viaggio nel vocabolario dell`etica sommario

Carlo Maria Martini
VIAGGIO NEL VOCABOLARIO DELL'ETICA
SOMMARIO
VideoRai-Centro ambrosiano-Edizioni Piemme 1993
Viaggio nel vocabolario dell'etica
l. Perché« Viaggio nel vocabolario dell' etica»?
2.Ma che cos'è l'etica?
3.Etica, diritto, morale
4.Che cosa vuol dire «essere onesti»?
5.Si può essere onesti sempre?
6.Che cosa significa «trasparenza»?
7.Sino a che punto si può essere sinceri?
8.Lealtà privata e lealtà pubblica
9.Bene comune
10.Il principio «responsabilità»
11.Etica e politica
12.Ragion di Stato
13.Che cos' è la coscienza?
14.La giustizia è la virtù più importante?
15. Vanno d'accordo mitezza e forza nella vita pubblica?
Appendice
Vivere l'impegno politico alla luce della carità
Dai problemi dell'etica pubblica all'interrogativo morale
Il cristiano e la politica
La corruzione politica
Si può restaurare la legalità?
Tempo di saggio e maturo discernimento
Il lavoro politico come realtà spirituale
1. PERCHÉ «VIAGGIO NEL VOCABOLARIO DELL'ETICA»?
Fin da ragazzo mi è sempre piaciuto scorrazzare nel vocabolario: italiano, latino, di altre lingue, alla
ricerca del significato delle parole, dei sinonimi, dei contrari.
Sono convinto che si tratti di una bella avventura perché così si entra nel cuore di un linguaggio e,
quindi, anche di una civiltà.
Vorrei allora avventurarmi con voi nel vocabolario dell'etica e, in particolare, dell'etica pubblica.
Oggi infatti si parla molto di etica, di etica pubblica; gli storici dicono che quanto più una società è
carente di moralità pubblica, tanto più se ne parla.
Non a caso le grandi epoche di riflessione sull' etica sono state le grandi epoche di transizione, in
cui si verificavano pure molti episodi di corruzione.
Durante i passaggi delle civiltà, mentre
venivano meno alcune certezze, la gente si smarriva e ciascuno faceva un po' ciò che voleva,
difendendo gli interessi privati o di gruppo fino al crimine.
In tempi simili, si ritorna sull'etica pubblica proprio per trovare delle norme a cui ispirare il proprio
comportamento civile è il costume sociale.
Oggi dunque si parla molto di queste cose e vengono di moda vocaboli di cui non si sa bene il
significato.
Non intendo, in questa sede, fare un trattato di morale; mi limiterò semplicemente a cercare con voi
il significato di qualcuna delle parole-chiave che occorrono allorché bisogna dare giudizi corretti su
comportamenti amministrativi, sociali, politici, quando cioè sono in gioco le nostre responsabilità
verso la collettività.
Vorremmo esplorare due tipi di parole.
Alcune sono un po' come sigle, che si usano spesso pur se pochi ne sanno precisare il significato:
etica, morale, coscienza, responsabilità, bene comune, diritto.
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Altre sono parole di cui crediamo di sapere il senso, ma sulle quali in pratica si hanno idee diverse:
penso a parole come onestà (ad esempio, che cos'è l'onestà di un politico?), trasparenza, sincerità,
lealtà verso le istituzioni.
Mi pare che stiamo vivendo una stagione propizia per tali chiarimenti. L'avventura linguistica
potrebbe perciò diventare anche avventura dello spirito. Purché la si corra con la mentalità giusta:
quella di un sano ottimismo etico.
2. MA CHE COS'È L'ETICA?
Incominciamo con l'affrontare, secondo il programma che ci siamo proposti, una parola difficile e
che funziona da chiave per tutto quanto diremo nelle nostre conversazioni: è il termine ETICA, che
ha almeno quattro significati.
1. Etimologicamente, cioè nella sua origine, il termine «etica» allude a ciò che si usa fare, a ciò che
si fa di solito. Il vocabolo greco «ethos» significa infatti il costume sociale, il modo di comportarsi
recepito in una determinata società.
2. Per i greci, però, si tratta di una società ben ordinata, di una società buona. L'etica quindi indica i
comportamenti che una società, nella sua saggezza ed esperienza, ha ritenuto positivi per la pace e
l'ordine sociale, per il progresso dei cittadini, per l'aumento del benessere di tutti. Tali
comportamenti sono appunto «etici», eticamente onesti.
3. In terzo luogo, la parola viene usata in senso assoluto: etico non è solo ciò che si usa fare in una
società buona, bensì
- ciò che è buono in sé,
- ciò che va fatto o evitato a ogni costo e in ogni caso, a prescindere dai vantaggi personali o sociali
che se ne ricavano,
- ciò che è assolutamente degno dell'uomo o che si oppone a ciò che è indegno, - ciò che non è
negoziabile, su cui non si può né discutere né transigere.
4. Il quarto significato è quello dell' etica come riflessione filosofica sui comportamenti umani e sul
loro senso ultimo.
È grande vanto dell'umanità essere giunta a intuire l'esistenza di comportamenti che sono al di sopra
del piacere, del guadagno, dell'interesse; comportamenti che non hanno prezzo perché sono al di là
di ogni apprezzamento terreno.
Qui va richiamato con forza quanto accennavo alla fine della conversazione precedente, sullo
spirito, sulla mentalità con cui bisogna trattare dell' etica: uno spirito di ottimismo.
E mi spiego. Spesso, quando si parla di determinati comportamenti si assume un tono arcigno se si
vuole sottolineare la serietà, oppure un tono lamentoso se si vuole deprecare la loro inosservanza. I
moralisti sono sempre stati ritenuti uomini queruli, lamentosi, pronti a rimproverare, a deprecare, a
denunciare il male presente nel mondo, o comunque uomini e donne severi, inflessibili.
Un po' è giusto che sia così. Tuttavia ritengo che l'etica debba essere soprattutto un luogo in cui la
gente viene incoraggiata, animata, confortata. La grande parola dell'etica è: tu puoi fare di più, ti è
possibile fare meglio, sei chiamato a qualcosa di più bello nella vita, essere onesti è possibile ed è
un' avventura straordinaria dello spirito.
Proprio di tale spirito di ottimismo abbiamo bisogno per non perderci in lamentazioni sterili e
obbedire al precetto fondamentale dell' etica: cerca di essere più autenticamente te stesso, di essere
più vero, più libero, più responsabile.
È dunque con atteggiamento ottimistico che affronteremo il vocabolario dell' etica.
3. ETICA, DIRITTO, MORALE
Dedico questa conversazione a tre parole difficili: etica, diritto, morale.
Il volerle spiegare a fondo richiederebbe molto tempo e ci introdurrebbe in una foresta di
controversie. Mi limiterò quindi a qualche semplice richiamo.
In realtà, dietro a queste tre parole, c'è una domanda che ho sentito in me fin dalla prima
conversazione e che forse alcuni ascoltatori si sono posti: perché un Vescovo parla di questi temi?
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Prima di rispondere richiamo, con un esempio, la caratteristica dell' etica ricordata ieri, cioè il suo
trattare di quelle azioni che sono assolutamente degne o indegne dell'uomo. Un cultore di critica
d'arte, all'inizio della seconda guerra mondiale, di fronte al pericolo dei bombardamenti e della
possibile distruzione di opere artistiche, aveva sentenziato così: Meglio un uomo ucciso che un
capolavoro distrutto! È un esempio classico di sentenza immorale, di un modo di pensare che
nessun uomo e nessuna donna sani di mente potrebbero mai approvare. Certo, tutti apprezziamo i
capolavori d'arte, perché sono grandi tesori dell'umanità; ma l'umanità è ben più grande dei suoi
tesori.
Una vera dottrina etica insegna dunque a confutare tali aberrazioni che sono peraltro affini a quelle
di ogni razzismo, cioè contrarie a ogni sentimento di umanità.
Mentre l'etica è la dottrina che si interessa degli atteggiamenti di valore dell'uomo, il DIRITTO è
l'insieme delle norme positive che le società si danno per rispondere a questi imperativi profondi e
tradurli nella pratica quotidiana. Da solo, però, il diritt9 non garantisce un' etica pubblica: esso è un
insieme di norme esterne che suppongono un consenso fondamentale dei cittadini sui grandi
atteggiamenti che regolano i rapporti tra persone. Quando incomincia la discordia sugli
atteggiamenti di fondo, ad esempio sul rispetto della vita, una società è minacciata di disgregazione
e, alla lunga, non riuscirà più a darsi norme di diritto capaci di assicurare il rispetto di tutti.
Vediamo allora la distinzione e il reciproco rapporto tra DIRITTO e MORALE. La morale, in
questo contesto, va intesa come la forma buona del rapporto con il mio fratello, con colui che
desidero riconoscere mio prossimo. Il diritto si accontenta di dire: rispetta l'altro, anche l'estraneo,
promuovi il bene comune o, almeno, non danneggiarlo. La morale, invece, dice: fatti prossimo,
considera ciascuno come membro della tua famiglia, per quanto ti è possibile. Il primo precetto
della morale è indicato nella parabola del buon samaritano che scende da cavallo per soccorrere il
ferito di un' altra razza, che trova sulla strada, e provvede a lui per tutto. La morale, quindi, chiede
di fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi.
Diritto e morale non si contrastano, ma si alleano per creare una società non soltanto Vivibile, bensì
buona e fraterna. Questo è l'ideale di una comunità a misura di persona umana, verso cui ci
spingono concordemente morale e diritto. E l'ideale che nasce da un credo religioso a forte contenuto etico, come quello proprio della tradizione ebraica e cristiana.
Ecco perché un Vescovo può parlare di questi temi.
4. CHE COSA VUOL DIRE «ESSERE ONESTI?
Oggi si parla molto di onestà, soprattutto nei comportamenti pubblici: si invocano politici onesti,
amministratori onesti.
Che cosa significa questa parola? è davvero possibile essere onesti fino in fondo nella vita
pubblica? quali condizioni sono prerequisite?
Cominciamo con il significato del vocabolo. ONESTO deriva da «onore», e onore è sia la buona
reputazione di cui si gode all'interno di un gruppo sociale, sia l'intima consapevolezza della propria
dignità. Chi agisce conformemente a tale consapevolezza, evita di macchiare la propria coscienza e,
in una società buona, è stimato, è chiamato appunto ‹‹uomo onesto».
L'importanza del vocabolo appare pure dall' abuso che se ne fa: infatti, ‹‹uomo d'onore» può venire
a significare, a un certo punto, uno che si regola secondo le norme di una società delinquenziale,
che non «sgarra» rispetto alle regole interne del suo gruppo, e però non tiene affatto in conto l'onore
nel senso vero del termine, cioè la conformità alla propria coscienza, l'agire morale in senso pieno.
