Il Buddhismo “Buddhism, its essence and development” di Edward Conze (1955) Traduzione all’italiano di Mario Tassoni Note preliminari: gran parte di questo libro tratterà della posizione delle scuole principali, dirà di ciascuna come sia cresciuta nel mondo della storia, quale fosse il suo particolare metodo e come ogni sentiero conduca al medesimo fine. Edward Conze definisce religione l’organizzazione di spirituali aspirazioni che rifiutano il mondo dei sensi e negano gli impulsi che ad esso ci legano. Riassunto: INTRODUZIONE Il buddhismo è una forma orientale della spiritualità. I suoi assunti fondamentali sono identici a quelli di molte altre dottrine e insegnamenti mistici in tutto il mondo. Mi pare che le vie tramandate dalla quasi universale tradizione dei saggi, e che ci pongono in rapporto con la realtà spirituale, siano tre: 1. considerare l’esperienza dei sensi relativamente non importante 2. tentare di rinunciare a ciò verso cui si sente attaccamento 3. proporsi di trattare gli uomini allo stesso modo, qualunque sia la loro appartenenza, la loro intelligenza ed educazione, il colore della pelle, l’odore del corpo, ecc. Propriamente studiate, le letterature dei Jaina, dei buddhisti , dei Sufi, dei monaci cristiani della Tebaide e della teologia “ascetica” e “mistica”, come le chiama la chiesa cattolica, rivelano molti lati comuni. Gran parte di quanto è stato trasmesso sotto il nome di “buddhismo” non deriva dall’esercizio della saggezza, ma dalla lingua, dalla scienza e mitologia dei popoli che lo adottarono, dalle condizioni sociali in cui visse la comunità buddista. Le norme di retta condotta raccomandate dalle scritture buddhiste sono raccolte in tre titoli: Moralità, Contemplazione e Saggezza. Gran parte di ciò che è compreso sotto il nome di Moralità e Contemplazione, è comune eredità di tutti i movimenti religiosi indiani che cercarono la salvezza in una vita separata dalla comune società. Oltre i consigli sulla condotta per i laici, troviamo nel buddhismo regole per la vita della vagante comunità dei monaci e cioè: numerose pratiche dello yoga: respirazione ritmica e concentrata, controllo degli organi di senso, metodi per indurre stati di trance fissando cerchi colorati, stati di estasi, pratica d’interesse affettuoso, di compassione senza limiti, di gioia con gli altri ed equanimità. Inoltre, meditazione di carattere generalmente edificante, come in ogni religione mistica: meditazione sulla morte e su gli aspetti repulsivi delle funzioni del corpo; meditazione su la trinità del Buddha, sul Dharma (verità) e sul Samgha (fraternità). L’insegnamento del Buddha si occupa esclusivamente di insegnare la via della salvezza. Per origine e intenzione dottrina di salvezza, il buddhismo è sempre stato caratterizzato da un atteggiamento fortemente pratico. Le speculazioni su problemi non concernenti la salvezza non sono certo incoraggiate. La sofferenza è il fatto fondamentale della vita. Possiamo dire con una certa esattezza che il pensiero buddhista procede nella stessa direzione della filosofia che chiamiamo pragmatismo. La santa dottrina è innanzi tutto una medicina. Il Buddha è simile a un medico. Come un medico deve saper diagnosticare, conoscere le cause delle malattie, gli antidoti e i rimedi, ed esser capace di applicarli, così il Buddha ha insegnato le quattro sante verità che scoprono la vastità della sofferenza, ne indicano l’origine, la cessazione e la via che conduce alla cessazione. Nel buddhismo la meditazione è certo il principale strumento di salvezza. L’accento non è posto tanto sul “fare qualcosa”, nell’azione energica, quanto sulla contemplazione e la disciplina mentale. Ciò a cui si tende è il controllo dei processi mentali mediante meditazione su di essi. “Di quell’insegnamento di cui con sicurezza potete dire che conduce all’assenza delle passioni e non alle passioni; al distacco e non alla prigionia; al venir meno dei successi mondani e non al loro crescere; alla frugalità e non alla cupidigia; all’appagamento e non all’inquietudine; alla solitudine e non alla compagnia; all’energia e non all’inerzia; al prender piacere nel bene anziché nel male, di quell’insegnamento con 1 certezza potete anche affermare: questa è la Norma. Questa è la Disciplina. Questo è il messaggio del Maestro.” L’ultima esortazione del Buddha ai discepoli fu: Tutto ciò che è condizionato è impermanente. Cercate con diligenza la vostra salvezza. La dottrina del “non-sé” (an-atta in Pali, an-atman in sanscrito) è il particolare contributo del buddhismo al pensiero religioso. Tutti i buddhisti considerano la credenza in un “sé” come l’indispensabile condizione dell’apparire della sofferenza. Secondo quanto afferma la dottrina buddhista, la natura umana è così costituita che niente può soddisfarla se non la completa permanenza, la completa quiete, la completa sicurezza. E questo non lo possiam certo trovare nel mutevole mondo dei sensi. Ciò che di solito cerchiamo è poggiare su qualcosa di diverso da questo vuoto, centro di noi stessi. I buddhisti affermano che non saremo mai felici sino a che non avremo superato tale angoscia profonda e vi riusciremo non affidandoci ad alcunché. Nella elevata concezione della natura umana, i buddhisti reputano sia cosa ragionevole e sensata tendere da parte nostra all’immortalità. L’immortalità non è desiderio di perpetuare un’individualità acquistata a prezzo di un inevitabile declino, ma è aspirazione a trascendere quest’individualità. L’educazione buddhista consiste nell’indebolire sistematicamente la nostra presa su ciò che in noi ostacola il ritorno all’immortalità perduta al momento della nascita. La comunità buddhista è la più antica istituzione religiosa; è sopravvissuta più a lungo di ogni altra eccetto la setta affine dei Jaina. Da una parte stanno i grandi e tirannici imperi della storia, protetti da un gran numero di soldati, dall’altra parte un movimento di mendicanti volontari che preferivano la povertà alla ricchezza; avevano promesso di non far male ad altri esseri, di non ucciderli: che impiegavano il loro tempo sognando sogni meravigliosi e inventando terre favolose; che disprezzavano tutto ciò che il mondo tiene in onore; e tenevano in onore tutto ciò che il mondo disprezza – umiltà, generosità, oziosa contemplazione. eppure, mentre i potenti imperi, costruiti sulla cupidigia, sull’odio e l’illusione, durarono solo alcuni secoli, la volontà d’abnegazione ha sostenuto la comunità buddhista per 2500 anni. Il filosofo cinese Lao-tse espresse la stessa idea magnificamente nel Tao te king: “il cielo dura e la terra permane. La ragione per cui durano e permangono è che non vivono per loro stessi; per questo vivono a lungo. Nella stessa maniera il saggio si tiene indietro e si trova davanti; dimentica se stesso ed è sostenuto. Non è forse perché non s’interessa di sé che il suo interesse vien difeso?” I I FONDAMENTI COMUNI Lo storico che voglia determinare quale fosse realmente la dottrina del buddha, si trova di fronte, senza esagerazione, a migliaia di opere che, vantandosi tutte dell’autorità del buddha, proclamano i più diversi e opposti insegnamenti. La verità è che i passi più antichi delle esistenti scritture possono essere distinti solo mediante incerte illazioni e congetture. Tutti i vari tentativi di ricostruire un buddhismo “originale” sono d’accordo su di un solo punto: la dottrina del buddha non fu certamente quella che i buddhisti ritennero fosse. Nel presente libro mi accingo a descrivere la tradizione vivente del buddhismo attraverso i secoli e confesso di non sapere quale fosse il “messaggio originale” del buddhismo. I documenti letterari Nel corso di questo libro dovremo continuamente riferirci alle Scritture in quanto sono i documenti essenziali della dottrina buddhista. La produzione letteraria dei buddhisti fu enorme; e ci rimangono solo dei frammenti. La nostra storia del buddhismo resterà quindi sempre frammentaria e provvisoria. Per circa 400 anni la tradizione fu trasmessa solo oralmente, da scuole di recitatori. Le scritture pali furono messe in scritto per la prima volta nel primo secolo a.C. Gli indiani hanno sempre mostrato una indifferenza quasi totale per le date storiche; il divenire storico è considerato del tutto privo d’importanza in relazione alla verità che non muta. I buddhisti indiani condivisero tale atteggiamento. Persino per date tanto fondamentali quali la nascita e morte del buddha, i loro calcoli variano considerevolmente. Gli studiosi moderni di solito pongono la morte del buddha intorno al 483 a.C. In India, la tradizione buddhista indica molte altre date: 852, 652, 552,353 e persino 252 a.C. In mancanza di una solida struttura cronologica, ciò che