MODELLO INTEGRATO DI E-LEARNING Nel modello pedagogico e organizzativo, definito a livello internazionale come e-learning, si possono integrare le due metodologie della CMC (Computer Mediated Communication) e della WBI (Web-Based Instruction) o WBL (WebBased Learning). La prima (CMC) è fondata sulle pratiche didattiche cooperative del CSCL (Computer Supported Cooperative Learning) caratterizzanti le “ comunità di apprendimento” trasferite in rete e sulle pratiche collaborativen del CSCW (Computer Supported Collaborative Work) proprie delle “comunità di lavoro” virtuali. La seconda (WBI) è fondata sullo studio individuale e assistito da tutor di materiali didattici (scritti, audiovisivi, multimediali) distribuiti on line, anche nella forma dei Learning Object (LO), e sul reperimento semantico delle informazioni (Information Retrieval, IR) in rete, attraverso ricerca guidata o libera delle risorse remote di Internet. La metodologia CMC conduce a sperimentare in rete forme innovative di ricerca-azione metodologia per WBL modificare favorisce le la organizzazioni gestione della sociali, così conoscenza come la (Knowledge Management, KM) posseduta e sviluppata dagli individui e dall’organizzazione. Le relazioni che si instaurano tra le specifiche aree della CMC e del WBI producono sinergie per costruire conoscenze, abilità, competenze. Il modello integrato di e-learning che stiamo delineando si qualifica attraverso la sintesi di due punti di vista quasi sempre separati: quello tecnologicocomunicativo e quello pedagogico-didattico. L’ambiente formativo tecnologico è qualificato dal valore strategico dell’ interattività, in cui trovano la loro piena esplicazione sia il criterio metodologico-didattico ( valore crescente dalle metodologie espositive alle metodologie attive ) sia il criterio psico-pedagogico ( valore crescente dalle interazioni direttive a quelle stimolanti l’autonomia nella ricerca delle informazioni, la flessibilità cognitiva, l’apprendimento collaborativo ). Richiamando la nostra rappresentazione tridimensionale dell’ambiente formativo tecnologico, nell’e-learning viene potenziato il terzo asse dello spazio, quello delle strategie interattive, cioè della distribuzione tassonomica delle funzionalità didattiche messe a disposizione degli allievi e da questi ultimi attivabili nel rapporto comunicativo. Il percorso di scelta delle strategie va a determinare l’intensità sia dell’iniziativa personale nei processi di apprendimento sia del rapporto di comunicazioneinterazione insegnante-allievi-macchina. Analizzando criticamente le metodologie espositivo-verbali e quelle empiricoinferenziali ai fini di delineare il ruolo dei media è stato rilevato, facendo riferimento anche a studi sulla comunicazione, che pur muovendosi la teoria dell’istruzione entro un modello dualistico, la pratica didattica presentava un modello triadico di modalità (affermativo-descrittive, interrogativo-attive, imperativo-fattuali) tendente a trovare sintesi “ in un unico reale modo di comunicare, quello retorico-persuasivo” secondo la definizione di Eco, così come avviene nella comunicazione interpersonale quotidiana. Ora, l’introduzione di tecnologie audiovisive, informatiche e telematiche nella comunicazione didattica va soltanto a supportare strategie espositive o attive che rimangono inalterate o invece a ridefinire il modello, a causa dell’innovazione interna ed esterna alle singole strategie, cioè nei processi di integrazione fra di esse? Innanzitutto nelle strategie di tipo espositivo la presentazione dell’informazione, e quindi le modalità di un “apprendimento significativo per assimilazione”, dipendono da due variabili determinate dalla tecnologia: quella mediologica ( diversità di canali ) e quella linguistica ( diversità degli stili di interazione fra testo e utente ). Facendo funzionare ambedue le variabili è possibile ottenere diverse tipologie di esposizione (deduttivo-presentativa, induttivo-problematica, deduttivo- imitativa) e quindi implicare diversamente i processi di percezione, di comprensione e di memorizzazione. Così nelle strategie di tipo attivo, o che adottano il metodo della scoperta utilizzando soprattutto mappe concettuali e