Essere onesto vuol dire dunque rispettare i dettami della coscienza e le prescrizioni della legge
secondo tutto alloro ambito.
Ancora un' osservazione: il termine latino «honestas» significa anche «bellezza». A esso sottostà
l'intuizione che l'agire morale è una cosa bella da vivere, una cosa che dà un profondo godimento
allo spirito, che rende lieta e gioiosa la vita di una società.
È sufficiente, per essere onesti, essere a posto con le norme positive? Certamente è già molto essere
a posto con le norme positive, ma c'è una parola del vangelo che ci ammonisce: Guai a chi paga la
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decima sulla menta e sul cumino e trascura le prescrizioni più gravi della legge, cioè la giustizia, la
misericordia, la fedeltà.
C'è, infine, una grave domanda che le società moderne devono affrontare: esistono leggi, come
quella del finanziamento dei partiti, congegnate in modo da rendere così difficile la loro osservanza
pratica che le stesse persone oneste e prive di interessi propri sono indotte a violarle?
Mi limito a porre la domanda; uno dei nodi della riforma della politica e dei partiti è appunto di
porre regole legali che prevengano comportamenti illegali o che comunque non li favoriscano,
permettendo davvero a tutti i cittadini onesti di partecipare con serenità al governo della cosa
pubblica.
5. SI PUÒ ESSERE ONESTI SEMPRE?
Ogni tanto ricevo delle lettere di questo tenore: Lei ha un bel dire che bisogna essere onesti,
vigilanti, attenti al bene comune ... Mio figlio (o mio marito) ha voluto comportarsi onestamente,
non ha mai accettato le connivenze disoneste del suo ambiente di lavoro, ma è stato punito,
emarginato, deriso, non ha fatto carriera ...
A che vale, dunque, l'onestà?
Sono lettere che mi fanno molto soffrire perché mostrano, con esempi inconfutabili, che l'onestà è
difficile e spesso - come si esprime un detto conosciuto - non paga.
A mio parere, ci sono due vie di uscita: la prima è di accettare che una società non possa essere
onesta e quindi sia in un continuo processo di degrado, irreversibile. In tal caso, ciascuno si
rassegna, si difende come può e la speranza è perduta.
La seconda, invece, è di sperare che una società possa divenire migliore di quanto non lo sia ora.
Tale speranza deve essere ampia, non limitata nel tempo; non può aspirare a verifiche o a successi
immediati, ma deve predisporsi a sacrifici e a momenti oscuri. Se però questa speranza c'è, allora
ciascuno si sente chiamato a compiere quanto è in suo potere per migliorare l'ambiente in cui vive,
per renderlo più onesto e pulito.
Nonostante gli inevitabili sacrifici che comporta la seconda via, a mio parere essa è l'unica che
permetta di risorgere, di contrastare efficacemente il male.
Se, a esempio, tutti avessero agito come Libero Grassi, non ci troveremmo oggi davanti a mali tanto
gravi, e coloro che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket non si sarebbero sentiti isolati.
Alle persone che hanno compiuto gesti di onestà e sono stati per questo puniti o inascoltati o
emarginati, io dico quindi:
No, il vostro gesto non è perduto! nulla è perduto di ciò che viene da una coscienza onesta e un
giorno anche voi sarete ringraziati e onorati per quello che avete fatto, perché alla fine il vero onore
sarà reso solo a chi è veramente onesto.
Dobbiamo sperare tuttavia non necessariamente in una società perfetta, che forse non ci sarà mai
sulla terra, bensì in una società più giusta, più buona di quella attuale, in una società che si costruirà
con i sacrifici di tutte le persone oneste. Dipende dalla mia, dalla vostra buona volontà. E chi ha
fede, fosse pure soltanto nel mistero dell'uomo, avverte che questa è la sola strada possibile per una
umanità che ha un destino più alto e a cui non sarà negato il compimento di speranze coraggiose.
6. CHE COSA SIGNIFICA «TRASPARENZA»?
Trasparente è un corpo che, lasciando passare la luce, permette la visione di oggetti che si trovano
al di là di esso. Sono trasparenti l' acqua, l'aria, il vetro.
Il vocabolo TRASPARENZA si usa di frequente oggi nella vita amministrativa e politica per
indicare che si deve e si vuole vedere chiaro dietro le parole dei politici, dietro le cifre dei bilanci.
L'uso frequente del termine, manifesta che, al contrario, la gente legge nei programmi e nei
proclami politici, nelle pratiche amministrative e nelle stesse norme giuridiche, dei sottintesi, dei
sotterfugi che permettono di dire una cosa e di farne un' altra, di nascondere intenzioni ritenute
losche, di fare guadagni illeciti.
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E tuttavia bisogna riconoscere che, dietro la fumosità delle parole e il groviglio delle norme e delle
leggi, non c'è necessariamente disonestà o voglia di nascondere qualcosa. Piuttosto, c'è la realtà che
i sociologi chiamano la «società complessa», una società in cui convivono diversi sistemi operativi,
ciascuno con il suo codice linguistico. Perciò non è facile, per il non iniziato, comprendere i
linguaggi con i quali occorre operare nella legislazione, nella finanza, nella pubblica amministrazione.
Qual è - si potrebbe domandare - il modo sbagliato di affrontare la società complessa? Quello di
dare il via a un sospetto generalizzato, leggendo dietro a ogni espressione normativa un po' difficile,
o a ogni cifra di bilancio non evidente, un'intenzione perversa, la voglia di nascondere chissà che
cosa. Ma una società non può fondarsi sul sospetto. Deve essere cauta, guardinga, vigilante, deve
poter verificare tutto con attenzione; ma se manca un minimo di fiducia e si sospetta, per principio,
di tutto e di tutti, i rapporti sociali finiscono col diventare estenuanti e si logorano presto.
Prima del sospetto, o addirittura dell'accusa infondata, occorre dunque un'interrogazione onesta,
occorre il coraggio di chiedere le necessarie spiegazioni, di dire a un politico, a un pubblico
amministratore, al legislatore: spiegati meglio, dimmi che cosa intendi con la tale espressione,
chiariscimi le tue intenzioni.
C'è però una radice più profonda della trasparenza di coloro che hanno responsabilità, ed è
sottolineata dalla frase evangelica: Chi perde la sua vita la troverà.
Se una persona cerca solo e sempre di salvare se stessa e di giustificare se stessa, darà l'impressione,
ancora una volta, di volere a ogni costo i propri interessi e di avere qualcosa da nascondere. Chi
invece ama veramente il suo prossimo come se stesso, dichiara con tutti i suoi atti di non avere
interessi personali da nascondere, ma di mettere al di sopra di tutto il bene comune a cui vuole
sinceramente servire. Quando noi incontriamo gente così, i sospetti si dileguano e fiorisce quella
fiducia senza la quale nessuna buona amministrazione e nessun buon governo sono possibili.
Possiamo concludere dicendo che la trasparenza è possibile quando si parte da una sincera buona
volontà di essere onesti e di servire davvero gli altri.
7. SINO A CHE PUNTO SI PUÒ ESSERE SINCERI?
Ieri abbiamo parlato della trasparenza. Sotto questa parola alla moda, ne intravediamo un' altra più
profonda e più antica: SINCERITÀ.
È sincero ciò che è puro, schietto, non adulterato. Etimologicamente, il vocabolo viene forse da una
radice che significa «crescere»: una cosa cresciuta da una sola ascendenza, che ha un' origine ben
chiara e univoca. Ad esempio, è «sincero» un vino non mescolato.
L'espressione si applica poi ai rapporti sociali nei quali si invoca e si apprezza la genuinità, l'assenza
di doppiezza, la limpidità: un amico sincero, un affetto sincero.
Sincerità nel parlare è la corrispondenza tra il parlare e il modo di sentire, è la trasparenza nell'
esprimersi.
Nella vita quotidiana emerge spesso una domanda: È conveniente, è giusto dire sempre tutto?
sarebbe possibile una vita sociale e civile in cui tutti i sentimenti fossero spiattellati senza riserbo, in
cui non vi fosse più posto per il pudore e per la privatezza?
La questione riguarda in particolare i mezzi di comunicazione sociale e quelle zone di riserbo e di
segretezza riguardanti, ad esempio, certe indagini giudiziarie e che comportano la tutela del buon
nome delle persone fino a quando non ne sia provata la colpevolezza.
Nel quadro della morale privata, la domanda potrebbe porsi a proposito dell' opportunità di dire e
fino a che punto dire la verità a un malato grave, con il rischio di minarne le possibilità di resistenza
e di lotta contro il male.
Il problema è dunque complesso e ci fa comprendere che nella vita occorre sempre guardarsi da
soluzioni troppo precipitose e semplicistiche. Da parte mia, ricordo soltanto due principi.
1. La sincerità va intesa anzitutto come la disposizione a dire tutto ciò che le singole materie e i
singoli rapporti esigono, per loro natura, che sia espresso. Essa comporta dunque la capacità di
distinguere quanto compete a tutti di conoscere. Non è sincerità né l'impudenza né la delazione né il
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tradimento del segreto professionale, cose tutte che non rendono più trasparente, bensì più torbido il
rapporto sociale.
2. Insieme, la sincerità è la disposizione a non ricorrere mai alla menzogna. Chi vi ricorre anche per
un apparente buon fine, specialmente se si tratta di un uomo politico, distrugge la credibilità sua e
del suo gruppo.
Di conseguenza, la sincerità è pure accettazione di qualche sofferenza o disagio che deriva da tale
disposizione. La sincerità, spesso, non paga subito e tuttavia è solo su di essa che si costruisce una
società più trasparente, nella quale le persone oneste dissipano ogni sospetto sul loro operato sociale
e civile, e acquistano la fiducia necessaria per vivere nella famiglia, nel gruppo, nella società
nazionale e internazionale.
Di nuovo concludo con una nota di ottimismo: la sincerità ricostruisce ciò che comportamenti
oscuri hanno tentato di distruggere.
8. LEALTÀ PRIVATA E LEALTÀ PUBBLICA
Oggi parliamo di LEALTÀ, più precisamente di lealtà privata e di lealtà pubblica nel loro reciproco
rapporto.
Il termine «lealtà» è molto usato nei rapporti privati; leale è una persona di cui ci si può fidare, che
non mente, una persona sulla cui parola si può contare, con la quale si entra volentieri in rapporto di
amicizia o di lavoro.
Al contrario, quando una persona si è rivelata «sleale», nessuno più si sente di allacciare rapporti di
amicizia o di commercio o di lavoro.
