il Novecento 30 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 31 Sintesi IL PRIMO HEIDEGGER: IL PENSIERO UMANISTA Il problema dell’essere In Essere e tempo (1927), la sua opera più celebre, Heidegger muove dal proposito di tornare a porre la domanda sull’essere, che nel corso della tradizione filosofica è stata tralasciata in favore dello studio della coscienza. Il testo però non affronta direttamente il problema ontologico dell’essere, ma prende in esame l’ente particolare che ha la prerogativa di comprendere l’essere, cioè l’uomo. Heidegger chiama l’uomo “esserci” proprio per mettere in rilievo che il modo di essere dell’uomo, che è l’esistenza, è chiamato in causa ogniqualvolta venga posta la domanda generale sull’essere. Per comprendere l’essere è dunque necessario uno studio preliminare dell’essere dell’uomo e questa analisi è definita da Heidegger “analitica esistenziale”. La critica a Husserl e l’essere nel mondo Il ritorno ai temi dell’ontologia è collegato al ripensamento critico a cui Heidegger sottopone la filosofia del suo maestro Husserl. La fenomenologia di Husserl è basata sull’idea che i fenomeni, nei quali le cose si manifestano, abbiano luogo solo nella e per la coscienza. Heidegger, pur condividendo l’attenzione fenomenologica al manifestarsi degli enti, contesta il primato della coscienza affermato da Husserl e sostiene che i fenomeni si manifestano all’uomo anche e soprattutto senza essere percepiti direttamente, cioè senza divenire presenti alla coscienza. Tale è il caso degli «utilizzabili», che sono gli enti considerati nella dimensione quotidiana del prendersi cura degli oggetti, dove assumono il valore di mezzi per raggiungere degli scopi. Gli enti si presentano infatti all’uomo innanzitutto non nella forma della semplice presenza dinanzi alla coscienza, come oggetti estranei da conoscere, ma come strumenti d’uso dati per scontati che rientrano in un rapporto pratico di familiarità. Ognuno di essi, in quanto mezzo per ottenere un risultato, si riferisce a qualcos’altro, creando un sistema di rimandi la cui totalità viene chiamata da Heidegger «mondo». L’esistenza umana è un «essere nel mondo», perché nell’uso degli enti come strumenti l’uomo tende a mettere tra parentesi se stesso per immedesimarsi nel loro funzionamento. Questa vicinanza agli utilizzabili è ciò che Heidegger definisce l’essere fuori di sé presso il mondo. La ripresa di Aristotele: pòiesis e praxis Considerando gli oggetti prima di tutto come mezzi utilizzabili, e solo secondariamente come oggetti di osservazione, Heidegger antepone la prassi alla teoria. La concezione della prassi umana che ne risulta fa riferimento alla 31 distinzione aristotelica tra pòiesis e praxis. Nell’Etica nicomachea Aristotele osserva che la pòiesis, cioè il produrre, ha il fine fuori di sé, nell’oggetto da produrre, mentre la praxis, cioè l’agire, è fine a se stessa. Su questa base Heidegger osserva che nella pòiesis l’attività umana è secondaria rispetto al prodotto da realizzare e si esaurisce al comparire dell’opera ultimata. Viceversa nella praxis lo scopo è l’esecuzione stessa dell’azione, che ha l’effetto di rendere attuale e visibile in se stessa l’attività umana eseguita. Per Heidegger il produrre individua l’esistenza inautentica, perché in tale attività l’uomo non esprime né rivela se stesso, mentre l’agire è correlato all’esistenza autentica, essendo in grado di svelare ciò che è proprio all’attività umana. Inautenticità e decadimento Con «inautenticità» Heidegger intende l’ordinaria prassi quotidiana, caratterizzata dall’uso degli oggetti come mezzi per realizzare qualcosa. Il ricorso agli strumenti fa sì che l’uomo sviluppi un rapporto di immedesimazione con le cose diventando tutt’uno con il loro utilizzo. Questa familiarità con gli oggetti utilizzabili finisce per diventare un vincolo, perché, come avviene nella pòiesis, l’attività è condizionata dai mezzi utilizzati e subordinata agli scopi limitati che tali mezzi permettono di realizzare. Il risultato è il «decadimento» nell’esistenza inautentica, nella quale gli