Verso una neuroestetica della letteratura

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Università degli Studi di Verona
Dipartimento di Germanistica e Slavistica
Verso una neuroestetica
della letteratura
a cura di
Massimo Salgaro
Copyright © MMIX
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–2441–6
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: aprile 2009
Indice
9
Introduzione
Premesse
27
Israel Rosenfield
How the Brain Makes Sense of our Chaotic Sensory
Worlds by creating Colors, Forms and our Sense of
Ourselves
33
Francesco Ronzon
Mente/Corpo. Alcune riflessioni introduttive al dialogo
tra scienze umane e neuroscienze
La neuroestetica della letteratura
51
Gabriele Fedrigo
Cervello e poesia
71
Anatole Pierre Fuksas
Il Romanzo nel Corpo: una teoria ecologica della referenza narrativa
107
Anna Cappellotto
«Sotto la scrittura agisce il nervo». La poesia cerebrale
di Durs Grünbein
137
Massimo Salgaro
«L’opera letteraria si realizza nella coscienza del lettore». Estetica della ricezione, psicologia cognitiva e
neuroscienze
169
Indice dei nomi
Introduzione
Continuo il volo. Tutto va avanti perfettamente. Tutto va avanti perfettamente. L’assenza di gravità dà una sensazione interessante. Tutto nuota.
Nuota tutto quanto. Che bello! Interessante […] Vedo l’orizzonte terrestre.
Viene a galla. Ma di stelle in cielo non se ne vedono. Si vede la superficie
terrestre. Il cielo è nero. Sia sul bordo della Terra che sul bordo dell’orizzonte
c’è un’aureola bellissima che si scurisce mano a mano che ci si allontana
dalla Terra. Attenzione. Vedo l’orizzonte terrestre. Un’aureola proprio molto
bella. All’inizio un arcobaleno che va dalla superficie della Terra in giù.
Passa un arcobaleno così. È proprio bello! Vedo le stelle attraverso
l’illuminatore, vedo come passano le stelle. È uno spettacolo bellissimo. È
passata una stellina, se ne va, se ne va1.
Le righe appena lette sono estrapolate dalle comunicazioni che Jurij
Alekseevič Gagarin trasmise dalla navicella alla base terrestre durante
la sua orbita spaziale del 12 aprile 1961. Saltano all’occhio
l’entusiasmo e la felicità dell’astronauta russo che lo spingono alla ricerca di metafore variopinte per descrivere quello che gli balena sopra
la sua cloche. Il suo stupore per «l’aureola» attorno alla terra è giustificato anche dalla portata che quella percezione sensoriale ha avuto rispetto alla storia del pensiero umano: con un singolo colpo d’occhio
egli sgombera il campo dalle discussioni centenarie che hanno riguardato la sfericità terrestre e l’eliocentrismo: per primo egli ha visto
quello che altri uomini hanno teorizzato o contestato per millenni. Che
la terra fosse rotonda lo si sapeva già – avranno pensato, detto e scritto
1
Citazione tradotta gentilmente da Stefano Aloe e tratta dal sito
http://epizodsspace.testpilot.ru/bibl/i_tsk/zv-reis.html.
9
10
Introduzione
i soliti benpensanti – ma Gagarin ne ebbe in quel momento una certezza sensoriale.
In una situazione simile a Gagarin si trovano da qualche decennio i
neuroscienziati di fronte agli impressionanti scorci sul funzionamento
del cervello che permette il brain imaging. Le immagini che ne risultano ci consentono di vedere per la prima volta dal vivo il funzionamento del cervello: ciò fa sì che millenarie discussioni sulla mente
umana dialoghino fra loro, si smentiscano o si confermino e che, talvolta, se ne concepiscano di nuove. La coscienza, le emozioni, la memoria, che qui sono in gioco, sono argomenti tradizionali della filosofia che ora vengono considerati in chiave fisiologica. Come Gagarin,
anche noi profani delle neuroscienze, siamo stupefatti, sbalorditi, anche increduli di fronte a queste immagini nelle quali si riverbera una
parte anatomica in cui ci identifichiamo fortemente. Per circoscrivere
questa sensazione di infinito e di profondità che scaturisce
dall’incontro con la nostra mente si è parlato anche di «neuroromanticismo»; fino a non troppo tempo fa tali qualità erano attribuite
all’anima. Inoltre, non si deve dimenticare che la visibilità delle cose è
un fenomeno allo stesso tempo tranquillizzante ed inquietante della
«società dello spettacolo».
Tra le nuove tecniche del brain imaging che aiutano a scrutare il
cervello umano si distinguono due categorie: quelle che visualizzano
l’anatomia e la struttura del sistema nervoso centrale come la tomografia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica nucleare
(RMN) e quelle che palesano il funzionamento del cervello come
l’elettroencefalogramma (EEG) e la magnetoencefalografia (MEG).
Particolarmente efficace per questo secondo tipo di indagine si sono
rivelate la tomografia per emissione di positroni (PET) e la risonanza
magnetica funzionale (fMRI) che rilevano l’aumento di flusso sanguigno che segnala l’attività di aree neuronali. I laboratori cercano di integrare le diverse metodologie di visualizzazione in modo da ottenere
informazioni complementari riguardo alle strutture cerebrali.
Se con il nuovo millennio la «decade del cervello» si è conclusa, il
futuro delle neuroscienze è appena iniziato. Le neuroscienze puntano a
modificare l’idea dell’uomo ed è per questo che le scienze umane non
potranno sottrarsi dal cercare un dialogo con loro. La psicologia e la
filosofia lo stanno già facendo con stati d’animo alterni. Questo ambi-
Introduzione
11
to di discussione dai confini imprecisi ha assunto, a seconda dei referenti che coinvolge, nomi diversi, «neurofilosofia», «neuroetica»,
«neurofenomenologia» e «neuroestetica». Quest’ultima è fautrice di
un’estetica che non intende esimersi dal prendere in esame le attività
corporee e sensoriali sollecitate dalla dimensione artistica sia sul versante della produzione che su quello della fruizione.
Il maggior promotore di questo dialogo interdisciplinare è Semir
Zeki, un neuroscienziato che nel 2001 ha fondato a Londra l’istituto
inglese di Neuroestetica. Nel suo La visione dall’interno. Arte e cervello2 egli afferma che i pittori sono neurologi atipici i quali sfidano
con le loro opere le potenzialità del cervello visivo che ha il compito
di acquisire nuove conoscenze da mettere a disposizione
dell’organismo. Secondo lui le arti visive sono sottoposte alle stesse
leggi che regolano le attività quotidiane della vista3.
