Carlo Bonomi Introduzione storica all’idea di trauma psichico Intervento letto in occasione della presentazione del Centro di psicotraumatologia Firenze, Chiostro del Maglio, 19 maggio 2001 Introduzione La storia intellettuale del trauma psichico si può dividere in tre fasi. La prima coincide con la nascita e il tramonto del concetto di “nevrosi traumatica” dal 1870 al 1920 circa; la seconda è una fase intermedia, caratterizzata dalla riorganizzazione dei problemi in termini di stress, e la terza è quella della rinascita del concetto di trauma psichico che ha inizio nel 1980 con l’adozione della categoria diagnostica “Disturbo Post-Traumatico da Stress” da parte della associazione psichiatrica americana. 1. Nascita e tramonto del concetto di “nevrosi traumatica” (1870-1920 ca.) Nella seconda metà dell’Ottocento l’idea di “nevrosi traumatica” emerge in ambito neurologico, riflette le trasformazioni della società industriale ed accompagna l’insediarsi dello stato sociale. Nelle stazioni ferroviarie, lungo i binari dei treni e nei grandi cantieri gli incidenti sono molti. Alcuni di questi non comportano lesioni fisiche apparenti, ma presentano un inedito tipo di conseguenze: vi è un grave shock con confusione mentale e agitazione, a cui segue una seconda fase caratterizzata dall’insediarsi di sintomi quali paralisi, tremori, anestesie, afasie, disturbi della vista o dell’udito, amnesie e i cosiddetti “attacchi” ossia la ripetizione di sequenze dell’incidente in stati alterati di coscienza o in sogni che si ripetono insistentemente sempre uguali a se stessi. Il termine “idea fissa” viene coniato per indicare quella scena dell’incidente che si insedia nella mente della vittima, su cui la volontà non ha alcuna presa e di cui la mente non riesce più a liberarsi. Jean Martin Charcot la paragona ad un “parassita”. E’ Charcot che, nei primi anni 1880, riunisce alcuni elementi di questo quadro clinico in quella che chiama “isteria traumatica”; ma è Hermann Oppenheim che, sulla base di una vasta casistica raccolta alla Charité di Berlino, unisce nel 1889 l’insieme di questi sintomi nell’unico quadro della “nevrosi traumatica”. Nello stesso anno questo disturbo viene inserito tra le malattie che, nell’ambito dello stato sociale voluto da Bismarck, danno diritto ad una pensione. Tuttavia, l’idea che si trattasse di una vera “nevrosi”, ossia che comportasse delle vere lesioni al sistema nervoso, era così controversa che l’intera teoria delle nevrosi finì per essere modificata, grazie all’introduzione della nozione di psicogenesi (vedi Bonomi, 2000). L’influenza 1 esercitata dal nuovo paradigma andò ben oltre i confini della medicina, sfumando in una nuova visione della vita mentale che William James così riassunse: “Le stupende esplorazioni degli stati subliminali di coscienza nei pazienti isterici intraprese da Binet, Janet, Breuer, Freud, Mason, Prince e altri ci hanno rivelato interi sistemi di vita sotterranea in forma di ricordi dolorosi che, sepolti al di fuori del campo primario di coscienza, conducono l’esistenza di parassiti, compiendo irruzioni attraverso allucinazioni, dolori, convulsioni, paralisi di sentimenti o movimenti, e l’intero corteo dei sintomi isterici del corpo e della mente” (James, 1902, p. 230). Verso la fine del secolo le impressionanti paralisi dell’isteria o nevrosi traumatica si attenuano fino a scomparire, contemporaneamente all’imporsi dell’idea che i sintomi che insorgono dopo un trauma più che conseguenza dell’incidente siano il prodotto di desideri non confessati. Il principale fautore di questa visione è Adolf Strümpell che, nel 1895, propone la nozione di “Begehrung Vorstellungen” (rappresentazioni di desiderio), il cui successo si riflette nella tendenza a chiamare la nevrosi traumatica “nevrosi da pensione”, conformemente all’idea che essa derivi dal desiderio di ottenere una pensione sociale. E però il quadro classico dei sintomi post-traumatici che si riteneva ormai da tempo dissolto, si ripresenta improvvisamente allo scoppio della prima guerra mondiale. In Germania lo psichiatra Robert Gaupp scrive: “Dal dicembre 1914 vi è un crescente numero di pazienti con malattie nervose o psichiche la cui causa principale viene identificata in un violento shock conseguente all’esplosione di una granata. L’offensiva francese da metà dicembre fino alla fine di gennaio 1915 ci ha mandato a casa un considerevole numero di soldati in uno stato di agitazione e crollo nervoso subentrato