scopi imposti alla prassi dagli strumenti portano l’uomo ad adattarsi alle cose del mondo, allontanandosi da se stesso. Nell’«essere assieme» delle persone, l’inautenticità si esprime come tendenza ad adeguarsi ai comportamenti più diffusi, designati da Heidegger come il prevalere del «si impersonale». La libertà nell’esistenza autentica Heidegger cerca di individuare un modo di vita e un tipo di agire in cui l’uomo si riveli a se stesso. Fenomeni esistenziali di questo tipo sono l’«angoscia» e l’«essere per la morte». Nell’angoscia, così come nella paura e nella maggior parte degli «stati d’animo», si rivela ciò che nella vita sta a cuore all’uomo. Questo interesse primario non è altro che l’esistenza come possibilità da progettare e attuare, vale a dire la possibilità di realizzarsi liberamente nel vivere. Insieme a questa libertà gli stati emotivi rivelano anche la «gettatezza», cioè il fatto che l’esistenza come libera possibilità non è a sua volta frutto di una libera scelta, ma è una condizione in cui l’uomo è gettato e di cui deve assumersi la «cura», ossia la responsabilità. Tra gli stati d’animo però solo l’angoscia conduce realmente all’esistenza autentica. L’angoscia sorge dinanzi al mondo come totalità e ha un benefico effetto «spaesante», perché è capace di rimuovere l’immedesimazione dell’uomo con il suo ambiente e l’inautenticità che ne deriva. Tramite l’angoscia l’uomo cessa di abbandonarsi a scopi e attività in cui non si riconosce per concentrarsi sulla scoperta della propria libertà. Nell’«anticipazione della propria morte» l’uomo si fa carico di tale libertà e insieme dei Heidegger Sintesi 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 32 suoi limiti, che consistono nell’effetto esclusivo e condizionante di ogni scelta tra le possibilità. Il pensiero della morte conduce alla presa di coscienza più forte della libertà perché la morte è intesa da Heidegger come la possibilità più estrema, che prevedendo l’impossibilità dell’esistenza rompe nel modo più netto la familiarità con il mondo. IL SECONDO HEIDEGGER: L’ABBANDONO DELL’UMANISMO La svolta e il suo significato Il forte influsso esercitato da Essere e tempo sulla cultura del tempo aveva contribuito a mettere in rilievo l’ orientamento esistenzialista e antropologico dell’opera, cioè la sua attenzione ai fenomeni e ai problemi dell’esistenza concreta dell’uomo. Tuttavia dopo la seconda guerra mondiale Heidegger smentisce questa interpretazione, sottolineando che l’indagine sull’uomo condotta nel suo libro doveva essere solo la preparazione per una fase più importante, dedicata al problema dell’essere. Nella Lettera sull’«umanisimo», infatti, Heidegger ritiene necessaria una «svolta» che abbandoni l’impostazione antropologica adottata nell’analitica esistenziale. All’origine di questo mutamento c’è il ripensamento avviato da Heidegger in seguito alla sua adesione al nazismo. Illuso circa le possibilità di rinnovamento presentate dal regime, nel 1933 aveva accettato la carica di rettore a Friburgo e aveva sostenuto con entusiasmo le iniziative del nazismo, per poi dimettersi dopo meno di un anno. Il fallimento di questo infelice coinvolgimento politico spinse Heidegger a ripensare il modo in cui il rapporto tra la verità e l’agire umano era definito in Essere e tempo. La differenza ontologica tra essere ed ente Sin da Essere e tempo Heidegger criticava l’idea della verità come «adeguamento», secondo la quale la conoscenza è vera se si adegua alla realtà conosciuta. Il problema di questa concezione è che riduce la distinzione tra atto conoscitivo e oggetto conosciuto a una semplice differenza cognitiva, mentre per Heidegger si tratta di una differenza ontologica tra essere ed ente. La conoscenza è infatti un modo d’essere dell’ente, cioè un modo in cui l’oggetto si svela all’uomo. Nel conoscere si avverte però la necessità di cogliere le cose in maniera oggettiva, per come sono indipendentemente dal modo in cui l’uomo se le rappresenta. Questa realtà effettiva degli oggetti, definita da Heidegger «svelatezza dell’ente in quanto tale», è