ALLEGATI Matteo Zambelli: Tecniche di invenzione in architettura. Gli anni del decostruttivismo. Estratto da pag. 9 del libro PREMESSA Indagare le fasi germinali della progettazione, quando da un grumo magmatico di intuizioni, riferimenti, ricordi, memorie, sensazioni, ossessioni, passioni, ideali, desideri, scaturisce finalmente l’Idea, quella giusta, la sintesi del momento di verità, che ogni volta rinnova nell’artefice quel senso di (onni)potenza dell’atto creativo. Cercare di togliere quei veli di ineffabilità e di mistero che ammantano il momento della concezione del progetto rispondendo alla domanda: «Esistono delle tecniche di invenzione, ovvero dei procedimenti specifici dell’architettura attraverso i quali si costruisce il pensiero progettuale? È possibile interrogarsi sui meccanismi dell’immaginazione?»1. Sono questi gli obiettivi del libro. L’ipotesi contenuta in queste pagine cerca di dimostrare che l’atto creativo non è del tutto ineffabile, ma si avvale di una «strumentazione » trasmissibile e documentabile. Le tecniche d’invenzione sono proposte secondo una duplice valenza: come strumenti ideativi, nel senso che favoriscono l’innesco del processo progettuale, lo agevolano e lo guidano, e come strumenti interpretativi attraverso cui analizzare e comprendere l’architettura. Il campo di indagine è ristretto al decostruzionismo, perché è il movimento che conclude le ricerche del XX secolo e rappresenta, o ha ormai rappresentato, una fase di critica dell’architettura, essendosi costitutivamente posto come interrogazione di tutte le «certezze» disciplinari acquisite. Per poter contestare le «verità» ereditate dalla storia il decostruzionismo ha dovuto analizzare i propri fondamenti disciplinari e, contemporaneamente, definire o affinare le proprie tecniche di analisi concettuale e progettuale, quindi di invenzione. Estratto da pag. 21 a pag. 28 LA CREATIVITÀ Philip Johnson-Laird assume che il processo creativo abbia tre proprietà caratteristiche: – come tutti i processi mentali [la creatività, n.d.a.] parte da alcuni elementi dati; – il processo non ha uno scopo preciso, ma soltanto alcune restrizioni preesistenti o criteri che deve soddisfare. [...] Si crea all’interno di generi o paradigmi, e anche la creazione di un nuovo genere deve soddisfare certi criteri; – un processo creativo fornisce un risultato che è nuovo per l’individuo, non puramente ricordato o percepito, e non costruito a memoria o per mezzo di una semplice procedura deterministica27. La prima proprietà della creatività afferma che nulla nasce dal nulla: non si crea dalla tabula rasa. La fantasia si fonda sulla conoscenza28. Non si possono fare relazioni fra ciò che non si conosce, e nemmeno tra ciò che si conosce e ciò che non si conosce29. Esiste quindi un serbatoio di conoscenze da cui attingere per progettare, quel serbatoio è la memoria. Il presupposto cognitivo della creatività è la convinzione che gli artefatti siano il frutto della capacità della nostra mente di rielaborare e di stabilire nuove relazioni fra ciò che è depositato nella memoria. Diventano allora fondamentali le dimensioni del magazzino della memoria: più «materiale » è disponibile, potenzialmente maggiore sarà la capacità dell’individuo di stabilire relazioni. La fantasia quindi sarà più o meno fervida se l’individuo avrà più o meno possibilità di fare relazioni. Un individuo con una cultura molto limitata non può avere una grande fantasia, dovrà usare i mezzi che ha, quello che conosce30. Di seguito vengono riportate alcune citazioni da Sant’Agostino, Ludovico Quaroni, Herman Herztberger e Bruno Munari, «creativi» testimoni del significato e dell’importanza del magazzino della memoria. Sant’Agostino: E giungo ai campi e alle vaste sedi della mia memoria, ove si trovano tesori di immagini innumerevoli, tratte da ogni genere di cose sentite. Ivi è riposta ogni immagine ottenuta ingrandendo o diminuendo o comunque variando i dati del senso e ogni altro