diciamo circa la successione degli eventi nella storia buddhista non può che essere un gioco di ipotesi verosimili. Dobbiamo tuttavia ammettere che l’atteggiamento buddhista di fronte alle date, sia pure esasperante per lo storico, non è dovuto a cattiva volontà come potrebbe sembrare. Il Dharma non ha storia; ciò che muta sono solo le circostanze esteriori in cui egli opera. E molto di ciò che, da un punto di vista religioso e spirituale, è veramente importante, non trova affatto posto in un libro storico. Le esperienze degli antichi saggi e santi nella loro solitudine sfuggono allo storico. I buddhisti inoltre 2 tramandarono pochi nomi perché, nei periodi migliori, non si confaceva a un monaco farsi un nome per mezzo di un lavoro letterario. Non importava loro sapere chi avesse detto qualcosa, ma se ciò che era stato detto fosse vero, utile e in accordo con la tradizione. L’originalità e l’innovazione non erano incoraggiate, e l’anonimato era elemento indispensabile alla santità. Tale atteggiamento aveva i suoi lati positivi. Se uno sforzo perseverante e collettivo è intrapreso, per un lungo periodo, da un gran numero di persone dedite completamente alla propria emancipazione e che si propone d’elaborare un sistema di salvezza spirituale, il risultato dopo dieci secoli sarà probabilmente molto imponente. Nel presente libro tutti i trattati enumerati sono considerati fonti autentiche del pensiero buddhista. La scelta è stata fatta in passato da uomini di me più saggi e non ha ragione alcuna di porla in discussione. La maggior parte del presente libro sarà dedicata alle credenze e pratiche di una sola sezione della comunità buddhista che è divisa in monaci e laici, Hinayana e Mahayana, e in differenti scuole speculative. Alcune credenze sono, tuttavia, base comune dell’intero movimento buddhista in tutte le sue forme. Il Buddha Il buddha può essere considerato da tre punti di vista: - come essere umano come essere spirituale come qualcosa d’intermedio in quanto essere umano il buddha gautama visse probabilmente fra il 560 e il 480 a.C. nel nord-est dell’india. I fatti storici della sua vita non possono essere isolati dalla leggenda che tutti i buddhisti accettano. Shakyamuni in quanto individuo è, in ogni caso, fatto di poca importanza agli occhi della fede buddhista. Il buddha è un “tipo” incarnato in questo individuo qui, ed è il “tipo” che interessa la vita religiosa. È possibile, ma niente affatto certo, che dei comuni credenti abbiano talvolta pensato al buddha come a un essere personale; la teologia buddhista ufficiale, tuttavia, non fa alcunché per incoraggiare tale credenza. Secondo la teoria ufficiale, il buddha, “l’illuminato”, è una sorta di archetipo che si manifesta nel mondo in differenti periodi, in differenti persone le cui particolarità individuali hanno nessuna importanza. Per i buddhisti, credenti nella reincarnazione, è evidente che gautama non venne al mondo per la prima volta nel 560. Come ogni altro, egli era passato per numerose nascite, aveva provato il mondo in qualità di animale, di uomo, di dio. Durante le molte rinascite, egli aveva condiviso la sorte comune a ogni essere vivente. Una perfezione spirituale quale quella del buddha non può essere il risultato di una sola vita. Deve lentamente maturare lungo le epoche. Il suo è stato un viaggio durato molto tempo, così a lungo che l’immaginazione vacilla. Se la dottrina del buddha non fosse stata che l’insegnamento di un individuo, non avrebbe avuto forza e autorità sufficienti. In realtà essa emanò dal principio spirituale, dalla naturadi-buddha che stava nascosta in shakyamuni (il saggio della tribù dei sakia) individuo e che lo “ispirò” a comprendere e insegnare la verità. Quando i buddhisti considerano il buddha come un principio spirituale, lo chiamano il Tathagata o parlano del suo corpo-di-dharma. Il tathagata, etimologicamente, è colui che è venuto, o andato “così”, cioè come son venuti o andati gli altri tathagata. Questa spiegazione sottolinea il fatto che il buddha storico non è un fenomeno isolato, che egli fa parte di una serie infinita d’innumerevoli tathagata apparsi nel mondo lungo il corso del tempo a proclamare sempre la stessa dottrina. Il tathagata dunque è essenzialmente membro di un gruppo. Serie di sette, o ventiquattro, o mille tathagata erano particolarmente popolari. A Sanchi e a Bharhut, per esempio, i sette tathagata, cioè shakyamuni e i suoi sei predecessori, sono rappresentati in arte dalle sette stupa che hanno contenuto le loro reliquie, o dai sette alberi sotto i quali giunsero all’illuminazione. Nel Gandhara, a Mathura, e ad Ajanta, i sette buddha appaiono in forma umana, praticamente indistinguibili l’uno dall’altro. Il buddhismo è ateo? La tradizione buddhista non nega l’esistenza di un Creatore, ma non le interessa affatto sapere chi abbia creato l’universo. La meta della dottrina buddhista è quella di sciogliere gli uomini dalla sofferenza e le speculazioni concernenti l’origine dell’universo sono ritenute irrilevanti al fine prefisso. Il buddhismo non ha esitato a sottolineare la superiorità del buddha su brahma, il dio che, secondo la teologia brahmanica, ha creato l’universo. I buddhisti avvertono un atto d’orgoglio da parte del dio brahma quando pensava di se stesso:” io sono brahma, io sono il grande brahma, il re degli dei; io sono increato, io ho creato il mondo, io sono il sovrano del mondo, io posso creare, modificare e dar la vita; io sono il padre di tutte le cose”. Le scritture non tralasciano di far notare che il tathagata è privo di una vanità tanto infantile. Se l’indifferenza a un creatore personale dell’universo è ateismo, allora il buddhismo è ateo. Ma se poniamo a confronto gli attributi del divino, così come sono stati compresi dalla più mistica tradizione del pensiero cristiano, con quelli del nirvana, non vi troviamo quasi differenza: il nirvana è permanente, stabile, imperituro, immobile, senza età, senza morte, senza divenire; è potere, beatitudine, felicità, rifugio sicuro, ricetto, luogo di sicurezza senza più minacce; è la Verità reale e suprema Realtà; è il bene, la meta suprema, il solo e unico compimento della nostra vita, la pace eterna, nascosta, incomprensibile. Allo 3 stesso modo il buddha, che è come l’incarnazione personale del nirvana, diventa oggetto di tutte le emozioni che siam soliti chiamare religiose. Tra le popolazioni che accolsero il buddhismo, quasi tutte le attività dipendevano in larga misura dal caso e un gran numero di divinità venivano invocate per protezione e aiuto. I buddhisti non hanno mai mosso obiezioni al culto di molti dei perché l’idea di un dio geloso è loro quanto mai estranea; e anche perché sono convinti che la capacità di visione intellettuale è per ognuno molto limitata cosicché è molto difficile sapere quando siamo nel vero e praticamente impossibile esser sicuri che qualcun altro è nel torto Come i cattolici, i buddisti credono che una fede non può durare se non si adatta alle abitudini mentali dell’uomo qualunque. Per cui vediamo che nelle antiche scritture, le divinità del brahmanesimo sono accettate tale e quali e che, più tardi, i buddisti accolsero gli dei locali delle regioni in cui giunsero. Se l’ateismo è la negazione dell’esistenza di un dio sarebbe del tutto erroneo caratterizzare il buddismo come ateo. Le Quattro Sante Verità 1. ma che è la santa verità del dolore? Nascita è dolore, infermità è dolore, vecchiaia è dolore, morte è dolore. L’essere unito con le cose non desiderate è dolore. L’essere separato dalle cose desiderate è dolore. Non conseguire ciò che si brama, questo è dolore. In breve, l’attaccamento ai cinque skandha* o ad uno di essi porta con sé dolore. * i cinque skandha sono: materia (il nostro corpo fisico e i possessi materiali), sentimenti, percezioni, impulsi, atti di coscienza. 2. Ma che è la santa verità dell’origine del dolore? È quella sete che conduce alla rinascita, legata a brama di soddisfazione, ora qua ora là appagandosi, cioè sete del sesso, sete dell’essere, sete dell’estinzione. 3. Ma che è la santa verità dell’estinzione del dolore? È la completa, totale annichilazione, repulsione, espulsione, distruzione, rinnegazione di quella sete appunto. 