Sia Semir Zeki che Lamberto Maffei, il padre della neuroestetica
italiana4, sono presenti nella miscellanea curata da Giovanni Lucignani e Andrea Pinotti dal titolo Le immagini della mente. Neuroscienze,
arte, filosofia5 nel cui solco voglio collocare il presente volume. Come
2
S. ZEKI, La visione dall’interno. Arte e cervello, Bollati Boringhieri, Torino
2003.
3
Sulla falsariga di Semir Zeki, a cui riconosce di aver coniato il neologismo neuroestetica (44), si muove Vilayanur S. Ramachandran in Che cosa sappiamo della
mente. Gli ultimi progressi delle neuroscienze raccontati dal massimo esperto mondiale, Mondadori, Milano 2004. Nel capitolo intitolato Il cervello artista egli sostiene che ci sono degli universali artistici e ne elenca dieci, fra i quali l’iperbole, la metafora, l’aggruppamento percettivo e l’isolamento modulare. Quest’ultimo è suffragato dall’economia della nostra mente che ci permette di apprezzare maggiormente
l’abbozzo di un quadro piuttosto che una foto. Esso sta alla base del piacere di intuire una forma. L’aggruppamento percettivo è quel principio che ci permette di riconoscere un dalmata in un’accozzaglia di macchie bianche e nere. Ramachandran non
nega il fattore culturale dell’arte, afferma infatti: «Il 90% imputabile alla cultura
viene studiato dalla maggior parte della gente ed è ciò che di solito prende il nome di
storia dell’arte. Come scienziato, però, io sono interessato non già alle infinite variazioni indotte dalle singole culture, bensì dal 10% universale» (44).
4
Mentre scrivo questa introduzione viene annunciata una nuova edizione di Arte
e cervello (1995) di Lamberto Maffei e Adriana Fiorentini con cui la neuroestetica
italiana prende avvio. Cfr. “Il Sole 24 ore”, 24 agosto 2008, p. 36.
5
Le immagini della mente. Neuroscienze, arte, filosofia, a cura di G. Lucignani,
A. Pinotti, Cortina, Milano 2007, pp. 165-189.
Introduzione
12
faremo nelle prossime pagine, essi riprendono, rinnovandole, antiche e
fondamentali domande dell’estetica quali:
Che cosa succede quando facciamo esperienza dell’opera d’arte come
fruitori? E come produttori? Che cosa accade in noi quando incontriamo
quella particolare classe di oggetti che sono le opere d’arte, nel nostro accog6
lierle e nel nostro crearle ?
Quale avamposto di un’area di ricerca in fieri la miscellanea di Lucignani e Pinotti si concentra, perlomeno sul versante delle humanities, su questioni più concettuali e più filosofiche, spianando la strada
a chi, come noi, vorrà intraprendere un cammino nella medesima direzione. Il nostro intento è proprio quello di colmare una lacuna, allargando il campo della neuroestetica agli studi letterari che finora sono
stati trascurati, qualcuno penserà: risparmiati. Gran parte degli studi
neuroestetici si è concentrata sulle arti figurative e sulla musica, forse
perché sono forme artistiche meno concettuali e più direttamente collegate al dato sensoriale. Le scoperte neuroscientifiche non hanno però
lasciato indifferente la letteratura: alcuni scrittori7 – come per esempio
Oswald Wiener e Durs Grünbein in ambito germanofono – hanno recepito questo mutamento dei paradigmi antropologici. Indagando e
descrivendo la mente umana diversi scrittori hanno anticipato alcune
scoperte delle moderne neuroscienze8. D’altro canto anche alcuni esperti di neuroscienze, quali Dan Lloyd (Radiant Cool) e Israel Rosenfield (Freud’s Megalomania), hanno scritto opere di finzione. In modo
crescente la «società letteraria» si chiede se questa aggiornata conce6
Ivi, p. XVIII.
Valeria Gennero mostra efficacemente come il dibattito su coscienza, mente e
cervello rappresenti uno dei temi principali di alcuni autori di spicco della narrativa
anglo-americana contemporanea quali Richard Powers, Tom Wolfe, David Lodge,
Jonathan Franzen e Jeffrey Eugenidis; cfr. V. GENNERO, L’eco dell’anima che
scompare. Coscienza e identità nella narrativa anglo-americana contemporanea, in
Psicologia e identità, a cura di P. Barbetta, M. Corona, Bergamo University Press,
Bergamo 2005.
8
In Proust era un neuroscienziato (Codice Edizioni, Torino 2008) Jonah Lehrer
osserva come alcuni scrittori (Marcel Proust, T.S. Eliot, Walt Whitman, Virginia
Woolf e Gertrude Stein) e artisti abbiano formulato delle intuizioni sulla mente che
sono state confermate dalle attuali neuroscienze.
7
Introduzione
13
zione della mente ha cambiato la nostra idea della letteratura e come si
inseriscano la creatività letteraria e la lettura all’interno delle nostre attività mentali.
Se si volesse fare l’inventario delle più importanti pubblicazioni
concernenti la neuroestetica in campo letterario, l’elenco sarebbe breve9; tra gli autori spiccherebbe il nome di Mark Turner che con The
Literary Mind: The Origins of Thought and Language10 (1996) fece il
primo passo verso una neuroestetica letteraria. Lì mostrò come la
«mente letteraria» sia alla base di una serie importante di operazioni
intellettuali che caratterizzano la nostra vita quotidiana e che ci permettono di spiegare, predire e pianificare le nostre esistenze11. Il nostro sapere è articolato in storie che noi abbiamo la possibilità di intrecciare attraverso un meccanismo che Turner chiama «parabola». La
mente letteraria ci permette anche di integrare nei concetti informazioni difformi: il concetto «cavallo» include, ad esempio, nozioni
formali, cromatiche e di moto. Di recente, in The art of compression12,
9
Frederick Turner e Ernst Pöppel sono neuroesteti della letteratura ante litteram
quando nel 1983 (in The neural lyre. Poetic meter, the brain and time, «Poetry»,
vol. 135, 1983, pp. 277-309 riproposto con lievi variazioni in Metered Poetry, the
brain, and time, in Beauty and the brain. Biological Aspects, a cura di I. Rentschler,
B. Herzberger, D. Epstein, Birkhäuser Verlag, Basel-Boston-Berlin 1988, pp. 71-91)
discutono la funzione del metro, che è una caratteristica universale della poesia di
tutto il mondo e di tutti i tempi, all’interno delle nostre funzioni cerebrali. Il metro
risponde a precise esigenze della nostra mente: dà ordine alle informazioni, crea ripetizioni e una varietà controllata, collega e coinvolge l’emisfero destro e quello sinistro. Ma Frederick Turner sembra aver anticipato anche le attuali concezioni darwiniane dell’estetica quando scrive nel 1985: «one of the most interesting questions
in the contemporary study of aethetics concerns the biological basis and the evolutionary necessity of pleasure in general and aesthetic pleasure in particolar». F.
