Modello integrato di E

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MODELLO INTEGRATO DI E-LEARNING
Nel modello pedagogico e organizzativo, definito a livello internazionale come
e-learning, si possono integrare le due metodologie della CMC (Computer
Mediated Communication) e della WBI (Web-Based Instruction) o WBL (WebBased Learning).
La prima (CMC) è fondata sulle pratiche didattiche cooperative del CSCL
(Computer Supported Cooperative Learning) caratterizzanti le “ comunità di
apprendimento” trasferite in rete e sulle pratiche collaborativen del CSCW
(Computer Supported Collaborative Work) proprie delle “comunità di lavoro”
virtuali.
La seconda (WBI) è fondata sullo studio individuale e assistito da tutor di
materiali didattici (scritti, audiovisivi, multimediali) distribuiti on line, anche
nella forma dei Learning Object (LO), e sul reperimento semantico delle
informazioni (Information Retrieval, IR) in rete, attraverso ricerca guidata o
libera delle risorse remote di Internet.
La metodologia CMC conduce a sperimentare in rete forme innovative di
ricerca-azione
metodologia
per
WBL
modificare
favorisce
le
la
organizzazioni
gestione
della
sociali,
così
conoscenza
come
la
(Knowledge
Management, KM) posseduta e sviluppata dagli individui e dall’organizzazione.
Le relazioni che si instaurano tra le specifiche aree della CMC e del WBI
producono sinergie per costruire conoscenze, abilità, competenze.
Il modello integrato di e-learning che stiamo delineando si qualifica attraverso
la sintesi di due punti di vista quasi sempre separati: quello tecnologicocomunicativo e quello pedagogico-didattico.
L’ambiente formativo tecnologico è qualificato dal valore strategico dell’
interattività,
in
cui
trovano
la
loro
piena
esplicazione
sia
il
criterio
metodologico-didattico ( valore crescente dalle metodologie espositive alle
metodologie attive ) sia il criterio psico-pedagogico ( valore crescente dalle
interazioni
direttive
a
quelle
stimolanti
l’autonomia
nella
ricerca
delle
informazioni, la flessibilità cognitiva, l’apprendimento collaborativo ).
Richiamando
la
nostra
rappresentazione
tridimensionale
dell’ambiente
formativo tecnologico, nell’e-learning viene potenziato il terzo asse dello
spazio, quello delle strategie interattive, cioè della distribuzione tassonomica
delle funzionalità didattiche messe a disposizione degli allievi e da questi ultimi
attivabili nel rapporto comunicativo.
Il percorso di scelta delle strategie va a determinare l’intensità sia dell’iniziativa
personale nei processi di apprendimento sia del rapporto di comunicazioneinterazione insegnante-allievi-macchina.
Analizzando criticamente le metodologie espositivo-verbali e quelle empiricoinferenziali ai fini di delineare il ruolo dei media è stato rilevato, facendo
riferimento anche a studi sulla comunicazione, che pur muovendosi la teoria
dell’istruzione entro un modello dualistico, la pratica didattica presentava un
modello triadico di modalità (affermativo-descrittive, interrogativo-attive,
imperativo-fattuali) tendente a trovare sintesi “ in un unico reale modo di
comunicare, quello retorico-persuasivo” secondo la definizione di Eco, così
come avviene nella comunicazione interpersonale quotidiana.
Ora, l’introduzione di tecnologie audiovisive, informatiche e telematiche nella
comunicazione didattica va soltanto a supportare strategie espositive o attive
che
rimangono
inalterate
o
invece
a
ridefinire
il
modello,
a
causa
dell’innovazione interna ed esterna alle singole strategie, cioè nei processi di
integrazione fra di esse?
Innanzitutto
nelle
strategie
di
tipo
espositivo
la
presentazione
dell’informazione, e quindi le modalità di un “apprendimento significativo per
assimilazione”, dipendono da due variabili determinate dalla tecnologia: quella
mediologica ( diversità di canali ) e quella linguistica ( diversità degli stili di
interazione fra testo e utente ).
Facendo funzionare ambedue le variabili è possibile ottenere diverse tipologie
di
esposizione
(deduttivo-presentativa,
induttivo-problematica,
deduttivo-
imitativa) e quindi implicare diversamente i processi di percezione, di
comprensione e di memorizzazione.