Eppure questo termine così usato nelle relazioni private ha un'origine pubblica. Etimologicamente
viene da «legale», parola che indica il rispetto nei confronti della legge. Nel medioevo lealtà
indicava il rapporto di fedeltà tra un vassallo di ordine inferiore e un vassallo di ordine superiore;
si riferiva perciò ai rapporti pubblici nella società. Attualmente questo sostantivo è usato per
indicare le più alte qualità morali del rapporto tra persone, e comprende pure gli atteggiamenti di
sincerità e onestà.
Tuttavia vorrei sottolineare particolarmente la figura pubblica più vasta della lealtà, cioè il
comportamento proprio del cittadino che è leale verso le istituzioni.
La lealtà privata è indubbiamente importante, ma al limite potrebbe essere delinquenziale (ad
esempio, quando una persona è fedele al proprio gruppo che si pone contro altri). Per essere vera, la
lealtà deve estendersi al complesso delle relazioni che fondano la collettività. E dunque lealtà
privata e lealtà pubblica si ospitano a vicenda, devono abitare l'una nell' altra; la lealtà, se è tale, è
un atteggiamento distintivo di tutto il modo di comportarsi sia nella sfera privata sia in quella
pubblica.
Solo così potremo provvedere a ciò che chiamiamo il bene comune.
9. BENE COMUNE
L'espressione BENE COMUNE è piuttosto difficile da definire, anche se non sembra.
Essa è composta di due parole: bene e comune.
Bene significa il complesso delle cose desiderate che vorremmo augurare a noi e alle persone cui
siamo legati.
Comune deriva probabilmente dal latino «cum munus» che vuol dire compito fatto insieme,
adempiuto insieme.
Tuttavia questo non basta per spiegare il senso dei due termini congiunti - bene comune -,
soprattutto come esso è inteso nella tradizione cristiana e, specialmente, nel Concilio Vaticano Il.
Cominciamo col dire che cosa non è il bene comune: non è semplicemente un patrimonio comune,
qualcosa posseduta da più persone (ad esempio un campo o un bosco il cui proprietario è un gruppo,
una comunità); non è un insieme di beni sociali (come la tradizione tecnologica o un' alta tradizione
politica di una società), pur se fanno parte dél bene comune; non è neppure !'insieme dei diritti
dell'uomo. Tutte queste realtà appartengono al bene comune, ma non lo costituiscono.
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Che cos'è allora il bene comune?
È l'insieme delle condizioni di vita di una società, che favoriscono il benessere, il progresso umano
di tutti i cittadini.
Ad esempio, bene comune è la democrazia; bene comune sono tutte quelle condizioni che
promuovono il progresso culturale, spirituale, morale, economico di tutti, nessuno escluso.
Ci accorgiamo allora quanto sia importante e prezioso questo «bene comune». In qualche maniera è
previo al costituirsi di una società (perché esso consiste nella realtà dei rapporti ben stabiliti tra le
persone), e nello stesso tempo deve risultare dall'impegno di tutti e non solo di alcuni.
Sul «bene comune» sono dunque chiamate a vegliare le istituzioni - la famiglia, la scuola, tutte le
realtà sociali -; ciascuno di noi e noi tutti insieme siamo responsabili di esso.
10. IL PRINCIPIO «RESPONSABILITA»
Tutti hanno chiara l'idea di che cosa sia la responsabilità.
La parola deriva da «rispondere» che ha nel suo corrispondente latino «respondere» il verbo
«spondere» che significa promettere, impegnarsi.
Nella parola «rispondere» è quindi incluso un forte senso di impegno.
Di solito, però, noi la usiamo in un' accezione più generale, per indicare cioè che si replica ad una
comunicazione altrui.
Ma il senso di «impegno» è puntualmente ripreso nel termine responsabile; è responsabile chi
risponde delle proprie azioni e questa qualità è da tutti molto apprezzata, tanto è vero che nessuno
oserebbe dire di se stesso: io sono un irresponsabile. E tuttavia le prime parole pronunciate
dall'uomo, secondo la Bibbia, sono espressione di «irresponsabilità». La prima parola di Adamo è:
«Ho avuto paura»; quella di Caino è: «Sono forse custode di mio fratello?, sono forse suo responsabile?».
Questo fatto ci induce a pensare. Torniamo al Principio «responsabilità».
Hans Jonas, nel suo famoso libro che porta appunto questo titolo, spiega come noi siamo
responsabili anche delle conseguenze più lontane dei nostri atti, soprattutto in relazione agli
interventi tecnologici sull'ambiente. E siamo quindi responsabili a vasto raggio di ciò che facciamo
attraverso la tecnologia; siamo responsabili del futuro, delle future generazioni.
Possiamo dire che a una maggiore tecnologia corrisponde una maggiore responsabilità, e noi ci
abituiamo lentamente e a fatica a questo fatto. Per noi più tecnologia significa più comodità, e non
vorremmo significasse più responsabilità.
Qual è allora il nostro compito? Dobbiamo imparare a vedere i nostri atti con gli occhi degli altri vicini, lontani, presenti e futuri - e sapere infine che alla radice di tutta la storia biblica c'è un patto
di alleanza, l'alleanza di Noè, la quale insegna che gli uomini e le donne della terra tutti insieme
portano con Dio la responsabilità del creato.
11. ETICA E POLITICA
Abbiamo detto che il bene comune è la totalità delle condizioni che permettono il progresso di tutti i
cittadini.
Ora, parlando della politica diciamo che con questo termine intendiamo quella forma dell'agire
umano che ha come fine proprio il bene comune.
Appunto da qui deriva il fatto che al «bene comune» deve pensare ogni cittadino - non solo chi è
impegnato in politica - , secondo il principio della «partecipazione democratica».
Etimologicamente il sostantivo «politica» viene dal greco polis che significa «città».
E il termine politeia, derivato da «polis», indica:
- sia la cittadinanza, l'essere membro di una città,
- sia la partecipazione al governo della città.
Le due realtà sono inseparabili. Lo stesso san Paolo, nelle sue Lettere, usa la parola politeuma (che
ha la stessa radice) quando afferma che la cittadinanza del cristiano è nei cieli, si allarga cioè dalla
terra alla cittadinanza eterna.
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Se dunque la politica è 1'arte del governo della città e insieme la capacità di produrre le condizioni
del bene comune di essa, qual è il suo rapporto con 1'etica?
Un rapporto strettissimo, perché l'etica - e l'abbiamo visto - ha attinenza con i valori sommamente
degni dell'uomo, e la politica ha come fine la creazione del progresso umano della città.
N on si può mai separare 1'etica dalla politica.
Qualcuno potrebbe obiettare che talora si intende per politica 1'arte della mediazione tra opposti
interessi; di fatto avviene che in politica si debba mediare.
Tuttavia la domanda fondamentale è la seguente:
- la politica ha o non ha un fine? ha o non ha una speranza?
Se essa tende davvero al «bene comune», se ha davvero la speranza di provvedervi, allora la politica
è ben al di là dell' arte del possibile e della mediazione.
È, appunto, l'arte del bene comune per tutti.
12. RAGION DI STATO
Sfogliando il vocabolario dell' etica pubblica, troviamo il termine «ragione di Stato».
Esiste una RAGION DI STATO? L'espressione oggi non è più usata, e però vogliamo egualmente
approfondirla.
Stato deriva da «stare»: una realtà che sta ferma. Lo Stato è l'istituzione più importante e più stabile
della società. Non a caso «istituzione» viene da «istituire», che significa «fondare», mettere le
fondamenta in maniera che qualcosa duri nel tempo.
Lo Stato è dunque la più alta forma di organizzazione della vita sociale, costruita perché possa
durare.
È interessante osservare che la parola «Stato» non era nota, in questo senso, alla lingua latina che,
per esprimere il medesimo concetto usava termini come «civitas» o «res publica».
Essa appare per la prima volta nell' opera Il Principe, di Niccolò Machiavelli (quindi nel 1513), e da
allora ha avuto grande parte nella filosofia pubblica. Tante discussioni, infatti, hanno avuto luogo
attorno a tale concetto. Per Machiavelli «ragione di Stato» significa che, in ragione del diritto
assoluto alla propria sopravvivenza e alla propria stabilità, lo Stato potrebbe compiere azioni vietate
al semplice cittadino, azioni in sé immorali. Da qui è facile il passo alle più generali ragioni della
politica, che permetterebbero al politico di compiere azioni non lecite all'uomo onesto.
Per questo affermiamo che non si ha, in senso proprio, né «ragione di Stato» e nemmeno «ragioni
della politica».
Ed è proprio qui che emerge una parola oggi in uso: obiezione di coscienza. Obiezione di coscienza
significa che nessuno, neppure lo Stato, può chiedere di andare contro la propria coscienza. Se ciò
avvenisse, allora si deve obiettare, si deve cioè (nel senso etimologico della parola) «gettarsi
contro», addurre argomenti e comportamenti contrari.
13. CHE COS'È LA COSCIENZA?
La parola COSCIENZA, su cui oggi ci intratteniamo, è probabilmente una delle più difficili del
vocabolario dell' etica.
Tuttavia è una parola portante, fondamentale, formidabile.
Niente infatti si può opporre alla coscienza.
Ma che cos'è allora la «coscienza»? Ciascuno pensa di sapere, ciascuno sente di avere dentro di sé
qualcosa che può chiamare con questo nome.
«Coscienza» deriva dal termine «conscio»:
- è conscio chi «sa con se stesso»,
- chi si rende conto, che è consapevole,
- e possiamo anche dire chi è vigile, sveglio, presente a se stesso.
Vediamo dunque i diversi significati di «coscienza» .
Anzitutto c'è la coscienza sensoriale, che è la capacità di rendersi conto di esistere (quindi che si sta
vedendo, parlando, ascoltando, gustando, toccando, operando).
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Più oltre c'è la coscienza di sapere, o coscienza intellettuale, che risponde alla domanda: che cosa so
veramente? so di sapere?
Più oltre ancora, c'è la coscienza morale che è la capacità di valutarsi nell' agire morale, ossia di
sapere se le mie azioni sono degne o sono indegne.
Il secondo e il terzo aspetto della coscienza - quella intellettuale o critica e quella morale - sono
pure le radici della libertà, anzi praticamente sono un tutt'uno con la libertà umana.
Può forse sorprenderci il fatto che la parola «coscienza» non si trova nell'Antico Testamento e solo
raramente nel Nuovo Testamento. La usa san Paolo, però il termine syneidesis è greco, appartenente
quindi a quella cultura, non al mondo ebraico.
Eppure la Bibbia parla spesso di questa realtà. Quale vocabolo usa? Il vocabolo cuore.
Dice, ad esempio, Giobbe: «Il cuore non mi rimprovera nulla».
La coscienza, dunque, è il cuore della persona e nulla ad essa va preferito; va invece curata e
coltivata con tutta l'attenzione possibile.
