KANT E IL FEDERALISMO Non sempre ciò che è attuale è anche ciò che è più importante e spesso la pressione delle urgenze induce a trascurare le questioni veramente decisive. Di fronte alla domanda su quale interesse risvegli oggi la riflessione di Kant intorno al federalismo, si potrebbe rispondere proponendo l’attualità di quanto è, apparentemente, inattuale e ribadendo la persistente autorità dei classici. D’altra parte, nel comporre queste brevi osservazioni saltano all’occhio alcune suggestive coincidenze. Infatti, in questo 2004, mentre si celebra, sia pure, quasi conformemente al carattere del filosofo, in maniera alquanto discreta, il bicentenario della morte di Kant, l’Unione Europea accoglie nel suo seno ben dieci nuovi Stati, fin quasi a lambire con le sue propaggini baltiche il territorio dell’antica Prussia orientale, oggi costituente una enclave della Federazione Russa, incuneata tra la Polonia e la Lituania, isola e confine effimero, ma non facilmente traversabile. Il capoluogo di questa regione, Kaliningrad, già per i tedeschi Königsberg, è la città in cui nacque, visse e morì Kant. Da tale luogo singolare, periferia e frontiera insieme, risuona perentoria la parola di Kant1, con la solennità di un testo giuridico: Il diritto internazionale deve essere fondato su un federalismo di liberi Stati 2. Questa formula costituisce il secondo dei tre articoli definitivi che Kant inserisce nel suo Progetto filosofico per la pace perpetua (1795), strutturato a guisa di trattato internazionale. Per Kant, insomma, il federalismo deve essere il fondamento su cui riedificare le relazioni dei popoli come relazioni esercitate per mezzo del diritto, anzi, come spiega poco più avanti, “la ragione deve necessariamente ricollegare il libero federalismo con il concetto di diritto internazionale” 3. Cioè il diritto internazionale, nella misura in cui ambisce a qualificarsi propriamente come diritto, non può prescindere dal presupposto, almeno teorico, del federalismo. Salvo diversa indicazione, le opere di Kant sono citate dall’edizione degli scritti completi promossa da Wilhelm Dilthey, la cui pubblicazione è iniziata nel 1900 e non è stata a tutt’oggi ultimata: Immanuel Kant, Kant’s gesammelte Schriften (in seguito KGS), Berlin, de Gruyter. D’ora in poi i passi kantiani saranno indicati riportando l’opera o il contesto da cui sono tratti e la pagina del testo tedesco di riferimento. Per le traduzioni italiane ho fatto ricorso, quando possibile, alle numerose edizioni italiane esistenti, riservandomi di distaccarmene. Per chi voglia accostarsi ai testi originale senza avere padronanza della lingua tedesca possono essere utili le edizioni con testo a fronte, della Pace perpetua, a cura di V. Cicero e M. Roncoroni, Milano, Rusconi, 1997 e della Religione nel limiti della semplice ragione, a cura degli stessi, Milano, Rusconi, 1996. All’inizio del presente testo devo riconoscere le suggestioni ricevute per l’interpretazione dei passi kantiani dagli scritti e discorsi di Giuliano Marini, in parte raccolti in G. Marini, Tre studi sul cosmopolitismo kantiano, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1998. 2 Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, KGS, vol. VIII, p. 354. 3 Ivi, p. 356. 1 Non pare azzardato in proposito stabilire un’analogia tra lo Stato e la comunità internazionale. Il primo, infatti, deve essere fondato sull’idea regolativa del “contratto originario”, anche se la stipula di esso non si è storicamente realizzata, tanto che “questo contratto […] ha una sua indubbia realtà (pratica) […] obbligare ogni legislatore a fare leggi come se avessero potuto derivare dalla volontà comune di tutto un popolo. Questa, infatti, è la pietra di paragone della legittimità di ogni legge pubblica”4. Similmente 5 la condizione giuridica tra gli Stati deve postulare una unione federativa, per quanto essa possa non esistere concretamente. In che consiste dunque questo “federalismo”, che per Kant rappresenta il punto di partenza della riflessione sulle relazioni internazionali? La terminologia di derivazione latina adoperata da Kant nei luoghi citati trova il suo corrispettivo nella parola “Bund” e nei suoi composti. In particolare l’espressione più frequente in Kant è “Völkerbund”, che si può tradurre come “federazione” o “confederazione”, o anche “lega”, di popoli. Su questo punto, infatti, la posizione dei traduttori è oscillante. Del resto, tali espressioni oggi assumono significati diversi in relazione al contesto in cui vengono inserite: ci si può riferire al vincolo fra i territori che formano quello che è riconosciuto come uno Stato (così per gli Stati Uniti d’America, la Confederazione Svizzera, la Repubblica Federale Tedesca) oppure ad un organismo che raccoglie una pluralità di Stati (p. es. l’Unione