dopo l’esplosione di granate. In questi casi non c’era bisogno di un danno al corpo per provocare il disturbo ai nervi; lo shock e il devastante effetto della vista dei compagni morti era sufficiente” (Gaupp, 1915, p. 361) Per Oppenheim si trattava della stessa “nevrosi traumatica” che egli aveva descritto trent’anni prima. Questa diagnosi trovò però una crescente opposizione, al punto che: “Un altro modello interpretativo presto prevalse. Ora si credeva che i sintomi di isteria non avessero alcun fondamento fisico ma fossero determinati dal desiderio di evitare la guerra fuggendo nella malattia. La risposta terapeutica era un trattamento coatto diretto a rigenerare la presunta ‘debole volontà’ del ‘nevrotico di guerra’ ” (Kaufmann, 1999, p. 133). Sebbene Oppenheim trovasse inconcepibile che “medici formati in neurologia e psichiatria potessero trascurare gli effetti dei violenti traumi mentali della guerra fino a questo punto” (Oppenheim, p. 33; citato in Kaufmann, 1999, p. 134), questo fu ciò che accadde. Lo stesso 2 Oppenheim venne attaccato come portatore di una dottrina pericolosa e antipatriottica, in quanto foriera di “epidemie” tra i soldati. Questi potevano infatti farsi suggestionare dall’idea che esistevano dei disturbi che avrebbero permesso loro di sottrarsi al combattimento, fuggendo nella malattia. Secondo la spiegazione psicologica le cause del sintomo incapacitante erano sostanzialmente la paura di morire e il desiderio di salvarsi: affetti che potevano essere tenuti sotto controllo in un uomo dotato di senso del dovere e forte volontà, ma non negli individui di costituzione inferiore. Non tutti la pensavano così. William Rivers riteneva che in situazioni di grave pericolo tutti gli uomini potessero crollare e aveva elaborato un programma finalizzato a migliorare la capacità di soldati e ufficiali di tollerare il conflitto tra la paura di morire e il desiderio di servire la patria (Rivers, 1920). Ma Rivers – su cui è stato recentemente girato il film Rigenerazione (tratto dal romanzo omonimo) – era una eccezione. La visione medica che si impone in quegli anni è che i sintomi sorgono sulla base di una predisposizione: l’evento accidentale può sì produrre una temporanea reazione la quale però si «fissa» o meno a secondo della personalità e della volontà del malato. Questa visione segna il tramonto della nozione di “nevrosi traumatica”, a cui si preferisce il termine neutro «nevrosi di guerra», in cui sparisce appunto il riferimento al “trauma”. Negli anni del dopoguerra, caratterizzati dalla diffusa e inquieta presenza di veterani con disturbi nervosi e mentali cronici, dominano le teorie basate sulla predisposizione. Come ebbe a scrivere Carl Gustav Jung, il quale amava definire l’origine traumatica delle nevrosi un “artefatto della fantasia medica” (Riggall, 1923, p. 169), il trauma era o una commozione violenta o un complesso di idee ed emozioni, in relazione al quale l’incidente altro non era che un semplice fattore precipitante (Jung, 1923). Questo orientamento caratterizza anche la psicoanalisi freudiana dove s’impone la teoria del “trauma interno”, ossia la posizione che sottolinea “la grande influenza dei conflitti intrapsichici sui contatti della personalità con il mondo esterno” (Strachey, 1931, p. 330; Bonomi, 2001). Ma anche su questo fronte vi sono eccezioni. Sándor Ferenczi, per esempio, giunge progressivamente a rivalutare l’importanza del momento traumatico nella sua componente soggettiva di esperienza di annichilimento e ad elaborare quella che molti considerano tuttora come la più importante teoria clinica del trauma psichico (Bonomi e Borgogno, 2001). Nemmeno Freud è del tutto allineato sulla posizione del “trauma interno”. Basti pensare che nell’immediato dopoguerra propone una teoria (quella della “breccia nella barriera protettiva”) che, come egli stesso scrisse, si avvicinava più alla “antica e ingenua teoria dello shock” piuttosto che alla sofisticata e moderna teoria psicologica (Freud, 1920, p. 217). Del resto, Freud, che aveva iniziato la sua carriera cercando di spiegare i fenomeni della nevrosi o isteria traumatica (Breuer e Freud, 3 1992-95), terminerà la sua vita di pensatore interrogandosi ancora nel 1938 sulla natura enigmatica della nevrosi traumatica (Freud, 1934-1938). 