materiali didattici grafico-visivi come “organizzatori anticipati”, le variabili tecnologiche introdotte dal computer e dal video permettono progressivamente di: 1. programmare l’informazione ma anche la verifica fondandosi su un allievo-tipo ( istruzione programmata ); 2. programmare flessibilmente l’informazione e la verifica relazionandosi alla specifica individualità dell’allievo ( sistemi CAI, Computer Aided Instruction, e CAL, Computer Aided Learning, ripensati nella logica nuova dell’ICAI, Intelligent Computer Aided Instruction ); 3. organizzare la scoperta guidando l’allievo alla soluzione di problemi ( problem solving con video e/o computer e ricerca in rete ); 4. simulare fenomeni usando e sviluppando modelli di esplorazione e di interpretazione libera ( software e lavagne condivise in rete o laboratori realivirtuali ). Un primo salto di qualità nella progressività delle strategie didattiche si realizza allorchè nei processi di apprendimento (per ricezione e per scoperta) l’allievo viene messo in condizione di scegliere e di controllare le procedure medesime con le quali sta imparando. Alla fine degli anni Ottanta il videodisco gestito come periferica di un personal computer permetteva tecnologicamente questa possibilità, oggi diventata familiare con il Cd-Rom ipermediale e ancor più con il DVD e soprattutto con i materiali informativi e le risorse Web-based. In altri termini l’allievo è in grado di scegliere le procedure e di personalizzare percorsi e controlli del proprio apprendimento, agendo proprio sull’interattività e flessibilità del rapporto comunicativo. L’utente, quindi, navigando nell’ipertesto e mettendo in relazione i vari nodi concettuali, non solo sviluppa quella flessibilità cognitiva che Spiro, adottando un approccio psico-tecnologico, definisce come “l’abilità di ristrutturare spontaneamente le proprie conoscenze in molti modi”, ma attiva anche un pensiero critico in quanto, a seconda dei percorsi logici che intraprende, impara a vedere come varie cause influiscono su un singolo fenomeno e a valutare poi la loro importanza relativa. Inoltre, i link dell’ipertesto rappresentando i processi cognitivi che l’utente attiva per associare i nodi concettuali della rete, nel momento in cui il soggetto riflette sulla natura associativa di tali legami, sviluppa allo stesso tempo abilità cognitive e metacognitive che lo metteranno in grado di gestire in modo autoregolativo l’acquisizione significativa e stabile della conoscenza e quindi di imparare a imparare. L’ipermedia non solo permette un’acquisizione dei concetti a partire dalle relazioni che intercorrono tra di essi, ma utilizzando molteplici sistemi simbolici (suoni, grafica, immagine statica e in movimento), aumenta l’efficacia dell’immagine con il coinvolgimento plurisensoriale e promuovendo il pensiero intuitivo, analogico, ramificato, pluriprospettico, concreto, a causa del suo ricongiungimento con l’azione. Un secondo salto di qualità nella progressività delle strategie didattiche si realizza allorchè l’apprendimento “per esperienza” abbandona le componenti vicariali e simulate di quest’ultima (ad esempio, nella pratica scolastica al predominio della diade esposizione verbale/ricezione si affianca, nel migliore dei casi, il cosiddetto “esperimento dimostrativo” di laboratorio) per farsi apprendimento “per esperienza diretta”, non nel senso di rifiutare gli strumenti tecnologici, ma anzi usando tutti i media che trattano a fini interpretativi la realtà in quanto “narrazione”, cioè costruzione intenzionale, conversazionale e contestualizzata di conoscenza (authoring multi-ipermediale, computer- conferencing, e-mail e newsgroup ecc.). La centralità dell’interazione si sposta dalle tecnologie off line a quelle on line: Internet diventa così il driver della nuova didattica. La Comunicazione Mediata dal Computer In questo ambito il medium per eccellenza rimane il computer, come strumento dell’interazione ovvero interfaccia comunicativa, come sta avvenendo nella Comunicazione Mediata dal Computer (CMC). Questa sostanziale trasformazione del computer nelle sue principali funzioni si è rivelata tecnicamente possibile grazie alla telematica che, attraverso la fusione tra