Europea); si possono indicare due processi divergenti, l’uno che valorizza istanze specifiche emergenti all’interno di un contesto organizzativo più ampio, l’altro che, al contrario, pone l’accento sugli interessi e le caratteristiche convergenti di corpi originariamente autonomi; inoltre i legami federali possono essere più o meno stretti. A quanto osservato sopra si aggiunga la constatazione maturata, anche a livello politologico, che la categoria di sovranità appare storicamente in crisi, da ridefinire rispetto all’epoca della sua costituzione in età moderna, se non da accantonare, e che molte funzioni, attribuite lungo i secoli XIX e XX allo Stato, oggi diventano competenze di livello globale o locale, quando non vengono esercitate da enti o agenzie di natura non propriamente politica6. Ma, tornando a Kant, quali sono i problemi, i fenomeni, le idee che egli ha in mente, quando pensa al federalismo? Non infrequente è nei testi kantiani il ricorso ad esempi tratti dalle vicende del passato o della contemporaneità, che possono fornire un orientamento concreto ai nostri sforzi di comprensione; comunque sia, dobbiamo anche ricordare che, come si è osservato sopra, Kant pone un dovere per la ragione e non si appoggia ad una Sul detto comune: ciò può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica, KGS, vol. VIII, p. 297. In effetti, in un appunto risalente presumibilmente agli anni ‘70, Kant adotta per le relazioni internazionali l’espressione “quasi contratto internazionale”, R. (sta per Reflexion, si tratta dell’ordinamento attribuito ai manoscritti kantiani dal loro editore Erich Adickes) 7833 (KGS, vol. XIX, p. 529), a denotare insieme l’analogia con il contratto sociale, ma anche il limite di questa similitudine. 6 Sul destino della sovranità si esprimono voci diverse in una recente raccolta di interventi: Politica della vita. Sovranità, biopotere, diritti, a cura di L. Bazzicalupo e R. Esposito, Roma-Bari, Laterza, 2003. 4 5 visione fondata sul realismo politico o sull’antropologia empiristica per circoscrivere il campo del possibile, benché non rifiuti il confronto con l’esperienza. In effetti, Kant non adotta un modello univoco, non idealizza alcuna situazione storica, per quanto non sia alieno dal manifestare con garbo le proprie simpatie, giustificandole. Pare che soltanto una volta Kant intenda il federalismo come articolazione interna della sovranità, laddove, secondo quanto ci riferiscono gli appunti di uno studente che seguiva le lezioni di Kant 7, afferma che “l’Olanda è, ad esempio, una federazione (di un popolo) [Volksbund]. Infatti essa consta di sette particolari province sovrane, che però sono legate da vincoli associativi [Bünde]”8. Si badi che qui Kant adopera il singolare Volk in luogo del plurale Völker che ricorre nella formula ben più frequente Völkerbund: le Province Unite costituiscono ormai, all’epoca di Kant una riconoscibile compagine statale, ripartita in unità regionali, ma tale da formare un solo popolo. Un altro modello con cui Kant si confronta tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’80 è il Reich germanico. Egli ne apprezza non tanto l’eredità imperiale, ma il fatto che in esso convivono con pari dignità giuridica, se non influenza politica, Stati di dimensioni differenti, le cui controversie erano sottoposte con successo alla giurisdizione arbitrale della dieta di Ratisbona 9. Successivamente, in particolare nel § 61 dei Principi metafisici della dottrina del diritto (1797), evoca sia il congresso degli Stati generali dell’Aia, che raccolse tra al fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 rappresentanti dei diversi Stati europei, sia il Congresso degli Stati Uniti d’America, che da poco si erano dati una costituzione: il primo è stato una “assemblea volontaria [willkürlich] in ogni tempo risolubile” 10, che, anche da un punto di vista storico, non ha saputo dimostrarsi efficace; il secondo, invece, poiché non fondato unicamente sull’arbitrio dei suoi membri, ma su un atto giuridico, è “perciò indissolubile” 11. Intorno a queste polarità, volontario versus politico-giuridico e revocabile versus indissolubile, ruota la riflessione di Kant sulla tematica del federalismo. Bisogna rilevare che sia nella riflessione degli anni ’70 che nel passo del 1797 il problema di Kant è individuare uno strumento che permetta di risolvere le controversie internazionali in maniera analoga al processo che si tiene nelle corti di giustizia dei singoli Stati. Il fatto che i modelli concreti di riferimento appaiano mutevoli e incerti, anche nelle interpretazioni più recenti degli studiosi, e, invece, la posizione del problema è espressa in ul oghi diversi per argomento e collocazione cronologica in Mi riferisco agli appunti di Gottfried Feyerabend del corso di diritto naturale tenuto da Kant nel 1784, ora in KGS, vol. XXVII. 