Così nelle strategie di tipo attivo, o che adottano il metodo della scoperta
utilizzando soprattutto mappe concettuali e materiali didattici grafico-visivi
come
“organizzatori
anticipati”,
le
variabili
tecnologiche
introdotte
dal
computer e dal video permettono progressivamente di:
1.
programmare l’informazione ma anche la verifica fondandosi su un
allievo-tipo ( istruzione programmata );
2.
programmare flessibilmente l’informazione e la verifica relazionandosi
alla
specifica
individualità
dell’allievo
(
sistemi
CAI,
Computer
Aided
Instruction, e CAL, Computer Aided Learning, ripensati nella logica nuova
dell’ICAI, Intelligent Computer Aided Instruction );
3.
organizzare la scoperta guidando l’allievo alla soluzione di problemi (
problem solving con video e/o computer e ricerca in rete );
4.
simulare fenomeni usando e sviluppando modelli di esplorazione e di
interpretazione libera ( software e lavagne condivise in rete o laboratori realivirtuali ).
Un primo salto di qualità nella progressività delle strategie didattiche si realizza
allorchè nei processi di apprendimento (per ricezione e per scoperta) l’allievo
viene messo in condizione di scegliere e di controllare le procedure medesime
con le quali sta imparando.
Alla fine degli anni Ottanta il videodisco gestito come periferica di un personal
computer permetteva tecnologicamente questa possibilità, oggi diventata
familiare con il Cd-Rom ipermediale e ancor più con il DVD e soprattutto con i
materiali informativi e le risorse Web-based.
In altri termini l’allievo è in grado di scegliere le procedure e di personalizzare
percorsi e controlli del proprio apprendimento, agendo proprio sull’interattività
e flessibilità del rapporto comunicativo.
L’utente, quindi, navigando nell’ipertesto e mettendo in relazione i vari nodi
concettuali, non solo sviluppa quella flessibilità cognitiva che Spiro, adottando
un approccio psico-tecnologico, definisce come “l’abilità di ristrutturare
spontaneamente le proprie conoscenze in molti modi”, ma attiva anche un
pensiero critico in quanto, a seconda dei percorsi logici che intraprende, impara
a vedere come varie cause influiscono su un singolo fenomeno e a valutare poi
la loro importanza relativa.
Inoltre, i link dell’ipertesto rappresentando i processi cognitivi che l’utente
attiva per associare i nodi concettuali della rete, nel momento in cui il soggetto
riflette sulla natura associativa di tali legami, sviluppa allo stesso tempo abilità
cognitive e metacognitive che lo metteranno in grado di gestire in modo
autoregolativo l’acquisizione significativa e stabile della conoscenza e quindi di
imparare a imparare.
L’ipermedia non solo permette un’acquisizione dei concetti a partire dalle
relazioni che intercorrono tra di essi, ma utilizzando molteplici sistemi simbolici
(suoni, grafica, immagine statica e in movimento), aumenta l’efficacia
dell’immagine con il coinvolgimento plurisensoriale e promuovendo il pensiero
intuitivo, analogico, ramificato, pluriprospettico, concreto, a causa del suo
ricongiungimento con l’azione.
Un secondo salto di qualità nella progressività delle strategie didattiche si
realizza allorchè l’apprendimento “per esperienza” abbandona le componenti
vicariali e simulate di quest’ultima (ad esempio, nella pratica scolastica al
predominio della diade esposizione verbale/ricezione si affianca, nel migliore
dei casi, il cosiddetto “esperimento dimostrativo” di laboratorio) per farsi
apprendimento “per esperienza diretta”, non nel senso di rifiutare gli strumenti
tecnologici, ma anzi usando tutti i media che trattano a fini interpretativi la
realtà in quanto “narrazione”, cioè costruzione intenzionale, conversazionale e
contestualizzata
di
conoscenza
(authoring
multi-ipermediale,
computer-
conferencing, e-mail e newsgroup ecc.).
La centralità dell’interazione si sposta dalle tecnologie off line a quelle on line:
Internet diventa così il driver della nuova didattica.
La Comunicazione Mediata dal Computer
In questo ambito il medium per eccellenza rimane il computer, come
strumento
dell’interazione
ovvero
interfaccia
comunicativa,
come
sta
avvenendo nella Comunicazione Mediata dal Computer (CMC).