elemento raccolto e serbato prima che l’oblio l’abbia assorbito e sepolto. Quando mi trovo là, a mia richiesta si presenta tutto ciò che voglio; certe cose vengono subito, certe altre si fanno cercare più a lungo e tirar fuori come da ripostigli segreti; altre irrompono a frotte e, mentre si chiede e si cerca altro, balzano in mezzo come per dire: «Siamo noi che cerchi? ». Le allontano con la mano del cuore dal volto della mia memoria, finché si snebbi quella che voglio e mi venga in vista dai suoi nascondigli. Altre immagini con facilità e senza turbare la serie, come sono richieste vengono via via; le prime cedono il posto a quelle che seguono e ritirandosi si occultano per ricomparire quando vorrò. Tutto questo avviene quando io narro a memoria. Ivi si sono serbate direttamente e per generi le cose che vi sono entrate ciascuna per la propria porta, come la luce, tutti i colori e le forme dei corpi per mezzo degli occhi; i suoni d’ogni specie per mezzo dell’udito; tutti gli odori per la via dell’odorato; tutti i sapori per la via del gusto; per il senso diffuso in tutto il corpo le sensazioni di ciò che è duro, molle, caldo, freddo, liscio, scabro, pesante, leggero, dentro e fuori del corpo31. Ludovico Quaroni: Nella lenta costruzione dello schema progettuale entrano molti materiali, oltre a quelli desunti razionalmente dall’analisi. Nel momento infatti nel quale si passa a formulare qualche ipotesi che risponda ai requisiti dedotti dal ragionamento, può aversi la «induzione» di una nuova idea [...] ma certamente perché questa idea-progetto diventi uno schema progettuale occorre buttare dentro il lavoro materiali estratti dal magazzino della memoria: «idee» d’organizzazione spaziale o addirittura «oggetti» architettonici. In questo grande deposito di idee che non sono ancora immagini e di immagini più o meno legate a idee di possibili utilizzazioni progettuali, può trovarsi di tutto: ci possono essere suggestioni avute vedendo un giorno, anche lontano, un edificio costruito, un particolare dello stesso, un oggetto d’uso, un progetto, o un disegno, letto magari male32. Herman Hertzberger: Quando parli del tuo lavoro devi chiederti da chi hai ricevuto qualcosa. Perché tutto ciò che trovi proviene da qualche luogo. La sorgente non è nella tua mente, ma viene alimentata dalla cultura alla quale appartieni. Ed è per questo che il lavoro di altri è qui così manifestamente presente a mo’ di contesto. Lo si può dire in quanto questo libro contiene lezioni, sono le lezioni di Bramante, Cerdá, Chareau, Le Corbusier, Duiker & Bijvoet, Van Eyck, Gaudí & Jujol, Horta, Labrouste, Palladio, Van der Vlugt & Brinkman e tutti gli altri che mi hanno prestato i loro occhi cosicché io potessi vedere e selezionare precisamente ciò di cui avevo bisogno per far avanzare il mio lavoro un passo più avanti. Gli architetti (non solo loro) hanno l’abitudine di nascondere le loro fonti di ispirazione e anche di sublimarle – come se questo fosse mai possibile. Ma nel farlo il processo di ideazione diventa nebuloso, mentre svelando ciò che in primo luogo ti ha mosso e stimolato potrebbe esserti utile per spiegarti e motivare le tue decisioni. Tutto ciò che è assorbito e registrato nella tua mente si aggiunge alla collezione di idee depositate nella memoria: una sorta di biblioteca che puoi consultare ogniqualvolta sorge un problema. Così, in sintesi, più hai visto, provato e assorbito, maggiori punti di appoggio avrai per aiutarti a decidere quale direzione prendere: il tuo quadro di riferimento si espande. La capacità di trovare una soluzione del tutto nuova a un problema, come per esempio creare un «meccanismo» diverso, dipende completamente dalla ricchezza della tua esperienza, così come le potenzialità espressive di una persona, in termini di linguaggio, non possono trascendere ciò che è esprimibile con il proprio vocabolario33. Bruno Munari: Il prodotto della fantasia, come quello della creatività e dell’invenzione, nasce da