l’informatica e le telecomunicazioni, ha portato alla nascita di sistemi di elaborazione, noti come reti di computer autonomi interconnessi: Internet si può considerare “la madre di tutte le reti”. I processi di CMC avvengono sempre in uno spazio virtuale di interazione, ossia in un “cyberspazio”, che può essere paragonato metaforicamente a un “non luogo”, in quanto non è legato a vincoli spazio-temporali. In esso gli interlocutori hanno modo di sperimentare la “telepresenza”, nella quale il rapporto di interazione con il proprio interlocutore è reale, mentre risulta virtuale, cioè simulata, la presenza fisica di quest’ultimo. Dalle ricerche sulle caratteristiche principali dei nuovi ambienti tecnologici di comunicazione emerge la possibilità di identificare due modalità distinte di CMC: quella sincrona (quando la comunicazione avviene contemporaneamente tra due o più attori) e quella asincrona (quando la comunicazione avviene in tempo differito). E-mail, newsgroup, chat rappresentano soltanto alcune delle forme più comuni di CMC presenti nel panorama dei nuovi ambienti tecnologici di comunicazione, e sono comunque accomunate da una serie di caratteristiche che le rendono molto diverse dalle normali conversazioni faccia a faccia. La CMC, infatti, presenta delle limitazioni, come La mancanza degli aspetti di metacomunicazione (mimica facciale, postura, tono della voce), tipici dei processi conversazionali in presenza, che determinano una rarefazione del processo interattivo. Nella maggior parte della CMC, infatti, mancano due caratteristiche che sono proprie della comunicazione faccia a faccia e che risultano in grado di garantire l’efficacia del processo interattivo, come chiarisce Mantovani: 1. “l’impegno a collaborare tra i partecipanti e la cooperazione nel corso della formulazione del messaggio; 2. elementi di feed-back che consentano un’elaborazione immediata del messaggio a livello di significato sociale”. Ne deriva che nella CMC il processo cooperativo, essendo mediato dal computer, avviene in modo asimmetrico, in quanto il soggetto emittente non è garantito dall’effettiva ricezione del proprio messaggio da parte del soggetto ricevente, e quest’ultimo può decidere in ogni momento se continuare o meno l’interazione, trasformandosi a sua volta in emittente. La decisione sull’opportunità di continuare l’interazione non è mai casuale, in quanto è strettamente dell’interazione attribuisce legata alla al significato situazione che comunicativa ciascun che si soggetto trova a sperimentare e di conseguenza agli scopi e al contesto sociale d’appartenenza, con i relativi valori. Punti di riferimento, orizzonti di senso ecc. La CMC, infatti, secondo Mantovani, non avviene come affermano Sproull e Kiesler in una specie di vuoto sociale, dovuto all’assenza di segnali sociali che consentano ai soggetti di attribuire un qualche significato condiviso alla loro relazione interpersonale, perché il rapporto di ciascun soggetto con il contesto e il gruppo di riferimento non può essere ridotto a una pura compresenza degli interlocutori, ma deve essere concepito in termini socio-cognitivi. L’autore, nel muovere questa critica, trae motivazione dagli studi nell’ambito delle teorie dell’identità sociale e della categorizzazione del Sé, facenti capo a Turner, in base ai quali ciascun soggetto “è caratterizzato da diversi Sé (selfcategories), comprendenti identità personali e identità sociali che emergono in base al contesto sociale in cui sono inseriti”, e che hanno un ruolo fondamentale nella creazione del contesto medesimo, influenzando così il comportamento del soggetto. Quindi la CMC, caratterizzata da un’interazione tra i soggetti in telepresenza, affinchè si possa costituire come processo comunicativo e ancor più formativo e non semplice scambio di informazioni, è necessario che avvenga in una rete di significati condivisi, entro la quale i partecipanti possano dare avvio a processi di negoziazione , al fine di ridurre le differenze tra le proprie cornici di riferimento e costruire un contesto culturale comune. Se la CMC non è in grado di fornire agli utenti un significato condiviso, questi dovranno fare ricorso alle norme sociali del loro