preliminare e prioritaria rispetto alla svelamento che ha luogo nel conoscere, perché è il criterio di raffronto per definire la verità della conoscenza. Il conoscere corrisponde all’essere dell’oggetto, che significa il suo modo di apparire all’uomo, mentre la realtà oggettiva che serve da termine di confronto per la verità corrisponde all’ente in se stesso. L’aspirazione della conoscenza a Il Novecento cogliere le cose in se stesse viene dunque spiegata da Heidegger come differenza ontologica tra essere ed ente. La differenza ontologica nel primo e nel secondo Heidegger Il desiderio di riferirsi alla realtà effettiva delle cose fa emergere il primato dell’ente nella sua differenza ontologica dal modo in cui appare nella conoscenza, ma non chiarisce l’origine della differenza. In Essere e tempo e negli scritti dei primi anni trenta Heidegger attribuisce all’uomo la facoltà di «attuare» la differenza ontologica. Ciò significa che lo svelamento preliminare dell’ente, che suscita l’impressione di riferirsi alle cose in se stesse, è in realtà risultato dell’iniziativa umana. Rifacendosi al trascendentalismo kantiano e al volontarismo medievale, Heidegger fa dipendere la differenza ontologica dalla capacità umana di comprendere e progettare l’esistente. L’ente si svela nella sua differenza dal conoscere perché un atto della volontà e della comprensione umana lo rivela in questa dimensione. Dalla seconda metà degli anni trenta, dopo la sua infausta esperienza politica, Heidegger adotta tuttavia una posizione di segno opposto. La differenza ontologica è concepita in chiave antivolontaristica, come «accadimento» o «evento storico» che non può essere ricondotto né all’uomo, né a nessun altra causa singola. La storia come storia dell’essere Dopo la svolta Heidegger concepisce la storia non più come il frutto dell’agire umano, ma come «storia dell’essere». Con tale espressione Heidegger non intende alludere ad un essere superiore che dirige gli avvenimenti, ma al contrario vuole sottolineare che la storia riguarda l’essere, cioè il semplice manifestarsi di ciò che è. La storia è il puro accadere, il venire alla presenza degli enti senza un principio identificabile che ne governi l’apparire. Questo manifestarsi degli enti è uno svelamento senza autore né causa, perché possiede un carattere unico e imprevedibile che non si lascia derivare da nessun ente o stato di cose. Quando sostiene che la differenza ontologica è un evento della storia dell’essere, Heidegger intende dire che lo svelamento dell’ente come criterio di verità della conoscenza è un fenomeno più grande dell’uomo, che esula dal suo controllo. Lo stesso manifestarsi degli enti nel pensare e nell’agire non è prodotto dall’uomo, e in questo senso l’uomo non è autore del pensare e dell’agire, perché in queste attività c’è un essere, vale a dire uno svelarsi, un accadere, che nella sua imprevedibilità non può essere dominato dall’uomo. Meditazione storica e linguaggio Heidegger esorta alla «meditazione storica» come fedeltà al puro accadere che è sottratto al potere umano di calcolo e di previsione. La meditazione viene rivolta in particolare ai testi della “tradizione occidentale”. Secondo Heidegger nelle parole dei pensatori e dei poeti del passato si è conservato lo svelamento dell’essere. Questo è possibile per32 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 33 ché nel linguaggio l’uomo rivela la sua prerogativa di essere “immerso” nel modo più profondo nell’essere, cioè nello svelamento. Nel parlare, infatti, l’uomo svela continuamente gli enti e se stesso. In realtà l’uomo non è autore del parlare, ma è il linguaggio stesso che parla, perché il parlare, come ogni altra forma di svelamento, riguarda l’essere ed è un evento non riducibile a opera dell’uomo o di un altro ente. Tuttavia il rilievo che nel parlare ha l’ascolto consente all’uomo di rispondere agli appelli del linguaggio. La meditazione sulla tradizione storica ha proprio il compito di far emergere lo svelamento che i pensatori e i poeti hanno espresso dando ascolto e risposta all’appello