relazioni che il pensiero fa con ciò che conosce. È evidente che non può far relazioni tra ciò che non conosce, e nemmeno tra ciò che conosce e ciò che non conosce. [...] La fantasia sarà più o meno fervida se l’individuo avrà più o meno possibilità di fare relazioni. Un individuo di cultura molto limitata non può avere una grande fantasia, dovrà sempre usare i mezzi che ha, quello che conosce, e se conosce poche cose tuttalpiù potrà immaginare una pecora coperta di foglie invece che di pelo. È già molto sotto l’aspetto della suggestione. Ma, invece di continuare a fare delle relazioni con altre cose, si dovrà a un certo punto fermare. [...] Se vogliamo che un bambino diventi una persona creativa, dotata di fantasia sviluppata e non soffocata (come in molti adulti), noi dobbiamo fare in modo che il bambino memorizzi più dati possibili, nei limiti delle sue possibilità, per permettergli di fare più relazioni possibili, nei limiti delle sue possibilità, per permettergli di risolvere i propri problemi ogni volta che si presentano34. Una cosa appare subito evidente. Per poter stabilire relazioni fra l’insieme dei «dati», che costituiscono la memoria, bisogna poter disporre di restrizioni, di guide: di strumenti. La seconda proprietà della creatività, come definita da Johnson-Laird, si riferisce proprio alle restrizioni. Nell’assunto di questo libro le tecniche di invenzione sono quelle restrizioni a cui sempre bisogna rifarsi per arginare e delimitare il campo del problema e per orientare la ricerca nei serbatoi della memoria. Come dice Munari, se l’individuo non dispone di una strumentazione adatta, i dati (di qualsiasi tipo essi siano) depositati nel magazzino della memoria rimangono inerti, quindi inservibili, e il processo ideativo non si innesca. Per questo motivo è utile riconoscere e definire delle tecniche che aiutino a stabilire relazioni fra i dati conservati nella memoria per dare inizio al processo ideativo. Gianni Rodari definisce le tecniche di invenzione «trucchi per mettere in movimento parole e immagini»35 da utilizzare per scrivere fiabe per bambini; mutatis mutandis, in architettura sono trucchi per mettere in movimento concetti, immagini, forme, spazi, funzioni, usi, significati e dati, necessari per progettare edifici. Le tecniche di invenzione sono delle lenti attraverso cui guardare il paesaggio della memoria, per selezionare temi, questioni e dati che formeranno quelle catene di concetti da cui nascerà l’idea. Le tecniche sono delle mappe per cercare, perché contengono già in sé una preselezione. Sono degli ami gettati nel serbatoio della memoria a cui si agganceranno una serie di concetti e dati fra i quali si stabiliranno delle relazioni fondamentali per la nascita dell’idea di progetto. La terza caratteristica del processo creativo afferma che, a differenza del calcolo e di altre procedure analoghe, il processo di creazione non è deterministico, ossia usare le tecniche di invenzione non assicura un risultato certo, buono, innovativo... Infatti, riferendosi alla possibilità di costruire un programma per favorire la creatività, Johnson-Laird riconosce che «uno scopo che resterà sempre fuori portata è un modello [della creatività, n.d.a.] che generi soltanto risultati veramente originali ed eccellenti. Nemmeno gli esseri umani sono in grado di farlo»36. Non è possibile pensare a un processo causale, normato, della creatività per cui dato un problema, definite delle premesse, degli obiettivi e delle tecniche, il risultato raggiunto sia effettivamente creativo e soddisfacente. Ma, allora, perché cercare di definire e usare delle tecniche di invenzione, se non sono garanzia di un risultato originale ed eccellente? L’architettura si situa nell’ambito del problem solving, perché risolve, o dovrebbe risolvere, dei problemi: disciplinari (funzionali, distributivi, formali, figurativi, di dettaglio...) o extradisciplinari (esigenze del cliente, contenimento dei costi e dei consumi, normativi...). Nel