ambiente di riferimento e nel contempo a stereotipi e a simboli sociali condivisi (di potere, di status, di autorità), creando così incomprensioni e svuotando di significato la comunicazione. Se dunque la costruzione di “competenze” avviene allorchè l’allievo direttamente agisce, confrontandosi con gli eventi, in quanto nuovi “mondi di comunicazione”, prodotti assieme agli altri, un sistema integrato e multimediale di pratiche collaborative e cooperative in Internet diventa l’ambiente a più alto rischio di apprendimento, anche perché il progettare/agire implica la costruzione di nuove connessioni entro la trama delle reti, allo stesso tempo tecnologiche, cognitive, sociali. IL LAVORO COLLABORATIVO IN RETE La creazione degli ambienti CSCL e CSCW costituisce una risposta alla suddetta sfida: essi sono nuovi ambienti tecnologici di comunicazione che intendono promuovere attività di reale cooperazione a distanza, lavorando sui processi di negoziazione tra gli attori, in modo da consentire a questi ultimi di costituirsi come comunità virtuali di pratiche. Per il conseguimento dei suddetti fini questi ambienti, secondo Mantovani, devono presentare le seguenti caratteristiche: 1. “ogni modello di cooperazione di un sistema CSCW (Computer Supported Collaborative Work) deve consentire agli attori di sviluppare significati condivisi” e quindi di poter costantemente attivare processi di negoziazione verso la costruzione di un orizzonte di senso comune entro il quale collocare gli obiettivi che andranno a orientare l’azione; 2. “ogni modello di cooperazione di un sistema CSCW è strettamente legato all’area di applicazione per cui il sistema è sviluppato”. Ciò significa che il modello di cooperazione adottato in un sistema CSCW deve essere coerente sia con il contesto entro il quale è inserito il sistema in esame, sia rispetto agli scopi degli attori che operano nel contesto medesimo; 3. “ogni modello di cooperazione condiziona a sua volta il contesto dell’interazione”. Le tecnologie, infatti, sono artefatti culturali che mediano le nostre interazioni cognitive con il mondo circostante: la loro presenza e il loro uso nei contesti non è neutra, in quanto determina la creazione di nuove pratiche lavorative e comunicative. Ne deriva che i sistemi CSCW, introducendo le nuove tecnologie nell’attività cooperativa, alterano i processi d’interazione. Ciò significa che gli ambienti CSCL (Computer Supported Cooperative Learning) e CSCW (Computer Supported Collaborative Work) devono aiutare gli utenti a dare un senso agli artefatti che li compongono, considerandoli all’interno dei contesti sociali di loro utilizzo, per riuscire a usarli in modo appropriato. È proprio nel momento in cui l’allievo esercita le proprie abilità che ha bisogno di interazione nella forma di feed-back per risolvere le difficoltà del problema concreto. Nell’istruzione formale, infatti, gran parte del contenuto, pur elaborato e integrato, diventa irrimediabilmente perduto quando non può essere utilizzato direttamente. La grande chance dell’e-learning è quella di proporsi come “just-in-time”: un apprendimento “on demand” e non “in store”, tipico dell’istruzione curricolare, dove spesso è problematico il recupero semantico delle informazioni, perché non si osa più chiedere ciò che si dovrebbe già sapere, ma che si è dimenticato. Oltretutto la ricerca educativa sperimentale sembra confermare, secondo Berge, che “la conoscenza e le abilità acquisite immediatamente prima della loro richiesta, possono ridurre il bisogno di un successivo insegnamento”. Da quanto detto risulta con chiarezza che la rete si costituisce come sistema di comunicazione in grado di offrire ai suoi utenti gli strumenti per “coordinare le loro interazioni nello stesso universo virtuale di conoscenza”, infatti, la facilità di connessione, la possibilità di elaborare e trasmettere l’informazione in tempo reale indipendentemente dalle distanze fisiche sono le sue principali caratteristiche. Per approfondire questo concetto, risulta prezioso il pensiero di Lévy. Questo studioso, occupandosi del rapporto tecnologie-cognizione, attraverso una visione costruttivista della conoscenza, ritiene infatti che con l’avvento della rete