8 KGS, vol. XXVII, p. 1389. 9 Su questo la R. 1354, KGS, vol. XV, p. 591: “i Tedeschi sono … un Völkerbund che può diventare universale”. Per l’interpretazione di questo testo mi permetto di rinviare al mio Pace e guerra nel pensiero di Kant . Studi su un tema della filosofia critica, Milano, Giuffré, 1998, pp. 146-147. Il riferimento alla dieta di Ratisbona è invece negli appunti di un corso di antropologia, cit. in KGS, vol. XV, p. 590. 10 KGS, vol. VI, p. 351. 11 Ibidem. 7 maniera quasi uguale, dimostra che l’interesse da cui matura in Kant l’attenzione alla tematica del federalismo non è affatto estemporaneo, legato al contingente contesto della cronaca politica; esso nasce piuttosto da convinzioni meditate e radicate, non estranee ai presupposti stessi del criticismo. Infatti proprio nella Critica della ragion pura (1781) Kant parla di processi e di tribunali necessari per condurre la ragione alla pace, mentre essa appare “un campo di battaglia di […] contrasti senza fine” 12, come si legge nella prima pagina di questa fondamentale opera, dove suggestiva appare la somiglianza con la situazione dei rapporti internazionali. Comunque già molto prima di giungere alla elaborazione della filosofia critica, alla metà degli anni ’60, riportando in un appunto, significativamente inserito tra le prime pagine di un manuale di “filosofia pratica”13, il suo programma di studi sull’uomo, articolato in una serie di tappe, tra cui “il selvaggio”, “l’uomo civile”, “il contratto sociale”, al suo culmine pone “la lega dei popoli [Völkerbund]” come “ideale del diritto internazionale [Völkerrecht]”14. Che non si tratti, almeno nei successivi sviluppi della riflessione kantiana, soltanto di un ordine imposto arbitrariamente ma di una successione necessaria e fondata storicamente e filosoficamente, si può vedere quando Kant, sia nelle Tesi settima e ottava dell’Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico (1784) 15 che nella Religione nei limiti della semplice ragione (1793) 16, propone il federalismo (Völkerbund) come manifestazione di un chiliasmo (ovvero millenarismo) filosofico, cioè come segno ed espressione di una epoca storica nuova, di un nuovo inizio della vita della specie umana, nel quadro di una filosofia della storia che vede in questo traguardo la realizzazione dell’intenzione suprema della natura17, o, secondo la Critica del Giudizio (1790), dello “scopo ultimo della natura” 18. Per non incorrere nel rischio di travisare tali formulazioni, o di caricarle di un significato improprio, si ponga attenzione al fatto che Kant proprio nella terza Critica, e nella seconda parte, dedicata appunto al “giudizio teleologico”, precisa questo rapporto della natura con la storia, già prefigurato nell’Idea, affermando che “abbiamo motivi sufficienti per giudicare l’uomo, […] secondo principi della ragione, non certo per il Giudizio determinante, quanto piuttosto per il Giudizio riflettente, come lo scopo ultimo [letzten Zweck] della natura sulla terra” 19. Perciò non è questione qui di una conoscenza oggettiva, cioè universalmente valida e riscontrabile nell’esperienza (tipica del Giudizio determinante), ma di un’esigenza soggettiva dell’uomo di individuare un Prefazione alla prima edizione, KGS, vol. IV, p. 7. Si tratta degli Initia philosophiae practicae primae di Alexander Gottlieb Baumgarten, uno dei testi che Kant utilizzava come base per le sue lezioni. 14 R. 6539, KGS, vol. XIX, pp. 98-100, la cui traduzione italiana si può trovare in Nestore Pirillo, L’uomo di mondo tra morale e ceto. Kant e le trasformazioni del Moderno, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 73-74. 15 KGS, vol. VIII, pp. 24-27. 16 KGS, vol. VI, p. 34. 17 Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico, KGS, vol. VIII, p. 28. 18 Al § 83, KGS, vol. V, p. 429. 19 Ibidem. 12 13 principio finalistico (propria del Giudizio riflettente) in quello che altrimenti sarebbe, si legge nell’Idea, “un informe aggregato di azioni umane”20. Non solo la federazione di popoli, o la costellazione di concetti che si muove intorno ad essa, appare la direzione verso cui si muove la storia filosoficamente intesa, ma essa costituisce anche, insieme alla pace perpetua, di cui è condizione, “l’ultima meta di tutto il diritto delle genti” 21, anzi – si legge nella Conclusione dei Principi metafisici della dottrina del diritto – “tutto lo scopo finale della dottrina del diritto” stessa, oltre ad essere il “più alto bene politico”22. Avendo constatato la rilevanza del federalismo nel pensiero di Kant, la persistenza della riflessione su questo argomento in momenti e contesti diversi, occorre delineare brevemente i tratti caratteristici della proposta kantiana, tenendo presente che Kant non vuole e forse non