Questa sostanziale trasformazione del computer nelle sue principali funzioni si
è rivelata tecnicamente possibile grazie alla telematica che, attraverso la
fusione tra l’informatica e le telecomunicazioni, ha portato alla nascita di
sistemi di elaborazione, noti come reti di computer autonomi interconnessi:
Internet si può considerare “la madre di tutte le reti”.
I processi di CMC avvengono sempre in uno spazio virtuale di interazione, ossia
in un “cyberspazio”, che può essere paragonato metaforicamente a un “non
luogo”, in quanto non è legato a vincoli spazio-temporali.
In esso gli interlocutori hanno modo di sperimentare la “telepresenza”, nella
quale il rapporto di interazione con il proprio interlocutore è reale, mentre
risulta virtuale, cioè simulata, la presenza fisica di quest’ultimo.
Dalle ricerche sulle caratteristiche principali dei nuovi ambienti tecnologici di
comunicazione emerge la possibilità di identificare due modalità distinte di
CMC: quella sincrona (quando la comunicazione avviene contemporaneamente
tra due o più attori) e quella asincrona (quando la comunicazione avviene in
tempo differito).
E-mail, newsgroup, chat rappresentano soltanto alcune delle forme più comuni
di CMC presenti nel panorama dei nuovi ambienti tecnologici di comunicazione,
e sono comunque accomunate da una serie di caratteristiche che le rendono
molto diverse dalle normali conversazioni faccia a faccia.
La CMC, infatti, presenta delle limitazioni, come La mancanza degli aspetti di
metacomunicazione (mimica facciale, postura, tono della voce), tipici dei
processi conversazionali in presenza, che determinano una rarefazione del
processo interattivo. Nella maggior parte della CMC, infatti, mancano due
caratteristiche che sono proprie della comunicazione faccia a faccia e che
risultano in grado di garantire l’efficacia del processo interattivo, come
chiarisce Mantovani:
1.
“l’impegno a collaborare tra i partecipanti e la cooperazione nel corso
della formulazione del messaggio;
2.
elementi di feed-back che consentano un’elaborazione immediata del
messaggio a livello di significato sociale”.
Ne deriva che nella CMC il processo cooperativo, essendo mediato dal
computer, avviene in modo asimmetrico, in quanto il soggetto emittente non è
garantito dall’effettiva ricezione del proprio messaggio da parte del soggetto
ricevente, e quest’ultimo può decidere in ogni momento se continuare o meno
l’interazione, trasformandosi a sua volta in emittente.
La decisione sull’opportunità di continuare l’interazione non è mai casuale, in
quanto
è
strettamente
dell’interazione
attribuisce
legata
alla
al
significato
situazione
che
comunicativa
ciascun
che
si
soggetto
trova
a
sperimentare e di conseguenza agli scopi e al contesto sociale d’appartenenza,
con i relativi valori. Punti di riferimento, orizzonti di senso ecc.
La CMC, infatti, secondo Mantovani, non avviene come affermano Sproull e
Kiesler in una specie di vuoto sociale, dovuto all’assenza di segnali sociali che
consentano ai soggetti di attribuire un qualche significato condiviso alla loro
relazione interpersonale, perché il rapporto di ciascun soggetto con il contesto
e il gruppo di riferimento non può essere ridotto a una pura compresenza degli
interlocutori, ma deve essere concepito in termini socio-cognitivi.
L’autore, nel muovere questa critica, trae motivazione dagli studi nell’ambito
delle teorie dell’identità sociale e della categorizzazione del Sé, facenti capo a
Turner, in base ai quali ciascun soggetto “è caratterizzato da diversi Sé (selfcategories), comprendenti identità personali e identità sociali che emergono in
base al contesto sociale in cui sono inseriti”, e che hanno un ruolo
fondamentale nella creazione del contesto medesimo, influenzando così il
comportamento del soggetto.
Quindi la CMC, caratterizzata da un’interazione tra i soggetti in telepresenza,
affinchè si possa costituire come processo comunicativo e ancor più formativo
e non semplice scambio di informazioni, è necessario che avvenga in una rete
di significati condivisi, entro la quale i partecipanti possano dare avvio a
processi di negoziazione , al fine di ridurre le differenze tra le proprie cornici di
riferimento e costruire un contesto culturale comune.