TURNER, Natural Classicism. Essays on Literature and science, Paragon House Publishers, New York 1985, p. 13.
10
M. TURNER, The literary mind, Oxford University Press, New York 1996.
11
Per una critica o una limitazione del concetto di mente letteraria si veda R.
SHUSTERMAN, Æsthetics and literary mind. Some thoughts from a thought experiment, conferenza tenuta al Centre for British Studies di Berlino in occasione del
convegno, The literary mind, 10-13 aprile 2008.
12
M. TURNER, The art of compression, in The artful mind, Cognitive science and
the riddle of human creativity, a cura di M. Turner, Oxford University Press, Oxford
2006, pp. 93-115. Cfr. anche ID., The origin of selkies, «Journal of consciousness
studies», vol. 11, n. 5-6, 2004, pp. 90-115.
Introduzione
14
Turner si interroga, nella scia delle evolutionary aesthetics, sul ruolo
dell’arte nell’evoluzione della nostra specie e nella nostra adattabilità
all’ambiente. La principale caratteristica dell’essere umano che lo distingue dagli altri esseri viventi è la sua capacità di integrare concetti
che gli permette, ad esempio nelle forme artistiche, una conceptual
compression. L’arte stimola quella che lui chiama la «forbidden-fruit
integration» la quale ci dà la possibilità di combinare, tenendole separate, cose diverse e che nella realtà sono inconciliabili o distanti fra loro.
Kay Young e Jeffrey Saver forniscono un altro tassello allo spaccato sulla neuroestetica letteraria che stiamo descrivendo13 scandagliando la «neurologia della narrazione» per cercare di spiegare la centralità della narrazione nella cognizione umana e nel fondamento della
propria soggettività. Essi si chiedono principalmente: «why does the
“I” tell his or her self as a story?»14. Per i due ricercatori la narrazione
è localizzata in una precisa rete neurale: «the amygdalo-hippocampal
system, where episodic and autobiographic memories are initially arranged; 2) the left peri-Sylvian region were language is formulated;
and 3) the frontal cortices and their subcortical connections, where individual entities and events are organized into real and fictional (imagined) temporal narrative frames»15. I due autori presentano anche dei
casi di «dysnarrativia» nei quali dei soggetti, a causa di patologie cerebrali, perdono la capacità di poggiare il loro sé su una narrazione organica.
In Poetry as right-hemispheric language16 Julie Kane smonta la
concezione tradizionale riferita al linguaggio secondo cui l’emisfero
sinistro ne sarebbe l’unico responsabile. Questa concezione è negata
dalla circostanza che l’emisfero destro controlla una serie di funzioni
che l’autrice definisce poetiche o letterarie. Durante la lettura di testi
di saggistica sarebbe più attivo l’emisfero sinistro mentre nella lettura
di testi letterari il suo opposto. La Kane cita studi sui danni
13
K. YOUNG, J.L. SAVER, The neurology of narrative, «SubStance», vol. 30, n.12, 2001, pp. 72-84.
14
Ivi, p. 73.
15
Ivi, p. 75.
16
J. KANE, Poetry as right-hemispheric language, «Journal of consciousness
Studies», vol. 11, n. 5-6, 2004, pp. 21-59.
Introduzione
15
all’emisfero destro che non permettono di comprendere il linguaggio
metaforico o altre figure retoriche quali metonimia, allusione, personificazione, ironia e onomatopea. Patologie all’emisfero destro non consentono altresì di costruire una storia. Secondo l’autrice l’emisfero sinistro controllerebbe la dimensione denotativa del testo, quello destro
le connotazioni. L’emisfero destro è predominante anche nelle culture
primitive e nelle culture orali, nei bambini e negli analfabeti – siamo
forse di fronte ad una spiegazione neuroscientifica del «poetica del
fanciullino» di Pascoli? La Kane spiega l’alta occorrenza di malattie
mentali negli scrittori proprio attraverso questa predominanza del lato
destro.
Raymond Mar17 elenca gli studi neuroscientifici che hanno analizzato le facoltà impegnate nel rapporto con i testi letterari, integrandoli
alle ricerche della psicologia cognitiva. Afferma – siamo già nel 2004
– che «the body of brain research specifically devoted to narrative is
relatively young and by no means extensive. There exists, nevertheless, enough research within the neuropsychology of narrative to construct an interesting, preliminary portrait of this fundamental human
process»18. Per Mar la produzione e la comprensione di narrazioni sono una parte importante della nostra esperienza che si differenzia dal
nostro rapporto con i testi di saggistica anche in base alle operazioni
intellettuali che implica. Sebbene la narrazione, come la saggistica,
contenga una serie di eventi legati da nessi logico-causali, solo la prima contempla esperienze in prima persona: leggere testi finzionali
impone di assumere la prospettiva dei personaggi per capire le loro intenzioni. Mar cita degli studi che hanno localizzato la nostra attività
neuronale durante l’attribuzione di stati mentali a personaggi19 e offre
17
R.A. MAR, The neuropsychology of narrative: Story comprehension, story
production and their interrelation, «Neuropsicologia», vol. 42, 2004, pp. 14141434.
18
Ivi, p. 1415.
19
Ivi, pp. 1418-1419. Mar cita Fletcher ed altri (P.C. FLETCHER, F. HAPPÉ, U.