14. LA GIUSTIZIA È LA VIRTÙ PIÙ IMPORTANTE?
Dopo aver visto come la coscienza sia una realtà fondamentale nel campo dell' etica, vogliamo
capire un' altra parola assai importante nel vocabolario che stiamo sfogliando: GIUSTIZIA.
Quando si parla di «etica pubblica», si fa per lo più riferimento alla giustizia.
Tuttavia spesso ci si dimentica che essa è una delle virtù della quadriga classica, delle quattro
grandi virtù umane:
- giustizia,
- prudenza,
- fortezza,
- temperanza.
Con questo gli antichi volevano sottolineare che non c'è vera giustizia se non nasce dalla prudenza,
se non sa usare quando è necessario anche la forza, se non sa moderarsi come deve.
Dunque la giustizia è se stessa In un insieme più vasto, pur se è certamente una virtù determinante
per tutto il rapporto sociale, ed è stata studiata, discussa nelle sue radici.
Il significato del termine «giustizia» nel mondo biblico e nel mondo classico è un po' diverso.
Riferendoci al secondo - come fa il nostro vocabolario -, notiamo che alla base della parola
«giustizia» c'è la parola «giusto»; giustizia è quel valore per cui ciascuno ha ciò che gli compete e
dà agli altri ciò che compete loro. Giustizia è dunque quel valore sociale per cui si riconoscono i
diritti altrui così come si vorrebbero rispettati i propri.
Le conseguenze di tale definizione sono tante, sia nei rapporti sociali che in quelli pubblici.
E la Bibbia che cosa intende per giustizia?
Certamente quello di cui abbiamo detto fin qui, ma anche qualcosa di più. Quando, ad esempio,
parla della giustizia di Dio, Paolo allude alla qualità per cui Dio salva tutti gli uomini, anche se
indegni.
Dunque, la giustizia non è solo la virtù che conserva i rapporti giusti, ma è un valore costruttivo,
che crea dignità e, nella nostra tradizione, non va mai disgiunta dall' amore. Giustizia e insieme
amore sono realtà necessarie per la felicità dell'uomo.
15. VANNO D'ACCORDO MITEZZA E FORZA NELLA VITA PUBBLICA?
Concludiamo la nostra avventura nel vocabolario dell'etica con una domanda:
vanno d'accordo mitezza e forza nella vita pubblica?
Tale domanda potrebbe apparire estranea al nostro percorso; in realtà sta al cuore di tutto quanto
abbiamo detto fino ad ora.
Vorrei dunque tradurla in altro modo: è possibile vivere secondo le beatitudini evangeliche della
mitezza, del perdono, della misericordia, della povertà, e promuovere insieme efficacemente una
vita sociale, produttiva, economica, politica? è possibile applicare l'etica evangelica nella politica?
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È una di quelle domande che fanno fermentare l'intelligenza umana, e costituisce una continua sfida
per chi voglia unire politica e umanità.
Non intendo dare una risposta, ma semplicemente esprimere tre principi:
1. - Non esiste per la nostra domanda una soluzione facile. Tutte le soluzioni trovate a tavolino, tutte
le conciliazioni puramente verbali o ideologiche hanno deluso e deludono nella pratica.
2. - Questa domanda non rappresenta un dilemma, non si tratta cioè di dire: o beatitudini
evangeliche o efficacia politica. Rappresenta piuttosto una mutua fermentazione, perché le
beatitudini evangeliche devono fermentare l'efficacia della vita sociale, economica e politica.
3. - Lasciamoci quindi stimolare da questo lievito profondo che le beatitudini evangeliche hanno
introdotto nella vita dell'umanità.
La sintesi non è astratta, bensì è fatta nel cuore e nella vita; è la grande speranza che la vicenda
dell'uomo non sia qualcosa di piatto, destinato a ripetersi con i suoi mali e i suoi errori, ma sia
chiamata a trascendere se stessa verso qualcosa di più alto.
Siamo così giunti alla conclusione del viaggio nel vocabolario dell' etica pubblica. Non so se vi
siete annoiati o divertiti. Personalmente mi sono piuttosto divertito, perché ho avuto modo di
sfogliare tanti vocabolari e di comprendere meglio il rapporto tra i vocabolari umani e la Bibbia. La
Bibbia è quel luogo in cui le parole di ogni vocabolario umano vanno al di là di se stesse, e anche
questa è una grande avventura dello spirito.
Nota bibliografica
Per questo «Viaggio nel vocabolario dell' etica pubblica» mi sono servito di parecchi dizionari generali e specializzati,
come il Grande Dizionario Garzanti della. lingua italiana, la Enciclopedia Garzanti di Filosofia, il Woerterbuch Christlicher Ethik edito da B. Stoeckle (Herder) ecc. Ma ho trovato stimolanti soprattutto le definizioni del Dizionario italiano
Ragionato, G. D'Anna, Firenze 1989.
VIVERE L'IMPEGNO POLITICO ALLA LUCE DALLA CARITÀ
Premessa
Nel quarto capitolo della dichiarazione finale del Sinodo europeo dei Vescovi, intitolato L'impegno
della Chiesa per l'edificazione di un'Europa aperta alla solidarietà universale, si afferma tra l'altro:
«La conoscenza della dottrina sociale è necessaria per tutti coloro che, in spirito cristiano, sono
impegnati nella costruzione della nuova Europa» (cf IV, 10).
Con queste parole programmatiche mi piace salutare ciascuno di voi - collaboratori, docenti, alunni
- che iniziate la terza edizione della Scuola diocesana di formazione all'impegno sociale e politico.
La mia presenza, pur se sarà necessariamente breve, intende mostrare concretamente l'attenzione di
tutta la Diocesi verso un'iniziativa che al suo esordio auspicavamo potesse diventare permanente,
sull' onda del Convegno di Assago.
Con molto piacere noto come siano in aumento le realtà locali che vengono toccate dalla proposta; è
un dato positivo che va nella direzione di una effettiva risposta capillare sul territorio. Mi pare
inoltre di aver colto, in questi anni, un miglioramento qualitativo nella partecipazione ai corsi; dopo
il momento iniziale che aveva visto un afflusso di iscritti superiore al previsto, le adesioni si sono
stabilizzate, fisiologicamente, su livelli inferiori evidenziando però una maggiore consapevolezza e
decisione da parte degli iscritti, nell'intraprendere un cammino di formazione in vista di un impegno
concreto nelle realtà partecipative presenti sul territorio. Ed è bello sottolineare che, percentualmente, le adesioni vengono soprattutto da giovani al di sotto dei trent' anni, pur se, ovviamente,
coloro che sono oltre questa età si impegnano molto a livello socio-politico e nella acquisizione di
responsabilità.
Anche gli obiettivi fondamentali della Scuola si sono approfonditi chiarendosi sempre meglio nelle
diverse articolazioni: conoscenza della dottrina sociale della Chiesa; criteri di lettura per un
discernimento del contesto culturale, sociale e politico del nostro paese; verifica di autentiche
vocazioni all'impegno socio-politico; responsabilizzazione di forze locali, che sono state coinvolte
per 1'avvio e la realizzazione dei corsi e che si sono mostrate punti affidabili di riferimento per le
iniziative intraprese.
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Si è dunque costituito, capillarmente, un patrimonio importante di energie, di collaborazioni, di
amicizie, di sintonie, che non dovrà essere disperso, bensì andrà opportunamente valorizzato pure
per altre esperienze di approfondimento della dottrina sociale della Chiesa e di attività di servizio
culturale.
Principi immutabili e discernimenti storici
Mi sembra interessante, a questo punto, porci una domanda in particolare sul secondo obiettivo
sopra ricordato, cioè sull' elaborazione di opportuni criteri di lettura in ordine a un maturo
discernimento del contesto culturale, sociale, politico del nostro paese e anche dell'Europa e del
mondo.
Certamente sono forti, in alcuni casi drammatici (pensiamo all' ex Jugoslavia e all' ex Russia), i
segnali di novità e di cambiamento degli equilibri politici e sociali che eravamo abituati a
considerare quasi immutabili, e tutto questo tocca profondamente il cuore del cristiano e il cuore dei
pastori. Ora, proprio all' emozione e alla commozione per il cambio di vicende nel mondo risponde
la dottrina sociale della Chiesa, che non si limita a lanciare principi validi sempre, ma stimola a
domandarsi come tali principi vadano applicati a una lettura corretta della situazione presente.
1. - Vorrei richiamare, al riguardo, le brevi parole con cui si conclude l'introduzione della
Centesimus annus: «La presente enciclica mira a mettere in evidenza la fecondità dei principi espressi
da Leone XIII, i quali appartengono al patrimonio dottrinale della Chiesa e per tale titolo impegnano
l'autorità del suo magistero».
Ricordo una delle ultime interviste rilasciate dal padre Oscar von Nell-Beunning, il grande sociologo
cattolico, morto poco tempo fa all'età di 101 anni. È stato uno dei primi elaboratori delle encicliche
sociali di Pio XI e ha percorso tutto il cammino della sociologia cristiana del nostro secolo.
All'intervistatore che gli chiedeva in che cosa consiste la dottrina sociale della Chiesa, ha risposto: «In
una sola parola: la dignità dell'uomo»; e da questo principio, inteso naturalmente nella sua totalità,
deriva tutto il resto.
Ampliando il principio, potremmo esprimerci così come si è espresso il Sinodo, nella Dichiarazione
finale, facendo suo un intervento molto bello di Sua Eccellenza Monsignor Lehmann, Arcivescovo di
Magonza e presidente della Conferenza episcopale tedesca: «Il principio della dignità della persona
umana, con i diritti fondamentali che le appartengono antecedente mente a ogni statuizione sociale; il
principio della sussidiarietà, che concerne i diritti e le competenze di tutta la comunità; e quello della
solidarietà, che postula l'equilibrio tra i più deboli e i più forti, possono costituire in verità come le
colonne della nuova società che deve essere edificata in Europa».
Dunque ci sono principi che appartengono al patrimonio dottrinale della Chiesa, che impegnano
l'autorità del magistero. Tuttavia non è sufficiente ripeterli perché sono fecondi e possono essere
ulteriormente riproposti, chiariti, approfonditi a seconda dei cambi epocali (e infatti, a partire dalla
Rerum Novarum i papi ci hanno dato altre encicliche sociali che propongono via via i principi
immutabili con accentuazioni di necessità e problematiehe diverse).