del linguaggio. La critica della metafisica e della tecnica La meditazione storica si propone di rintracciare l’origine della cultura occidentale, la cui caratteristica è secondo Heidegger l’emergere della differenza ontologica, ovvero l’imporsi dell’ente nella sua indipendenza dall’atto dello svelamento. Sin da prima della svolta Heidegger designa con il termine “metafisica” questo aprirsi della differenza ontologica che contraddistingue l’Occidente. Nel primo Heidegger il principio della metafisica così intesa è l’umanismo, perché l’affermarsi dell’ente in se stesso come criterio di verità è derivato dall’attività umana. Hei- teorico-conoscitiva. Si tratta dell’essere capace di essere. Guida allo studio e alla riflessione 6 L’esistenza ...................................................................... è l’autorivelazione dell’agente, che avverte la propria esistenza come un’attività da attuare e assume su di sé il peso della libertà di agire. Per studiare Ricerca le parole chiave 1 L’essere dell’uomo è un .................................................. (“esser-ci”). È un “essere-nel-mondo” (in-der-Weltsein). 2 Il modo di essere dell’esser-ci è l’ .................................. ................. degger si riallaccia alla concezione metafisica dell’uomo come origine della verità, emersa nel corso della tradizione filosofica, con l’intento di portarla a compimento riconducendo l’intero svelamento dell’ente a opera umana. Dopo la svolta, tuttavia, Heidegger adotta la posizione opposta, ponendosi l’obiettivo di «oltrepassare la metafisica». La metafisica, ossia l’apertura umana della differenza tra essere ed ente, assume un senso negativo: diventa sinonimo di un atteggiamento che considera il mondo soltanto in funzione dell’uomo e che riduce il pensiero a strumento per controllare e trasformare la realtà. Con l’imporsi degli enti nella differenza ontologica, cioè nella loro realtà oggettiva, che è indipendente dal loro modo di presentarsi, le cose diventano adatte ad essere liberamente manipolate dall’uomo, perché vengono private del loro lato inatteso e incalcolabile, legato al loro manifestarsi. Proprio per questo la metafisica come differenza ontologica trova il suo compimento nella tecnica moderna, che considera la realtà un oggetto a disposizione del fare umano. Questo modo di sottoporre tutto l’esistente al volere umano conduce al nichilismo, perché priva le cose della loro essenza autonoma, e produce «l’oblio dell’essere», cioè la dimenticanza dell’essere come accadimento imprevedibile senza autore, che non può essere assoggettato alla manipolazione umana. (dal latino ex-sistere,“venire fuori da”). 7 La ................................................................ (alétheia) per Heidegger è un uscire dalla dimenticanza, è il manifestarsi a partire da un occultamento, è disvelamento.“Vero” significa dunque “svelato”. 14 Associa i titoli delle opere alle relative date di pubblicazione 3 L’analisi del modo di essere dell’esser-ci viene condotto attraverso l’ .................................................. esistenziale. 4 L’esistenza caratterizzata dall’ ......................................... (Uneigentlichkeit, da un, “non” e eigen “proprio”) è quella in cui l’essere è incapace di essere se stesso. Lettera sull’umanismo 1927 Essere e tempo 1946 Hörderlin e l’essenza della poesia 1937 .................... Rispondi alle domande: 9 Quali sono i rapporti tra Husserl e Heidegger? 5 La ................................................................... (Versthen) è un’attitudine pratica, non un atto di natura 10 Quali aspetti della fenomenologia sono stati determinanti per il pensiero di Heidegger? 