Se la CMC non è in grado di fornire agli utenti un significato condiviso, questi
dovranno fare ricorso alle norme sociali del loro ambiente di riferimento e nel
contempo a stereotipi e a simboli sociali condivisi (di potere, di status, di
autorità),
creando
così
incomprensioni
e
svuotando
di
significato
la
comunicazione.
Se
dunque
la
costruzione
di
“competenze”
avviene
allorchè
l’allievo
direttamente agisce, confrontandosi con gli eventi, in quanto nuovi “mondi di
comunicazione”,
prodotti
assieme
agli
altri,
un
sistema
integrato
e
multimediale di pratiche collaborative e cooperative in Internet diventa
l’ambiente a più alto rischio di apprendimento, anche perché il progettare/agire
implica la costruzione di nuove connessioni entro la trama delle reti, allo stesso
tempo tecnologiche, cognitive, sociali.
IL LAVORO COLLABORATIVO IN RETE
La creazione degli ambienti CSCL e CSCW costituisce una risposta alla suddetta
sfida: essi sono nuovi ambienti tecnologici di comunicazione che intendono
promuovere attività di reale cooperazione a distanza, lavorando sui processi di
negoziazione tra gli attori, in modo da consentire a questi ultimi di costituirsi
come comunità virtuali di pratiche.
Per il conseguimento dei suddetti fini questi ambienti, secondo Mantovani,
devono presentare le seguenti caratteristiche:
1.
“ogni modello di cooperazione di un sistema CSCW (Computer Supported
Collaborative Work) deve consentire agli attori di sviluppare significati
condivisi” e quindi di poter costantemente attivare processi di negoziazione
verso la costruzione di un orizzonte di senso comune entro il quale collocare gli
obiettivi che andranno a orientare l’azione;
2.
“ogni modello di cooperazione di un sistema CSCW è strettamente legato
all’area di applicazione per cui il sistema è sviluppato”. Ciò significa che il
modello di cooperazione adottato in un sistema CSCW deve essere coerente sia
con il contesto entro il quale è inserito il sistema in esame, sia rispetto agli
scopi degli attori che operano nel contesto medesimo;
3.
“ogni modello di cooperazione condiziona a sua volta il contesto
dell’interazione”. Le tecnologie, infatti, sono artefatti culturali che mediano le
nostre interazioni cognitive con il mondo circostante: la loro presenza e il loro
uso nei contesti non è neutra, in quanto determina la creazione di nuove
pratiche lavorative e comunicative.
Ne deriva che i sistemi CSCW, introducendo le nuove tecnologie
nell’attività cooperativa, alterano i processi d’interazione.
Ciò significa che gli ambienti CSCL (Computer Supported Cooperative
Learning) e CSCW (Computer Supported Collaborative Work) devono aiutare
gli utenti a dare un senso agli artefatti che li compongono, considerandoli
all’interno dei contesti sociali di loro utilizzo, per riuscire a usarli in modo
appropriato.
È proprio nel momento in cui l’allievo esercita le proprie abilità che ha bisogno
di interazione nella forma di feed-back per risolvere le difficoltà del problema
concreto.
Nell’istruzione formale, infatti, gran parte del contenuto, pur elaborato e
integrato, diventa irrimediabilmente perduto quando non può essere utilizzato
direttamente.
La grande chance dell’e-learning è quella di proporsi come “just-in-time”: un
apprendimento “on demand” e non “in store”, tipico dell’istruzione curricolare,
dove spesso è problematico il recupero semantico delle informazioni, perché
non si osa più chiedere ciò che si dovrebbe già sapere, ma che si è
dimenticato. Oltretutto la ricerca educativa sperimentale sembra confermare,
secondo Berge, che “la conoscenza e le abilità acquisite immediatamente prima
della loro richiesta, possono ridurre il bisogno di un successivo insegnamento”.
Da quanto detto risulta con chiarezza che la rete si costituisce come sistema di
comunicazione in grado di offrire ai suoi utenti gli strumenti per “coordinare le
loro interazioni nello stesso universo virtuale di conoscenza”, infatti, la facilità
di connessione, la possibilità di elaborare e trasmettere l’informazione in tempo
reale
indipendentemente
dalle
distanze
fisiche
sono
le
sue
principali
caratteristiche.