FRITH, S.C. BAKER, R.J. DOLAN, R.S.J. FRACKOWIAK, C.D. FRITH, Other minds in
the brain: a functional imaging study of “theory of mind” in story comprehension,
«Cognition», vol. 57, n. 2, 1995, pp. 109-128) i quali hanno dimostrato che durante
la lettura di storie che prevedono la comprensione delle intenzioni dei personaggi (le
cosiddette «theory of mind stories») si attiva una zona specifica del cervello, «la
Brodman’s area 8».
Introduzione
16
un’ottima ed esaustiva rassegna sulla mappa neurale attiva durante la
produzione ed elaborazione di testi narrativi di cui vogliamo segnalare
solo un esempio: gli studi neurologici evidenziano che il livello sintattico e il livello narrativo delle frasi non coinvolgono le stesse aree. Pazienti con danni nell’area di Broca hanno problemi a ordinare parole
in frasi, ma non a comprendere strutture narrative, l’opposto di quanto
avviene in pazienti con danni all’area prefrontale20. Mar propone di effettuare studi contrastivi sull’attività neuronale durante la lettura di testi di finzione e di saggistica21 auspicando, in ogni caso, la collaborazione fra studi cognitivi e studi neurologici.
Una strada verso la neuroestetica della letteratura si spiana anche
Stanislas Dehaene nel suo Les neurones de la lecture22. Come la maggior parte degli studi citati le sue analisi non riguardano specificamente la letteratura, ma senza grossi sforzi se ne può riconoscere la ricaduta. Gli esami di risonanza magnetica funzionale hanno reso evidente
che la parola scritta stimola la zona occipito-temporale sinistra del
cervello23. Dopo aver mostrato i meccanismi neurali attivi durante la
lettura e il loro venir meno nell’alexie (ovvero l’incapacità di leggere
nonostante siano rimaste intatte le facoltà di scrivere, parlare e riconoscere le lettere e le parole), Dehaene cerca le invarianti della lettura
nelle diverse lingue del mondo. Queste invarianti esistono perché, a
suo avviso, non è stato il cervello ad adattarsi alla lettura ma il contrario24. Come per Zeki che Dehaene cita, gli scrittori sono dei neurologi
non professionisti che esplorano con le loro opere le potenzialità del
cervello25. Dehaene, che si dimostra scettico nei confronti dei dati empirici dubbi di certa neuroestetica, esprime anche una tesi affascinante:
secondo lui l’armonia che caratterizza le opere d’arte trova forse una
spiegazione nelle aree cerebrali che essa stimola.
Che si stia andando in direzione di un dialogo interdisciplinare fra
neuroscienze e scienze umane è percepito anche nella riflessione critica più recente, come dimostra Cultural Turns. Neuorientierungen in
20
Ivi, p. 1425.
Ivi, p. 1429.
22
S. DEHAENE, Les neurones de la lecture, Odile Jacob, Paris 2007.
23
Ivi, p. 109.
24
Ivi, p. 394.
25
Ivi, p. 403.
21
Introduzione
17
den Kulturwissenschaften di Doris Bachmann-Medick26, la quale, dopo aver passato in rassegna tutti i turns che hanno caratterizzato le
Kulturwissenschaften e i Cultural Studies negli ultimi decenni, giunge
al neurobiological turn che, secondo lei, rischia di provocare un salto
paradigmatico cancellando gli antiquati e ormai logori steccati fra
scienze culturali e naturali27. Superando le reciproche diffidenze – la
Bachmann-Medick cita la voce critica di Jürgen Habermas – fra neuroscienze e scienze culturali si punta a creare un «terzo spazio» in cui
discutere delle modifiche alla concezione dell’uomo che le prime
stanno inaugurando. Per l’autrice è evidente come le scienze naturali
non possano privarsi della coscienza e della riflessione simbolica e
linguistica delle scienze culturali.
Israel Rosenfield, che apre la sezione delle Premesse degli atti che
stiamo presentando, è forse lo studioso più deputato a esprimersi in un
simile consesso. Le sue pubblicazioni vanno da testi di saggistica come L’invenzione della memoria (1989), nel quale ha smontato le tesi
prevalenti sul funzionamento del nostro cervello, dimostrando come
fosse impensabile localizzare la memoria in una specifica area del
cervello, a romanzi come Freud’s Megalomania (1990), un’opera satirica già tradotta in francese e tedesco ma non ancora in italiano – che
ruota intorno ad un ipotetico inedito di Freud nel quale egli spiega
come inganni e autoinganni siano al centro dell'esperienza umana28.
Nel presente contributo Rosenfield forza il concetto di creatività che
nella sua accezione non si limita all’ambito artistico ma denota quelle
attività del cervello che ci permettono di raccogliere il nostro sapere
sul mondo e di fondare la nostra percezione del sé. Il cervello è infatti
ininterrottamente confrontato con un mondo caotico dal quale deve estrarre il profilo di persone e oggetti e per stabilizzarlo esso «inventa»
quello che percepiamo, ad esempio i colori che non esistono nella realtà fisica. La «costanza cromatica» prodotta dal cervello stabilisce dei
26
D. BACHMANN-MEDICK, Cultural Turns. Neuorientierungen in den Kulturwissenschaften, Rowohlt, Reinbek 2006.
27
Ivi, p. 389.
28
Sul rapporto fra questo romanzo e il resto della produzione di Rosenfield cfr.
l’intervista a Israel Rosenfield in «Rivista di filologia cognitiva» 2007
(http://w3.uniroma1.it/cogfil/homepage.html).
18
Introduzione
confini fra le cose, dona ordine. Nel contempo esso integra il sapere
che ricava dall’ambiente nello schema corporeo che sta alla base del
nostro sé. Rosenfield dimostra che la creatività non è uno stato eccezionale delle nostre attività mentali e fa vacillare una concezione semplicistica di mimesi. A sostegno delle sue tesi cita vari esempi: fra gli
altri gli esperimenti ottici di Edwin Land e alcuni celebri casi neurologici studiati da Joseph Capgras e Jules Dejerine.