2. - Il Papa, sempre nell'introduzione della Centesimus annus, continua così: «Ma la sollecitudine
pastorale mi ha spinto» (e spinge ogni Vescovo, ogni pensatore cristiano) «a proporre l'analisi di alcuni
avvenimenti della storia recente». Infatti, il capitolo centrale dell' enciclica è tutto dedicato all' analisi
storica del 1989. Evidentemente Giovanni Paolo II sa bene di non parlare soltanto di principi generali
immutabili, cui precedentemente ha fatto cenno, ma cerca di dare una lettura della storia, di compiere un
lavoro di discernimento, di interpretazione del significato degli eventi. Egli valorizza ermeneuticamente
tale lavoro, che è diverso dal primo; pur se appartiene ai pastori, nasce dalla sollecitudine pastorale. ,
E aggiunge ancora: «E superfluo rilevare che il considerare attentamente il corso degli avvenimenti, per
discernere le nuove esigenze dell'evangelizzazione fa parte del compito dei pastori», fa parte della
dottrina sociale della Chiesa, dello studio che viene fatto in questa Scuola. Si tratta di «considerare
attentamente il corso degli avvenimenti», con una distinzione che il Papa fa in chiusura: «Tale esame
tuttavia non intende dare giudizi definitivi, in quanto di per sé non rientra nell' ambito specifico del
magistero» (CA 3) ..
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Occorre quindi distinguere tra giudizi definitivi, che vengono dati quando si parla dei principi
immutabili, della loro fecondità, della loro applicazione alle diverse circostanze, e l'analisi, il giudizio, il
discernimento sugli avvenimenti della storia, per discernere le nuove esigenze dell' evangelizzazione.
Anche queste analisi, giudizio, discernimento, sono parte del compito della Chiesa, ma non hanno
necessariamente lo stesso valore dei giudizi definitivi, in quanto non rientrano di per sé nell'ambito
specifico del magistero bensì in quello della preoccupazione pastorale. Credo che in tal modo il vostro
cammino venga chiarito, illuminato, incoraggiato. Non si tratta soltanto di una ripetizione di principi; si
tratta di tentare delle analisi, sapendo che hanno una loro oggettività, che hanno delle ragioni che vanno
solidamente provate e approfondite.
Ritorniamo alla domanda circa il secondo obiettivo, per capire come il cuore del pastore viene
toccato dagli eventi nuovi e difficili che stiamo vivendo.
La Centesimus annus ci fa capire che il pastore viene toccato in due modi.
- Anzitutto si sente stimolato a esprimere, a difendere, a riproporre i principi e a mostrarne la
fecondità. In particolare per quanto riguarda il processo di formazione della coscienza, si può dire che
una coscienza che non pondera questi principi non può dirsi retta e quindi dev'essere formata, coltivata,
ha bisogno di scuola.
- In secondo luogo il pastore, e con lui la Chiesa, si sente spinto a discernimenti storici che sono di
natura diversa dalle affermazioni di principio e che possono diventare giudizi storici prudenziali,
opinioni serie e degne di attenzione.
Gli eventi nuovi e alcuni criteri per leggerli
1. - Le situazioni nuove di oggi le conosciamo, le abbiamo davanti agli occhi, soprattutto nello
scenario più vasto del mondo. Il processo di scongelamento è così rapido da presentare incognite
gravissime, rispetto alle quali non possiamo azzardare previsioni per il futuro.
Anche gli eventi ai livelli nostri interni ci interrogano: pensiamo alla deideologizzazione della contesa
politica, al conseguente bisogno di ricalibrare i motivi, le ragioni del l'impegno e dei diversi modi di
impegno politico; pensiamo alla frammentazione degli interessi e della rappresentanza; all'impasse della
democrazia dei partiti, alla proliferazione della protesta scomposta, motivata, nel fondo, da grande
insoddisfazione, ma non sempre rettamente incanalata; pensiamo alla domanda di protagonismo dei
cittadini.
Su tutto questo noi siamo chiamati a riflettere, a operare un discernimento attento, critico, dei
fenomeni storici collegati con le nostre realtà.
2. - Con quale criteriologia dobbiamo leggere questi eventi? La Scuola ve la insegnerà, ma credo di
poter enunciare alcuni criteri che saranno poi ripresi nei diversi corsi.
- Occorre tenere presente il primato del bene comune in un'ottica personalistica, dunque il bene
comune delle persone, le gerarchie dei valori religiosi e spirituali, culturali, sociali, economici.
- Occorre una considerazione universalistica di tali valori (non solo per me, per un gruppo, bensì per
l'intera società umana).
- In questo quadro, è importante tenere presente l'istanza solidaristica e critica rispetto ai modelli
dominanti nell' occidente sviluppato (anche questo è un criterio pratico, non un principio generale).
- È necessario incoraggiare tutto ciò che ricentra il sistema politico amministrativo e di governo non
sul potere, ma sul cittadino protagonista in modo che si senta parte della cosa pubblica.
- Occorre vivere l'impegno non solo a demolire, bensì a ricostruire; e quando occorre demolire, farlo
sempre con un progetto costruttivo, fattibile e concreto.
- Bisogna impegnarsi perciò nella direzione della proposta, non della semplice protesta.
- E ancora occorre riconoscere in tutto ciò la fecondità dell'ispirazione cristiana e volervi attingere
sapientemente anche attraverso l'ascolto del magistero, delle encicliche, di quanto i Vescovi
propongono.
- Si deve perciò promuovere un'istanza sociale solidaristica e
- preservare principi e garanzie costituzionali legati a questa visione della vita che ha, al vertice, il
primato del bene comune in un' ottica personalistica.
- Infine, occorre tradurre in atto l'esigenza di «uomini nuovi» per tempi nuovi.
Si tratta, insomma, di rendere possibili quelle operazioni che conducono a scelte avvedute in campo
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politico, secondo questa sequenza: informazione accurata e oggettiva, riflessione personale e
comunitaria, ascolto dei dati rivelati e del magistero, giudizio personale sofferto, deliberazione umile e
serena. Occorre, invece, bandire gli umori, il sentito dire, le antipatie e le simpatie personali, in quanto
possibile.
Ci vogliono dunque uomini non di parte, uomini che abbiano una visione globale sicura, che diano
fiducia e aiutino altri a maturare giudizi oggettivi, sereni, fondati, anche se umili, proprio perché non è
sempre facile, in questi ambiti, raggiungere l'assoluta evidenza. Ma attraverso la capacità di attenzione
al moltiplicarsi delle probabilità, attraverso uno sguardo sempre più ampio dello scenario sociale e
politico, attraverso una relazione con i grandi principi, è possibile arrivare a porre delle scelte autentiche
in campo sociale e politico, da proporre con coraggio, con convinzione e con efficacia. Penso e spero
che la Scuola vi insegnerà tutto questo ed esprimo quindi la mia gratitudine a coloro che, aiutando voi
aiuteranno anche il nostro paese nella difficile fase di transizione che sta vivendo; lo aiuteranno a
superare l'allargarsi della frattura tra istituzioni pubbliche e cittadini, a guardare con energia e a respingere con coraggio l'espansione della criminalità, a prendere di petto la permanente difficoltà a
ricostruire valori etico-civili condivisi culturalmente, su cui porre le basi per una convivenza finalmente
rinnovata.
Conclusione: lo stile del servizio
E permettetemi, attraverso questa Scuola, di rivolgere un appello alla coscienza di tutti i cristiani,
affinché sappiano diventare attivi protagonisti dell' attuale fase storica portando il loro contributo di
cittadini e di credenti alla costruzione di una città dell'uomo a misura di uomo. In particolare rinnovo, ai
cristiani laici impegnati in politica e a quanti si stanno preparando nella Scuola, l'invito a vivere in
spirito di autentica carità la loro esperienza, anteponendo la ricerca del bene comune e la centralità
dell'uomo a qualsiasi interesse personale e del proprio gruppo di appartenenza.
Sia il servizio lo stile concreto che manifesta pubblicamente una vita politica vissuta alla luce della
carità, cioè una vita capace della più splendida gratuità nella dedizione e della più umile saggezza nel
saper porre, quando è necessario, un limite al proprio impegno, alla propria fatica, alla propria militanza
politica; occorre essere liberi interiormente, vivere quel distacco che indica lo stile del servizio, e non
del potere a ogni costo.
Ancora il servizio è il criterio della scelta degli strumenti concreti con cui perseguire l'edificazione
del bene comune. Ho già accennato brevemente a questi strumenti concreti, e vi rimando al Documento
della Conferenza episcopale lombarda di tre anni fa, intitolato Educare alla partecipazione sociopolitica.
Il nostro momento storico richiede uomini capaci di saper coniugare, con particolare sapienza, la virtù
della prudenza con il grande coraggio di scelte ricche di vera novità e di reale efficacia storica
nell'interpretare i mutamenti in atto. Aderendo alle Scuole di formazione, voi avete mostrato
!'intenzione e la disponibilità a spendervi e a rischiare nel vasto campo dell' agire sociale e politico. Il
risveglio di interesse alla politica deve mostrare i suoi frutti nella visibilità di azioni concrete e
storicamente coerenti con il cammino formativo che la Chiesa italiana ha proposto negli ultimi anni. Pur
nella pazienza dei tempi lunghi, richiesti da ogni proposta di tipo culturale ed educativo, credo di poter
dire che gli anni '90, dedicati dalla CEI a «Evangelizzazione e testimonianza della carità», dovranno
essere gli anni in cui percepire i primi risultati dello sforzo educativo compiuto dalla comunità
ecclesiale in un impegno di carità quale è quello socio-politico. Il nuovo che attende di essere costruito
chiede anche, come ho indicato parlando dei criteri, uomini nuovi e rinnovati nelle idee, nelle
motivazioni e nelle intenzioni. Per questo voi siete un segno di speranza, un segno per la passione che
testimoniate nell'essere qui oggi, al di là di ogni moda passeggera, un segno per la novità che rappresentate come persone e come persone disponibili a impegnarsi per la città dell'uomo.
DAI PROBLEMI DELL'ETICA PUBBLICA ALL'INTERROGATIVO M0RALE
L'attenzione per i temi dell' etica pubblica è visibilmente lievitata nella stagione più recente della vita
civile, e di questo fatto certo ci si deve compiacere. Sorge tuttavia spontaneo il dubbio: è sufficiente il
fatto che di argomenti etici tanto si parli, perché si possa effettivamente incidere sulla qualità del tessuto
morale della società contemporanea e soprattutto perché si possa porre rimedio a quella spiccata
incertezza morale che sembra affliggere la coscienza personale di ciascuno in questo tempo? Le
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molteplici forme della comunicazione pubblica certo concorrono ad accrescere in qualche misura la
sensibilità di ciascuno per i problemi della vita comune; esse spesso minacciano però insieme di
alimentare una specie di delega delle responsabilità. La comunicazione pubblica colpisce
preferibilmente le responsabilità dei poteri pubblici; ignora invece per lo più il momento della vita
personale, le difficoltà e gli interrogativi con i quali essa deve cimentarsi, la coscienza di ciascuno, i
modelli di comportamento ai quali più o meno consapevolmente una tale coscienza soggiace.