2. La fase intermedia Forse Freud non sapeva che questa categoria era da tempo caduta in disuso. Non era comunque sparita dal linguaggio comune, così come del resto in Inghilterra si continuava a dire “shell-shock” (shock da granata), usando una parola bandita dal linguaggio ufficiale della medicina. Il punto è che, quelle legate al trauma, erano parole che, per quanto soppresse, continuavano a ritornare. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, allorché si temette il massiccio ritorno dei sintomi della prima guerra mondiale, uno dei modi di combattere questa eventualità fu la lotta alle parole. Come scrisse un autore: “Le parole ‘nevrastenia traumatica’ e ‘nevrosi traumatica’ hanno fatto altrettanti danni nei casi civili di quanto la parola “shell-shock’ ne fece nei casi di guerra, e sarebbe assai meglio lasciar cadere nell’oblio tutti questi malaugurati nomi (misnomers)” (Brend, 1940, p. 484). Questi nomi erano “disvianti” (misnomers) perché mettevano in primo piano il momento traumatico, quando invece: “Tutti gli autori sottolineano la distinzione essenziale, nella pratica così come nella teoria, tra il fattore precipitante e il fattore causale più profondo nella struttura di una nevrosi di guerra. Tutti concordano nel considerare la fatica fisica e l’esaurimento mentale tra i fattori precipitanti, mentre la causa sottostante deve essere trovata nei conflitti inconsci più profondi” (Simmel, 1941, pp. 647-48). L’unanime rifiuto della vecchia teoria dello shock non impedì comunque di effettuare importanti studi clinici o di elaborare teorie che sono rimaste delle pietre miliari della psicotraumatologia. Ricordo per tutti il lavoro di Abraham Kardiner, in collaborazione con Herbert Spiegel, War Stress and Neurotic Illness (1941/1947), che traccia un ponte tra la prima e la seconda guerra mondiale. E’ da notare che fin dal titolo non si parla più di “trauma” bensì di “stress”, il quale è un concetto principalmente fisiologico, ancorato alle reazioni di un organismo sottoposto a fatica ed esaurimento. Queste reazioni dell’organismo vengono poste da Kardiner alla base della sua visione dei disturbi psichici come fenomeni secondari che sorgono a partire da un nucleo universale che egli chiama “fisionevrosi”. Questa impostazione rifletteva un interesse per i fenomeni psicosomatici che è comune ai vari studi della seconda guerra mondiale, e un orientamento non tanto verso lo shock quanto agli effetti progressivi e sfumati della fatica, del freddo, del mancato recupero di energie, in breve allo stress. 4 La disattenzione per il momento traumatico si doveva quindi, in parte, all’interesse per lo stress. D’altra parte questa diversa prospettiva, non bastava a giustificare la generale prevenzione e ostilità per il vecchio concetto di trauma. La sottovalutazione del momento traumatico continuò ad essere così sistematica che Ernest Rappaport ebbe a scrivere, nel 1968: “Le nevrosi traumatiche sono menzionate nella letteratura psicoanalitica specialmente dopo la seconda guerra mondiale quasi esclusivamente allo scopo di negare la loro esistenza" (Rappaport, 1968, p. 719). Rappaport era sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti e si lamentava soprattutto della tendenza a interpretare i traumi sofferti dalle vittime della Shoah secondo lo schema classico, ossia minimizzando il ruolo degli eventi esterni a favore della predisposizione. Il suo intervento è uno dei segni della crescente insoddisfazione che alla fine sfocerà nella rinascita della nozione di trauma psichico. Un altro di questi segni è il lavoro svolto negli anni 1960 dal gruppo di studio di Denver sul maltrattamento fisico dei bambini, che ha preparato il terreno per la successiva attenzione verso l’abuso sessuale nell’infanzia. Perché qualcosa cambi veramente, si dovrà comunque attendere l’introduzione della categoria «Disturbo Post-Traumatico da Stress» nell’edizione del 1980 del DSM III (il manuale diagnostico della Associazione Psichiatrica Americana). Questa categoria venne introdotta per dare una risposta medica, sociale e politica, al gran numero di veterani della guerra del Vietnam che presentavano disturbi psichici. Le ragioni che determinarono questa situazione sono molteplici, e su di esse è stato scritto moltissimo. In questa sede vorrei evidenziare un problema particolare che però ci permette di inquadrare efficacemente il nostro tema. Nella prima guerra mondiale gli uomini sotto shock venivano giudicati codardi e tenuti al fronte oppure giudicati malati e ospedalizzati lontano dal fronte. Successivamente, questa modalità di gestione venne giudicata un errore, perché favoriva