la fruizione delle tecnologie ipertestuali non avviene più a livello individuale, bensì determina la creazione di “apparati collettivi dell’intelligenza” permettendo agli utenti di operare un “coordinamento in tempo reale delle intelligenze”. Attraverso l’impiego dei numerosi strumenti di CMC, gli utenti possono interagire tra di loro attraverso un continuo scambio reciproco di flussi comunicativi, in grado di attivare un ininterrotto processo di “interpretazione collettiva” del contesto d’interazione e una costante ridefinizione della situazione che si trovano a co-gestire. Per Lévy, l’ipertesto e la sua rete di associazioni può fungere da eloquente metafora esplicativa di tale attività interpretativa, ovvero da modello rappresentativo di una “teoria ermeneutica della comunicazione”. Ogni attore durante la comunicazione, infatti, produce continui universi di senso intorno a ciascun messaggio, in grado di attivare reti di significazione, paragonabili a un ipertesto che cattura ogni messaggio all’interno di una specifica “rete di relazioni”. La condivisione collettiva di senso, verso la costruzione di “un’intelligenza collettiva”, avviene quando i membri della comunità di pratiche mettono in comune non solo i testi (messaggi) ma le “reti di associazioni” (“reti di senso”) in cui essi sono reciprocamente presi. Continuando nella metafora, mettere le scuole in rete, con i loro attori, insegnanti e allievi, dirigenti e genitori, ma anche con i loro valori e processi di insegnamento e apprendimento, con i loro contenuti culturali e coinvolgimenti sociali, vuol dire creare “reti di senso” che definiscono le vere dinamiche dell’educazione e della formazione del nostro paese. L’ “intelligenza collettiva” della scuola italiana, supportata da molteplici strutture e interfacce telematiche ipertestuali, potrebbe diventare così “un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale”, e potrebbe portare “ad una mobilitazione effettiva delle competenze” per l’innovazione e il cambiamento dal basso del sistema formativo. Nella rete si gioca alla pari, non vi sono centri e gerarchie predeterminate: l’autorevolezza delle proposte deriva dal riconoscimento comune delle “buone pratiche” e il miglioramento della qualità dalla loro connessione sistemica. LE COMUNITA’ DI PRATICA E DI APPRENDIMENTO “Le comunità di pratica e di apprendimento sono gruppi sociali che hanno come obiettivo il generare conoscenza organizzata a cui ogni individuo può avere libero accesso”. In tali comunità gli individui, organizzati come in delle vere e proprie tribù mirano a un apprendimento continuo e condividono il proprio know how, contribuendo alla crescita della conoscenza del gruppo. Le comunità di pratica (o "Communities of practice", la cui sigla è COP) in particolare sono formate da gruppi di persone che svolgono una qualsiasi attività affine ed interagiscono tra loro in modo informale. La forte coesione e lo spirito di gruppo sono il filo rosso che tiene assieme queste aggregazioni sociali. Per tale ragione le comunità possono nascere e svilupparsi spontaneamente in qualunque organizzazione, attraverso un processo di socializzazione finalizzato alla condivisione delle esperienze quotidiane e delle pratiche lavorative. Le comunità nascono intorno a problemi e interessi condivisi, si alimentano di contributi reciproci e durano fintanto che ci sono gli interessi comuni e sono tenute in vita proprio perché libere da qualsiasi presupposto gerarchico. Spesso le comunità non sono pienamente riconosciute proprio per il fatto di non essere istituzionalizzate: l'adesione volontaristica su cui si basano le rende "sfuggenti" ad un controllo formale. La finalità delle COP è il miglioramento collettivo basato su un metodo costruttivista che punta ad una conoscenza che si costruisce insieme e rappresenta un modo di vivere, lavorare e studiare. Le comunità di pratica rappresentano un utile modello per affrontare il problema della gestione della conoscenza nella misura in cui esse “costituiscono un’infrastruttura organizzativa concreta per la realizzazione del sogno di un’organizzazione che apprende". E’ ovvio che le comunità di pratiche possono utilizzare differenti canali di