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BIORISANAMENTO
I microrganismi si prestano molto bene alle tecniche di biorisanamento per una serie di
caratteristiche che li rendono particolarmente adatti.
 struttura cellulare estremamente semplice, definita procariote, formata da una
membrana cellulare protetta da una parete e contenente materiale citoplasmatico in
cui è disperso il materiale nucleare organizzato sia come unico cromosoma
circolare sia come piccoli frammenti detti plasmidi;
 il DNA non è associato a proteine tipo istoni come negli organismi eucarioti;
 il DNA viene trasmesso sia in verticale, cioè con un normale processo di mitosi da
cellula madre alle cellule figlie, sia in orizzontale, cioè attraverso la coniugazione
batterica: i plasmidi passano da un individuo all'altro grazie ai pili, particolari ponti
citoplasmatici;
 altissima capacità di adattamento, anche agli ambienti più difficili ( si classificano in
psicrofili, alofili termofili ecc….);
 crescita di tipo esponenziale ( la popolazione si moltiplica in base ad un fattore
costante per intervalli costanti di tempo) secondo l'equazione G=rN dove G è il
tasso di crescita della popolazione, N è il numero di individui presente nella
popolazione e r è il tasso intrinseco di accrescimento ( in grafico otteniamo la
classica curva a forma di J).
(Vedi allegato procarioti)
Dopo aver eseguito un approfondito studio sui tipi di batteri, si ritorna al concetto di
biorisanamento. I principali inquinanti per l’eliminazione dei quali vengono usati
principalmente batteri sono gli idrocarburi; questi prodotti di sintesi sono i più efficaci
perché chimicamente stabili visto che rispondono alle caratteristiche funzionali per cui
l’industria li aveva prodotti: bioaccumulo, biosignificazione e lipoaffinità. I composti
principali che abbiamo analizzato per la loro degradazione sono quelli alifatici e quelli
aromatici.
Dal momento che in presenza di condizioni alterate i batteri si sviluppano liberamente, più
comunemente si interviene “in situ” cioè agendo direttamente sulla zona interessata,
facendo analisi per capire le caratteristiche anomale da rilevare scegliendo siti indicativi e
altri di controllo, poi isolando e identificando i batteri autoctoni. Si costruisce in laboratorio
una coltura di arricchimento e si inocula il campione prelevato della sostanza da eliminare,
si aspetta la crescita in piastre Petri, dopo un certo periodo di incubazione si osserva se si
è sviluppata la biomassa microbica nutrendosi della biomassa dell’idrocarburo in aggiunta.
I batteri così testati vengono esportati negli ambienti da risanare e agiscono con una serie
di fasi trasformando l’idrocarburo sotto forma di alcano in un acido grasso più facilmente
degradabile dall’ambiente. La massa batterica dopo una certa quantità non si espande più
tanto, cioè accrescendosi rimane circa nella stessa zona; anzi può essere reintegrata a
sua volta in una rete alimentare più estesa. (vedi allegato 1° esperienza di laboratorio)
Accade più o meno nella stessa maniera per quanto riguarda i composti alifatici. Essi sono
catene aperte di atomi di carbonio e idrogeno, chiamate anche catene idrocarburiche
sature e il meccanismo più comune di degradazione parte da un alcano. Il primo attacco
per ossidare l’alcano è quello più difficile, l’enzima sulla proteina di membrana che
velocizza il processo manda un segnale al promotore alc., l’alcano viene idrossilato cioè
viene aggiunto un gruppo OH e si trasforma in alcool, poi la deidrogenasi lo converte in
aldeide e infine in acido grasso che entra nel ciclo di Krebs. In questo processo
intervengono sia il DNA plasmidico che quello cromosomico; i geni che codificano le
proteine coinvolte nelle ossidazioni precedenti si trovano nel plasmide OCT e da questo si
trasmettono alle altre cellule batteriche. Grazie all’elettroforesi si può estrarre il DNA
plasmidico, poiché quello cromosomico si è degradato e si individuano le bande a gruppi
di tre: dal gel dell’elettroforesi si trasferisce il gene su una membrana e si mette a contatto
con una sonda. Se c’è corrispondenza in quella banda allora possiamo essere sicuri che il
gene si trova in quel plasmide. Questo si chiama esperimento di ibridazione ed è molto
usato per la ricostruzione genetica, cioè per capire da dove di preciso è possibile prendere
quel tipo di gene per la decomposizione di quel tipo di idrocarburo.