L’altra parte delle Premesse è occupata dall’intervento di Francesco Ronzon. Quale antropologo egli è abituato a far dialogare i saperi
e a illuminare le intersezioni che si creano ai loro margini. Ronzon
constata che negli ultimi anni sotto le spinte delle neuroscienze, della
psicologia cognitiva, dell’intelligenza artificiale, è stato creato un
grande meccanismo di comprensione della comprensione umana. Le
nostre modalità di apprendimento, le nostre percezioni, la coscienza,
la nostra facoltà di ricordare, la capacità linguistica sono state scandagliate e, a volte, localizzate a livello cerebrale. La convergenza di interessi non cela all’occhio scafato di Ronzon le differenti pratiche sociali che sottendono discipline limitrofe come le neuroscienze, le scienze
cognitive, la neuro-psicologia e le cosiddette computer-sciences. Nel
corso del suo intervento passa in rassegna le tre posizioni filosofiche
di taglio materialista relative al nesso tra mente e cervello evidenziando il significato che queste rivestono nello sviluppo e
nell’articolazione del dialogo fra scienze umane e neuroscienze. Le
divergenti posizioni sono incarnate dalla «teoria dell’identità dei tipi»,
dal «materialismo eliminazionista» e dalla «teoria dell’identità delle
occorrenze». Invece di accogliere o respingere semplicemente un punto di vista, Ronzon presenta al lettore gli argomenti che possono essere addotti a favore o contro una certa modalità di discussione disciplinare. Possiamo concordare con lui quando afferma che «lungi dal rappresentare una fuga dalle responsabilità, questo tipo di apertura è infatti una strategia euristica particolarmente importante in tutti gli ambiti di confine – come quello relativo al dialogo tra scienze umane e
neuroscienze – ove temi, metodi e prospettive non sono ancora standard, sistematici e intersoggettivamente condivisi».
Con il contributo di Gabriele Fedrigo entriamo nel vivo del dialogo
fra neuroscienze e letteratura, ambito che rientra, come abbiamo ricordato, nella neuroestetica, un termine pensato dal neurologo Semir Zeki
Introduzione
19
per tracciare l’incontro fra la dimensione artistica e quella neurologica. Fedrigo conia i concetti di «poetica neuronale» o «neuropoietica»
che sono da intendere come attività neuronali non direttamente vincolate a fattori omeostatici e riproduttivi e quindi aperte a forme di autoesplorazione e di autosperimentazione di cui dà ampiamente testimonianza l’arte. In quest’ottica la poesia diventa spazio di esplorazione
della potenzialità del linguaggio resa possibile dal cervello. Analogamente a Israel Rosenfield egli crede che il «fare poetico» non sia altro
che l’espressione di una «poietica neuronale» che opera costantemente
nella costruzione non solo di un mondo in cui riuscire a gestire stimoli
esterni e interni, ma anche nella formazione di mondi immaginari in
cui vengono fatti «saltare» proprio quei punti di riferimento e di orientamento così essenziali alla sopravvivenza. Fedrigo costruisce la sua
riflessione su tre solidi pilastri: Paul Valéry, il pensiero neuroestetico
contemporaneo e la riflessione di Charles Darwin. Paul Valéry, di cui
Fedrigo è un affermato esperto, ha cercato di riflettere sulla poesia dal
punto di vista del funzionamento del sistema nervoso e dell’azione del
linguaggio sulla sensibilità di chi produce e di chi riceve il messaggio
poetico. Ci basti la seguente citazione di Valéry secondo cui «le plus
grand poète possibile c’est le système nerveux, l’inventeur de tout –
mais plutôt le seul poète».
Fedrigo si confronta, mai in modo acritico, con la neuroestetica.
Conformemente a Semir Zeki egli pensa che la letteratura sia una produzione del cervello e uno studio meticoloso su di essa darà forti suggerimenti su come sia organizzato il sistema cerebrale. Per Zeki il
mondo umano e tutta la sua storia sembrano diventare laboratori del
funzionamento cerebrale e gli artisti trasformarsi, loro malgrado, in
«neurologi».
L’ultimo interlocutore a distanza di Fedrigo è Charles Darwin29, il
quale poneva l’accento su due aspetti particolarmente interessanti per
il nostro discorso: l’immaginazione e la capacità del linguaggio di creare associazioni fra tutto ciò che è di dominio della vita mentale al di
29
Così Fedrigo si colloca nella scia di una rilettura darwiniana dell’estetica. Cfr.
J. TOOBY, L. COSMIDES, Does beauty build adapted minds? Towards an evolutionary theory of aesthetics, fiction and the arts, «SubStance. A review of the theory
and literary criticism», vol. 30, n. 1-2, 2001, pp. 6-27 e K. EIBL, Animal Poeta. Bausteine der biologischen Kultur- und Literaturtheorie, Mentis, Paderborn 2004.
20
Introduzione
fuori del linguaggio articolato (immagini, concetti, emozioni, sentimenti, azioni, ecc.) e il mondo delle parole e delle loro combinazioni.
In entrambi i casi si tratta di attività cerebrali che non sono affatto di
esclusiva pertinenza del poeta, benché di queste potenzialità il poeta, o
una certa poesia, sembri proprio non poter fare a meno. Tale tesi è
confermata dal «generatore di diversità» di Changeux; conseguentemente «in questa prospettiva, quel che crea il poeta è un deragliamento, un battere strade inusitate, un volgersi alle capacità cerebromentali
con l’intento di toccarne e sperimentarne appunto il possibile».
Le tradizionali concezioni della mimesi letteraria che all’unisono
sostengono una distinzione tra finzione e realtà sono passate in rassegna nel contributo di Anatole Pierre Fuksas, il quale propone di scardinare questo dualismo attraverso una teoria ecologica della referenza
narrativa: i romanzi come ogni altro genere di storie non rappresentano, secondo lui, il riflesso mimetico o l’alter ego della “realtà”, piuttosto, tanto la realtà quanto la narrazione sono elaborazioni umane di
stimoli che incentivano l’azione. Una siffatta teoria ecologica del romanzo è basata sull’idea che la comprensione di romanzi e storie attivi
il sistema senso-motorio di ascoltatori e lettori proprio come fa la “realtà reale”. Il pensiero ecologico che qui fa capolino considera
l’organismo come parte integrante di un ambiente. Gibson in The ecological approach to visual perception (1979), che inaugura tale filone,
spiega come le sensazioni siano colte dall’organismo direttamente in
quanto affordances, un suo neologismo derivante da to afford che significa sia “fornire” o “presentare” che essere in grado di fare qualcosa. Tale termine denota tutto quello che la natura ci mette a disposizione determinando delle opportunità di azione: una via è
un’affordance di locomozione, un ostacolo un’affordance di collisione. L’uomo può anche produrre delle affordances quali gli strumenti
di lavoro che diventano una specie di estensione delle mani facendo
così cadere il dualismo fra soggetto e oggetto. Le intuizioni di Gibson
sono supportate da recenti scoperte nel campo delle neuroscienze come quelle di Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese. Questi studiosi
hanno dimostrato che gli esseri umani e gli altri primati superiori
comprendono le azioni compiute da altri mediante l’attivazione degli
stessi circuiti neurali coinvolti nel corso dell’esecuzione delle azioni
medesime. Secondo questa “semantica incorporata”, che è corroborata
Introduzione
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da vari esperimenti in ambito neuroscientifico e neurolinguistico,
l’elaborazione di un discorso, vuoi letto vuoi ascoltato, suscita reazioni motorie collegate alla corrispondente esperienza dei fatti descritti,
eventi percettivi o azioni. Fuksas conclude che nella prospettiva ecologica si potrebbe definire «il senso di una parola come la gamma di
affordances alle quali essa si riferisce».