4. Ma che è la santa verità della via che mena all’estinzione del dolore? È questo santo ottuplice sentiero che consiste in: retta cognizione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto sapere, retto raccoglimento. Compito centrale della vita buddhista è la meditazione sulle quattro sante verità considerate fatti essenziali dell’esistenza. Annotiamo qui che Retta cognizione si riferisce alle quattro sante verità, Retta intenzione è il desiderio dell’estinzione del sé e del benessere del prossimo, parafrasata dal buddhaghosa in tre termini “rinuncia, assenza di cattiva volontà, assenza di aggressione”; infine Retto sforzo riguarda i tentativi di abbandonare tutti i dharma malefici e di guadagnare, accrescer e sviluppare stati che sono salutari. Vi è un versetto che sintetizza il credo di tutte le scuole buddhiste; lo si trova da per tutto nei templi, sulle pietre, le statue, le stele, i manoscritti, là dove il buddhismo ha esercitato la propria influenza: “ il tathagata ha esposto la causa di tutti i dharma che emanano da una causa, e insieme la loro cessazione. Questo è l’insegnamento del grande asceta” L’uomo che abbia raggiunto un certo grado di elevazione spirituale non rinascerà mai più negli “imperi della pena”. Secondo tutte le scuole buddhiste, egli può tuttavia scegliere di rinascervi volontariamente per aiutare gli esseri con l’insegnamento del dharma. Per cui egli dà letizia e comporto a quegli esseri e insieme accresce la propria pazienza e il disgusto per l’esistenza. II IL BUDDHISMO MONASTICO Il samgha (la comunità dei monaci) I monaci sono l’elite del buddhismo: sono anzi gli unici buddhisti nel vero senso del termine. Povertà, celibato e non-violenza erano tre elementi essenziali della vita monastica. Il monaco non possedeva quasi alcun bene a titolo personale. Gli era permesso di avere una veste, una ciotola per le elemosine, un ago, un rosario, un rasoio per radere i capelli ogni quindici giorni e un filtro per levare gli insetti dall’acqua da bere. Il monaco doveva praticamente rimettersi alle elemosine per ogni suo bisogno. 4 In tutta europa, durante il medioevo, gli ordini monastici si mantennero attraverso l’elemosina; e fu solo il sistema economico del nascente industrialismo che ha giudicato l’accattonaggio incompatibile con il bisogno di lavori industriali e che tra le sue prima misure fece passare leggi contro il vagabondaggio. I buddhisti consideravano la pratica del mendicare quale fonte di molte virtù. Il monaco non pativa alcun sentimento d’inferiorità per il suo modo di vivere, non aveva affatto l’impressione d’essere ozioso, anzi conduceva una vita attiva, piegando i suoi desideri e sviluppando la meditazione. Poiché la generosità è una delle virtù cardinali, i monaci sentivano che nell’accettare le elemosine essi davano l’opportunità al capofamiglia di guadagnarsi del merito. L’indifferenza dei monaci mendicanti riguardo ai vantaggi mondani, la loro condotta calma e dignitosa contribuisce a convertire i non credenti e a fortificare nella fede i credenti. La pratica del mendicare dà ampie opportunità a ben sorvegliare il corpo, controllare i sensi e reprimere i pensieri. Il monaco deve andare di dimora in dimora senza far distinzione fra quella del povero e quella del ricco. Le esperienze dei monaci buddhisti furono in qualche misura simili a quelle di San Francesco d’assisi. Il celibato era un’altra pietra angolare della vita monastica. La non-castità era un’offesa che conduceva automaticamente all’espulsione dall’ordine. La castità, chiamata brahmacarya o condotta degna di un brahmano o sant’uomo, era un grande ideale dal quale il monaco non doveva deviare anche a costo della vita. Gli ortodossi riprovavano il rapporto sessuale come abitudine “bovina” o “bestiale”, e mostravano un certo disprezzo per le donne. Questo disprezzo non rappresenta, evidentemente, che un meccanismo di difesa. Un breve dialogo sintetizza mirabilmente l’atteggiamento dei primi buddhisti: Ananda: “come dobbiamo comportarci verso le donne? Il maestro: “non vederle” Ananda: “e se dobbiamo vederle?” Il maestro: “non parlar loro”. Ananda: “e se dobbiamo parlare loro?” Il maestro: “mantenete i pensieri severamente controllati”. Una filosofia che scorge nella brama dei ‘piaceri l’origine di tutti i mali non poteva permettere che le occasioni d’indulgenza verso la voluttà si moltiplicassero: “sin quando anche il più leggero pensiero di lussuria di un uomo verso le donne non vien distrutto, il suo spirito è vincolato, così come il vitello lattonzolo dipende da sua madre". È molto difficile mantenere relazioni sessuali con donne senza innamorarsi dell’una o dell’altra. E simile attaccamento riuscirebbe fatale alla libertà dell’uomo. Ma esiste una ben più profonda ragione per la quale, i santi, in ogni epoca hanno guardato all’impulso sessuale con particolar sospetto. Il rapporto sessuale può generare calma e rilassamento estatico. Il transfer della forza della meditazione all’attività sessuale non sarebbe che una caduta, uno scadimento, uno smussarsi di questa energia. La non violenza Verso il 500 a.C. si diffusero in India due religioni che ponevano la non-violenza al centro stesso della loro dottrina: l’una era il Jainismo, l’altra il buddhismo. La particolare insistenza nel proibire il male fatto a qualsiasi essere vivente, fu probabilmente una reazione contro l’accresciuta violenza nelle relazioni umane, conseguenza della scoperta del bronzo e del ferro. In india questa relazione aveva di mira non solo i massacri delle guerre tribali, ma pure l’enorme sfacelo di animali durante il sacrificio vedico e, in certa misura, la crudeltà che distingue il comportamento dei contadini verso gli animali. La dottrina dei Jaina e dei buddhisti poggia su due principi: 1. la credenza in un vincolo che accomuna tutti gli esseri viventi, credenza rafforzata dalla dottrina della reincarnazione secondo cui lo stesso essere è oggi un uomo, domani un coniglio, poi una tignola, infine un cavallo. Maltrattando un cavallo è facile trovarsi nella penosa situazione di maltrattare la propria madre morta o il proprio miglior amico. 2. Il secondo principio è espresso nell’Udana dove il Buddha dice: “il mio pensiero ha spaziato in ogni direzione su tutto il mondo. Non ho incontrato alcunché che fosse più caro a ciascuno che il suo proprio sé. Poiché agli altri è caro il proprio sé, a ciascuno è caro il proprio, colui che desidera la propria felicità non faccia male agli altri.” In altre parole, dobbiamo coltivare le nostre emozioni in modo da sentire verso gli altri come sentiamo verso noi stessi. Invitando, per così dire, il sé di ciascuno a entrare nella nostra personalità, sopprimiamo le barriere che ci separano dagli altri. Appunto per questa sua posizione, il buddhismo ha avuto un immenso effetto civilizzatore in tutta la storia dell’asia. Ciò che colpisce l’osservatore in paesi saturati dal buddhismo, come ad esempio la Birmania, è la bontà di ciascuno verso tutti. Il buddhismo ha mitigato le incolte razze guerriere del tibet e della mongolia 5 cancellando quasi del tutto la loro originale brutalità. Nel buddhismo non c’è posto per persecuzioni religiose, crociate o inquisizioni. Il sentimento vivissimo di cui di solito i buddhisti sono permeati, delle differenze e idiosincrasie individuali, ha loro impedito di spingersi verso l’intolleranza. Il dharma non è un dogma ma un sentiero. Non è impossibile che più di un sentiero conduca alla città celeste. Secondo le loro inclinazioni, individui differenti hanno bisogni differenti, ciò che è cibo per l’uno è veleno per l’altro; e sarebbe presunzione insensata pretendere di conoscere con certezza i bisogni altrui. Perciò la storia del pensiero buddhista è segnata da audaci e quasi illimitate esperienze con metodi spirituali diversi, accettati secondo un principio pragmatista, cioè secondo i risultati raggiunti. Un proverbio tibetano dice che ogni Lama ha la sua religione e che esistono tante forme di buddhismo quante sono i lama. È stato affermato che tale illimitata tolleranza è stata la causa del declino del buddhismo. In realtà il buddhismo ha durato più a lungo della maggior parte delle istituzioni storiche. La protezione regale fu una delle principali cause della diffusione del buddhismo. Il poter dei re era evidentemente basato sulla brutalità e la violenza e certamente la conversione dei principi fu talvolta incompleta. Sarebbe quindi esagerato dire che i monarchi buddhisti non abbiano mai ricorso alla violenza per promuovere la causa della religione. Appena i monaci, per l’amicizia di imperatori e re, acquistarono potenza sociale e politica, essi stessi furono accessibili alle contemplazioni del potere. Infine possiamo aspettarci che, nei paesi dove il buddhismo fornì tutta la terminologia relativa alla cultura, le ribellioni popolari abbiano attinto alle sue idee per esprimere le aspirazioni sociali, come fecero con il cristianesimo i Lollardi e i contadini tedeschi. Questo incontro di malcontento popolare e credenze buddhiste è fenomeno abbastanza antico in Cina. III IL BUDDISMO POPOLARE La funzione dei laici Nella sua intima essenza il buddhismo era ed è un movimento di monaci