comunicazione. Le tecnologie possono favorire il processo di scambio e di apprendimento. La rete Internet contribuisce ad abbattere le distanze geografiche tra gli individui ed è proprio attraverso di essa che trovano terreno fertile tali ambienti virtuali organizzati; si tratta di vere e proprie comunità di pratiche online. Le comunità virtuali, in particolare, sono diventate oggetto di notevole attenzione da parte di organizzazioni e istituzioni, interessate alla possibilità di definire criteri di design e controllo delle innovative modalità di condivisione e collaborazione che esse sembrano promuovere. Secondo Wenger, in particolare, ci sono tre caratteristiche che contraddistinguono una comunità di pratica: 1) The domain: una comunità di pratica non è soltanto un gruppo di amici o una rete di connessioni ma presenta una sua identità costituita da un campo di interesse comune al cui interno vengono tenuti in gran considerazione la competenza collettiva e l’apprendimento tra pari. 2) The community: nel perseguire gli interessi condivisi (The domain), i membri della COP si impegnano in attività partecipate e discussioni, si aiutano l’un l’altro e si mettono a disposizione informazioni. Si costruiscono relazioni che permettono l’apprendimento condiviso. 3) The practice: una comunità di pratica non è una semplice comunità di persone con un interesse comune. I membri di una comunità di pratica sono professionisti ed esperti che sviluppano un repertorio comune di risorse: esperienze, storie, strumenti, modalità per risolvere problematiche ricorrenti, buone pratiche. Ciò, però, richiede tempo e chiede anche un’interazione sostenuta. Wenger sostiene, inoltre, che l’apprendimento risulta dall’interazione tra esperienza e competenza e che la correlazione tra queste due dinamiche sia il motore che alimenta la crescita di una comunità. La comunità ci porta al concetto di identità. All’interno di un gruppo rafforzo la mia identità attraverso due momenti: l’acquisizione di conoscenza e l’utilizzo di questa nella mia pratica quotidiana. Una serie di esperienze vissute all’interno di un contesto specifico acquistano senso per il soggetto in quanto appartenente a quella comunità. La comunità rafforza l’identità dei suoi membri accettandone le esperienze pregresse e valorizzandole all’interno del sapere della stessa. Inoltre, i membri partecipano e consolidano le relazioni interne mirando a una dimensione futura. Le COP condividono una cultura, hanno un proprio linguaggio, un vocabolario e un modo di esprimersi che si crea con il passare del tempo. Il loro forte senso di coesione si sedimenta e rafforza grazie ad una stessa modalità di interpretazione degli eventi che si presentano. Le COP si basano sull'assunto che l'apprendimento è un processo intrinsecamente sociale e non esclusivamente individuale: ciascuno possiede un bagaglio di esperienze, più o meno consapevole, che può essere messo in condivisione via via che la collaborazione tra i membri procede. L'apprendimento è inoltre "situato" (Lave, 1990; Brown and Collins, 1989) non rispetto ad uno spazio tempo, quanto in una "pratica", intesa come "prassi" lavorativa. Con il termine "pratica" si indica sia l'effettivo realizzarsi dell'attività lavorativa sia la metaconoscenza che rende quest'ultima possibile. Apprendere una pratica significa essere in grado di svolgere una attività con abilità e competenze che permettono di agire in modo veloce e allo stesso tempo efficiente. La pratica è il nucleo centrale delle comunità di pratica. In altre parole il valore reale delle comunità di pratica, il loro patrimonio condiviso, è proprio il loro bagaglio di expertise, la loro conoscenza acquisita sul campo. Questa conoscenza è fatta di aspetti taciti, cioè non sempre consapevoli ed espressi con chiarezza. Non è quindi facilmente formalizzabile né trasferibile attraverso procedure di formazione tradizionali. Per permettere che vi sia un reale apprendimento occorre che questa expertise sia interiorizzata attraverso un processo di socializzazione. La conoscenza soggettiva richiede la partecipazione attiva del soggetto a un contesto sociale nel quale è l’interazione con persone esperte che produce apprendimento.