può stilare un testo dettagliato capace di soddisfare i giuristi o gli scienziati politici, ritenendosi ben soddisfatto di indicare delle linee di condotta che la volontà degli uomini, la prudenza politica, le circostanze concrete, si incaricheranno di riempire di carne, di sangue, di istituzioni, di norme, di meccanismi attuativi. Egli intende innanzi tutto mettere in guardia davanti ad alcuni pericoli, individuare un cammino possibile per evitare gli eccessi. Ciò che agli occhi di Kant appare sicuro è che “lo stato di natura dei popoli, come quello degli uomini isolati, è uno stato da cui si deve uscire per entrare in uno stato legale” 23, in quanto esso “è uno stato di guerra” e “in sé estremamente ingiusto”24. Pertanto il primo rischio da evitare – o meglio la condizione reale da superare – è l’anarchia che a livello internazionale permane, quando questa situazione di insicurezza è stata estromessa con il formarsi dei singoli Stati. Tuttavia, sia per Kant che agli occhi degli Stati o popoli o degli effettivi titolari della sovranità, in primo luogo tale stato di natura è sì come quello degli uomini isolati, ma non è esattamente identico ad esso; in secondo luogo è chiaro che da questo stato di natura si deve uscire per entrare in uno stato legale, ma rimane da stabilire la configurazione di questo stato legale. Quanto alla distinzione indicata sopra, diversa è la qualità dei soggetti implicati, gli uomini da un lato, i popoli dall’altro; infatti, mentre “un uomo singolo […] non può offrire […] sicurezza da future offese, da un punto di vista giuridico è soltanto un accidente”25, anzi nello stato di natura tra gli individui “ognuno segue i capricci della propria fantasia”26, gli Stati già costituiscono uno “intero civile […] una sostanza” 27, “hanno già una costituzione giuridica al loro interno”28. Ad un punto di partenza diverso deve anche corrispondere una meta differente, all’interno di questo passaggio. 20 Tesi IX, KGS, vol. VIII, p. 29. Principi metafisici della dottrina del diritto, KGS, vol. VI, p. 354. 22 Ivi, p. 355. 23 Ivi, p. 350. 24 Ivi, § 54, p. 344. 25 R. 8065, KGS, vol. XIX, pp. 599-600. Il passo citato è a p. 599. Il corsivo è mio. 26 Dottrina del diritto, § 44, KGS, vol. VI, p. 312. 27 R. 8065, KGS, vol. XIX, pp. 599-600. Il passo citato è a p. 599. 28 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 355. 21 A che cosa deve allora tendere l’abbandono dello stato di natura internazionale? Ma, prima ancora, vi è qualche falsa pista su cui non è raccomandabile avventurarsi? La bestia nera di Kant è in tale contesto la “monarchia universale”, quella evocata dalla figura di Alessandro Magno e dall’impero romano ovvero, nel linguaggio di oggi, l’imperialismo di un singolo Stato, perché si formerebbe uno “Stato troppo grande” 29, “mostruoso […] nel quale le leggi perdono a poco a poco la loro forza”30, che finirebbe per frantumarsi fino a “cadere da ultimo in preda all’anarchia”; essa “è un dispotismo senz’anima”31, “in cui ogni libertà dovrebbe scomparire”32, sarebbero “sradicati i germi del bene” 33 e con essi “anche la virtù, il gusto e la scienza”34. Negli insistiti rilievi kantiani bisogna individuare due elementi principali: da un lato che la critica alla monarchia universale è una conseguenza ed estensione di quella al dispotismo in genere, aggravato dalla scala maggiore; dall’altro che uno Stato unitario, omogeneo comporta dei rischi sia pratici, quali la scarsa efficacia dell’amministrazione o la insufficiente aderenza dei provvedimenti alle esigenze locali, sia spirituali, impedendo, con un centralismo disumano, l’autonomo dispiegarsi delle facoltà umane e la partecipazione civile. Del resto, osserva Kant, non molto diversa sarebbe “una lega delle nazioni che si proponga di non far mai scomparire il dispotismo da nessuno Stato”35, una sorta di coalizione tra dittature, che pur mantenendo l’indipendenza dei diversi Stati, farebbe di essi una consorteria di pochi principi, estendendo il carattere privatistico degli Stati patrimoniali, stigmatizzato da Kant nella Pace perpetua36, ad un trust che inauguri un oligopolio mondiale. Torna a proposito quanto si legge nelle ultime pagine di uno dei suoi corsi di antropologia: “la monarchia universale” sarebbe “la più grande sciagura per l’umanità […] poiché allora il monarca […] non avrebbe alcuna possibilità di vergognarsi davanti ad un altro monarca”37. La pluralità dei sovrani permette ed implica insomma un reciproco riconoscimento mediato dal senso dell’onore e dal rispetto in modo da mantenere il sovrano ad un livello di umanità. Al tanto vituperato dispotismo Kant contrappone il modello positivo della costituzione repubblicana, che, nella Pace perpetua, insieme al federalismo ed al diritto cosmopolitico, costituisce uno dei pilastri della pace mondiale38. Si legge infatti: La costituzione civile di ogni Stato deve essere repubblicana 39. Sul detto comune, KGS, vol. VIII, p. 311. Religione nel limiti della semplice ragione, KGS, vol. VI,p. 34. 