33 Heidegger Laboratorio 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 34 11 Completa lo schema relativo al diverso significato 20 Completa la tabella, relativa agli stati d’animo della dell’apparire in Husserl e in Heidegger, inserendo in modo appropriato le seguenti espressioni: dalla coscienza; dall’attività pratica umana. nel pensiero di Husserl l’APPARIRE (= manifestazione degli enti) dipende nel pensiero di Heidegger paura e dell’angoscia: nel pensiero di Husserl significato della paura nel pensiero di Heidegger .................................. .................................. .................................. .................................. .............................. .............................. .................................. .................................. .............................. .............................. .................................. .................................. .............................. .............................. .................................. .................................. .............................. .............................. .................................. .................................. .............................. .............................. .............................. .............................. .............................. .............................. significato dell’angoscia .................................. .................................. .................................. .................................. .................................. .................................. .............................. .............................. .................................. .................................. .................................. .................................. Rispondi alle domande: 12 Heidegger afferma che ogni pensatore essenziale pensa un unico pensiero. Il suo unico pensiero è stato l’essere (Sein). Come viene affrontata in Essere e tempo la domanda essenziale, l’unica e assoluta questione di tutta una vita: «che cosa significa essere? – che cos’è l’essere?»? .................................. .................................. Rispondi alle domande: 21 Qual è la differenza tra l’esistenza autentica e l’esistenza inautentica? 13 La riflessione di Heidegger parte dall’uomo: perché 22 Come e perché nascono l’angoscia e la dimensione tra la molteplicità degli enti l’uomo è un ente privilegiato? 23 Che cosa significa l’espressione “prendersi cura”? In dell’esser-ci come cura (Sorge)? che modo il “prendersi cura” rappresenta una modalità ontologica dell’esserci? 14 Che cosa esprimono i concetti di esser-ci e di essere-nel-mondo ? 15 Qual è la caratteristica fondamentale dell’uomo? 24 Di che cosa ci si può prendere cura? 16 In cosa consiste la funzione strumentale delle cose ? 25 Perché il problema della morte è essenziale per affrontare la nostra esistenza in modo autentico? Scelta multipla 17 L’analisi compiuta da Heidegger sull’essere dell’uomo è di tipo a metafisico b antropologico c ontologico d psicologico 18 Secondo Heidegger ogni essere umano a b c d crea idealisticamente il proprio mondo è isolato in se stesso acquista la propria identità solo attraverso gli altri è aperto nei confronti del mondo 19 Per Heidegger la metafisica occidentale non ha Scegli il completamento corretto: 26 L’esistenza inautentica si basa soltanto sulla considerazione a dell’essere b dell’utile c del vero d dell’ente 27 L’esistenza inautentica non conosce a b c d 28 La risposta autentica alla consapevolezza del nulla è a l’ascesi b l’impegnarsi nel mondo c il vivere-per-la-morte d l’umanismo riconosciuto all’essere la sua dimensione a spaziale b ontologica c psicologica d temporale Il Novecento l’angoscia la curiosità la paura la chiacchiera 34 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 35 Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false e motiva le tue risposte: 29 L’uomo può scegliere tra un’esistenza V F autentica e un’esistenza inautentica. perché ............................................................................... ............................................................................................ ............................................................................................ ............................................................................................ 