problem solving si distinguono due tipi di problemi: i «problemi ben definiti» e i «problemi mal definiti». Sono ben definiti i problemi enigmistici, di aritmetica, di geometria. Sono mal definiti i problemi che non forniscono tutta l’informazione necessaria alla loro soluzione e per i quali non esiste né uno strumento per decidere se e quando il problema è risolto, né dei criteri validi per valutare la correttezza della soluzione37. Il progetto di architettura è un problema mal definito. A questa distinzione, ne segue un’altra, dipendente dalla prima; è la distinzione fra algoritmo ed euristica. L’algoritmo è una procedura di calcolo che dopo un certo numero di passaggi assicura il raggiungimento del risultato cercato e certo: il concetto di algoritmo, che attiene alla matematica, è usato nel cognitivismo38 per indicare piani e procedure in cui si applica uno schema noto di operazioni per trovare una soluzione39. L’euristica, e le tecniche di invenzione sono delle euristiche, diversamente dall’algoritmo, non è sistematica, è una procedura rischiosa che può portare all’insuccesso, e ovviamente viene applicata quando non c’è un algoritmo disponibile (come nel caso dell’architettura e nei processi artistici in genere). Le euristiche sono delle «regole imperfette»40 usate perché consentono analisi e decisioni semplificate, e l’esperienza insegna che il più delle volte sono efficaci. In sintesi: «Ben definiti» sono i problemi chiaramente formulati, per i quali è noto l’obiettivo e l’algoritmo per raggiungerlo (per es. calcolare l’area del quadrato). «Mal definiti» sono i problemi che non hanno né chiara formulazione, né criteri per valutare la correttezza della soluzione, né, tanto meno, procedure che garantiscano una soluzione corretta41. Un problema come il puzzle dei tasselli o gli scacchi è, secondo Herbert Simon, «ben definito o strutturato», mentre un problema di progettazione non lo è. Secondo Simon un problema è ben strutturato quando lo spazio del problema è chiaro, ovvero quando siamo in grado di rappresentarci senza ambiguità gli stati iniziali, i finali e quelli intermedi. Inoltre le trasformazioni che portano da uno stato all’altro devono essere non solo chiare, ma anche controllabili, ovvero ci deve essere un criterio per sapere se la differenza tra due stati è stata superata e se ci stiamo avvicinando alla soluzione finale. I problemi mal definiti costituirebbero invece una categoria negativa. Come gli UFO definiscono tutti gli oggetti volanti non identificati, così i problemi mal strutturati raccolgono tutti i casi che non riescono a essere considerati ben strutturati. Simon fa l’esempio di un architetto che deve costruire una casa: un compito che è mal strutturato, soprattutto se egli cerca una soluzione creativa, senza rifarsi a modelli e soluzioni standard. Il compito iniziale offre troppe poche specificazioni (la richiesta del cliente, la vaghezza delle sue esigenze), il numero di alternative possibili è immenso. Inoltre non tutti gli effetti di una mossa e delle soluzioni ideate sono controllabili: spesso la bontà del prodotto finale è valutabile solo una volta che è stato realizzato. Può succedere per esempio che la focalizzazione su certi aspetti e vincoli faccia perdere di vista altri fattori, generando imperfezioni42. L’architetto è quindi costretto a usare le tecniche di invenzione come euristiche, ossia strumenti incerti, «deboli», per riuscire a sondare lo spazio del problema mal definito che si presenta nella progettazione. L’architetto non solo sonda lo spazio del problema, ma attraverso le tecniche di invenzione lo circoscrive, lo riduce; le euristiche sono fondamentali per minimizzare lo spettro delle scelte possibili in modo tale da evitare la paralisi per le troppe possibilità e consentire di dare avvio al processo progettuale con alcune linea guida. Dotarsi di euristiche significa discriminare, preventivamente, fra gli infiniti possibili che se non venissero ridotti