Questo approccio sostiene che l’abilità di formulare e comprendere
referenze di carattere linguistico dipende dalla capacità implicita di
eseguire azioni e adottare comportamenti corrispondenti. Fuksas cita
le tesi di Feldman e Narayanan secondo i quali tanto la formulazione
che la comprensione della descrizione narrativa di azioni dipendono
dall’interpretazione di esperienze incorporate corrispondenti, ovvero
appropriate ai fatti descritti dal racconto. Di conseguenza, la conoscenza collegata all’azione che è descritta nei testi narrativi è riconosciuta e compresa sulla base delle medesime rappresentazioni sensomotorie individuali che supportano l’esecuzione delle azioni corrispondenti.
La semantica incorporata è in grado di spiegare sia la comprensione
di azioni situate nel presente narrativo, che in un qualche passato o futuro, sia espressioni letterali, che metaforiche e traslate. Anche i cosiddetti “stati d’animo”, come emozioni e sentimenti, dipendono da
meccanismi somatosensoriali che scaturiscono all’interno del sistema
ecologico emergente dall’interazione di un individuo con l’ambiente
in cui è immerso. Le emozioni rappresentano una risposta immediata
alle sfide e alle opportunità che l’organismo si trova ad affrontare.
Proprio per questo motivo romanzi e altri generi narrativi coinvolgono
generalmente i lettori o gli ascoltatori sulla base di descrizioni di azioni intenzionali e sensate in quanto strettamente collegate a stati emotivi che si generano dall’interazione dei personaggi con l’ambiente in
cui si trovano collocati.
Fuksas trae diverse conclusioni dalle sue analisi e formula delle
stimolanti ipotesi di lavoro per la critica letteraria. Innanzi tutto rivaluta la descrizione all’interno della narrazione in quanto essa fornisce
quello sfondo necessario, e soprattutto, quelle affordances, alle quali i
personaggi e il lettore fanno riferimento. Il mondo fittizio della letteratura può essere considerato un archivio di descrizioni di «nicchie ecologiche» in cui i protagonisti mettono alla prova i loro talenti. Nella
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Introduzione
storia della letteratura mondiale possiamo ammirare la grande varietà
e la ricchezza delle prove e degli ambienti ai quali i protagonisti sono
esposti. Un’altra riflessione che scaturisce da queste osservazioni riguarda la tradizione manoscritta medievale: finora non si è tenuto in
debita considerazione il corpo del copista impegnato durante la lettura
ad elaborare le referenze narrative secondo meccanismi di risonanza
che chiamano in causa un’esperienza specifica e personale dei fatti
narrati. Le variazioni testuali dovrebbero quindi essere lette come adeguamenti di un testo alla peculiare esperienza del copista. Fuksas
propone altresì di valutare contrastivamente i pattern di attività specifici di determinati personaggi comparando le esperienze sensoriali, le
emozioni, i pensieri, i gesti ed i comportamenti che definiscono la loro
presenza all’interno di diversi romanzi e tradizioni. Ciò permetterebbe
altresì di indagare le ragioni del successo di certi romanzi e dei classici che a detta di Fuksas dovrebbero essere ricercate nel giusto equilibrio fra la descrizione di azioni e le motivazioni che le guidano. Una
siffatta teoria ecologica permetterebbe anche di spiegare il fascino universale e imperituro esercitato dai testi narrativi sui lettori di ogni
epoca.
Anna Cappellotto mostra nel suo intervento come la riflessione
neuroestetica diventi urgente per non dire inaggirabile quando a richiederla sono gli scrittori stessi. Durs Grünbein, probabilmente il più
apprezzato poeta tedesco contemporaneo, fa del dialogo con le neuroscienze la premessa e il fondamento della sua scrittura. Quale «neuroromantico» egli crede che l’anima abbia cessato il suo servizio sia in
quanto centro dell'identità umana sia come tema privilegiato della poesia. Lo spazio abbandonato dall’anima è stato occupato dal cervello
che, in quanto mai interamente conoscibile, diventa il nuovo simbolo
dell’infinito. Grünbein non rifiuta la tradizione in toto, anzi la «zona
grigia» in cui colloca la sua poesia è anche metafora di un dialogo incessante fra il presente e il passato, fra il poeta e la tradizione, tra l’io
e il mondo. Attraverso il corpo e la fisiologia egli cerca di ridare una
nuova linfa alla lingua e di ristabilire un nesso tra significante e significato. Non solo la physis e più precisamente il cervello, è ritenuto la
fonte della poesia, ma per agire la poesia deve diventare traccia mnestica, un engramma. A suo dire nella neurologia giace la poetica del
futuro. Fra i molti esempi che Anna Cappellotto menziona per esporre
Introduzione
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questa poesia informata dalle neuroscienze basti la sua concezione
della ricezione letteraria: deluso dall’inquietante distanza che divide la
poesia dalle scienze naturali Grünbein ha fatto ricorso ad un concetto
neurologico, il fattore N400, per determinare il rapporto fra lettore e
testo letterario. Questo concetto è il frutto di indagini di laboratorio in
cui, tramite elettroencefalogramma, si è misurata l’ampiezza della carica elettrica cerebrale di un soggetto sia mentre esprimeva un enunciato semplice come «il gatto prende il topo» che quando recitava una
frase semanticamente improbabile come «il gatto prende la luna». Il
risultato dell’esperimento dimostrò che il potenziale impiegato durante l’enunciazione della seconda frase era nettamente maggiore. Grünbein ne consegue che lo scopo del poeta è quello di cercare delle nuove immagini, inusuali, che siano fautrici di una specifica attività cerebrale.