30 La differenza tra autenticità e l’inautenticità V F è in un diverso contenuto dell’esistenza. perché ............................................................................... 40 Per Heidegger l’essenza della scienza moderna è rappresentata a dalla conoscenza intellettuale b dalla relatività delle conoscenze c dalla superficialità dei giudizi d dalla tecnica 41 L’essere si può disvelare soltanto attraverso a b c d la tecnica la scienza il linguaggio la metafisica ............................................................................................ ............................................................................................ ............................................................................................ 31 L’esserci si trova nella necessità di assumere Rispondi alle domande: 42 Qual è la differenza tra la praxis e la pòiesis? 43 In che senso Aristotele usava questi termini? Quali V F su di sé il peso della libertà di agire. perché ............................................................................... ............................................................................................ ............................................................................................ ............................................................................................ significato assumono all’interno del pensiero di Heidegger? 44 Che cos’è per Heidegger la tecnica? Quali sono i suoi fini? 45 In cosa consiste il nichilismo per Heidegger? 46 Perchè l’opera d’arte è in grado di rivelare il senso Rispondi alle domande: 32 Qual è la dimensione temporale fondamentale dell’esistenza autentica? delle cose in modo migliore rispetto alle cose stesse? 47 Quali sono le caratteristiche principali della dottrina heideggeriana del linguaggio? 33 Quali sono gli stati d’animo conseguenti all’accettazione delle possibilità? 34 Perché soltanto figurandosi la propria morte l’uomo è in grado di scegliere autonomamente le possibilità dell’esistenza, senza conformarsi acriticamente agli schemi del “si” impersonale (il “si dice”, il “si fa”, il “si pensa”) ? 35 Che cosa significano nel pensiero di Heidegger i termini “trascendenza” e “differenza ontologica” ? 36 In che cosa consiste la svolta antiumanistica di Spiega, alla luce delle tue conoscenze, il seguente giudizio: 48 «Heidegger interpreta in modo personale, ma niente affatto arbitrario, lo spirito dell’avanguardia e la sua problematica della difesa della libertà interiore contro la pressione dell’organizzazione tecnoscientifica del mondo». (G.Vattimo, Tecnica ed esistenza, Torino, Paravia, 1997, p. 29). Tratta in modo sintetico i seguenti argomenti: Heidegger? 49 L’idea che l’uomo sia sempre “apertura” può essere collegata all’oltre-uomo di cui parla Nietzsche? (max 10 righe) 37 Quali sono stati, secondo Heidegger, gli errori fondamentali della metafisica occidentale ? 38 Quali sono le tematiche principali dell’ultima fase del pensiero di Heidegger ? Scegli il completamento corretto: 50 Nel corso della storia della filosofia quello del tempo è stato uno dei concetti più problematici. Evidenzia in un testo espositivo i risultati delle analisi di Kant, Hegel e Husserl. (max 25 righe) 51 Quali aspetti del pensiero di Hölderlin e di 39 La svolta (Kehre) cui Heidegger si richiama nella Lettera sull’umanismo va intesa come a il cambiamento totale dell’oggetto della conoscenza b il mutamento radicale degli strumenti di indagine filosofica c la crisi che lo porta a non occuparsi più dell’essere d il mutamento della direzione della via percorsa dall’analitica esistenziale 35 Kierkegaard hanno influenzato la tematica esistenzialista heideggeriana? (max 12 righe) 52 Heidegger esalta il “pensiero poetante”, rinnovando così l’alleanza tra poesia e filosofia. In che modo il pensiero poetante può dare voce a ciò che il linguaggio della metafisica non riesce più a esprimere? (max 15 righe) 53 In che modo nichilismo e umanismo sono collegati? (10 righe) Heidegger Laboratorio 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 36 Per riflettere render grazie. Ci sono metafore peggiori con cui vivere» (G. Steiner, Heidegger, London, Harvester Press, 1978; trad. it. di D. Zazzi, Heidegger, Milano, Mondadori, 1990, pp.183-184). Partendo dall’analisi di questo giudizio, illustra qual è il rapporto tra la filosofia e la meraviglia. Spiega, in un testo argomentativo, il legame che si può instaurare, da un lato, tra i concetti di “ovvio” e “vita inautentica” e, dall’altro, tra i concetti di “stupore” e “vita autentica”. (max 25 righe). 