La tendenziale disattenzione del dibattito pubblico sull' etica per quegli aspetti che più
immediatamente riguardano la responsabilità di ciascuno ha motivazioni complesse; cerchiamo qui di
illustrarne alcune, che ci sembrano più immediatamente attinenti al campo di interesse della presente
rivista.
L'accresciuta attenzione pubblica ai temi dell' etica è alimentata anzitutto da concreti problemi di
«giustizia» proposti dalle forme dell' esperienza civile in rapido mutamento. Si tratta di problemi di
qualità molto diversa tra di loro, che quindi non possono essere ricondotti troppo precisamente a un
denominatore comune. Per illustrare questa profonda differenza, facciamo riferimento, a titolo
d'esempio, per un lato ai problemi della bioetica e per altro lato ai problemi di quell' «etica degli affari e
delle professioni», alla quale è intitolata la presente rivista.
I problemi della bioetica, come si sa, sono anzitutto legati alle nuove acquisizioni nel campo delle
scienze biologiche, e quindi del potere tecnologico in molti ambiti della pratica medica. Più immediata
risonanza hanno avuto le nuove forme della cosiddetta «procreazione assistita» e, quindi, i problemi
obiettivamente posti dal configurarsi di un' esasperata artificiosità dei processi generativi. La
consistenza di tali problemi è tale da riguardare, non solo e subito le «giuste» regole sociali a cui
sottoporre tali materie, ma prima ancora la coscienza stessa dell'uomo e della donna candidati a far uso
di tali tecniche, e più in generale di ogni uomo e di ogni donna. Il problema di «giustizia» - inteso come
problema di etica professionale e quindi di equità nel rapporto tra professione medica e utenza - appare
qui soltanto secondo rispetto a una serie di più radicali problemi, per formulare i quali la cultura contemporanea sembra addirittura mancare del linguaggio adatto. Che cosa vuol dire «generare»? Che cosa
fa la differenza tra 1'arcana figura del «generare» e l'inquietante figura del semplice «fabbricare» un
figlio? Che cosa è «vita» in accezione propriamente umana, al di là di ciò che ne sa la biologia? Quali
sono le condizioni - «morali» o, addirittura, «religiose»? - che si debbono rispettare perché la
generazione non risulti un sopruso nei confronti di colui che è messo al mondo? E quindi poi, è
possibile giungere ad un consenso civile, per quanto riguarda la determinazione di tali condizioni,
oppure occorre rassegnarsi alla prospettiva che vorrebbe la coscienza «privata» giudice insindacabile in
tale materia?
Nonostante oggi si parli molto di «etica pubblica» sembra invece che rimanga stretto il silenzio sulla più
antica e misteriosa «morale »: su quei criteri dell' agire, cioè, che garantiscono non semplicemente la
«giustizia» nei rapporti sociali, la «giustizia» del- l'uomo a fronte della sua stessa coscienza. Quando
non si affrontino le sottese questione «morali», d'altra parte, sembra che le stesse questioni di «etica
pubblica» non possano ricevere altro che soluzioni convenzionali, risultato di un compromesso tra punti
di vista diversi e incomparabili e non, invece, di un reale consenso a proposito di ciò che è degno
dell'uomo, di ciò che fa buona la vita.
Alla radice del tendenziale silenzio del dibattito pubblico sulle questioni propriamente «morali»
stanno ragioni note e meno note. Tra le ragioni note ricordiamo quella costituita dal cosiddetto
«pluralismo» che caratterizza la civiltà contemporanea per quanto attiene alle questioni relative al senso
ultimo della vita. Tra le ragioni meno note, o comunque meno frequentemente ricordate a livello di
dibattito pubblico, sono invece quelle connesse al distacco sistematico che, nelle forme della vita civile
contemporanea, sembra tendenzialmente stabilirsi tra coscienza individuale e scambio sociale. E certo
riconosciuto da tutti che anche la vita sociale ha bisogno di criteri di carattere «etico»: essi sono di solito
cercati in «valori» molto formali - libertà, giustizia, rispetto dei diritti dell'uomo e così via - sui quali
sembra facile il consenso di tutti. Il prezzo che si deve pagare per il carattere troppo formale di quei
«valori» sui quali tutti consentono è però questo, ch' essi non bastano a suggerire univoche ragioni di
soluzione dei nuovi problemi che oggi si pongono, ad esempio quelli appunto proposti dalla bioetica.
Sembra giustificato questo dubbio: il consenso sui «valori» da tutti declamati è consenso effettivo o
solo nominale? Per dare univocità a quei «valori» non è forse necessario che si apra un confronto
pubblico su quei problemi morali, che la coscienza del singolo inevitabilmente conosce, e sui quali
invece le voci pubbliche sembrano per lo più preferire sia tenuto il silenzio?
Mi chiedo se i contrasti spesso rilevati, e spesso anche deprecati, tra «etica laica» e «morale
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cattolica» non siano da ricondurre per una parte cospicua esattamente a questo equivoco: la Chiesa si
occupa anzitutto di questioni morali, e non di questioni di etica pubblica; essa afferma inoltre che
l'attenzione ai profili propriamente morali delle diverse questioni è comunque imprescindibile anche in
ordine alla soluzione delle questioni di carattere giuridico. Questo per altro non comporta una
conclusione così semplicistica, quale sarebbe quella che intendesse proporre senz' altro la dottrina
morale cattolica quale modello a cui conformare la legge civile; mentre proprio questo è il sospetto che
viene facilmente nutrito nei confronti della Chiesa e rispettivamente nei confronti delle diverse
espressioni del cattolicesimo a livello civile.
Alle difficoltà oggettive di un'intesa tra «laici» e «cattolici» su questioni tanto complesse si
aggiungono certo molte difficoltà che invece nascono soltanto da quella inclinazione facile della
comunicazione pubblica a far uso di formule stereotipe, che mirano assai più a colpire che ad
argomentare. Un'intesa, e prima ancora un confronto più «razionale» e meno emotivo tra «laici» e
«cattolici» sulla complessa materia della distinzione e insieme della correlazione tra diritto e morale,
sarebbe favorito dal riconoscimento esplicito anche da parte della cosiddetta cultura «laica» della
consistenza specifica del problema morale, e quindi dal riconoscimento comune del rilievo che tale
problema obiettivamente assume anche sotto il profilo del giudizio sui fatti di civiltà. La coscienza
morale individuale infatti non è un fatto puramente «privato»; essa per un lato è obiettivamente plasmata
anche a partire dalle condizioni civili della vita; e d'altra parte la buona qualità della vita comune non
può essere adeguatamente garantita a opera esclusiva delle «regole» del diritto o della proclamazione
pubblica dei massimi «valori», dipende invece anche e non marginalmente dalla qualità del costume a
livello di comportamenti personali.
Le questioni sollevate dall' «etica degli affari e delle professioni» sembrano, in prima battuta almeno,
meno radicali, e di carattere più squisitamente civile. Così come di fatto nascono, in ambito
anglosassone, esse sembrano connesse a un originario interesse «utilitaristico» - per quanto del tutto
legittimo, e alla fine corrispondente allo stesso interesse sociale - piuttosto che a un interesse
propriamente morale. L'affermarsi delle mille nuove professioni, la sempre più esasperata
frammentazione delle competenze specialistiche, la conseguente opacità dei criteri in base ai quali
apprezzare la reale consistenza di proclamate «competenze», gli accresciuti ritmi di obsolescenza delle
stesse, tutto questo minaccia di creare un diffuso clima di incertezza. Tale clima d'altra parte sembra
incoraggiare strategie di comportamento «selvagge», che puntano assai più sulla immagine e sul potere
di seduzione che sulla qualità obiettiva e accertabile delle competenze in questione. Una tale dinamica
appare obiettivamente perversa, e tale da compromettere alla lunga la stessa immagine complessiva dei
singoli corpi professionali. Di qui 1'esigenza diffusamente avvertita di procedere a una ridefinizione
delle «regole del gioco», capaci di offrire garanzie di trasparenza all' esercizio della professione o rispettivamente dell' attività di impresa.
E tuttavia, l'effettiva realizzazione di questi obiettivi non sembra possibile anche il tal caso mediante la
semplice statuizione di «regole» convenzionali certe; comporta invece che si persegua il più ambizioso
obiettivo di un «costume» sufficientemente univoco e consensuale. Come definire la differenza tra un
vero e proprio «costume» e semplici «regole» materiali di comportamento? Le «regole» hanno di
necessità carattere casistico, sono quindi sempre molto analitiche, e anche mai sufficienti a prevedere
tutto; sono inoltre difficilmente controllabili, specie da parte dei non addetti ai lavori. Rischiano quindi
di fatto di non riuscire a correggere quella cattiva dinamica per la quale la preoccupazione etica è intesa
più come cura dell'immagine pubblica, che come effettiva cura della buona qualità obiettiva del servizio
che le singole professioni offrono al bene comune della società.
La promozione di un «costume», per converso, esige appunto che la riflessione dei singoli corpi
professionali proceda oltre: dalla semplice statuizione di regole analitiche a cui attenersi nell' esercizio
della professione passi a considerare gli «stili» complessivi di comportamenti, e tenti quindi anche una
valutazione consensuale di tali «stili» per riferimento ai parametri di bene e di male almeno virtualmente
propri della società nel suo complesso. L'operazione comporta dunque che sia resa operante una
riflessione proporzionalmente esplicita sulle ragioni per le quali l'opera delle singole professioni può e
deve essere riconosciuta come concorrente al bene comune. Una tale riflessione non potrà prodursi
ovviamente nell' ambito esclusivo della «corporazione» professionale; dovrà invece necessariamente
mettersi a confronto con l'opinione pubblica tutta dovrà quindi curare la comunicazione con tale opinione pubblica; potrà in tal modo anche concorrere a un' obiettiva promozione della stessa. Lo sviluppo
di un' etica professionale a tali condizioni appare capace di divenire, pro parte sua, momento di
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quell'etica politica, di cm lamentavamo all'inizio il difetto: un' etica che non si limita a denunciare le
responsabili~à dei poteri pubblici, si preoccupa invece di determinare Il contributo che al bene comune
può e deve venire dai comportamenti personali di ciascuno.
Non solo, ma un'etica professionale di tal genere potrebbe da vicino contribuire allo sviluppo della
stessa coscienza «morale» del professionista; di quella coscienza cioè che esige da lui, non solo di non
ledere i diritti degli altri, ma di vivere il proprio impegno professionale come momento di quel disegno
più profondo della vita, che consiste appunto nello spendere se stessi per il bene di molti. Anche nel
caso dell' attività professionale infatti accade oggi spesso che il singolo sia inquietato, non solo dalle
eventuali «ingiustizie» subite, ma dal difetto di motivazione ideale per il proprio impegno; detto altrimenti, dal difetto di una trasparente e convincente «giustificazione» morale - e non di carattere
semplicemente economico o di immagine - per un momento della propria vita che certo è tutt'altro che
marginale.