Massimo Salgaro tira le conseguenze dalle riflessioni neuroestetiche scaturite dai contributi proposti dai relatori che lo hanno preceduto. Secondo lui la letteratura non potrà più essere compresa come
un’attività intellettuale staccata dalle altre attività del corpo, anzi, il
lettore dovrà essere inteso come embodied, come un soggetto «incarnato» le cui attività intellettuali e spirituali non siano dissociate dalla
propria corporeità. Per dimostrarlo egli espone i portati di un gruppo
di neuroscienziati di Parma che hanno individuato uno specifico gruppo di neuroni, i neuroni specchio, che si attivano quando si rilevano le
azioni altrui. Da questi esperimenti si può apprendere che colui che
osserva un’azione la simula nella sua mente e mette in moto quelle
zone cerebrali attive durante lo svolgimento delle attività di cui sta
prendendo atto. Tali neuroni hanno la funzione di favorire la comprensione degli atti motori degli altri, poiché ogni volta che vediamo
compiere un atto il nostro sistema motorio entra in risonanza con
l’organismo osservato consentendoci di riconoscere l’aspetto intenzionale dei movimenti osservati.
La teoria della ricezione letteraria della scuola di Costanza e gli
studi sui neuroni specchio presentano forti analogie, innanzi tutto grazie alla comune radice fenomenologica: sia il rapporto fra oggetto e
soggetto, sia quello fra testo e lettore sono basati sulla consonanza intenzionale. Tali analogie trovano un radicamento in recentissimi studi
sperimentali che confermano l’attivazione dei neuroni specchio duran-
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Introduzione
te la lettura. Salgaro cita esperimenti neurolinguistici e di psicologia
cognitiva i quali spingono a riconsiderare dei concetti della critica letteraria quali l’empatia, interpretandola come «intenzionalità condivisa» e l’identificazione considerandola una «simulazione incarnata».
Ma le novità non riguardano solo il lettore: l’immaginario che il testo
evoca non dovrà più essere inteso come «astratto, amodale e arbitrario» poiché la «comprensione è simulazione» di un evento ed essa
comporta un’attivazione senso-motoria. Da ciò si desume che «quando qualcuno legge non dà le spalle al mondo reale – non c’è Weltvergessenheit come sostiene Roman Ingarden – ma costruisce un mondo
che inizia ad abitare da subito».
Chi si attende da questo volume teorie fatte e finite o metodologie
da applicare al testo rimarrà deluso e, per un certo verso, si sbaglierebbe. D’altronde lo dichiariamo già nel titolo: non pensiamo di aver
raggiunto un obiettivo, siamo in procinto di muoverci, stiamo andando
verso la neuroestetica della letteratura. Visto lo stato ancora frammentario e lacunoso delle attuali conoscenze sul cervello, per ora
chiediamo di essere valutati per le nostre intenzioni, la prima e la più
cogente è quella di inserire e considerare il nostro rapporto con la letteratura all’interno della nostra fisiologia e della nostra storia evolutiva. Il cammino qui intrapreso verso la neuroestetica mira soprattutto
ad integrare la letteratura nella nostra quotidianità per renderla più vicina, concreta, viva; non pretendiamo certo che la scienza fagociti la
letteratura e ancor meno la critica letteraria.
Ci soccorre l’ingenuità di un ventiseienne americano che avendo
lavorato per alcuni mesi in un prestigioso laboratorio di neuroscienze
e essendosi reso conto di «non essere abbastanza in gamba» per la
scienza, si è dato alla scrittura per formulare ex negativo le condizioni
per un incontro fra la letteratura e le neuroscienze:
Purtroppo la nostra cultura contemporanea aderisce a una definizione molto angusta
di verità: se qualcosa non può essere misurata o calcolata, allora non può dirsi vera.
[…] Prendiamo la mente umana: gli scienziati descrivono il nostro cervello in base
ai suoi componenti fisici; in questa prospettiva, non siamo che un telaio di cellule
elettriche e spazi sinaptici. Quel che la scienza dimentica è che non è così che noi
facciamo esperienza del mondo (noi ci sentiamo come lo spettro, non come la macchina). È paradossale ma vero: l’unica realtà che la scienza non può ridurre è l’unica
che mai conosceremo. Ecco perché abbiamo bisogno dell’arte. Esprimendo la nostra
Introduzione
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esperienza reale, l’artista ci ricorda che la scienza è incompleta, che nessun tipo di
mappa spiegherà mai l’immaterialità della nostra coscienza. […] Sappiamo abbas30
tanza del cervello per sapere che il suo mistero rimarrà sempre tale .
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J. LEHRER, op.cit., p. XIV.
Israel Rosenfield
How the Brain Makes Sense or Our Chaotic Sensory Worlds
by Creating Colors, Forms and our Sense of Ourselves
Our senses are confronted by a chaotic, constantly changing world
that has no labels and the brain must make sense of that chaos; and in
this chaotic world our emotions are essential to our ability to recognize objects and people.
And while the search for an “identity”, the constant and subtle
shifts from one personality to another in our encounters with each other are characteristic of all of us, neurological breakdowns can lead to
syndromes of “multiple personalities” – cases in which the change
from one personality to another is radical, with a loss of memory
about one’s previous personality. Indeed, multiple personalities have
too few personalities, unlike most of us. What we might call the syndrome of Dr. Jekyl and Mr. Hyde, involves not only a change of personality, but a complete reworking of one’s memories and sense of
self and of one’s sense of one’s own body. Involuntary changes of
personality that are of neurological origin are accompanied by radical
changes in our sense of self. And we should add that the neurological
loss of an ability to have emotional reactions, can make us believe that
our most intimate family and friends are imposters, as the French Neurologist Joseph Capgras first described in 1923. Capgras’s patient
thought her husband and children were “sosies” – fraudulent copies of
their real selves.
Our sensory environments are very messy, and the brain must give
these environments a sense. Our visual sensations are unorganized,
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28
Israel Rosenfield
constantly changing and unlabelled. What the brain must do is somehow stabilize this environment, make it into something coherent that
the individual can “understand” and use. And the way the brain does
this is by “inventing” what we perceive. Artists have always known, at
least intuitively, that the brain makes possible the creation of our visual worlds, since representational art uses materials on a flat surface to
create the illusion of faces, objects, and scenes. Hence what the brain
does, is transform visual and other stimuli into a series of inventions
that are what we “see”, “hear” and “feel” when we look around us.