asceti. Essi dipendevano dalla carità dei laici. Inoltre sin dall’inizio il buddha e i monaci si sentirono responsabili del benessere di tutto il popolo. Il dharma era un bene di cui tutti dovevano essere partecipi. L’impulso missionario fu sempre forte nel buddhismo. Il re Asoka è un bell’esempio di monarca che si sforzò di rendere felice il suo popolo mediante il dharma e che inviò missionari per farlo conoscere agli abitanti dei paesi vicini. Quando In qualche regione si sviluppava un monachismo chiuso in sé, il difetto veniva subito corretto dall’ideale del bodhisattva. la storia di Purna, uno dei primi apostoli del dharma, illustra lo zelo con cui i buddhisti diffusero il loro vangelo in asia, e le virtù che li resero capaci di questo. Quando Purna chiese al Buddha il permesso di andare missionario in un barbaro paese di nome Sronaparanta, il Buddha cercò di dissuaderlo ed ebbe luogo il seguente dialogo: Buddha: “gli uomini di Sronaparanta sono crudeli, violenti e brutali essi usano parole cattive, grossolane, insolenti. Se ti oltraggiano con parole cattive, grossolane, insolenti, che cosa penserai?” Purna: “penserò che gli uomini di sronaparanta sono davvero buoni e gentili perché non mi colpiscono con pugni o con pietre.” Buddha: “ma se ti colpiscono con i pugni o con pietre che cosa penserai?” Purna: “penserò che sono buoni e gentili perché non mi colpiscono con un randello, non mi feriscono con la spada.” Buddha: ma se ti colpiscono con un randello o ti feriscono cpn la spada che cosa penserai?” Purna: “penserò che sono buoni e gentili perché non mi tolgono la vita.” Buddha: “ma se ti uccidono, Purna, che cosa penserai?” Purna: “penserò ancora ch’essi sono buoni e gentili poiché mi liberano senza troppe difficoltà della carcassa putrida del mio corpo. So che vi sono monaci che hanno vergogna del loro corpo, ne sono tormentati e disgustati, che sono uccisi con armi, prendono del veleno, sono impiccati con corde o vengono gettati in precipizi” Buddha: 6 “Purna, tu possiedi grande bontà e pazienza. Puoi vivere e dimorare nel paese dei sronaparanta. Và, ed insegna loro come essere liberi, tu che sei libero.” Dovunque i dharma è divenuto realtà sociale vivente, la teoria buddhista ha unito una elevata metafisica con la compiacente accettazione delle credenze magiche e mitologiche dei contadini, guerrieri, mercanti tra cui aveva messo radici. I monaci, se volevano esser fedeli al loro ideale di compassione, dovevano guadagnar degli adepti; se volevano vivere avevano bisogno delle elemosine, sia dei loro fratelli laici sia dei prìncipi. Dobbiamo quindi considerare due problemi: 1. che fecero i monaci per le masse dei loro aderenti e per i loro regali protettori? 2. Sino a qual punto l’interesse per i bisogni dei laici influenzò a sua volta il pensiero buddhista? Il buddhismo e il potere temporale Senza l’appoggio di re e imperatori, la diffusione trionfale del dharma in tutta l’asia non sarebbe stata possibile. Il buddhismo non esige l’esclusiva fedeltà da parte dei suoi aderenti. Poiché il compito dei re è quello di regnare, è improbabile che la persuasione del valore spirituale della dottrina buddhista fosse il solo motivo, o la ragione principale, della protezione accordata da essi alla religione buddhista. Ma in qual maniera la dottrina del buddhismo, apparentemente anarchica e volta verso l’altro mondo, poteva render più salda la signoria del principe? Essa non solo offre pace interiore a coloro che hanno inclinazione verso l’altro mondo, ma insieme rimette il mondo nelle mani di coloro che vogliono prenderlo. Inoltre la credenza che questo mondo è irrimediabilmente cattivo, che non vi si può trovare gioia alcuna, tende a soffocare ogni critica contro il governo. L’oppressione da parte dei funzionari statali appare in parte come un elemento necessario di questo mondo di-nascita-e-di-morte, in parte come un castigo per i peccati commessi in passato. Il valore dato dal buddhismo alla non-violenza tende a pacificare il paese e a accrescere la sicurezza del paese. E ancora, se il popolo non dà a questo mondo eccessiva importanza, il buon umore non verrà meno per scarsezza di averi ed è certo preferibile governare gente allegra che gente imbronciata. Nella società buddhista la vita semplice è considerata più consona alla dottrina religiosa. Il buddhismo dissuase sempre i fedeli dall’accumulare ricchezze ed esortò ad abbandonare i beni materiali, a collocarli in opere di pietà. Comunque sia è innegabile che i principi ricevono grande prestigio; tali miti inculcano la docilità nella mente dei sudditi e insieme persuadono i monaci a far da poliziotti spirituali per conto del governo. Possiamo annoverare tra le curiosità storiche il sorgere in indonesia, a giava e nel tibet, sotto l’influenza buddhista, di vere e proprie teocrazie di tipo egiziano. Il buddhismo ha uno spirito cosmopolita, internazionale, particolarmente favorevole ai monarchi desiderosi di unificare vasti territori. Non vi è nulla o quasi, nell’interpretazione buddhista della verità spirituale, che la leghi a un determinato paese, a una razza o a una tribù. l’induismo, paragonato al buddhismo, è saturo di tabù tribali. Nel buddhismo non esiste alcun elemento che non possa essere trasportato da una parte all’altra del mondo. Una religione tanto flessibile e adattabile è preziosa per uomini che devono reggere vasti imperi, contribuisce a unificare popolazioni eterogenee mediante credenze, pratiche comuni e i reciproci contatti mantenute dai monaci di differenti regioni. I benefici del Samgha Spieghiamo ora che cosa ha fatto il buddhismo per le masse laiche. Le relazioni a noi giunte sui primi anni dell’ordine mostrano che il Buddha faceva buona prova di sagacia nei rapporti con i laici, che era sempre pronto ad accogliere le legittime richieste dei laici e a soddisfare i loro bisogni. La piccola elite dei monaci dovette certo aver offerto qualcosa che gli adepti laici apprezzarono molto; altrimenti la religione non avrebbe potuto vivere 2500 anni e più. I bisogni della società laica ai quali il buddhismo provvedeva erano, certo, di tre tipi: spirituali, mitologici. Magici. Pur coloro che di solito non prestano alcuna attenzione ai valori spirituali, avvertono talvolta la vanità della propria vita, sentono che la loro condizione presente non permette alla loro vera personalità d’esprimersi adeguatamente, che la fuga dal mondo potrebbe forse ricondurli al loro essere profondo. A coloro che erano disgustati dal mondo, i monaci potevano offrire una coerente esposizione circa l’origine e il destino dell’uomo, il suo posto nel mondo, il significato ella vita e i mezzi onde ottenere una vita migliore. Così la dottrina era come una finestra da cui guardare al di là del mondo. I monaci erano felici sebbene non riponessero valore nelle cose di cui gli altri continuamente si preoccupavano. Secondo la teoria buddhista, la Fede è la strada che conduce al buddhismo, che appaga quasi tutte le aspirazioni religiose dei laici. La fede non consiste nell’accettare dommi definiti. La buona o la cattiva fortuna di una persona dipende dalle sue azioni e acquistare meriti vale più di ogni altra cosa. Pare dunque che gli umani istinti di possedere e acquistare venissero deliberatamente indirizzati all’acquisto di merito. Il merito si ottiene, ad esempio, offrendo doni, meglio se a preti e a uomini santi, vivendo una vita pura, 7 mantenendosi pazienti se insultati, comportandosi amichevolmente con il prossimo. Il vantaggio del merito, secondo la concezione buddhista, consiste nell’assicurare una vita futura più felice, più agiata oppure, ciò è ben più importante, una vita più abbondante in occasioni e realizzazioni spirituali. La Fede è l’aspirazione verso ciò che non è di questo mondo; essa si esprime nell’adorazione. Secondo la teoria hinayana i miracoli non erano prodotti dal buddha o dalle reliquie, ma erano il risultato della grazia di arhat e di divinità o della fede risoluta dei devoti. “La Fede è il seme, la Fede è, in questo mondo, la ricchezza più preziosa per l’uomo.” Diciamo ora qualcosa sulle funzioni magiche del buddhismo. Per vivere, per poter tenere i piedi sulla terra, una religione deve in certa misura appagare i bisogni materiali dell’uomo comune, deve potersi inserire nel ritmo della vita collettiva che nel passato fu da per tutto pervasa e dominata dalla magia. Anche allora come ora, l’uomo comune era profondamente preso dai problemi di tutti i giorni, concernenti le messi, il bestiame, il ciclo della nascita, matrimonio e morte in famiglia. da un lato egli cercava nella religione la pace dello spirito, pace che risulta da una fede vigorosa, da una vita pura, che sono il premio di una vita