31 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 367. 32 Religione nel limiti della semplice ragione, KGS, vol. VI,p. 34. 33 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 367. 34 Religione nel limiti della semplice ragione, KGS, vol. VI,p. 34. 35 Ibidem. 36 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 344: “Uno Stato non è un bene (patrimonium)”; cfr. anche ivi, p. 354. 37 Si tratta della trascrizione del corso del 1790/91 pubblicata con il titolo Anweisung zur Menschen- und Weltkenntniß, a cura di Fr. Ch. Starke, Leipzig, 1831 (= Hidesheim-New York, Olms, 1976). Il passo citato è a p. 126. 38 Infatti a questi temi sono dedicati quelli che Kant intitola “articoli definitivi per la pace perpetua”. 39 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 349. 29 30 Kant intende per repubblicana una costituzione rappresentativa, dove è praticata la separazione dei poteri e dove è riconosciuta ai cittadini la libertà e l’uguaglianza di fronte alla legge, insieme al diritto di “essere partecipe del potere legislativo”40, attraverso elezioni. Quando non tutte queste condizioni si possono realizzare rimane “almeno possibile che venga assunta una forma di governo conforme allo spirito di un sistema rappresentativo”41, cioè “tale da far leggi come se avessero potuto derivare dalla volontà comune di tutto un popolo”42. Tale costituzione è per Kant “scaturita dalla pura fonte dell’idea del diritto”43, infatti è quella che non si basa sulla violenza, come nelle tirannie, o su un rapporto fra servo e signore, a differenza del dispotismo, nel quale “il suddito non è cittadino […] il sovrano non è membro dello Stato, ma ne è il proprietario […] e può quindi dichiarare la guerra come una specie di partita di piacere”44. È per questo che si scorge uno stretto nesso tra il regime repubblicano e la federazione internazionale. Infatti è nella repubblica che la sovranità viene esercitata in nome del popolo e non arbitrariamente, sono le repubbliche che mirano precipuamente ad assicurare una più larga efficacia del diritto, in quanto non perseguono gli interessi particolari dell’uno o dell’altro, ma rappresentano la volontà generale di un corpo comune. Pertanto uno Stato così fatto potrà anche favorire la pace. Per Kant dovrà essere una repubblica il motore della federazione mondiale. Così si evince dalla Pace perpetua, ma anche dal Conflitto delle Facoltà (1798): in entrambi gli scritti, riconducendo alla natura stessa della costituzione repubblicana il rifiuto della guerra di aggressione, si riferisce implicitamente alla Francia repubblicana nata dalla rivoluzione, ponendola come quello Stato che nel dar vita alle condizioni per cui la guerra potrebbe essere evitata, costituirebbe “un nucleo dell’unione federativa per gli altri Stati, che sarebbero indotti ad associarsi ad essa”45. Ciò perché, anche in seguito alle esperienze negative delle guerre, si innescherebbe un meccanismo tale per cui – si legge nel saggio Sul detto comune: ciò può essere anche giusto in teoria, ma non vale per la pratica (1793) - “ogni Stato reso impotente a danneggiare con la violenza un altro, deve condursi solo secondo il diritto e può fondatamente sperare che anche altri Stati, organizzati in modo analogo, gli verranno in ciò in aiuto”46. Insomma Kant ritiene che a partire da una o più repubbliche, in quanto tali pacifiche, possa iniziare un circolo virtuoso che porti ad una graduale universalizzazione del diritto sia all’interno dei singoli corpi politici che nelle relazioni internazionali. 40 Sul detto comune, KGS, vol. VIII, p. 294. Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 352. 42 Sul detto comune, KGS, vol. VIII, p. 297. 43 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 351. 44 Ibidem. 45 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 356, Conflitto delle Facoltà, KGS, vol. VII, pp. 85-86. 46 Sul detto comune, KGS, vol. VIII, p. 311 41 Infatti, non solo la costituzione repubblicana appare come un modello destinato al successo, ma anche la erigenda confederazione internazionale dovrà rifarsi in qualche misura ad essa. Abbiamo visto come una estensione della monarchia a livello mondiale sia apertamente stigmatizzata da Kant. Invece spesso il Völkerbund è associato alla repubblica. Così quando parla di una “repubblica mondiale [Weltrepublik]”47, o, con più dettagli di una “confederazione di popoli intesa come repubblica mondiale [Völkerbund als Weltrepublik]” o di una “associazione di Stati (repubblica di liberi popoli confederati) [Staatenverein (Republik freier verbundeten Völker) ]”48. Le espressioni citate