la fissazione dei sintomi come modo per non tornare al fronte. Nella seconda guerra mondiale, invece di portare gli uomini “sotto stress” nelle retrovie, venne spesso adottata la strategia di tenerli a riposo a contatto con i compagni, in modo da non spezzare i legami che si erano creati e far leva sullo spirito di corpo per una veloce remissione. Si era cioè riconosciuto che l’unità fungeva da schermo protettivo contro l’eccesso di stress da combattimento (Grinker e Spiegel, 1945). Dopo la seconda guerra mondiale questa idea venne dimenticata. Nella guerra del Vietnam per prevenire l’insorgere dei disturbi psichici nei combattenti venne adottata un’altra strategia, il programma DEROS (un acronimo che sta per “data del ritorno previsto”). In pratica, si trattava di 5 un sistema di rotazione della durata di 12 mesi che permetteva ad ogni uomo di sapere, dal momento in cui partiva per il teatro di guerra, quando sarebbe tornato a casa. DEROS prometteva un via di fuga dalla guerra in alternativa alla fuga nella malattia (Goodwin, 1987). Tuttavia questo programma fallì. Già nel 1970 un commentatore aveva scritto: “La guerra diventa per ogni singolo uomo un evento altamente individualistico e incapsulato. La sua guerra inizia il giorno in cui arriva nel paese e finisce il giorno in cui se ne va” (Bourne, 1970, p. 12). “Egli non avverte alcuna continuità con coloro che vengono prima e dopo di lui: si sente separato persino da coloro che sono con lui ma che ruotano secondo uno schema diverso” (ibid., p. 42). Ogni uomo aveva un calendario personale con 365 caselle da riempire fino al giorno finale, e questo tempo individuale era completamente scollato dagli eventi collettivi. Il continuo arrivare e partire minava la coesione e l’identificazione in ciascuna unità. La rotazione sanciva la rottura sistematica dei rapporti tra soldati esperti ed inesperti, dato che chi era vicino al termine della rotazione non voleva più essere in situazioni di rischio. Infine, mentre nella seconda guerra mondiale il tempo del lento ritorno insieme dava ai veterani la possibilità di rielaborare emotivamente gli episodi vissuti, collocandoli all’interno di un tempo collettivo, i reduci del Vietnam erano velocemente e isolatamente riportati in un paese ostile e lasciati soli con i propri disturbanti e indesiderati vissuti. 3. La rinascita del trauma psichico Il Vietnam non ha soltanto promosso ma anche condizionato la rinascita dell’idea di trauma psichico. Se nella fase iniziale il prototipo del trauma era stato l’inatteso evento accidentale nello scenario dell’inquietante industrializzazione (incidenti ferroviari, scoppi di granate, e così via), nella sua fase recente il campione dell’evento traumatico viene individuato in ciò che può danneggiare il senso di connessione con la comunità – in ciò che, per dirla con l’autrice di uno dei libri più significativi di questo periodo, “fa crollare la costruzione del sé che si è formata in relazione agli altri e viene sostenuta dagli altri” (Herman, 1992, p. 51), “fa crollare il senso di connessione tra l’individuo e la comunità” (ibid. p. 53). Questa caratterizzazione sociale del trauma, sottolineando l’importanza della condivisione delle esperienze traumatiche con gli altri e del riconoscimento pubblico dell’evento traumatico, sta esercitando una profonda influenza sulla nostra cultura. L’esperienza del Vietnam ha anche condizionato la costruzione clinica della categoria “Disturbo Post-Traumatico da Stress”. Essa è infatti alla base del suo esclusivo concentrarsi sui sintomi psichici e della priorità assegnata ai ricordi intrusivi, che male si adattano ad altre situazioni (soprattutto i traumi infantili). E’ pure responsabile della scarsa attenzione per fenomeni 6 strutturalmente connessi al trauma psichico quali la dissociazione, la sregolazione degli affetti e la somatizzazione. Di fatto, per catturare la complessità che spesso caratterizza gli effetti del trauma psichico, lo psichiatra deve abbracciare la nozione di co-morbidità e far uso di doppia diagnosi. Ma, come ha recentemente scritto van der Kolk: “Il concetto di co-morbidità non cattura la complessità degli adattamenti alle esperienze traumatiche: relazioni complesse biologiche come pure psicodinamiche non possono essere catturate attraverso il semplice elenco dei sintomi” (van der Kolk et. al.) Per quanto criticabile, la categoria di disturbo post-traumatico da stress ha comunque dato il via ad una impressionante