Indeed we might argue that it is the need to create a coherent environment out of the chaotic stimuli, that is one of the brain’s primary
activities. For example, there are no colors in the world, but many different (colorless) waves; our visual worlds are in fact a constantly
changing environment of lightness and darkness. If we were directly
aware of the light hitting our retinas, we would be very disturbed by
the instability of our visual images. It would resemble strobe lights
going on and off in a grey world. Normally, our visual worlds are stabilized because the brain simplifies the visual environment by comparing the various amounts of lightness and darkness in three different
wavelengths of light and this comparison gives rise to what we perceive as color.
In other words, the brain creates a sense of “color constancy”: no
matter what the lighting conditions – bright sunlight, filtered sunlight,
or artificial lighting – colors remain more or less the same. This remarkable ability is not fully understood, but depends, in part, on the
brain’s comparing the amount of light reflected in the long (red), middle (green), and short (blue) frequencies coming from different parts
of a given scene. In a famous experiment performed by Edwin Land,
the inventor of the Polaroid camera, Land took two black and white
photos of a particular scene. One photo was taken with a red filter and
the other with a green filter. He then projected slides of the photos,
superimposing them, using only a red filter in front of the projector
with the photo taken with a red filter. The original colors of the scene
were visible, even though only a red filter was used. Since the black
and white photos had been taken with different filters (red and green)
– in other words in different frequencies of light – the distribution of
light and darkness in each photo was different. Red apples will appear
How the Brain makes sense
29
light in a black and white photo taken with a red filter (the red light is
absorbed by the filter), whereas they will appear dark in a photo taken
with a green filter (the light can pass through the filter). The brain
compares the dark/light ratios in the different frequencies of light to
which the eye is sensitive (essentially the red, green and blue wavelengths of light) and it creates colors from these comparisons. Therefore by creating colors the visual environment is stabilized. Furthermore, since colors are created when the brain compares the ratios of
light frequencies reflected by neighboring surfaces, colors establish
borders; even in chaotic and turbulent paintings there are always unavoidable distinctions from one shade of color to another. Brain injury
can destroy the ability of the brain to compare the reflectance of light
in different frequencies, and consequently individuals with damage to
the area of the brain where the comparisons are made will see the
world as constantly changing levels of grey light. Along with the destruction of the ability to see colors, is the loss of any recollection of
colors, or even a sense of what colors are. In other words, knowledge
and recollection depends on the brain being able to carry out the
processes that create our awareness of that knowledge (in this case our
knowledge of what color is). The way colors are created is the model
for how the brain creates knowledge.
And what of signs and symbols that are so dependent on context
and that become ornaments when they are out of their original context? A famous neurological study illustrates the problem.
In the 1890s the French neurologist Jules Dejerine described what
has become a classic example of a neurological breakdown following
a cerebral accident. Dejerine’s patient, Oscar, one day suddenly realized that he could not read a single word, though he could write
(without being able to read what he had written) and had not lost any
powers of speech or recognition of objects, people and places. Oscar
thought he had a problem with his eyes, but when he visited an optometrist he realized that he could see letters and words, since he could
retrace them stroke by stroke, but he was unable to make name the letters or read words. Curiously he could read single digit numbers – 1,
2, 3, 4, … – but was unable to read 112 as “one hundred and twelve”.
He could only read, “one, one, two”. Instead of naming letters, he
compared them to animals or objects: thus Z he compared to a serpent,
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Israel Rosenfield
A to an easel and P to a buckle. The use of such images suggested to
Dejerine that his patient’s visual centers had been “disconnected”
from the linguistic centers of the brain, as if there were a wire that
connected the visual and language areas of the brain had been broken.
He therefore argued that his patient retained to ability to “draw” but
that he couldn’t make any linguistic sense out of the drawings. Oscar’s
brain can no longer make the correlations necessary for reading and
understanding letters; nor can his brain carry out an analogous set of
procedures to create the awareness of color in part of his visual field.
Ornamentation, too, is a creation of the brain. What is interesting
about Dejerine’s case is that it suggests how, from a neurological
point of view, symbols (context dependent) are profoundly different
from non-symbolic images (relatively context independent).
So too our sense of self, our notions of who we are and who others
are, are creations of the brain. I have mentioned we are normally many
different, constantly changing personalities. We understand the world
through our understanding of ourself – or our many selves. All of
these personalities are contained, held together, within our body
schema. A change of body schema gives rise to a change of personality; a breakdown of the sense of body, gives rise to a breakdown of the
sense of self and with it a loss of knowledge of our surroundings. The
fragility of this understanding (our knowledge of ourselves and the
world around us) and the relation between body schema and our
knowing who are was shown by an experiment performed in the
1960s. Subjects were asked to introduce a gloved hand into a box.
They were told to observe their hand but they were not informed that
another gloved had been introduced into the box just above theirs. The
gloved hand they were actually observing was that of the experimenter, not their own. They were then told to make certain movements
(“make a fist, now open it” etc.) with their hand. The experimenter
made precisely these movements and the subjects believed they were
watching their own hands. From time to time, the experimenter failed
to follow the commands and the subject saw his gloved hand moving
in a way that was different from what he was actually doing. For example, if he had been told to make a fist, the experimenter spread his
hand open. About thirty percent of the subjects believed the hand they
were observing was their own and they felt they were being controlled
How the Brain makes sense
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by an external force. They also felt considerable pain when their hand
“failed” to carry out the experimenter’s commands.
More recently the experiment was performed on patients with
symptoms of schizophrenia: 80% of these patients complained their
hands were being controlled by an outside force.
But what is the source of the pain the subjects feel when they observe the experimenter’s hand disobeying the commands? It appears
to be related to the incoherence between what is being observed (a
hand spreading wide open, for example) and the action the brain believes it is performing (making a fist). When what the brain “sees” and
what it “feels” it is doing appear to be identical, there is no pain, no
feeling an outside force is controlling one’s movements.
In fact, our sense of self is a consequence of constant change: this
dynamic nature of the self is an integration of an immediate past and
momentary present – what Henri Bergson called le souvenir du
present (1908). The brain integrates past and present into a new form
– conscious knowledge and awareness of self, just as it creates colors
from the constantly changing reflectance of different frequencies of
light.
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