sembrano mostrarci che la polarizzazione pur presente in Kant tra repubblica universale da un lato e federazione dall’altro, come anche quella cui si è accennato di sopra, non pone una alternativa secca, ma piuttosto rappresenta una duplice esigenza. A tal proposito occorre avanzare qualche considerazione. Quando si parla di “liberi popoli confederati”, mentre il più frequente uso della parola “popolo” rispetto a “Stato” ci induce a ritenerlo un modo per accentuare il carattere che oggi diremmo democratico che per Kant dovrebbero avere le formazioni politiche coinvolte, soprattutto l’attenzione viene attirata dal triplice significato del termine “liberi”: in un primo senso i popoli sono detti liberi, perché i cittadini godono della libertà in uno Stato di diritto liberale, per un secondo intendimento si tratta di Stati liberi, cioè indipendenti, non soggetti a coazioni violente, ma vere persone giuridico-morali49, infine si potrebbe parlare di “popoli liberamente confederati”, cioè che liberamente, di propria volontà hanno scelto di confederarsi. Rimane allora da affrontare un problema: infatti quando si parla di “popoli liberi confederati” ci si riferisce pertanto anche alla adesione libera, volontaria alla confederazione stessa. Ma in quanto volontaria, l’unione federalistica, talora identificata con la repubblica mondiale, è fondata sull’arbitrio, sulla possibilità di recedere a piacimento, è dunque una creatura effimera, soggetta al capriccio? Certo la possibilità di denunciare la confederazione, di abbandonare l’associazione non è esclusa, ma anzi è contemplata palesemente nel § 61 della Dottrina del diritto, come abbiamo visto sopra. Tuttavia si può ritenere che, mentre uno Stato dispotico è espressione della volontà particolare del principe, a meno che questi non governi in nome del popolo, una repubblica è portatrice della volontà generale, che, non essendo la volontà dell’uno o dell’altro, ma neanche una mediazione di interessi, supera la soggezione al dominio delle inclinazioni sensibili che si può manifestare negli individui, considerati isolatamente, ed è espressione di una volontà razionale, capace di porsi “leggi per una volontà”, come anche il singolo si sottopone, come sdoppiandosi, ad una legge che non gli è imposta dall’esterno, ma ritrova in se stesso, ancora una volta non in maniera aleatoria, bensì in un modo che è universalizzabile. In effetti, anche la repubblica ideale per Kant si riassume nel motto “libertà […]secondo leggi” o, altrimenti detto, “libertà mediante la legge”. Anche nello Stato si verifica questa sorta di sdoppiamento del popolo in “un sovrano universale (che […] 47 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 356. nel limiti della semplice ragione, KGS, vol. VI,p. 34. 49 Dottrina del diritto, § 53, KGS, vol. VI, p. 343. 48 Religione non può essere altri che il popolo stesso riunito) ” da un lato e d’altra parte nella “moltitudine degli individui dello stesso popolo considerati come sudditi”, talché “tutti […] nel popolo depongono la loro libertà esterna, per riprenderla di nuovo subito come membri […] del popolo in quanto è uno Stato[…]. Non si può quindi dire che l’uomo abbia sacrificato ad un certo scopo una parte della sua libertà esterna innata in lui, bensì che egli ha abbandonato la libertà selvaggia e sfrenata per ritrovare nuovamente la sua libertà”50. Questa duplicità si riproduce in parte anche a livello internazionale per cui gli stessi soggetti appaiono sia come legislatori che come sudditi e la libertà può avere una sua dialettica. Così gli Stati che vivono in una condizione di “libertà selvaggia (senza leggi) ”, in cui il giudizio si esercita per mezzo della violenza, dovrebbero sottoporsi a “leggi di una volontà riunita” 51. Pertanto si può affermare che il Völkerbund costituisce anche uno strumento di moralizzazione delle volontà, in quanto determina la formazione di una volontà generale degli Stati associati, la volontà di ogni singolo Stato tende a razionalizzarsi, gli stessi cittadini sono favoriti nei loro sforzi di educazione interiore. V’è dunque da ritenere che una confederazione internazionale, una volta stabilita, tenda a mantenersi unita. Infatti Kant aveva sostenuto che mentre “il male morale […] è in contrasto con se stesso e distrugge i suoi stessi disegni” 52, al contrario “se essi [il Völkerbund e la pace perpetua] sono sorti niente sarà in grado di distruggerli”, confortato in questo dall’”esigenza […] di non rappresentarci l’umanità come cattiva, ma come una specie di esseri ragionevoli che si sforza, fra mille ostacoli, di progredire costantemente dal male verso il bene; in ciò la volontà è, in linea generale, buona”53. Si ricordi in proposito che per Kant la buona volontà non è l’affidamento ai buoni sentimenti o alle buone intenzioni