Per approfondire questo concetto, risulta prezioso il pensiero di Lévy. Questo
studioso, occupandosi del rapporto tecnologie-cognizione, attraverso una
visione costruttivista della conoscenza, ritiene infatti che con l’avvento della
rete la fruizione delle tecnologie ipertestuali non avviene più a livello
individuale, bensì determina la creazione di “apparati collettivi dell’intelligenza”
permettendo agli utenti di operare un “coordinamento in tempo reale delle
intelligenze”.
Attraverso l’impiego dei numerosi strumenti di CMC, gli utenti possono
interagire tra di loro attraverso un continuo scambio reciproco di flussi
comunicativi, in grado di attivare un ininterrotto processo di “interpretazione
collettiva” del contesto d’interazione e una costante ridefinizione della
situazione che si trovano a co-gestire.
Per Lévy, l’ipertesto e la sua rete di associazioni può fungere da eloquente
metafora
esplicativa
di
tale
attività
interpretativa,
ovvero
da
modello
rappresentativo di una “teoria ermeneutica della comunicazione”.
Ogni attore durante la comunicazione, infatti, produce continui universi di
senso intorno a ciascun messaggio, in grado di attivare reti di significazione,
paragonabili a un ipertesto che cattura ogni messaggio all’interno di una
specifica “rete di relazioni”.
La condivisione collettiva di senso, verso la costruzione di “un’intelligenza
collettiva”, avviene quando i membri della comunità di pratiche mettono in
comune non solo i testi (messaggi) ma le “reti di associazioni” (“reti di senso”)
in cui essi sono reciprocamente presi.
Continuando nella metafora, mettere le scuole in rete, con i loro attori,
insegnanti e allievi, dirigenti e genitori, ma anche con i loro valori e processi di
insegnamento e apprendimento, con i loro contenuti culturali e coinvolgimenti
sociali, vuol dire creare “reti di senso” che definiscono le vere dinamiche
dell’educazione e della formazione del nostro paese.
L’ “intelligenza collettiva” della scuola italiana, supportata da molteplici
strutture
e
interfacce
telematiche
ipertestuali,
potrebbe
diventare
così
“un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in
tempo reale”, e potrebbe portare “ad una mobilitazione effettiva delle
competenze” per l’innovazione e il cambiamento dal basso del sistema
formativo.
Nella rete si gioca alla pari, non vi sono centri e gerarchie predeterminate:
l’autorevolezza delle proposte deriva dal riconoscimento comune delle “buone
pratiche” e il miglioramento della qualità dalla loro connessione sistemica.
LE COMUNITA’ DI PRATICA E DI APPRENDIMENTO
“Le comunità di pratica e di apprendimento sono gruppi sociali che hanno come
obiettivo il generare conoscenza organizzata a cui ogni individuo può avere
libero accesso”. In tali comunità gli individui, organizzati come in delle vere e
proprie tribù mirano a un apprendimento continuo e condividono il proprio
know how, contribuendo alla crescita della conoscenza del gruppo.
Le comunità di pratica (o "Communities of practice", la cui sigla è COP) in
particolare sono formate da gruppi di persone che svolgono una qualsiasi
attività affine ed interagiscono tra loro in modo informale.
La forte coesione e lo spirito di gruppo sono il filo rosso che tiene assieme
queste aggregazioni sociali. Per tale ragione le comunità possono nascere e
svilupparsi
spontaneamente
in qualunque
organizzazione, attraverso
un
processo di socializzazione finalizzato alla condivisione delle esperienze
quotidiane e delle pratiche lavorative.
Le comunità nascono intorno a problemi e interessi condivisi, si alimentano di
contributi reciproci e durano fintanto che ci sono gli interessi comuni e sono
tenute in vita proprio perché libere da qualsiasi presupposto gerarchico.
Spesso le comunità non sono pienamente riconosciute proprio per il fatto di
non essere istituzionalizzate: l'adesione volontaristica su cui si basano le rende
"sfuggenti" ad un controllo formale.
La finalità delle COP è il miglioramento collettivo basato su un metodo
costruttivista che punta ad una conoscenza che si costruisce insieme e
rappresenta un modo di vivere, lavorare e studiare.
Le comunità di pratica rappresentano un utile modello per affrontare il
problema
della
gestione
della
conoscenza
nella
misura
in
cui
esse
“costituiscono un’infrastruttura organizzativa concreta per la realizzazione del
sogno di un’organizzazione che apprende".
