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Relazione sullo stato attuale della ricerca
Mauro Valdinoci
Oggetto
Il progetto si colloca nell’ambito del Sufismo indiano contemporaneo. L’attenzione si concentra
sul fenomeno, largamente diffuso nel subcontinente indiano, del cosiddetto culto dei santi
musulmani. Uno degli interessi principali è chiarire come si esprime l’autorità carismatica dei
maestri sufi nella società indiana contemporanea, e allo stesso tempo, come si manifesta, come si
articola il riconoscimento di questa autorità da parte di discepoli e devoti (la devozione). Osservare
le relazioni tra la gente e i santi sufi e i loro santuari. Come i diversi attori sociali si rapportano nei
confronti delle istituzioni sufi e viceversa, l’impatto dei santi e dei santuari sulle esperienze degli
individui e in che modo essi incidono sul sistema sociale. Questi obiettivi generici devono
neccessariamente essere articolati in delle ipotesi più particolari e più circoscritte, cio’ avverra’ nel
corso dei prossimi mesi di ricerca. Un altro interesse fondamentale di questo studio e’ il dibattito
che oppone i maestri sufi e le persone coinvolte nelle attivita’ delle confraternite e dei santuari ai
teologi ai predicatori e agli intellettuali modernisti e fondamentalisti. L’importanza di osservare
come questa polemica, che e’ completamente interna alla comunita’ musulmana, si articola nella
societa’ indiana contemporanea e’ fouri di discussione (De Jong and Radtke 1999, Gaborieau
2003...). Nonostante l’approccio antropologico, e’ necessario tenere conto anche della dimensione
storica. Il riconoscimento e l’esercizio dell’autorita’ spirituale sufi da una parte, e le vicende legate
al dibattito tra sufi e anti-sufi dall’altra, sono analizzate nel contesto contemporaneo, ma alla luce
del sapere storiografico accumulato in letteratura (cf. Digby, Gaborieau...). Facendo interagire il
contesto contemporaneo con i diversi periodi storici sara’ possibile tentare di delineare alcune
direzioni del cambiamento religioso. Come la modernita’ e la globalizzazione influiscono sulle
pratiche e le credenze legate al culto dei santi (cf. Liebeskind 1998). E’ importante evitare un’ottica
troppo euro-centrica della storia indiana: ad esempio lo schema interpretativo basato su periodo precoloniale, coloniale e post-coloniale è stato criticato (Eaton 2000).
Il culto dei santi (e ciò vale a maggior ragione per il Sufismo indiano più in generale) è un
fenomeno religioso e sociale complesso, e per descriverlo occorre osservarlo in un contesto sociale
delimitato (Eickelman 1982, Elias 2000), e tenere conto di diversi punti di vista. Ad esempio il
punto di vista delle persone che vi sono coinvolte, e il grado di coinvolgimento varia di intensità
(maestri, discepoli, devoti ordinari..), o quello degli esterni, che non partecipano a questo tipo di
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religiosità o che addirittura la criticano e vi si oppongono. Il concetto di culto dei santi è multidimensionale e chiama in causa diversi piani di discorso: il livello della tradizione religiosaculturale (il Sufismo indiano e più in generale l’Islam), il livello fisico-rituale, il livello
dell’esperienza, il livello sociale e quello storico. È una visione consolidata tra gli antropologi, ad
esempio Geertz (1968), considerare la religione come un fenomeno sociale, culturale e psicologico.
Molti autori affermano che le particolari tradizioni religiose, in questo mondo, sono sostenute da e
si esprimono attraverso forme simboliche e disposizioni sociali, simboli e istituzioni (Douglas,
Geertz, Turner).
Generalmente, nella letteratura antropologica, i simboli godono di un’attenzione particolare, e
vengono considerati oggetti privilegiati dell’analisi dei fenomeni sociali. In una tradizione religiosa
simboli vengono creati, perpetuati, costantemente negoziati, rafforzati, modificati, abbandonati,
riscoperti. È tramite un apparato di simboli che solitamente gli individui interagiscono con la
religione. Quando una tradizione religiosa viene attaccata o criticata sono i suoi simboli che
vengono messi in discussione. Un fattore che aggiunge ulteriore complessità alla questione è la
polisemia dei simboli (Turner), il fatto che essi possono generare diversi significati e interpretazioni
differenti a livello della tradizione religiosa e dei singoli individui (Turner, Morinis, Eade and
Sallnow, Van Der Veer…). È quindi necessario tenere conto sia dei modelli di significato e di
motivazione collettivi-sociali, sia dei modelli di significato e delle motivazioni individuali.