di rinuncia; ma insieme, con strana assenza di coerenza logica, voleva che la stessa religione fondata sulla rinunzia al mondo, gli fornisse la possibilità di controllo sulle forze magiche invisibili e gli garantisse il sicuro possesso delle cose del mondo o almeno lo aiutasse in tal senso. Come tutte le religioni del passato, anche il buddhismo offrirà protezione e forza magica. È segno dell’universale compassione della religione buddhista il fatto che essa prenda in considerazione tutto ciò che l’uomo può desiderare, dalla completa illuminazione, al dono dell’eloquenza, alla seduzione di questa o quella bella donna. La manifestazione delle potenze soprannaturali e i miracoli furono storicamente tra le cause più efficaci di molte conversioni, individuali e collettive, al buddhismo. Un buddhista non vede perché lo spirituale debba essere necessariamente impotente nel mondo materiale, anzi è incline a pensare che la credenza nei miracoli sia elemento indispensabile alla sopravvivenza della vita spirituale. Il buddhismo quindi unì ad una metafisica elevata l’adesione alle più comuni superstizioni dell’umanità. La perfetta saggezza non può essere raggiunta che con l’estinzione completa e totale di ogni interesse egoistico. La perfezione di saggezza protegge dalle aggressioni, dalla malattia, dalla morte violenta, da tutti i mali del mondo; le divinità benigne veglieranno sul credente e gli spiriti maligni non potranno fargli del male. Tale unione di abnegazione spirituale e di magica sottomissione agli interessi individuali del fedele, è forse il paradosso più sorprendente tra quanti ce ne offre la storia del buddhismo. Il prestigio dei laici All’origine pare che i monaci non abbiano lasciato molto campo libero ai laici. Non mancavano, naturalmente, prediche e consigli su problemi spirituali. Veniva concessa qualche soddisfazione al bisogno di devozione con l’adorazione dei cayta, degli stupa e con i pellegrinaggi ai luoghi santi. Non esisteva alcun rito, alcuna cerimonia cui i laici potessero partecipare. Inoltre i buddhisti, come tutti gli altri in India, adoravano le divinità indù e si servivano di incantesimi di origine indù. Esistevano anche cinque comandamenti: 1. 2. 3. 4. 5. astieniti astieniti astieniti astieniti astieniti dall’uccidere alcun essere vivente dal prendere ciò che non è offerto dall’abbandonarti malamente ai piaceri dei sensi dalle menzogne da bevande inebrianti che ottenebrano la mente. Pare che alcuni settori dell’ordine abbiano fatto un più grande sforzo per guadagnarsi popolarità. Avevano cercato di rendere l’ordine più aperto allentando le regole del Vinaya che, per la loro severità, escludevano molti possibili membri. Lottarono per dare maggior posto ai laici. Ne venne che il buddhismo acquistò i caratteri di una religione veramente universale. Dobbiamo tenere presente che l’indifferenza verso le vicende mondane, risultato delle pratiche buddhiste, poteva facilmente condurre alla morte della religione. IV L’ANTICA SCUOLA DI SAGGEZZA Le sette Verso il 480 a.C. quando i buddha morì, pare che parecchie comunità monastiche buddhiste già esistessero nel nord-est dell’india. Secondo l’insegnamento delle scritture, la dottrina del buddha 8 (dharma) doveva guidare la comunità. Questa dottrina esisteva solo nella memoria dei monaci e non venne stesa in forma scritta se non quattro secoli dopo. Come i brahmani, i buddhisti non amavano porre in scritto il sapere religioso Sariputra È stato spesso osservato che non è il fondatore che fissa l’organizzazione del suo movimento religioso, ma uno degli immediati discepoli. Il fondatore è naturalmente la fonte viva dell’ispirazione animatrice che dà l’avvio al movimento, ma gran parte dei suoi insegnamenti va oltre la possibilità di comprensione delle masse. Con minor genio, il suo successore, prepara una sorta di edizione tascabile del vangelo, più consona ai bisogni dell’uomo comune e alle sue capacità spirituali. L’influsso profondo di Sariputra è dovuto alla forma da lui data all’insegnamento, forma che determinò non solo l’educazione dei monaci, ma decise pure quali aspetti della dottrina del buddha dovessero essere messi in evidenza e quali posti in secondo piano. Una parte della comunità accettò la sua interpretazione, mentre l’altra sviluppò le proprie opinioni in opposizione diretta e consapevole a Sariputra. Egli amava disporre il sapere in modo che potesse essere facilmente appreso e ricordato, studiato e insegnato. La Saggezza, nelle Scritture della scuola di Sariputra, è ritenuta la maggiore delle cinque virtù cardinali, che sono fede, vigore, presenza di spirito, concentrazione e saggezza. Gli Arhat Non vi è modo migliore, per comprendere lo spirito dell’Antica Scuola di Saggezza, che di considerare il tipo d’uomo ch’essa tendeva a produrre e l’idea di perfezione posta innanzi all’emulazione dei discepoli. L’uomo ideale, il santo o saggio nel suo momento più elevato viene chiamato Arhat. L’Arhat è una persona in cui “flussi” (cioè il desiderio dei sensi, il divenire, l’ignoranza, le false opinioni) si sono inariditi, che ha vissuto nobilmente, che ha fatto ciò che doveva fare, che ha lasciato cadere il fardello, che ha raggiunto la meta, che non è più destinato a “divenire”, che è liberato, avendo appreso a conoscere”. L’Arhat s’è sottratto ad ogni forma di attaccamento all’io e al mio, è raccolto in sé, zelante, serio, interiormente libero, sa dominarsi completamente e, padrone di sé, non ha passioni, è austero. L’Avadana Sataka dà una descrizione un po’ più completa dell’Arhat: “ egli si è esercitato, ha lottato e combattuto, e così ha compreso che questo cerchio di “Nascita e Morte” con i suoi “cinque Elementi” (Skandha) è in costante divenire. Egli ha rifiutato tutte le condizioni dell’esistenza che sono determinate da un complesso di condizioni, perché è nella loro natura declinare e disgregarsi, mutare e distruggersi. Egli ha abbandonato tutte le impurità e sì è guadagnato lo stato di Arhat. Nel divenire un Arhat, egli ha perduto ogni attaccamento al “Triplice Mondo” (cioè il mondo del desiderio dei sensi, il mondo della forma, il mondo senza forma). Per lui. L’oro e un pugno di terra hanno lo stesso valore. Il cielo e la palma della mano sono identici ai suoi occhi. È rimasto freddo (nel pericolo) come il tronco del Sandalo profumato sotto la scure che lo schianta. Con la sua Gnosi ha spezzato il “guscio dell’uovo dell’ignoranza”. Egli ha raggiunto la Gnosi, le “conoscenze superiori” (cioè l’Occhio celeste, l’orecchio celeste, la lettura del pensiero, il potere di far miracoli, la conoscenza che i propri “flussi” si sono inariditi) e i “poteri della visione analitica”. Ha voltato le spalle ai guadagni e ai valori mondani, è divenuto degno d’essere onorato, salutato, riverito dai deva (divinità), compresi Indra, Vishnu e Krishna. Le Pratiche Nel Buddhismo le pratiche della meditazione sono la fonte da cui sgorga tutto ciò che in esso è vivo. Lo sviluppo storico del buddhismo è essenzialmente l’elaborazione di sempre nuovi metodi di salvezza. Questi metodi entrano nella sfera degli interessi dell’uomo comune solamente per il sentimento che dà loro l’avvio e per la meta ch’essi raggiungono. Il punto di partenza di tutti gli sforzi buddhisti è la scontentezza per il mondo così come ci appare; molti sentono spesso tale scontento sebbene raramente sappiano quali conclusioni trarne. Alla fine, le lotte buddhiste producono il frutto dell’equanimità, virtù che ciascuno certo vorrebbe possedere. Sin dai suoi inizi, in tutte le sue forme, il buddhismo ha considerato l’illusione dell’individualità come la radice del peccato, della sofferenza e del disfacimento. Secondo l’antica scuola di saggezza, il Nirvana è l’opposto assoluto di questo mondo. Sin dalle origini la personalità dell’uomo è stata concepita come un complesso di skandha. La convinzione fondamentale della tradizione buddhista ha sempre sostenuto che la ricerca e la riflessione relative al mondo avessero come oggetto non già la spiegazione della sua origine, ma l’aspirazione ad evadere da esso. L’apparizione di questo universo attorno a noi era attribuita non già a Dio ma all’ignoranza. L’antico buddhismo era stato un sistema rigorosamente orientato verso la valorizzazione del principio maschile, in cui non erano ammesse che poche divinità femminili in posizione subordinata. 