porterebbero alla stagnazione del processo progettuale. L’euristica deve possedere, almeno in architettura, delle caratteristiche apparentemente contraddittorie: deve essere orientata ma sufficientemente vaga e imprecisa43. All’inizio opera selettivamente, per delimitare il campo del problema, poi possiede un effetto moltiplicatore all’interno, però, del dominio (spazio del problema) ormai circoscritto. La sua azione sembra incoerente, nel senso che da principio riduce, riuscendo a organizzare o facendo emergere dal magmatico magazzino della memoria del progettista alcuni materiali appena predisposti, dopo di che diventa un catalizzatore/moltiplicatore capace di suscitare questioni nuove (ovviamente all’interno del percorso vagamente predisposto e strutturato nella prima fase), di attirare nuove relazioni strutturate fra pezzi di conoscenze che giacciono ancora immerse nella memoria del progettista e di tutte le persone che direttamente o indirettamente partecipano alla progettazione, e, quindi, di guidare il progetto alla sua conclusione. L’euristica, in architettura, potrebbe corrispondere al «generatore primario». Secondo quanto riporta Emanuele Arielli44, Jane Darke45, intervistando diversi architetti, ha constatato che tutti tendono a scegliere un’idea semplice e generale già nelle fasi iniziali della progettazione, vincolando le scelte successive a questa prima decisione. Essi partono da uno spunto, un’immagine o un principio che permette loro di generare un ventaglio molto ristretto di soluzioni possibili che poi vengono messe al vaglio. In altri termini non è vero che il designer inizia facendosi una panoramica di tutti i fattori e vincoli, cercando di affrontarli in modo comprensivo. Spesso si fa ricorso a uno schema soggettivo, autoimposto [...]: queste decisioni non sono il prodotto dell’analisi del problema, bensì precedono l’analisi stessa. Darke ha chiamato «generatore primario» questa tendenza a usare un principio organizzatore o un’idea dominante di partenza, come un dettaglio che viene sviluppato in uno stile, oppure un concetto astratto o un’immagine 46. L’elezione della/e tecnica/che di invenzione, ossia di una euristica, da usare nel processo progettuale è del tutto autoimposta e autosufficiente, risponde solo a se stessa. La scelta è un atto sempre pressoché arbitrario, difficile da spiegare, se non a posteriori, quando è l’architettura stessa (o qualsiasi altra opera creata) che aiuta a capire e chiarire le ragioni che l’hanno generata. È possibile distinguere fra tecniche concettuali e tecniche formali. Le tecniche concettuali sono quelle euristiche che strutturano relazioni fra i dati della memoria, in forma sintetica e imprecisa, senza suggerire un’immagine interiore compiuta, neppure abbozzata. Le tecniche concettuali sono degli accumulatori che registrano, per forza di esclusione (tenuto conto della restrittività esercitata dalle tecniche creative), e rielaborano, per forza di inclusione, tutta quella massa informe e vorticosa di dati, spunti e idee della fase preliminare della progettazione. Esse hanno la capacità di strutturare legami e relazioni fra idee che altrimenti rimarrebbero nel magazzino della memoria. Sono quegli «arnesi» di cui l’architetto dispone per trarre alla luce delle idee e per operare delle scelte. Le tecniche formali sono delle euristiche che possiedono una preminenza formale, sebbene incerta e vaga, e in forza di tale vocazione formale, prima che concettuale (anche se le forme non mancano affatto di una carica concettuale), organizzano relazioni fra dati, ma soprattutto immagini della memoria. Se il progetto è sintesi di pensieri, di concetti e dati espressi mediante materie e forme, ad esso si può arrivare attraverso due direzioni: una esercitata dall’alto verso il basso, attraverso la forza delle idee (tecniche concettuali) che si caricano di materia, l’altra, seguendo la direzione opposta, da un’immagine «vuota» (tecniche formali) che solo dopo riesce a conquistare il mondo delle idee. Note 1 Franco Purini, L’architettura didattica, Reggio Calabria, Casa del Libro Editrice, 1980, p. 44. […] 27 Philip N. Johnson-Laird, La mente e il computer. Introduzione alla scienza cognitiva, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 276. 