Per il momento, una direzione di ricerca interessante è il concetto dell’autorità dei maestri sufi.
Per ora devo approfondire gli studi sull’argomento, ma ho già iniziato a muovermi in questo senso.
Un buon punto di partenza è sicuramente la teoria di Weber sull’autorità carismatica, e le sue
considerazioni sul carisma spontaneo e sul carisma istituzionale. Bruce Lincoln è un altro
importante autore di riferimento per quanto riguarda lo studio dell’autorità. Diversi autori, più
recentemente, hanno discusso le caratteristiche dell’autorità carismatica nel contesto del Sufismo,
basandosi sulla letteratura sufi, sull’osservazione diretta, o su entrambe, sia per quanto riguarda il
subcontinente indiano (Digby, Ernst, Eaton, Lawrence, Gaborieau, Buehler, Werbner, Basu,
Landell Mills, Kugle…), che per il resto del mondo islamico, ad esempio in Marocco (Gellner,
Geertz, Crapanzano, Kugle), Senegal (Cruise O’Brien), Egitto (Gilsenan), Asia centrale (Zarcone).
Generalmente vengono presentati diversi fattori come fonti del carisma dei santi sufi (il possesso di
poteri sovrannaturali, la capacità di compiere miracoli, la discendenza di sangue dal Profeta
Muhammad, una notevole conoscenza spirituale e religiosa, una vita di ascetismo, rinuncia e
devozione totale a Dio..). Generalmente gli antropologi tendono a ridurre l’autorità di un particolare
santo ad un singolo fattore, che spiegano in termini di dinamiche politiche, sociali o economiche
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(Lizzio 2005). Recentemente Pnina Werbner (2003) ha corretto questa tendenza affermando che
l’autorità di un maestro sufi deriva dall’interazione di vari fattori.
Se però adottiamo un punto di vista più interno al Sufismo, quello dei praticanti, ci si accorge
che la varietà di questi fattori può essere ricondotta al concetto stesso di santità, walayat, che
letteralmente significa prossimità, vicinanza (ci si riferisce ai santi col termine wali Allah, amici di
Allah). È il fatto di essere ‘vicini’ a Dio, di godere di questa posizione privilegiata, che li rende
possessori di barakat, un concetto complesso che potremmo tradurre brevemente e in modo
impreciso con ‘grazia, benedizione divina’, ‘potere spirituale’. È il fatto di essere investiti di
barakat che conferisce loro poteri straordinari. La barakat è un’entità magica e contagiosa e può
trasferirsi da un corpo all’altro, specialmente attraverso il contatto. Per i sufi è la barakat la ragion
d’essere dell’autorità dei santi. L’accesso alla barakat di un santo sufi è ancora oggi una
motivazione importante, da parte degli individui, per fare visita ad un maestro o per intraprendere
un pellegrinaggio alla sua tomba. È uno dei concetti chiave per tutto il culto dei santi.
In relazione al concetto di autorità la mia ricerca intende esplorare la nozione di ‘embodiment’,
recentemente messa al centro dell’attenzione antropologica da Scott Kugle (2007), ma già proposta
da altri autori in diversi studi sul Sufismo indiano, a partire dalla fine degli anni ’90 (Werbner,
Basu, Landell-Mills, Frembgen…). È un concetto importante, che mette al centro dell’attenzione la
spazialità del corpo e mira a superare la dicotomia platonica e cartesiana ‘mente-corpo’.
Embodiment vuole significare il fatto che il corpo non è un contenitore, o un veicolo per l’anima, o
un accessorio della mente. Piuttosto il corpo è sia il fondamento sia il prodotto di un mondo di
significato che è l’essere umano. Il corpo non è una cosa, ma una concatenazione di azioni che
influenza ed è influenzata dalla cultura.