54 Il legame tra le scelte di vita di un uomo e la sua opera spesso è problematico. Questa considerazione vale in particolare per Heidegger, a causa della sua adesione al nazismo e del suo silenzio successivo al 1945. Siamo anche in presenza di un paradosso storico, dato dal fatto che Heidegger era circondato da studiosi di altissimo livello di origine ebraica, molti dei quali lo consideravano come il proprio maestro, tra i quali: Herbert Marcuse, Hannah Arendt, Karl Löwith, Hans Jonas. Il saggista e critico letterario statunitense George Steiner (1929-vivente), anch’egli ebreo, scrive che «il problema è a un livello diverso [...] Il problema è nelle alleanze sconcertanti tra la più alta filosofia e il dispotismo. [...] È il fascino esercitato sull’alta astrazione dalla tirannia e persino dall’inumano. [...] Nel centenario del filosofo il suo successore e discepolo Hans Gadamer – grande filosofo e pensatore – ascolta per tutto il giorno; non ne può più e mi lancia questa frase attraverso la sala: “Basta con questo cose, è talmente semplice! Perché tutte queste spiegazioni contorte, storiche: Martin Heidegger era il più grande dei pensatori e il più piccolo degli uomini”. Questa è una spiegazione che ha in sé molto buon senso. Ne conosciamo tanti, di grandi artisti, che sono abietti nella loro vita personale! Forse che non dovrei leggere Proust che infligge torture agli animali [...]e ne trae pagine che mi sembrano indispensabili, non soltanto per la mia vita, ma per la nostra cultura?» (G. Steiner, Barbarie de l’ignorance: juste l’ombre d’un certain ennui. Entretiens avec Antoine Spire, Paris, Le Bord de L’Eau, 1998; trad. it. di A. Cariolato, La barbarie dell’ignoranza. Conversazioni con Antoine Spire, Roma, Nottetempo, 2005, pp. 57-58). Quali sono le tue riflessioni a questo riguardo? (max 15 righe). 57 Per Heidegger l’esistenza inautentica è caratterizzata dall’omologazione delle idee, dei comportamenti e del gusto. C’è un rapporto, a tuo avviso, tra la pervasività dei mass media attuali e un modo di vivere e di sentire inautentico? Esponi le tue riflessioni, dopo aver letto anche il cap. Informatizzazione e comunicazione (p. xxx). (max 20 righe) 58 Nel paragrafo 32 di Essere e tempo, intitolato Comprensione e interpretazione (Verstehen und Auslegung), Heidegger afferma che il “comprendere” rappresenta una delle strutture costitutive dell’esserci: «la comprensione, comprendendo, si appropria di ciò che ha compreso. Nell’interpretazione la comprensione non diventa altro da sé, ma se stessa». Dopo aver letto anche il cap. Ermeneutica (par. xxx, p. xxx) spiega questa convinzione di Heidegger, a cui si rifà esplicitamente il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer (19002002). (max 15 righe) 59 A proposito del linguaggio di Heidegger e del linguaggio filosofico in genere, leggiamo: «Talvolta ciò che pervade l’opera di Heidegger e a cui egli costringe chiunque voglia pensare con lui, è un tragico lottare per il linguaggio appropriato e per il concetto parlante. Da dove viene questa povertà? Il linguaggio adoperato abitualmente dai filosofi è quello della metafisica greca e del suo sopravvivere, del suo perfezionamento, oltre il latino antico e medievale, fino alle moderne lingue nazionali. Molti concetti della filosofia sono quindi parole straniere. Ma i grandi pensatori hanno per lo più la forza di inventare nuovi mezzi per esprimere quello che voglion dire, mezzi che la loro lingua materna è pronta a fornire loro. In questo senso Platone e Aristotele hanno creato un linguaggio concettuale che attinge da quello, vivo e duttile, dell’Atene del loro tempo. In questo senso