rinascita dell’idea di trauma psichico. Inizialmente, negli anni 1980, attorno ad essa si sono aggregati altri fenomeni intensamente emotivi e di pubblico interesse quali la Shoah, l’abuso fisico e sessuale nell’infanzia e le catastrofi naturali. Sono nate associazioni di vittime, di terapeuti, riviste specializzate, e si è imposta una nuova disciplina accademica, la psicotraumatologia. Nel decennio successivo la nozione di trauma si è ulteriormente ampliata includendo situazioni sempre nuove, collettive o individuali, fisiche o psichiche, concentrate in un unico evento eccezionale o ripetute più volte nel tempo, subite in prima persona o trasmesse in modo, come si dice, transgenerazionale. Si è registrata dunque una formidabile espansione sia degli eventi considerati come traumatici, sia degli effetti di tali eventi. Un esempio di questa espansione è l’introduzione del termine "mobbing" (attacco, assalto) da parte dello psicologo svedese Heinz Leymann per indicare una forma di violenza psicologica messa in atto in ambito lavorativo da un superiore o da più colleghi di lavoro nei confronti di una "vittima", la quale è soggetta a continui attacchi e ingiustizie che a lungo andare portano l'individuo ad una condizione di estremo disagio psicologico quando non addirittura ad un crollo del suo equilibrio psicofisico. A coronamento di questi sviluppi, in Francia è stata creata una nuova disciplina accademica, la «vittimatologia», che già nel nome riflette questi ampliamenti, riassume lo slittamento del focus dall’evento traumatico alla psicologia della persona che lo subisce, e lascia presagire ulteriori sviluppi riguardo a ciò che nell’immediato futuro sarà annesso all’area in continua espansione degli eventi riconosciuti come traumatici. Anche il concetto di nevrosi di guerra, che negli anni 1980 era ancora limitato a ben definite situazioni di «combattimento», si è modificato ampliando i suoi confini in conseguenza del crescente impiego delle forze armate in missioni di «peace-keeping», abbracciando sia il nuovo tipo di problemi posti agli operatori militari, sia il coinvolgimento dei civili. Importanti aree del trauma psichico sono quelle connesse ai processi di migrazione forzata, alle violenze sui civili e agli effetti della tortura. Infine devono essere 7 ricordati l’intervento in situazioni ordinarie, come lo stress nelle forze di polizia, e in situazioni eccezionali, come quelle che rientrano nei compiti della protezione civile. Vorrei terminare questa veloce carrellata con le parole con cui inizia un libro sulla storia degli esordi dell’idea di trauma psichico che sta per uscire in questi giorni negli Stati Uniti: “Alla luce delle catastrofi e dei cataclismi che hanno segnato la storia del ventesimo secolo non sorprende che il trauma sia emerso come un concetto così visibile ed invocato. Avendo trasceso le sue origini nella medicina clinica per entrare nella cultura quotidiana e nel gergo popolare, il trauma è diventato una metafora per le lotte e le sfide della vita di fine secolo, una pietra di paragone in una società che sembra ossessionata dalla sofferenza e dalla condizione di vittima” (Lerner & Micale, 2001) Non si deve, infine, dimenticare che il concetto di trauma psichico è emerso nell’ambito della nostra civiltà e che condensa alcune delle grandi trasformazioni del modo in cui l’uomo narra se stesso, proprie della tarda modernità e della postmodernità. Rimane aperto l’interrogativo se noi possiamo usare questa categoria interpretativa in riferimento a situazioni che non hanno conosciuto o che hanno resistito alla penetrazione della modernità. Bibliografia Bonomi, C. (2000). La psicologizzazione del trauma. Nascita e tramonto della diagnosi di "nevrosi traumatica" (1870-1920ca). Teoria & Modelli, n.s., V, 1-2, pp. 125-161. Bonomi, C. (2001). Breve storia del trauma dalle origini a Ferenczi (1880-1930ca). In: C. Bonomi, F. Borgogno, 2001. Bonomi, C. Borgogno, F. (a cura di), (2001). La Catastrofe e i suoi Simboli. Il contributo di Sándor Ferenczi alla storia del trauma, Torino: UTET Libreria, 2001. Bourne, P.G. (1970). Men, Stress and Vietnam. Boston: Little, Brown. Brend, W.A. (1940). Review of The Neuroses in War. Int. J. Psycho-Anal., 21:483-485. Breuer, J., Freud, S. (1992-95). Studi sull’isteria. In S. Freud, Opere, vol. 1, Torino, Boringhieri, 1967. Freud, S. (1920). Al di là del principio di piacere. In Opere, vol. 9. 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