Nel contesto degli studi sul Sufismo, si riferisce all’incarnazione della santità, intesa come
personificazione, cristallizzazione, localizzazione, non nel senso di reincarnazione delle anime che
si intende abitualmente. Nel Sufismo la santità, considerata come autorità carismatica, non è un
concetto astratto, teologico, ma si incarna, si inscrive all’interno di un corpo, o di un territorio. E’
connotata da una forte componente di corporeità, fisicità. La santità si ‘incarna’ nel corpo di un
santo, il suo stesso corpo è ritenuto la sede di un potere sacro. Col contatto la barakat può essere
trasferita. Gli oggetti possono essere ‘caricati’ di santità e fatti circolare nella società, in cui
rilasciano i loro poteri benefici (di fertilità, prosperità e abbondanza) anche lontano dal santo o dalla
sua tomba. In questo senso i vari oggetti che vengono riportati a casa dai santuari possono essere
considerati un’estensione, un’appendice della santità - e quindi dell’autorità carismatica - di un
maestro sufi.
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L’enfasi sul concetto di ‘embodiment’ può essere un approccio produttivo, dal momento che
illustra la centralità del corpo nella spiritualità e nell’azione sociale dei santi musulmani e anche
nella devozione dei loro seguaci. L’attenzione per il corpo nelle tradizioni religiose e nei sistemi di
significato ha dato vita, negli ultimi due decenni, a tutta una serie di studi da parte di sociologi e
antropologi, incentrati sul corpo (cf. Lock 1993, Synnott 1993, Strathern 1996). Per quanto riguarda
l’antropologia dell’Islam queste questioni sono state affrontate da diverse prospettive teoriche
(Talal Asad 1993, Pnina Werbner e Helene Basu 1998, Fuad Khuri 2001, Marion Katz 2002).
Questi studi sono riconducibili alle analisi di Brian Turner (1984), che ha discusso come la
concezione sociale del corpo ridefinisce e limita la percezione del corpo umano, ma soprattutto
vanno ricondotti a Marcel Mauss e Mary Douglas (Saggio sulle tecniche del corpo; Purity and
danger e Natural symbols), i primi autori che hanno riconosciuto l’importanza del corpo per i
sistemi simbolici delle religioni; entrambi hanno gettato le basi per una teoria del ‘corpo sociale’.
Questo approccio rivela i limiti di descrizioni, frequenti tra gli orientalisti, che ritraggono l’Islam
come un fenomeno puramente spirituale, ascetico e completamente distaccato dal corpo e dal
mondo circostante. Rimane comunque da dimostrare se questo concetto è conciliabile con le
interpretazioni e i significati contenuti nella tradizione sufi e se i diretti interessati - maestri, membri
delle confraternite, custodi, devoti e pellegrini - vi si riconoscono.
Questioni teoriche di metodo
Questo studio si inserisce nella tradizione dell’antropologia dell’Islam, espressione che raccoglie
due grandi filoni di studio. Da una parte gli antropologi europei ed americani che ritengono di poter
studiare l’Islam da un punto di vista antropologico (Geertz 1968; Gellner 1969; Cruise O’Brien
1971; Gilsenan 1973; Eickelman 1976, 1981a, 1982; Asad 1986a, Werbner 2003). Dall’altra gli
scienziati sociali musulmani, che prendono le distanze dall’antropologia sociale e dal colonialismo
(El-Zein 1977; Said 1978; Elkholy 1984; Ahmed 1986, 1988; Davies Wyn 1988).
Una questione importante, sollevata verso la fine degli anni ’70 e ancora oggi ribadita, è che
l’Islam non può essere considerato un fenomeno omogeneo, infatti fin dalle sue origini ha prodotto
numerose varianti (El-Zein 1977). La generazione precedente di studiosi aveva invece elaborato un
modello di struttura sociale islamica, caratterizzato da elementi che risultavano immutabili nel
tempo (cf. Gellner 1981). Secondo Geertz (1968) le tipologie astratte sono inadeguate per
descrivere un processo dinamico come il mutamento religioso, che si è verificato in corrispondenza
del colonialismo e dello stato-nazione.