Cicerone ha proposto termini latini per rendere concetti greci. In questo senso, Meister Eckhart alla fine del Medioevo, Leibniz, Kant e soprattutto Hegel, hanno procurato nuovi mezzi espressivi al linguaggio concettuale della filosofia. Anche il giovane Heidegger ha liberato energie linguistiche dal suolo della sua terra natia alemanna, in cui è profondamente radicato, arricchendo il linguaggio. L’ultimo Heidegger però si trova in una situazione molto più difficile. Non sole le consuetidini linguistiche e di pensiero altrui, ma anche le proprie, 55 «Che cos’è l’essere?» Senza questa domanda, per Heidegger, non ci può essere né un’umanità autentica, né una modalità coerente di esistenza individuale e sociale e nemmeno una filosofia degna di questo nome. Perché si tratta di un problema autenticamente “filosofico”? Perché questo problema è così importante,“essenziale”, tanto da occupare il pensiero di tutta una vita? (max 15 righe) 56 È stato scritto: «Martin Heidegger è il grande maestro della meraviglia, l’uomo il cui stupore di fronte al semplice fatto che noi siamo invece di non essere ha posto un luminoso ostacolo sul sentiero dell’ovvio. Suo è il pensiero che rende indimenticabile un’affabile attenzione, anche momentanea, all’esistere. Nella radura del bosco, in cui conducono i suoi sentieri circolari, sebbene non la raggiungano, Heidegger ha postulato l’unità di pensiero e poesia; di pensiero, poesia e dell’atto più alto dell’orgoglio e della celebrazione umana che è il Il Novecento 36 0140.p000-000_heidegger.qxd 12-12-2006 16:07 Pagina 37 determinate dalla tradizione del pensiero occidentale,si rivelano consuetudini che cercano di spingerlo costantemente fuori direzione rispetto al proprio problema. Infatti il suo problema è realmente nuovo. Non viene posto all’interno della metafisica occidentale, ma è comunque diretto a questa metafisica. Non problematizza la questione della metafisica circa l’ente supremo (Dio) e circa l’essere di ogni ente. Si interroga piuttosto circa ciò che, solo, apre la sfera di questo domandare e forma lo spazio in cui si muove il domandare della metafisica. Heidegger dunque si interroga circa qualcosa che la tradizione della metafisica presupponeva come problematico: cosa significa in generale essere?» (H.G. Gadamer, Heideggers Wege: Studien zum Spaetwerk Tübingen, Mohr, 1983; trad. it. di R. Cristin, I sentieri di Heidegger, Marietti, Genova, 1987, pp. 22-23). Rifletti su queste considerazioni, evidenziando i vari lati del rapporto problematico tra la filosofia e il linguaggio. (max 20 righe) 60 Scrive Heidegger: «La filosofia si spinge molto più avanti del suo presente attuale, essa ricongiunge il proprio presente al suo remoto e principale passato. In ogni caso la filosofia permane un genere di sapere che non solo non si lascia attualizzare ma, 37 al contrario, sottopone alla propria misura il tempo» (Introduzione alla metafisica). Alla luce di quanto hai studiato spiega questa posizione, rispondendo alle domande: la filosofia, per Heidegger, dipende interamente dalla propria epoca? Qual è la sua funzione? Prova a cimentarti con questo tema. (max 20 righe). 61 Secondo parte della critica con Heidegger la filosofia ha assunto una nuova importanza, diventando nuovamente qualcosa che non è più o meno indifferente praticare o no, qualcosa che “deve essere”, affinché noi possiamo essere uomini. Per questo motivo Heidegger avrebbe rivalutato la storia della filosofia, in modo organico e completo, per la prima volta dopo Hegel. Prova a spiegare queste valutazioni e assumi una posizione riguardo all’idea che l’occuparsi di filosofia sia un requisito essenziale per essere uomini in un senso più autentico (max 20 righe). 62 La concezione heideggeriana del Da-sein ha influenzato profondamente le arti visive. In particolare, ha contribuito alla nascita della pittura informale. Dopo aver cercato notizie sul tuo libro di storia dell’arte, prova a illustrare i nessi tra la concezione del “segno” e della “materia” di questa tendenza pittorica e la filosofia di Heidegger. Heidegger Laboratorio