9 Gli dei superiori sono considerati privi di sesso come gli abitanti dei campi del Buddha. La femminilità era sostanzialmente un ostacolo alla realizzazione spirituale. Avvicinandosi alla buddhità, i bodhisattva cessavano si rinascere sotto forma di una donna; una donna non poteva assolutamente divenire un buddha. La disciplina attenta del corpo è pietra angolare dell’educazione buddhista. Le privazioni di una vita senza fissa dimora, richiedevano una considerevole padronanza sul corpo. Come il Buddha diceva a Sariputra, il monaco deve essere abituato a sopportare il freddo, il caldo eccessivo, le pene della fame; non deve temere i tafani, i serpenti o gli attacchi da parte di uomini e di bestie.; non deve preoccuparsi, amareggiandosi, della possibilità di trovare o meno da mangiare e da dormire. I movimenti muscolari erano oggetto di continua attenzione, cioè si cercava di aver coscienza del proprio atteggiamento durante il cammino, la sosta in piedi o seduti, ecc. La respirazione ritmica e concentrata dello Yoga permetteva un controllo dei polmoni e del sistema respiratorio. Il controllo e la mortificazione del corpo rappresentavano l’essenza costitutiva della vita spirituale. Nello stesso tempo il corpo, per quanto possa essere un peso, non doveva essere disprezzato. Il più alto stato di trance era raggiunto attraverso il corpo. La realizzazione di questo stato dipende dal corpo; si può così dire allora “di toccare l’essenza immortale con il proprio corpo”. La Disciplina Morale I buddhisti credono che la conoscenza sia raggiunte non già quando la conosciamo come espressione verbale, ma solo quando l’abbiamo impressa sul nostro corpo riluttante. Il fondamento dell’educazione buddhista consiste nel disciplinare il corpo, nel vigilarlo continuamente. L’atto decisivo che ci libera dall’illusione dell’individualità è la rinunzia all’attaccamento infatuato e narcisistico al corpo. Il corpo fisico è sempre stato oggetto, da parte dei buddhisti, di attenta osservazione: “entro questo corpo, mortale com’è e alto solo sei piedi, sta, ve lo dichiaro, il mondo, l’origine del mondo, la cessazione del mondo e il cammino che conduce a questa cessazione”. Si insegna ai buddhisti, così come ai Jaina, a concentrarsi sui “Nove Orifizi” donde incessantemente escono sostanze schifose e ripugnanti. Gli organi del senso vengono isolati a uno a uno, sorvegliati attentamente, sottoposti a rigida disciplina. “Che lo sguardo non corra qua e là come la scimmia della foresta o come la tremante gazzella del bosco o come il fanciullo impaurito. Gli occhi devono guardare in basso e non più lontano di un giogo; egli non deve sottomettersi al potere dei suoi pensieri, come una scimmia inquieta.” Il contatto degli organi di senso con i loro particolari stimoli è secondo la formula buddhista, “occasione di stati di concupiscenza, tristi, maligni, malsani, che, fintanto che non siamo padroni di noi stessi si diffondono in tutto il nostro essere”. Il Trance (estasi) Il secondo gruppo dei metodi buddhisti è conosciuto tradizionalmente sotto il nome di Concentrazione. “Concentrarsi” consiste nel limitare il campo d’azione secondo una maniera e per una durata decisa dalla volontà. Sotto il nome di “Concentrazione” vengono tradizionalmente compresi tre tipi di pratiche: 1. gli otto Dhyana 2. i 4 illimitati 3. i poteri occulti - i Dhyana, in pali Jhana, sono mezzi per trascendere l’urto degli stimoli sensibili e le nostre reazioni normali a tale urto. Gli illimitati (Apramana) sono metodi per coltivare le emozioni e si distinguono in quattro momenti: interesse affettuoso per tutti (Metta), compassione, gioia simpatizzante ed equanimità. I poteri occulti sono legati alle circostanze storiche in cui la religione buddhista s’è sviluppata e alle leggi della vita spirituale. Il buddhismo è dovuto vivere tra popolazioni che credevano sinceramente nella magia, allo stesso modo in cui i cittadini moderni credono nella scienza. Le reliquie del buddha venivano apprezzate per la loro potenza magica. Tutta la natura, i cieli, i fiumi, le sorgenti, le foreste e gli alberi, erano pieni di spiriti. Le pratiche taumaturgiche sono diffusissime in India e vennero usate regolarmente da tutti i gruppi religiosi per la conversione degli infedeli. In tutto il mondo buddhista, i 10 miracoli sono i soggetti favoriti dell’ispirazione artistica. Anche se l’occulto non avesse fatto parte della Dottrina Sacra, sarebbe stato imposto alla chiesa dalle circostanze sociali. Ma vi è di più. L’esperienza di tutti i tempi e paesi ha mostrato che non si può coltivare una vita spirituale, senza evocare nello stesso tempo dei poteri psichici e affinare le proprie facoltà psichiche. Il fatto può suscitare sorpresa solo là dove le pratiche spirituali sono virtualmente sconosciute. In conseguenza della pratica dell’estasi il buddha e i suoi discepoli vennero in possesso di ogni sorta di poteri miracolosi o magici chiamati Riddhi o Iddhi; alcuni rientrano nei fenomeni che attualmente chiamiamo psichici – chiaroveggenza, chiaroudienza, ricordo di nascite anteriori, lettura del pensiero, ecc… - altri sono piuttosto di natura fisica. I discepoli potevano “passare a loro volontà attraverso un muro, una barriera, una montagna, come attraverso l’aria libera, potevano sprofondare sottoterra, camminare sulla superficie delle acque e numerosi nell’aria”. Essi potevano prolungare magicamente la vita del corpo, evocare, proiettare il proprio doppio e farlo durare, dare al proprio corpo la forma di un ragazzo, di un serpente, ecc… la Saggezza E’ la virtù suprema. Per i buddhisti Saggezza è metodica contemplazione dei dharma. La Saggezza ha la caratteristica di penetrare nei dharma quali realmente sono; ha la funzione di distruggere le tenebre dell’illusione che velano l’essere proprio dei dharma; e si manifesta non soggetta all’illusione. È stato detto: “colui che si concentra conosce, vede ciò che esiste in realtà; la concentrazione ne è la causa diretta”. I metodi volti ad attuare la Saggezza sono stati esposti nei libri d’Abhidharma. Il fine principale del buddhismo è l’estinzione dell’individualità separata, che si ottiene quando non identifichiamo più nessuna cosa con noi stessi. Una lunga abitudine ci induce a pensare alle nostre esperienze in termini di “io” e di “mio. Il buddhismo tende a costruire un metodo diverso per renderci conto delle nostre esperienze, un metodo dove ”io” e “mio” sono assenti e gli unici “agenti” sono dei dharma impersonali. Che è dunque la nostra individualità ridotta ai dharma? una persona con tutte le sue possibili appartenenze, può essere ridotta, secondo la tradizione buddhista, a cinque “aggregati”, tecnicamente conosciuti con il nome di skandha. Tutto ciò che la persona può considerare come suo, tutto ciò che può appropriarsi o su cui può poggiare, rientra necessariamente in uno dei seguenti cinque skandha: 1. una cosa materiale (il nostro corpo fisico e i possessi materiali) 2. una sensazione 3. una percezione 4. un impulso 5. un atto di coscienza si pensa che la falsa credenza nell’individualità o nella personalità nasca dall’invenzione di un “Sé” sopra questi cinque aggregati, e separato da essi. L’inserimento di un io fittizio nella realtà della mia esperienza, si palesa ogni volta che pretendo di possedere qualche cosa, di essere qualche cosa, di identificare qualcosa con me stesso. Per ottenere un’efficace applicazione del metodo, occorre avere profonda conoscenza tecnica dei manuali d’Abhidharma, accompagnata da grande disciplina mentale e da lunga perseveranza in faticosi esercizi d’introspezione. La teoria del dharma viene presentata come un metodo pratico per distruggere, mediante la meditazione, gli aspetti del mondo fenomenico, e spezzare così le catene che imprigionano il nostro spirito. La sua validità è terapeutica e non teoretica. In Basi dello Yoga, Sri Aurobindo ha descritto molto bene l’effetto che la meditazione sui dharma può avere sul nostro comportamento: “nello spirito calmo è la sostanza dell’essere mentale che è tranquilla, tanto tranquilla che niente la disturba. Se pensieri o attività si producono, questi non provengono affatto dallo spirito, ma vengono dal di fuori e attraversano lo spirito come un volo d’uccelli passa per il cielo in spazio senza vento. Passa, non disturba, non lascia traccia. Anche se mille immagini e i più violenti accadimenti lo attraversano, la tranquillità permane come se il tessuto stesso dello spirito fosse una sostanza di pace eterna e indistruttibile. Uno spirito che ha raggiunto questa calma può cominciare ad agire, anche con forza e intensità, ma conserverà la propria tranquillità fondamentale – non producendo niente da solo, ricevendo tutto dall’Alto e dandogli una forma mentale senza aggiungere alcunché di proprio, con calma, senza passione, ma con la gioia della Verità, con la potenza felice e la luce del suo passaggio.” 