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L’antropologia dell’Islam mostra attenzione per i modi in cui la tradizione islamica è agita e
vissuta localmente attraverso la continua reinterpretazione dei simboli religiosi nelle diverse
condizioni sociali e storiche (Eickelman 1976, 1985). Un primo punto critico riguarda la diversità di
significati che diversi gruppi sociali attribuiscono ai principi e ai valori islamici (Gilsenan 1973, ElZein 1977). Una seconda osservazione è la distinzione tra Islam ortodosso e Islam popolare o
grande/piccola tradizione. Due punti importanti da tenere in considerazione sono che l’utilità del
concetto di ‘Islam’ come religione predefinita è estremamente limitato in antropologia; inoltre che
la dicotomia Islam ortodosso/Islam popolare è sterile e improduttiva (El-Zein 1977).
Questo studio adotta un punto di vista emico, cioè tenta di spiegare le credenze e il
comportamento dei membri di una determinata cultura secondo i termini e le definizioni locali.
Questo approccio è ben consolidato in antropologia (Pike 1954, Goodenough 1956, Conklin 1962,
Tyler 1969, Frake 1980, Jorion 1983, Headland et al. 1990), nonostante non sia esente da critiche
(Harris 1976), privilegia i modelli di classificazione e di descrizione locali. Il comportamento
sociale è studiato ‘dall’interno’ del particolare sistema culturale di riferimento. Il livello emico è
quello della percezione: le persone comprendono azioni e parole solo attraverso la cultura che
possiedono/di cui sono parte (Levi-Strauss 1985).
Uno dei problemi più importanti è cercare di minimizzare il più possibile la tendenza a
proiettare assunti culturali occidentali dentro l’oggetto di studio (Said 1978, Lizzio 2005). Cercare
di minimizzare l’imposizione di categorie interpretative estranee al sistema sociale e culturale
studiato, come ad esempio quelle di ‘mistico’ o ‘misticismo’ (Elias 2000, Safi 2000). Cercare di
adottare un approccio che tenga in considerazione le categorie e le spiegazioni ‘native’ e l’utilizzo
di più voci nella rappresentazione. Dare importanza all’auto-rappresentazione dei membri della
particolare cultura studiata. Evidenziare le definizioni e le spiegazioni dei significati e delle pratiche
da parte dei soggetti coinvolti nel culto dei santi. Contrastare la visione dell’Islam come un’essenza,
un’entità a-storica e a-geografica (El-Zein 1977, Eickelman 1982).
Metodi di raccolta dati
I metodi di raccolta delle informazioni devono necessariamente essere diversificati, per poter
indagare i diversi piani del discorso e i diversi punti di vista coinvolti. Sul campo verranno
impiegati gli strumenti classici dell’etnografia, l’osservazione partecipante e l’intervista. Ad essi
tenterò di aggiungere anche la raccolta delle esperienze individuali degli intervistati attraverso le
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loro ‘storie di vita’. Naturalmente a questi strumenti va aggiunta un’adeguata ricerca bibliografica,
su fonti secondarie e possibilmente anche su fonti primarie (letteratura sufi).
- Livello della tradizione religiosa-culturale
a) Maestri sufi, membri delle confraternite, custodi
a.1.) Quelli viventi sono un indicatore per costruire un quadro del Sufismo indiano
contemporaneo  [metodi d’indagine] osservazione diretta, interviste, analisi di eventuali scritti
(articoli, saggi, lettere, poesie)
a.2.) Quelli defunti possono essere studiati per delineare un quadro del Sufismo indiano nelle
varie epoche storiche
 [metodi d’indagine] analisi degli scritti (letteratura sufi: lettere, poesie,
raccolte di detti, biografie)
a.3.) Dato che la tradizione sufi è parte di una tradizione religiosa più ampia, l’Islam, è legittimo
chiedersi come gli individui coinvolti nelle attività sufi concepiscono l’Islam e viceversa come le
autorità dell’Islam considerano le credenze, le pratiche sufi e il culto dei santi. Un problema è
sollevato dal fatto che l’Islam non possiede un’organizzazione centralizzata, non c’è un clero che
detta una linea guida universalmente valida, a parte il Corano e gli Hadith. Ci sono diversi ‘ulama,
esperti di teologia e diritto, quindi anche diverse posizioni. Dibattito tra oppositori e sostenitori del
Sufismo  indagare come questo dibattito si articola nella società indiana contemporanea
- Livello dell’esperienza
b) i devoti, i pellegrini, i frequentatori abituali dei santuari, le loro famiglie
b.1.) contemporanei  [metodi d’indagine] osservazione, interviste, racconti
b.2.) del passato  [metodi d’indagine] analisi degli scritti (diari, biografie, guide per i
pellegrini)
c) gli outsider: musulmani non coinvolti nel Sufismo, appartenenti ad altre religioni, fonti
coloniali.. Come vengono considerate e definite le pratiche del Sufismo e le persone che vi
partecipano?