IL CRISTIANO E LA POLITICA
È possibile per un cristiano fare politica?
Il numero 42 dell' esortazione apostolica Christifideles laici inizia così: «La carità che ama e serve la
persona non può mai essere disgiunta dalla giustizia: e l'una e l'altra, ciascuna a modo suo, esigono il
pieno riconoscimento effettivo dei diritti della persona, alla quale è ordinata la società con tutte le sue
strutture ed istituzioni».
Questo è dunque il principio generale: carità, giustizia, diritti della persona, società. Di qui deriva la
conseguenza: «Per animare cristianamente l'ordine temporale, nel senso detto di servire la persona e la
società, i fedeli laici non possono affatto abdicare alla partecipazione alla "politica", ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere
organicamente e istituzionalmente il bene comune. Come ripetutamente hanno affermato i padri
sinodali, tutti e ciascuno hanno diritto e dovere di partecipare alla politica, sia pure con diversità e
complementarità di forme, livelli, compiti e responsabilità». Ricordo, infatti, che molte volte dai padri
sinodali di tutto il mondo, senza eccezioni, è stata affermata vigorosamente la necessità che i fedeli laici
sentano il dovere-diritto di partecipare alla politica come parte della loro missione. In questo senso, il
documento post-sinodale rispecchia una preoccupazione generale.
Con essa ne emergeva un' altra, anche questa ripresa dall'esortazione: «Le accuse di arrivismo, di
idolatria del potere, di egoismo e di corruzione che non infrequentemente vengono rivolte agli uomini
del governo, del parlamento, della classe dominante, del partito politico; come pure l'opinione non poco
diffusa che la politica sia un luogo di necessario pericolo morale, non giustificano minimamente né lo
scetticismo né l'as~enteismo dei cristiani per la cosa pubblica». E riconosciuta la presenza della
corruzione politica e però si afferma che questo non
giustifica il disimpegno.
,
Continua il documento: «E invece quanto mai significativa la parola del concilio Vaticano II: "La
chiesa stima degna di lode e di considerazione l'opera di coloro che per servire gli uomini si dedicano al
bene della cosa pubblica e assumono il peso delle relative responsabilità" (Gaudium et spes, 75)>>.
Seguono alcune indicazioni sui criteri basilari per la partecipazione alla politica, e sono soprattutto tre: il
perseguimento del bene comune, come bene di tutti gli uomini e di tutto l'uomo; una linea costante di
cammino nella difesa e nella promozione della giustizia; lo spirito di servizio.
Obiezioni
Ma è davvero possibile per un cristiano fare politica così?
Non si tratta di una domanda astratta e teorica. Si tratta della questione pratica. È possibile
concretamente per un cristiano fare politica nel nostro paese, in questa congiuntura storica e culturale? E
a quali condizioni, anche personali, ciò può avvenire?
La possibilità, per un cristiano convinto e coerente, in particolare per un cattolico, di fare politica
attiva oggi in Italia viene messa in dubbio anzitutto da quelle correnti di pensiero che ritengono che i
cattolici, sia a causa di particolari eventi storici del passato, o a causa di condizionamenti ecclesiastici o
dogmatici, non abbiano una sufficiente cultura dello stato. Non mancano neppure alcuni i quali
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ritengono che in generale il rigore dei princìpi morali non sia compatibile con una moderna e realistica
gestione del potere.
Tra i cattolici poi non mancano coloro che, se non negano in teoria la possibilità di agire da credenti
in politica, ritengono che nelle attuali condizioni di certe società ciò non sia di fatto possibile senza
compromessi inaccettabili da chi voglia vivere in pieno il vangelo. La navigazione sarebbe teoricamente
possibile, ma la forza del mare è superiore alla tenuta della barca.
Tuttavia rimane vero che se la politica è parte precipua dell' agire umano, ciascun uomo che ad essa si
volge lo fa nell'integrità della sua persona. Ora, tutta la persona umana è stata sanata e redenta da Cristo.
Faccio politica perché sono persona umana, in quanto uomo o donna corresponsabile del divenire
storico del cosmo. Faccio politica da cristiano perché Cristo ha redento tutto ciò che è umano e all'uomo
appartiene.
Il senso dello Stato
Che cosa rispondiamo alla prima obiezione, che cioè il cristiano potrebbe non avere un sufficiente
senso dello Stato?
Chiediamo anzitutto: di quale Stato? Certamente non di quello che si ponesse come realtà suprema,
sconfinando nella trascendenza, facendosi giudice ultimo di ogni cosa. E neppure di uno Stato che si
ponesse di fronte ad altri stati nazionali come un assoluto senza attenzione alla universalità della
convivenza umana.
Ma neanche, nell'altra direzione, di uno Stato che non rispettasse l'antico principio di sussidiarietà. Il
cristiano ha invece molto forte il senso di uno Stato che abbia iscritto nella sua dinamica il principio del
bene comune, che senta come invalicabile il rispetto di ogni persona, che riconosca le realtà sociali a
tutti i livelli, che si apra alla collaborazione internazionale.
Ma questo è l'ideale di Stato che emerge dalla nostra costituzione, quello che tanti politici cristiani,
come Alcide De Gasperi, insieme a tanti altri uomini di buona volontà hanno contribuito a disegnare e a
formare col loro sacrificio e con il loro senso civile e giuridico. Questo è l'ideale di Stato a cui, il 28
novembre 1987, ci richiamava Francesco Cossiga allora Presidente della Repubblica italiana dicendo tra
l'altro le seguenti parole: «La vita degli enti locali è il fondamento stesso di ogni democrazia: l'ampiezza
degli spazi riservati, in una comunità statuale, agli enti locali, è indice delle vitalità e della sanità di un
regime democratico. Il sistema delle autonomie è il primo volto dello Stato. Assai grave sarebbe se la
gente, nel rivolgersi alle istituzioni, avvertisse una sorta di estraneità, non le sentisse insomma come
proprie, se le scoprisse non strumenti di libertà ma, al contrario, strumenti di oppressione. Questa
visione, che non può e non deve apparire utopica, guidò del resto razione generosa ed illuminata di
Giorgio La Pira. Del realismo dell'utopia egli seppe sempre dare piena e risoluta testimonianza, quando
si battè per la pace e si adoperò perché al posto delle cortine che ancora dividevano e dividono il mondo
venissero costruiti ponti di operante solidarietà, quando guardò con attenta sensibilità alla necessità di
coloro che, emarginati e deboli, più degli altri debbono ricevere dall'ordinamento democratico.
Manifestazioni certamente della sua inesausta caritas di cristiano, ma anche dei suoi profondi convincimenti di democratico, della sua fede in una democrazia che non sia soltanto l'arengo ove i forti
liberamente sviluppano le loro facoltà, ma anche la casa comune dove essi, crescendo e consolidandosi,
sappiano e vogliano porre le premesse per la crescita dei più deboli». Dunque i cristiani non saranno secondi a nessuno per quanto riguarda il vero senso dello Stato.
Il rispetto della morale
Ma qui sorge l'altra obiezione: è possibile agire efficacemente in campo politico rispettando la morale
cristiana? La forza dell' obiezione sta nel rapporto necessario tra bene comune e potere e nel contrasto
che può verificarsi tra interesse generale e interesse particolare, sia esso personale o di gruppo.
Ricordiamo anzitutto alcune semplicissime verità riguardanti sia il rapporto tra bene comune e
potere, sia quello tra beni comuni e interessi particolari.
Agisce in modo conforme all' ordine morale, cristiano e anche semplicemente umano, chi pone come
fine del suo agire politico il bene comune e considera il potere e il suo esercizio come un mezzo, uno
dei mezzi per attuare il bene comune.
Ma purtroppo nella prassi corrente può accadere il contrario, cioè che venga ricercato il potere per il
proprio personale tornaconto, e solo subordinatamente ad esso e al suo mantenimento, soprattutto se il
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potere dipende anche dal consenso, ci si preoccupi del bene comune. Per quanto riguarda il rapporto tra
bene comune e bene o interesse particolare, può non essere male cercare il bene personale, familiare, di
gruppo, sia esso economico, sociale o politico, anzi può essere necessario quando si tratta di bisogni o
diritti oggettivi. Male è subordinare il bene generale-a quello particolare. È anche ovviamente male
qualsiasi illegittimo accaparramento o dirottamento di beni: comuni per un
interesse particolare.
'
Ma che può fare il cristiano implicato in politica quando gli accade di'operare in società dalla
moralità incerta o decadente?
Le condizioni per operare eticamente in politica
Anzitutto è necessaria una «competenza», che nasce da preparazione professionale qualificata,
aggiornata, capace di invenzione continua e che sappia coniugarsi proficuamente anche con altre
garanzie di moralità, di chiarezza, di collaborazione (cf il documento CEI 1981 La chiesa italiana e le
prospettive del paese, 35). Già Giovanni XXIII in proposito, nella Pacem in terris sottolineava con molta
precisione che non ci si può inserire adeguatamente nelle istituzioni tipiche della nostra vita sociale e
non si può operare efficacemente in esse «se non si è scientificamente competenti, tecnicamente capaci,
professionalmente esperti».
D'altra parte, però, la competenza, se è necessaria, non è sufficiente.
. Occorre anche, per vivere l'impegno politico secondo autentiche regole etiche ridare il primato alla vita
spirituale. Come terza condizione mi piace ricordare quella della speranza cristiana anche in politica. È
questa una puntuale indicazione che troviamo ancora nel documento dei vescovi appena citato: «Il
primo impegno che la chiesa e i cristiani intendono confermare e realizzare con una nuova intensità è la
volontà di dare sempre più chiaramente il primato alla vita spirituale, da cui dipende tutto il resto ... Né
ab~ian:~ il sospetto che volgersi a Cristo possa significare evadere dalla situazione. Non poche
esperienze anche recenti ci confermano anzi, che disperderci nella realtà sociale senza la nostra identità
è il grave rischio da evitare. Se non abbiamo fatto abbastanza nel mondo, non è perché siamo cristiani
ma perché non lo siamo abbastanza» (La chiesa italiana e le prospettive del paese, 13). Si tratta allora di
sperimentare una viva e matura comunione con il Signore Gesù, nell' ascolto della sua parola, nella
partecipazione ai sacramenti, nella preghiera assidua e costante, certi della verità dell' assioma secondo
11 quale se si hanno molte cose da fare occorre, proprio per questo, pregare molto di più:
D'altra parte, la testimonianza di alcuni grandi uomini del nostro. tempo che hanno vissuto in prima
persona i1 loro impegno sociale e politico ci conferma in questa coscienza. Basti, per esempio, pensare
a La Pira, De Gasperi, Vanoni, Moro, Lazzati, Ruffilli che hanno sentito e vissuto il primato dello
spirituale (e avendo conosciuto tra questi maggiormente Giuseppe Lazzati, direi anzi il primato della
contemplazione), in un costante riferimento alla parola di Dio continuamente interrogata alla luce del
loro impegno personale attraverso un esigente itinerario di ascesi interiore.