11 Secondo la dottrina dell’Antica Scuola di Saggezza, solo la Saggezza può espellere l’illusione dell’individualità dai nostri pensieri dove essa dimora per abitudine inveterata. Si afferma, prima di tutto, che esiste una realtà ultima e poi che esiste in noi stessi un punto mediante cui tocchiamo questa realtà ultima. La Realtà Ultima è chiamata anche Dharma o Nirvana. Non si distingue facilmente dal concetto di Dio enunciato dai teologi. Il Nirvana è posto come l’assolutamente buono, il Dharma come l’assolutamente vero. I caratteri, che accolgono in sé gli aspetti odiosi di questo mondo, sono tre: Impermanenza, Sofferenza e Non-sé. Nel mondo tutto è impermanente, sempre mutevole, condannato alla distruzione: non ci si può fidare; ogni cosa ci sfugge dalle mani qualunque sforzo si faccia per tenerla ben salda. Circa il carattere della sofferenza, secondo una tesi fondamentale del buddhismo, non vi è niente che non sia sperimentato direttamente come male oppure, in un modo o nell’altro, legato al male – male passato o futuro, male nostro o di altri. Infine, nel mondo, tutto è non-sé, perché non riusciamo mai a possedere completamente qualche cosa, a custodirla sicuramente, non possediamo realmente il possessore e nemmeno custodiamo il custode. Da un lato abbiamo così la Realtà Ultima che a un certo punto del cammino appare come felicità di pace, incessante, senza turbamento, sicura. Dall’altro lato abbiamo gli accadimenti condizionati che finiscono con il rivelarsi impermanenti, legati alla sofferenza e non veramente nostri. Mettendo a raffronto i due mondi, ci sentiamo sempre più disgustati da ogni cosa che ha le tre caratteristiche, che non può offrire al nostro Io la sicurezza cercata, che non può dissipare la nostra angoscia. I capitoli che seguono riguardano uno stadio più avanzato della diffusione del buddhismo e sono meno attinenti la ricerca che ci siamo prefissi. Tuttavia i continui paralleli con il buddhismo delle origini e considerando che le idee e i metodi che si vanno sviluppando erano in nuce già nell’antica scuola di saggezza, le seguenti informazioni risultano utili ed importanti V IL MAHAYANA E LA NUOVA SCUOLA DI SAGGEZZA Hinayana e Mahayana Come vedemmo, il buddhismo possiede due metodi volti a diminuire il sentimento di separazione fra individuo e individuo. L’uno educa a sentimenti sociali, all’interesse affettuoso per tutti e alla compassione; l’altro tende a formare nell’individuo l’abitudine a considerare tutto ciò che egli pensa, sente o fa, come un gioco reciproco di forze impersonali – chiamate Dharma – tende a divezzarli gradatamente da idee quali “io”, “mio” e “sé”. Vi è contraddizione logica fra il metodo degli Illimitati e il metodo si Saggezza: mentre il metodo di saggezza rivela l’inconsistenza della credenza nell’individualità, il metodo degli illimitati aumenta l’interesse per i problemi di un sempre maggior numero di individui. Il Vuoto Sebbene “il vuoto” sia di solito raffigurato dall’arte buddhista con un cerchio vuoto, non lo si deve concepire come un semplice “niente” o uno spazio in bianco. Il termine indica l’assenza o la soppressione del “Sé”. Il vuoto è ciò che sta esattamente nel mezzo fra l’affermare e il negare, l’esistere e il nonesistere, l’eternità e l’annichilimento. Il germe di quest’idea si trova in un antico insegnamento, trasmesso dalle scritture di tutte le scuole. Il Buddha dice a Katyayana che il mondo di solito basa le proprie opinioni su due cose: esistenza e non-esistenza. “questo è” è uno degli estremi, “questo non è” è l’altro estremo. Il mondo è imprigionato entro i due limiti. Gli uomini santi trascendono questi due limiti. Evitando i due estremi il Tathagata insegna un Dharma mediano; solo nel mezzo si può trovare la verità. La Salvezza Chi va alla ricerca del Dharma è sostenuto spesso, io credo, da queste tre speranze: 1) esser protetto dalla sofferenza fisica; 2) esser liberato – venendo meno l’attaccamento al sé e le conseguenze dell’attaccamento quali la morte, ecc. – dalla paura, dall’angoscia e dall’apprensione; 3) farsi centro e dimora di una forza calma e pura, dominatrice del mondo. I documenti storici in nostro possesso testimoniano che in India, nell’antico Ordine buddhista, questi furono i motivi che ispirarono gli sforzi della maggior parte dei monaci. Essi guardavano ad uno stato ideale di indifferenza, vicino all’ideale stoico dell’Apatheia. Compiere ogni cosa ed esser consapevoli di fare qualche cosa; pensare a tutte le cose ed esser soddisfatto di non raggiungerle mai, questi sono i miracoli che dobbiamo compiere se vogliamo liberarci da noi stessi. ”Colui che non si esercita al raggiungimento della conoscenza totale, si esercita alla conoscenza totale, procede verso la conoscenza totale”. 12 VI IL BUDDHISMO DELLA FEDE E DELLA DEVOZIONE L’accoglimento della Bhakti La nuova scuola di saggezza era il movimento di un’elite che per compassione considerava come suoi gli interessi dell’uomo comune. Per poter compiere la propria missione doveva aggiungere a dottrine metafisiche un sistema mitologico. Non era sufficiente consigliare agli altri, per il raggiungimento della Salvezza, la meditazione sul Vuoto; altrimenti la maggioranza sarebbe rimasta al di fuori di questo processo, in quanto la preoccupazione per il proprio sostentamento, il profondo attaccamento alla proprietà, alla famiglia e alla casa, associati alla mancanza di inclinazioni metafisiche, avrebbero costituito un notevole impedimento a ciò. L’uomo comune, incapace di Saggezza, deve volgersi alla Fede. Alla via della Saggezza trascendente si aggiunge quella della Fede o Bhakti. La Fede era considerata nell’Hinayana una virtù piuttosto secondaria. Ora acquista la stessa dignità della Saggezza, la sua potenza salvifica è molto più grande di quanto pensassero le vecchie scuole. Da circa il 400 a.C. in poi, un movimento bhakti si era venuto sviluppando in india e verso l’inizio della nostra era aveva raggiunto grande forza. Bhakti significa devozione personale e amorosa verso divinità adorate e concepite in forma umana. L’Hinayana aveva volto la propria attenzione ad un’elite, ed aveva elaborato pochi effettivi metodi per aiutare coloro che erano meno dotati di possibilità di salvezza. Ciò che agisce nella Salvezza Per quanto possiamo giudicare nelle scritture dell’Antica Scuola di Saggezza, abbiamo l’impressione che una delle sue principali caratteristiche fosse costituita dalla fiducia del fedele in se stesso. Si aveva la ferma convinzione che la Salvezza potesse esser conseguita soltanto mediante l’impegno personale, e che “nessuno potesse salvarsi per merito di un altro”. Originariamente si credeva che ciascuno fosse in possesso di una propria serie di Karma, che la punizione per le cattive azioni dovesse ricadere sull’individuo stesso, e che il premio delle sue buone azioni dovesse esser raccolto soltanto da lui. Nei Veda si reputava che i membri di una famiglia o di un clan partecipassero ad un karma comune. L’interpretazione individualistica della legge del karma abbandona ogni individuo alle sue proprie forze e finisce con il negare qualsiasi solidarietà proprio in relazione all’aspetto più importante della vita, cioè a quello del merito e del demerito. Sappiamo di un brahmano che obiettò all’insegnamento del Buddha, sostenendo che, se posto in pratica, esso avrebbe creato meriti solo per i singoli individui. Il Buddha rispose che le azioni dei santi avevano di solito il potere di ispirare molti altri con la forza dell’esempio. Ma non vi è alcuna testimonianza che le scritture buddhiste prima del 200 a.C. insegnassero in maniera precisa e definitiva la possibilità del passaggio di merito da una persona ad un’altra. Il merito è quella qualità acquisita che ci assicura futuri benefici, siano essi materiali o spirituali. È facile accorgersi che il desiderio di acquistare merito, il farne tesoro, l’ammassarlo e accumularlo, quantunque meritorio, implica un considerevole grado di egoismo. Comunemente i buddhisti hanno usato la tattica d’indebolire, nei membri spiritualmente meno dotati nella comunità, l’istintivo desiderio di possesso togliendo loro l’inclinazione per la ricchezza e la famiglia e volgendoli invece verso un’unica finalità e un solo oggetto, l’acquisto del merito. I fini del fedele Che cosa s’attende il fedele dai buddha e dai bodhisattva? Nel buddhismo della fede i salvatori hanno in complesso quattro funzioni: 1) sviluppano la virtù del fedele, lo aiutano a rinunciare alla brama, all’odio e all’illusione, lo proteggono da uomini e spiriti maligni, nel caso essi tentino di ostacolare le pratiche spirituali. 