Nota: occupandosi dell’epoca contemporanea non si può ignorare la presenza di internet, dal
momento che molte ramificazioni delle confraternite sufi hanno recentemente aperto siti web, la
rete può diventare un materiale, una fonte di ricerca al servizio dell’intento più generale di indagare
come gli individui coinvolti nel Sufismo contemporaneo si auto-definiscono e si autorappresentano.
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La raccolta dei dati etnografici sara’ relativa all’osservazione di 2, massimo 3 casi campione.
Mentre sono ‘sul campo’, cerchero’ di seguire un paio di maestri viventi, di osservare le attivita’
rituali a cui presiedono, l’insegnamento spirituale impartito ai discepoli, il rapporto coi devoti
ordinari e la societa’. I maestri ‘campione’ verranno scelti nella citta’ di Hyderabad, che e’ stata e
continua ad essere il centro di produzione e diffusione di sapere sufi piu’ importante dell’India
meridionale. Almeno uno dei maestri oggetti di studio apparterra’ alla confraternita Rifaiyya o alla
Qalandariyya, due ordini sufi di cui poco si e’ scritto e di cui poco si conosce in profondita’,
soprattutto per quanto riguarda la zona di Hyderabad. Queste confraternite dal carattere nomade e
ascetico, spesso sono definite ‘eterodosse’ da parte degli ordini sufi piu’ organizzati e consolidati, e
a volte sono marginalizzate, soprattutto perche’ i loro membri non possono vantare un’ascendenza
genealogica prestigiosa e nobile e perche’ alcune delle loro pratiche vengono dichiarate fuori dalla
legge islamica. L’interesse di studiare queste confraternite e’ che, relativamente ad esse, e’ sempre
piu’ raro trovare linee di sapere iniziatico ancora attive, maestri cioe’ che insegnino direttamente i
metodi della confratenita e che non siano dei meri intercessori che, attraverso la discendenza
biologica, hanno ereditato i propri poteri spirituali. Il rischio e’ che in poche generazioni gran parte
del sapere esoterico, assieme a metodi e pratiche tradizionali vecchie di secoli, possano andare persi
o cadere nell’oblio.
Un altro maestro oggetto di studio apparterra’ ad una delle confraternite piu’ diffuse in India, con
un’organizzazione molto forte e uno stile sobrio, marcatamente dentro i confini della Sharia. Una
confraternita che risponde a tali caratteristiche e’ certamente la Naqshbandiyya-Mujaddidiyya, e
nella citta’ di Hyderabad e’ rappresentata da diversi maestri viventi. I vantaggi a livello analitico di
una tale scelta sono diversi. Innanzitutto, e’ possibile delineare, nel medesimo contesto storicogeografico, due differenti tradizioni sufi. Due modi differenti di conciliare il percorso spirituale
esoterico individuale e la vita nella societa’, due modi di conciliare la conoscenza spirituale sufi e la
modernita’. Inoltre, le due tradizioni forse forniranno spunti e soluzioni differenti agli interrogativi
che porremo nel corso della ricerca. Un altro punto vantaggioso e’ mostrare i limiti delle teorie
‘essenzialiste’ sull’Islam, evidenziando il fatto che ci sono diverse prospettive nell’Islam, e anche
diverse visioni all’interno del Sufismo stesso. Infine questa scelta permette a questa ricerca di
inserirsi nel dibattito sull’ortodossia ed eterodossia, dandole occasione di sottolineare i limiti di
dicotomie molto diffuse, come quella Islam ortodosso/Islam popolare o grande tradizione/piccola
tradizione, che continuano ad essere appoggiate da alcuni teologi ma soprattutto dagli scienziati
sociali (storici, antropologi, orientalisti).
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