dell’individuo, ma la volontà che aderisce interiormente alla legge morale che l’uomo riconosce in sé stesso ed eleva a norma delle proprie azioni, rinunciando ad assumere invece princìpi non fondati sull’autonomia della ragione ma tratti dalle inclinazioni e dalle passioni. Certamente la libertà umana è sempre insidiata dal male radicale54, dalla “malvagità della natura umana, che si rivela apertamente nel liberi rapporti tra i popoli”55 e quindi ogni tendenza positiva può anche invertirsi, ma rimane sempre probabile che, forse “dopo qualche crisi rivoluzionaria di trasformazione”56, anche se “noi di tanto in tanto ritorniamo in parte indietro, […] nel complesso progrediamo di un passo, come la corrente del Nilo, che ha delle svolte e delle curve tali che pare di quando in quando ritornare indietro, ma giunge infine alla sua meta”57. Ciò è 50 Ivi, § 47. KGS, vol. VIII, p. 24. 52 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 379 53 Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798), KGS, vol. VII, p. 333. 54 Questo importante concetto è introdotto e discusso nella Religione, al capitolo I. 55 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 355. 56 Idea, KGS, vol. VIII, p. 28. 57 Questo passo si può leggere nella arte conclusiva della trascrizione delle lezioni di antropologia del 1791/92 operata da Heinrich zu Dohna-Wundlachen, detta perciò Antropologie Dohna, in I. Kant, Die philosophischen Hauptvorlesungen, a cura di Arnold Kowalewski, München-Leipzig, Roesl, 1924, 51 Idea, avvalorato dalla seguente constatazione: “nell’uomo si riscontra una disposizione morale più forte, anche se presentemente assopita, destinata a prendere un giorno il sopravvento sul principio del male che è in lui […] e a fargli sperare che ciò avvenga anche negli altri” 58. Come possa organizzarsi concretamente la federazione internazionale da lui proposta, Kant non lo spiega in dettaglio, sembrando per un verso propendere per una sorta di Stato mondiale dotato di un potere comune e di leggi coattive, avvertendone però gli eventuali rischi per l’autonomia dei singoli Stati e popoli, dall’altro per una soluzione approssimativamente confederale priva di organi e di coattività. Su questa oscillazione si affaticano gli interpreti o provando a sciogliere le eventuali ambiguità, che a volte si incontrano in una stessa pagina, o spiegandole con l’evoluzione interna del pensiero kantiano tra gli anni ’80 e ‘90 o anche in relazione agli avvenimenti storici contemporanei, piuttosto turbinosi. Più convincente appare una chiarificazione basata sul ricorso ad alcuni concetti utilizzati da Kant proprio nel Progetto per al pace perpetua, quali la legge permissiva, per cui alcuni doveri sono di immediata ed integrale applicazione, altri invece possono essere “adattati alle circostanze” e “permettono che se ne differisca l’esecuzione […] affinché l’applicazione non sia affrettata e quindi contraria allo scopo”59; non si deve dimenticare poi il complesso meccanismo di rapporti che per Kant lega morale, diritto e politica, considerando in particolare quest’ultima come una messa in pratica della dottrina del diritto (ausübende Rechtslehre) per mezzo anche della prudenza dell’uomo di Stato. Comunque sia, in entrambi i casi discussi da Kant si manifesta la necessità di una legislazione, propria della confederazione o, almeno, fondata sulla idea di una confederazione, riconosciuta da tutti come pietra angolare dei reciproci rapporti da regolarsi pacificamente. Il diritto che è alla base della confederazione e che nel contempo deriva dall’idea di essa, se non dalla sua realizzazione, ha una parte negativa, cioè composta di proibizioni, di rimozione di ostacoli. Innanzi tutto viene rifiutato “il diritto alla guerra” poiché esso non è “pensabile” come concetto 60; da qui derivano i doveri enunciati negli articoli preliminari del Progetto per la pace perpetua, destinati a realizzare un diritto pubblico internazionale non più fondato su trattati effimeri ma su un “trattato di pace universale e perpetuo”61 che permetta il crearsi di una opinione pubblica mondiale, attraverso l’affermazione del principio della pubblicità non solo degli atti riguardanti la politica interna, ma anche di quelli di politica estera, ed il libero dibattito pubblico intorno a questi temi62. pp. 372-373. 58 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 355. 59 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 347. 60 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 356. 61 Dottrina del diritto, KGS, vol. VI, p. 354. 