28 Piero Ostilio Rossi, La costruzione del progetto architettonico, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 53. 29 Bruno Munari, Fantasia, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 29. 30 Ibid., p. 29. 31 Aurelio Agostino, Le Confessioni, Genova, Marietti, 1975, pp. 405-406. Il riferimento a Sant’Agostino è tratto da Rossi, La costruzione del progetto architettonico, cit., pp. 55-56. 32 Ludovico Quaroni, Progettare un edificio, Milano, Mazzotta, 1977, pp. 6263. 33 Herman Hertzberger, Articulations, Munich, Prestel Verlag, 2002, p. 17. 34 Munari, Fantasia, cit, pp. 29-30. 35 Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Torino, Einaudi, 2001, p. 4. 36 Johnson-Laird, La mente e il computer, cit., p. 276. 37 Piero Boscolo, Psicologia dell’apprendimento scolastico, Torino, UTET, 1997, p. 339. 38 «Le scienze cognitive hanno come oggetto di studio la cognizione, e cioè la capacità di un qualsiasi sistema, naturale o artificiale, di conoscere e di comunicare a se stesso e agli altri ciò che conosce. [...] L’obiettivo della scienza cognitiva, al singolare, è quello di capire come funziona un qualsiasi sistema, naturale o artificiale, che sia in grado di ricevere e filtrare informazioni dall’ambiente circostante (percezione e selezione delle informazioni), di rielaborarne creandone di nuove (pensiero), di archiviarle e cancellarle (ricordo e oblio), di comunicarle ad altri sistemi naturali o artificiali e, infine, di prendere decisioni e di agire nel mondo adattandosi ai suoi cambiamenti (decisione e azione) e adattando il mondo alla creazione di artefatti. Questo obiettivo è simile a quello della psicologia cognitiva, ma quest’ultima si occupa esclusivamente degli esseri naturali: l’uomo e gli animali. L’orizzonte delle scienze cognitive è assai più ampio. Oltre alla psicologia, alla linguistica, alle neuroscienze (cioè allo studio delle basi neurofisiologiche dei processi cognitivi) e all’intelligenza computazionale (cioè all’intelligenza riprodotta in sistemi artificiali), si vanno ad esplorare territori di confine con la filosofia, l’antropologia, la genetica, l’etologia (lo studio del comportamento animale), l’economia (teoria dei giochi), l’arte e, più in generale, la creazione di artefatti. In questa prospettiva allargata, le scienze cognitive diventano il campo di studio di tutto ciò che ha a che fare con la capacità creativa dell’uomo e con gli artefatti da lui creati. Ciò che definisce le scienze cognitive è proprio un approccio integrato», da Paolo Legrenzi, Prima lezione di scienze cognitive, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. VVI. 39 Boscolo, Psicologia dell’apprendimento scolastico, cit., p. 339. 40 Emanuele Arielli, Pensiero e progettazione. La psicologia cognitiva applicata al design e all’architettura, Milano, Mondadori, 2003, p. 110. 41 Boscolo, Psicologia dell’apprendimento, cit., p. 340. 42 Arielli, Pensiero e progettazione. La psicologia, cit., p. 104. 43 L’imprecisione può rivelarsi la chiave per alimentare la macchina inventiva oltre che, successivamente, quella interpretativa. Cfr. Giovanni Garroni, L’elogio dell’imprecisione. Percezione e rappresentazione, Torino, Bollati Boringhieri, 2005. Garroni, sebbene affronti un ambito diverso dalla concezione architettonica, approfondisce il tema e l’importanza dell’imprecisione ìe dell’indeterminatezza semantica nella comunicazione che architetture, forme e sistemi mettono in campo. 44 Arielli, Pensiero e progettazione. La psicologia, cit., p. 120. 45 Jane Darke, The Primary Generator and the Design Process, in «Design Studies» n. 1, pp. 36-44. 46 Arielli, Pensiero e progettazione. La psicologia, cit., p. 120.