2) Concedono benefici materiali. Poiché i buddha e i bodhisattva sono pieni di misericordia, era naturale e, in certo modo, logico pensare che essi si occupassero dei desideri dei fedeli, proteggessero le loro fortune mondane ed evitassero disgrazie. Avalokitesvara ad esempio, protegge le carovane dai briganti, i naviganti dai naufragi, i criminali dall’esecuzione. Con il suo aiuto le donne ottengono i bambini che desiderano. È sufficiente pensare ad Avalokitesvara per far si che gli incendi si spengano, le spade cadano a pezzi, i cuori dei nemici divengano gentili, le catene si sciolgano, gli incantesimi tornino là donde son venuti, le belve fuggano e i serpenti perdano il loro veleno. Il buddhismo, come dottrina magica, promette di allontanare i mali fisici, mentre come dottrina spirituale tende a distogliere la mente da un erroneo atteggiamento verso di essi. 3) I buddha e i bodhisattva divengono oggetto del desiderio di amare. Nel senso della Bhakti, amore significa personale relazione con una persona che non solo si ama e si adora, ma che si desidera vedere e con cui si vuole stare insieme, non si permette che vada via ma si desidera che rimanga. 13 4) Infine i buddha e i bodhisattva fornivano favorevoli condizioni per il raggiungimento dell’illuminazione in una vita futura. La rinascita nei cieli era per i fedeli la ricompensa immediata per una santa vita e del loro rifugiarsi nei Tre Tesori. Entro l’Hinayana, il paradiso di Maitreya era divenuto sempre più popolare come luogo di futura rinascita. Questo “paradiso” è spesso descritto con molte immagini sensibili. È splendente, fatto di lapislazzuli, senza pietre e sassi, senza buche e precipizi, senza fango e fogne. È levigato, grazioso, bello e calmo a guardarsi, adorno di alberi di gioielli piantati in una scacchiera divisa da fili d’oro e coperta di fiori, ecc. “gli esseri nati in quella terra non soffriranno mai morte immatura, saranno abbondantemente ricchi, facitori di bene, veritieri e sinceri, gentili nel conversare. Non saranno mai separati dalle famiglie e dai parenti. Saranno abili nel riconciliare litigi, pronti a far del bene ogni volta che parlano. Non saranno mai invidiosi o irritati, ma manterranno sempre retti principi”. Tutto questo è vera e propria religione popolare. La potenza creativa delle azioni eticamente rilevanti è assiomatica per i buddhisti allo stesso modo che è per noi completamente inconcepibile. L’ambiente in cui gli esseri debbono vivere è, in gran parte, specialmente per quanto riguarda le caratteristiche di piacevolezza o spiacevolezza, determinato dalle loro azioni (karma). Questo nostro modo appare completamente impuro, ripieno di ogni sorta di dolori e calamità, miserabile e pieno di terrori. Tuttavia, per coloro che posseggono una vera fede, questo stesso mondo si trasforma in qualcosa di diverso, del tutto identico ad una terra pura: “fatta di lapislazzuli, con il terreno pianeggiante e una scacchiera di otto scompartimenti divisi da fili d’oro, ornati di alberi di gioielli”. “Gli esseri, a causa dei loro peccati, non possono vedere la purezza di questa nostra terra del Buddha. In verità questa nostra terra è sempre pura. Le impurità sono nella vostra mente. Io ti assicuro. Sariputra, che il bodhisattva è puro nel suo saldo spirito, sa guardare tutte le cose con imparzialità, con la stessa saggezza di un buddha e quindi questa nostra terra del buddha gli appare pura, senza macchie. Il nostro mondo è sempre puro a questo modo. Eppure per salvare gli esseri che hanno capacità inferiori, questo mondo viene mostrato come impuro e malvagio”. VII GLI YOGACARIN Saggezza e trance (estasi) Per il temperamento di alcuni monaci era più adatto il Trance, per quello di altri, la Saggezza. Gli “uomini della Saggezza”, son innanzi tutto degli intellettuali, gli “uomini del Trance”, al contrario, degli asceti dediti alla meditazione. I primi sono “devoti al dharma”, gli altri appunto “contemplano” (jhayin). I saggi sono inclino all’introspezione mentre il trance conduce alla calma. I saggi non prestano molta attenzione alla magia, gli altri la tengono invece in grande considerazione. Secondo la dottrina ortodossa solo i due metodi congiunti insieme possono condurre all’illuminazione. Nei tempi antichi i monaci si occuoavano ben poco dell’universo in generale. Gli stati mentali e i metodi psicologici erano tutto ciò che importava se si desiderava conoscere se stessi. Ulteriori dottrine Il Corpo-Apparenza, è una persona fisica risultante da una creazione magica fittizia la quale si manifesta con il discendere dal cielo, lasciare la sua dimora, praticare una vita di austerità, giungere all’illuminazione, raccogliere discepoli e insegnar loro, morire sulla terra. Già nell’hinayana si attribuiva al buddha il potere miracoloso di suscitare un’apparenza di se stesso, un “nimitta-Buddha” che predicava ovunque mentre andava attorno elemosinando. Anche gli dei indù possedevano tali poteri. L’unico Buddha, il Corpo-del-Dharma, è sempre esistito, ma in varie occasioni ha proiettato in questo mondo corpi fantasma di Buddha, perché compissero il suo lavoro. Le caratteristiche magiche di tali idee hanno avuto grande importanza storica. Lo stesso mondo, in cui le forme del buddha appaiono, non è che un’illusione magica (Maya) quando insegnano che il mondo è un’illusione magica, i buddhisti non intendono affermare la sua assoluta non-esitenza. È invece tangibilmente e visibilmente reale, ma ingannevole perché viene scambiato erroneamente per ciò che non è. Non è autentico, e come un trucco magico, non deve esser preso troppo sul serio. “le gioie di tutti gli esseri e le loro proprietà sono suscitate dal Maya delle loro azioni; questo Ordine di monaci, dal Maya del Dharma; io stesso, dal Maya della saggezza; e ogni cosa in generale dal Maya della complessità delle condizioni”. 14 Non fa meraviglia che incominciasse a diffondersi la convinzione che solo metodi magici potessero avere efficacia in tale universo. Questa convinzione prese forma nel tantra. VIII IL TANTRA O BUDDHISMO MAGICO Il problema del Tantra A differenza degli europei moderni, gli asiatici avevano molta familiarità con le rappresentazioni magiche di illusionisti, maghi, ecc. i quali costituivano una parte regolare della loro vita quotidiana. Secondo la Prajnaparamita, l’intero processo della Salvezza è della stessa natura di un esperimento magico. Il Tantra buddhista trae da questi fatti conseguenze pratiche. Esso è il risultato logico degli sviluppi che l’hanno preceduto. Naturalmente, se si ritiene che il buddhismo originario sia stata una religione perfettamente razionale, secondo gli intendimenti della “Chiesa etica”, senza alcuna caratteristica sovrannaturale o misteriosa, allora il tantra diventerà una degenerazione quasi incomprensibile di questo preteso buddhismo originale. In realtà il buddhismo è sempre stato strettamente congiunto a ciò che i razionalisti chiamerebbero superstizione. La realtà di poteri psichici straordinari, cioè miracolosi, non è mai stata posta in dubbio. Sviluppare tali poteri costituiva, per coloro che ne avevano l’attitudine, parte del programma di salvezza, sebbene per gli altri ciò rappresentasse un beneficio di dubbio valore. L’esistenza di numerosi spiriti disincarnati e la realtà delle forze magiche erano considerati come sicuri; la credenza in essi era parte integrante della cosmologia di quel tempo. Il Tantra è di natura tale da provocare l’indignazione morale degli europei. Pare loro che nella storia del buddhismo, una metafisica astratta, altamente sublime, abbia lentamente ceduto il posto a preoccupazioni per attività personali e magiche, alle formule del rito magico e a ogni sorta di superstizioni. Una deliberata immoralità pare loro che abbia sostituito la nobile austerità del passato. L’antico disinteressato non-attaccamento al mondo soppiantato dal desiderio d’adattamento alle più sordide aspirazioni, e la rassegnazione alle circostanze, dal desiderio di acquistare potere su di esse. Mentre prima la povertà era stata condizione indispensabile di ogni progresso spirituale, ora si pensa a propiziarsi Kuvera e Jambhala, divinità della ricchezza. E così via. Ma questa illogica combinazione di obiettivi mondani e sopramondani è antica quanto lo stesso buddhismo ed è stata una delle principali colonne della sua forza. Può darsi che vi siano sviluppi paralleli determinati da condizioni locali e derivanti da un modello culturale generale e largamente diffuso. Ma può anche darsi che vi sia un ritmo segreto nella storia che, in certi momenti e in luoghi geograficamente distanti gli uni dagli altri, risveglia identici archetipi. Poiché la bancarotta della nostra civiltà è di giorno in giorno più evidente, un sempre maggior numero di persone si volgerà alla saggezza del passato e alcuni troveranno rifugio nel buddhismo. Rimane da vedere dove e quando appariranno i primi europei vestiti della tonaca color zafferano. FINE 15