I composti aromatici invece sono anelli chiusi di atomi di carbonio. Anche per questa serie
di passaggi è importante individuare con sicurezza il batterio che compie il primo “step”.
Questo composto è estremamente stabile perché le cariche sono distribuite equamente. I
batteri ossidano il benzene introducendo una molecola di ossigeno sottoforma di gruppi
OH (gruppo ossidrile), in questo modo il composto trasformato in alcool diviene più
facilmente attaccabile e degradabile, con l’aggiunta di un’altra molecola di ossigeno si
rompe l’anello aromatico e si passa ad una successione di trasformazioni in acidi che
posseggono sempre meno legami stabili fino ad arrivare ad una forma di massimo
degrado ed utilizzo per l’ambiente: ad esempio partendo da un anello benzenico lo stadio
finale è quello di acido piruvico. La maggior parte dei composti aromatici possiedi più anelli
benzenici legati assieme da legami doppi che conferiscono loro maggiore stabilità anche
se questo legame si può rappresentare come una nube elettronica che circonda quella
zona e da cui continuamente si attaccano e staccano elettroni, quindi è possibile che il
legame doppio si presenti non sempre sugli stessi atomi di carbonio.
Un altro sistema di degrado è la reazione che i batteri riescono ad indurre nei composti, ad
esempio, policlorobifenili sostituendo atomi di idrogeno con un alogeno, ossia con un
elemento del settimo gruppo, in questo caso il cloro. Questo meccanismo è chiamato
alogenazione ed è largamente utilizzato nei condensatori elettronici perché gli atomi di
cloro ne aumentano la stabilità e l’efficacia. Adesso sono vietati dalla legge perché
altamente nocivi.
Nei tempi di guerra erano stati creati inoltre composti nitroaromatici con alto tasso
esplosivo. Adesso si ricercano molto frequentemente batteri che sappiano riportare alla
normalità siti contaminati. Infatti, i batteri introducono gruppi OH e riducono i gruppi NO2 ad
ammine più facilmente degradabili.
Un terzo tipo di inquinamento in cui i batteri influiscono notevolmente in senso positivo è
quello derivato da metalli pesanti. Per esempio è molto diffuso quello da mercurio in
prossimità di siti geotermali. Il batterio sviluppa un gene o una proteina capace di resistere
al mercurio inorganico, riesce così a prelevare il mercurio a poco a poco, a renderlo
volatile ed ad allontanarlo così dal loro habitat. Questa peculiarità viene sfruttata dagli
scienziati analizzando l’ecosistema in cui ci troviamo per ritrovare o meno il batterio che
rende il mercurio biodisponibile, come lo pseudomonas putrida che agisce riducendo il
mercurio ionico e producendo HCO(?) volatile. I batteri che possiedono questo particolare
gene MER riescono in questo modo a sopravvivere anche se il metallo non viene
eliminato del tutto visto che trasformandosi in forma volatile si purifica l’acqua o il suolo ma
diventa inquinata l’aria. Recenti studi stanno cercando nuovi metodi capaci di intervenire in
modo più radicale per la degradazione dei metalli pesanti differente dai materiali organici
che tanto si mineralizzano.
I batteri possono agire anche come:
• Bioindicatori: ci rivelano solo la presenza di mercurio biodisponibile, per esempio
alcuni assumono una colorazione fluorescente perché significa che siamo in
presenza di un numero elevato di batteri in comunicazione tra di loro (quorum
sensing);
• Biosensori: ci rivelano la presenza ma è necessario anche uno strumento
elettronico che rivela una trasformazione.
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