E’ ovvio che le comunità di pratiche possono utilizzare differenti canali di
comunicazione.
Le tecnologie possono favorire il processo di scambio e di apprendimento. La
rete Internet contribuisce ad abbattere le distanze geografiche tra gli individui
ed è proprio attraverso di essa che trovano terreno fertile tali ambienti virtuali
organizzati; si tratta di vere e proprie comunità di pratiche online.
Le comunità virtuali, in particolare, sono diventate oggetto di notevole
attenzione da parte di organizzazioni e istituzioni, interessate alla possibilità di
definire criteri di design e controllo delle innovative modalità di condivisione e
collaborazione che esse sembrano promuovere.
Secondo
Wenger,
in
particolare,
ci
sono
tre
caratteristiche
che
contraddistinguono una comunità di pratica:
1) The domain: una comunità di pratica non è soltanto un gruppo di amici o
una rete di connessioni ma presenta una sua identità costituita da un campo di
interesse comune al cui interno vengono tenuti in gran considerazione la
competenza collettiva e l’apprendimento tra pari.
2) The community: nel perseguire gli interessi condivisi (The domain), i
membri della COP si impegnano in attività partecipate e discussioni, si aiutano
l’un l’altro e si mettono a disposizione informazioni. Si costruiscono relazioni
che permettono l’apprendimento condiviso.
3) The practice: una comunità di pratica non è una semplice comunità di
persone con un interesse comune. I membri di una comunità di pratica sono
professionisti ed esperti che sviluppano un repertorio comune di risorse:
esperienze, storie, strumenti, modalità per risolvere problematiche ricorrenti,
buone pratiche. Ciò, però, richiede tempo e chiede anche un’interazione
sostenuta.
Wenger sostiene, inoltre, che l’apprendimento risulta dall’interazione tra
esperienza e competenza e che la correlazione tra queste due dinamiche sia il
motore che alimenta la crescita di una comunità.
La comunità ci porta al concetto di identità. All’interno di un gruppo rafforzo la
mia identità attraverso due momenti: l’acquisizione di conoscenza e l’utilizzo di
questa nella mia pratica quotidiana. Una serie di esperienze vissute all’interno
di
un
contesto
specifico
acquistano
senso
per
il
soggetto
in
quanto
appartenente a quella comunità.
La comunità rafforza l’identità dei suoi membri accettandone le esperienze
pregresse e valorizzandole all’interno del sapere della stessa. Inoltre, i membri
partecipano e consolidano le relazioni interne mirando a una dimensione
futura.
Le COP condividono una cultura, hanno un proprio linguaggio, un vocabolario e
un modo di esprimersi che si crea con il passare del tempo. Il loro forte senso
di coesione si sedimenta e rafforza grazie ad una stessa modalità di
interpretazione degli eventi che si presentano.
Le
COP
si
basano
sull'assunto
che
l'apprendimento
è
un
processo
intrinsecamente sociale e non esclusivamente individuale: ciascuno possiede
un bagaglio di esperienze, più o meno consapevole, che può essere messo in
condivisione
via
via
che
la
collaborazione
tra
i
membri
procede.
L'apprendimento è inoltre "situato" (Lave, 1990; Brown and Collins, 1989) non
rispetto ad uno spazio tempo, quanto in una "pratica", intesa come "prassi"
lavorativa.
Con il termine "pratica" si indica sia l'effettivo realizzarsi dell'attività lavorativa
sia la metaconoscenza che rende quest'ultima possibile. Apprendere una
pratica significa essere in grado di svolgere una attività con abilità e
competenze che permettono di agire in modo veloce e allo stesso tempo
efficiente.
La pratica è il nucleo centrale delle comunità di pratica. In altre parole il valore
reale delle comunità di pratica, il loro patrimonio condiviso, è proprio il loro
bagaglio di expertise, la loro conoscenza acquisita sul campo.
Questa conoscenza è fatta di aspetti taciti, cioè non sempre consapevoli ed
espressi con chiarezza. Non è quindi facilmente formalizzabile né trasferibile
attraverso procedure di formazione tradizionali. Per permettere che vi sia un
reale apprendimento occorre che questa expertise sia interiorizzata attraverso
un processo di socializzazione.
La conoscenza soggettiva richiede la partecipazione attiva del soggetto a un
contesto sociale nel quale è l’interazione con persone esperte che produce
apprendimento.
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