62 Su questo si veda, tra l’altro, il secondo supplemento e la seconda parte dell’appendice alla Pace perpetua, come anche il saggio del 1784 Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?. Al diritto internazionale si aggiunge, non giustapponendosi, ma quasi sovraordinandosi, un’altra branca del diritto pubblico, che costituisce un originale apporto kantiano, quello che egli chiama “diritto cosmopolitico” (Weltbürgerrecht), cioè, traducendo direttamente dal tedesco, “diritto dei cittadini del mondo”, che disciplina quell’ambito di relazioni per cui “uomini e Stati […] vanno considerati cittadini di uno Stato umano universale” 63: qui Kant adombra l’opportunità di promuovere una cittadinanza mondiale, condizione che è già empiricamente riscontrabile tramite l’osservazione che “la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti” 64. L’unica esposizione, piuttosto scarna, del diritto cosmopolitico fornita da Kant è apparsa a qualcuno riduttiva e consiste nella presupposizione di leggi universali, cioè valide per tutti gli uomini e gli Stati, che regolamentino il diritto di visita, ovvero “il diritto di uno straniero a non essere trattato ostilmente quando arriva sul territorio di un altro Stato”, o più genericamente “il diritto di tentare di entrare in comunità con tutti” 65. L’esempio di Kant ci mostra che la sua visione non si limita a quello che potremmo definire una pur non scontata libertà di circolazione delle persone per motivi turistici, culturali, scientifici, commerciali. Egli piuttosto deplora il comportamento colonialistico delle potenze europee, che “nelle Indie Orientali […] introdussero truppe straniere con cui oppressero gli indigeni e provocarono tra i differenti Stati di quella regione guerre sempre più estese, carestie, rivolte infedeltà, ecc. […] tutto ciò viene compiuto da Stati che fanno gran mostra di religiosità” 66; ma “tutte queste supposte buone intenzioni [come la civilizzazione di popoli selvaggi] non potrebbero lavare la macchia dei mezzi che si impiegano”67. L’errore etico e ideologico individuato da Kant è che “ai loro occhi gli indigeni non contavano nulla” e quindi non venivano considerati in quanto “cittadini di uno Stato umano universale” 68. Siamo così introdotti ad un ultimo aspetto della riflessione kantiana sul federalismo applicato alle relazioni internazionali. Egli non vede i popoli come individui atomistici, ma li considera nella loro identità etnica, linguistica, religiosa. Celebri sono le sue opinioni sui caratteri dei popoli69. Questo caleidoscopio di umanità, se per Kant può essere “pretesto di guerra”, è anche il motivo per cui non è possibile ricondurre l’umanità ad una totalità monolitica; tuttavia il connaturato antagonismo degli uomini, da cui pur traggono origine le guerre, può essere trasformato, quando si esprime nella “diversità delle lingue e delle religioni”, in una competizione pacifica tendente all’”equilibrio nella più viva delle emulazioni” 70. Si sentono riecheggiare, in maniera presumibilmente inconsapevole, le parole del Corano (Sura della Mensa, v. 48): 63 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 349. perpetua, KGS, vol. VIII, p. 360. 65 Dottrina del diritto, KGS, vol. VI, p. 353. 66 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, pp.358-359 67 Dottrina del diritto, KGS, vol. VI, p. 353. 68 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p.358. 69 Nel saggio Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764) e nell’Antropologia pragmatica, come anche nelle riflessioni e lezioni sull’antropologia. 70 Pace perpetua, KGS, vol. VIII, p. 367. Cfr. Religione, KGS, vol. VI, p. 123. 64 Pace "Ad ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre se Iddio avesse voluto avrebbe fatto di voi una comunità unica, ma ciò non ha fatto per provarvi con quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone perché a Dio tutti farete ritorno ed allora Egli vi informerà di ciò per cui ora siete in disaccordo." È la morale che è esemplificata nella novella delle tre anella all’inizio del Decameron di Boccaccio71, alla quale si è ispirato Lessing, uno dei padri dell’Illuminismo tedesco, per il suo Nathan il Saggio. Indicare ora i motivi di attualità del pensiero kantiano sul tema del federalismo appare quasi superfluo, se consideriamo come alcune sue parole possano essere lette come se fossero state scritte oggi, se non vi trovassimo in calce il suo nome. A prescindere da ciò, persino i suoi dubbi, le incertezze non sono alieni da quelle che ci agitano in tema di Unione Europea, Nazioni Unite, governo globale. La via che Kant pare indicarci è che non bisogna rifugiarsi in ambiti ristretti, ma pensare alla grande, senza stancarsi di fronte alle difficoltà, considerando piuttosto il destino comune dell’umanità e lavorare guardando sì in faccia alla realtà, sapendo adattarvisi, ma senza deflettere dai compiti che la ragione e la storia ci pongono innanzi. Andrea Simari Dottore di Ricerca in Filosofia del diritto Università “La Sapienza” di Roma 71 Prima giornata, novella terza.