Che cos'è la speranza cristiana in politica?
Per rispondere alla domanda, dobbiamo anzitutto dire che cosa non si intende per speranza cristiana
nell' agire politico. Non si intende ad esempio, la semplice previsione ottimistica di riuscire, di farcela,
di arrivare a imporre i propri obiettivi, di raggiungere i risultati concreti che ci si è proposti. Non si
intende neppure la semplice confidenza nella bontà della propria causa, una fede generica nel successo,
colorata magari religiosamente anche se sentimenti di questo tipo non possono non accompagnare ogni
azione di chi intenda influire sulle altrui volontà. Non si può a lungo dirigere altri verso determinati fini
senza crederci profondamente, senza avere la certezza che la via è buona e che alcuni traguardi sono
raggiungibili.
La speranza cristiana deve tener conto, per essere veramente tale anche in politica, di una serie di
elementi negativi.
Anzitutto deve saper fare i conti col rischio inevitabile dell'insuccesso, almeno nei tempi brevi e
medi. Né la protezione divina, invocata con l'ardente preghiera, né la bontà della causa, assicurano
senz'altro il successo immediato e visibile dei nostri sforzi. Questo successo non fu garantito neppure a
Gesù che disse: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46).
Per il cristiano, poi, c'è un problema in più, per così dire, e lo sottolineava argutamente Jacques
Maritain: è il fatto che egli non può per principio usare mezzi immorali, non può camminare per le
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strade dell'ambiguità, pur se tali strade promettono talora risultati almeno a breve termine. Deve, inoltre
difendersi dalle tentazioni del potere, cioè dalla prevaricazione che vorrebbe il potere fine a se stesso. E
su questa istintiva inclinazione del cuore umano che faceva leva l'avversario quando mostrava a Gesù
«tutti i regni del mondo con la loro gloria» . Dovrebbe scaturire, di qui, un'interpretazione tutto
sommato pessimistica e demotivante della realtà politica, per la contraddizione tra il dovere del cristiano
di occuparsi della costruzione della città e !'identità pratica che non di rado si verifica tra politica e
ricerca del potere fine a se stesso.
Può certamente accadere, a volte, che una felice congiuntura favorisca l'incontro tra uomini politici
straordinariamente dotati e momenti storici favorevoli a un'azione cristianamente ispirata. Tuttavia, non
si può supporre a priori che ciò avvenga sempre. L'onda lunga della politica, intesa come potere fine a
se stesso e come scontro di interessi che si combattono senza badare troppo alla moralità dei mezzi,
sembra alla fine prevalere dominando, di fatto, la storia. Una speranza a misura umana appare, dunque,
insufficiente per sostenere nella durata un' azione politica lungimirante e onesta.
Una speranza che sia cristiana solo a metà porta a rifugiarsi, al massimo, nella ricerca del male
minore o nella difesa di equilibri precari.
L'autentica speranza cristiana
Come icona positiva dell' autentica speranza cristiana a riguardo delle cose di questo mondo,
possiamo assumere quella di Abramo nei confronti di una città proverbialmente presa a simbolo di ogni
corruzione. E’ la città di Sodoma, di cui il profeta Ezechiele dice: «Essa e le sue figlie avevano
superbia, ingordigia, ozio indolente. Non stesero la mano al povero e all'indigente» (Ez 16,49). Sodoma,
dunque, è il prototipo di una città e civiltà in degrado; eppure Abramo non perde la speranza e intercede,
supplica perché qualcosa di buono deve pur esserci anche in quella situazione. E il Signore stesso
consente sul fatto che cinquanta giusti, o quarantacinque, o quaranta, o trenta, o venti, o almeno dieci,
basterebbero davanti a Dio perché una città potesse avere ancora speranza.
Possiamo così dedurre che non è neppure la quantità dei consensi ciò che più conta all'inizio, ma
piuttosto la presenza di un lievito capace di attaccare la pasta, di un sale non scipito, di lucerne non
fumiganti.
La speranza cristiana è pure quella che sorregge Paolo a Corinto. Trovandosi alle prese con una città
in grave stato di degrado morale, l'Apostolo si sente dire, nella notte, dal Signore: «Non aver paura, ma
continua a parlare e non tacere, perché io sono con te. .. perché io ho un popolo numeroso in questa
città» (At 18, 10).
Ogni cristiano ha bisogno di tale speranza, soprattutto se opera in campi difficili, in particolare nella vita
sociale e politica. Chi vuole vivere integralmente il Vangelo operando in mezzo al mondo - e come non
ricordare che questo fu il grande ideale che predicò e visse Giuseppe Lazzati - deve accettare anche di far
parte, non di rado, di una minoranza.
La validità del Vangelo, sul piano storico, esige soltanto che vi sia sempre qualche cristiano di nome
e di fatto disposto a combattere (e magari a perdere, nel periodo breve) per l'ideale che rappresenta.
Infatti, la speranza cristiana è quella che non delude mai. E la speranza che imita Abramo che seppe
andare contro l'evidenza nel sacrificio di Isacco, che «sperò contro ogni speranza» nella certezza che
Dio non sarebbe venuto meno alla sua promessa (cf Rm 4, 1855).
È una promessa che garantisce l'efficacia e la permanenza di ogni azione umana che sia compiuta in
vista del regno di Dio.
L'efficacia di questa speranza non sta nella garanzia del raggiungimento del traguardo immediato
previsto, bensì nella fiducia che tutte le potenze del male, radunate insieme, non potranno spegnere il
valore che ogni obiettivo onestamente perseguito in definitiva rappresenta.
La speranza cristiana ci dice che vale la pena combattere per obiettivi buoni, perché tutto il potere del
male non potrà mai distruggere ciò che Cristo attrae a sé nella forza della sua risurrezione e pone sotto
la sua signoria universale.
LA CORRUZIONE POLITICA
La corruzione politica esiste
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La corruzione politica esiste, almeno allo stato di accusa: le accuse di arrivismo, di idolatria del potere,
di corruzione, non infrequentemente sono rivolte agli uomini del governo, del parlamento, della classe
dominante, del partito politico. Esiste ed è un fenomeno universale. Ci saranno gradazioni diverse tra
loro, ma le lamentele, le sofferenze, talora le angosce espresse dagli interventi dei vescovi, hanno
mostrato che la corruzione politica c'è in tutti i paesi.
Noi siamo chiamati a metterci di fronte, con spirito evangelico, a questa realtà. D'altra parte, se il
peccato originale e la storia peccaminosa dell'umanità si riflettono a livello individuale, interpersonale,
familiare, sociale, non possiamo stupirci che si riflettano anche a livello politico. Siamo tutti peccatori,
soggetti a un regime storico di peccato, e dobbiamo anzitutto riconoscere umilmente la nostra
condizione umana. Interrogandoci sulle radici bibliche di questa constatazione, potremmo dire che la
corruzione politica non solo esiste, non solo è un fenomeno universale, ma è sempre esistita.
La Bibbia condanna tale atteggiamento in tantissime pagine. Non si limita a denunciare peccati
individuali o il peccato di idolatria o la bestemmia, bensì denuncia espressamente la corruzione politica.
In fondo, le città di Sodoma e Gomorra sono condannate certamente per la corruzione morale, dei
costumi, per la perversione della sessualità; però tutto questo aveva ingenerato una forma di corruzione
che penetrava nelle strutture e viziava gli stessi comportamenti sociali più profondi, come quello dell'
ospitalità.
Soprattutto nei profeti troviamo delle invettive riguardanti il tema della corruzione politica. Sarebbe
facile, ad esempio, citare pagine di Isaia che, fin dall'inizio, appunta i suoi strali sul degrado della città:
«Come mai è diventata una prostituta la città fedele, Gerusalemme? Era piena di rettitudine, la giustizia
vi dimorava» (si tratta della città anche nelle sue strutture sociali e politiche). «Ora invece è piena di
assassini; il tuo argento è diventato scoria, il tuo vino migliore è diluito con acqua, i tuoi capi sono
ribelli e complici di ladri. Tutti sono bramosi di regali, ricercano mance» (tangenti), «non rendono
giustizia all' orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge» (1,21-23). Parole chiarissime che ci
riportano a tanti altri passi della Scrittura. Interessante la satira politica di Isaia, che colpisce
l'inettitudine dei capi: «Il mio popolo! un fanciullo lo tiranneggia ... Popolo mio, le tue guide ti stanno
traviando, distruggono la strada che tu percorri. .. Il Signore inizia il giudizio con gli anziani e i capi del
suo popolo: "Voi avete devastato la vigna; le cose tolte ai poveri sono nelle vostre case. Qual diritto
avete di opprimere il mio popolo, di pestare la faccia ai poveri?"» (3, 12.14-15).
Le invettive del profeta sono riprese nel libro dei Salmi, con l'immagine di colui che nascostamente
accetta i regali per esercitare malamente il giudizio, e si riflettono nel libro di Amos. Senza insistere su
questa documentazione che ci mette di fronte a uno dei mali antichi dell'umanità, ci domandiamo: esiste
in Italia la corruzione politica?
Non sta propriamente a me dare una risposta. Sappiamo che sono stati fatti degli studi in proposito, dei
tentativi di quantificazione del fenomeno, giungendo a delle constatazioni piuttosto strane. Nel libro Il
peso dell'illecito sul paese Italia, pubblicato nel 1988, è riportata un'indagine del CENSIS, che risale
però al 1985, dove si nota che in alcune tabelle dell'ISTAT riguardanti i dati riassuntivi sulla criminalità
non viene neppure menzionato questo tipo di reato; tuttavia, in una tabella più estesa, comprendente
tutte le denunce inoltrate all' autorità giudiziaria, sotto il nome di delitti di peculato, malversazione ecc.,
si trovano, per il solo anno 1985, 1065 denunce di atti illeciti, con 1884 persone denunciate.
Sembrano livelli di trasgressione molto modesti. Ma la stessa analisi cerca di quantificare, invece, il
fenomeno a partire da dati più generali, cioè dal tentativo di definire gli illeciti che avvengono
soprattutto in alcuni sistemi (come quello degli appalti, parte rilevante del trasferimento dei fondi
pubblici ai poteri locali e a privati). Calcolando il volume di affari relativi e della media che si può
stimare venga sottratta attraverso queste forme di illecito, si giunge a stabilire una cifra che va dai dieci
ai dodicimila miliardi di lire all'anno.
Siamo di fronte a un fenomeno molto doloroso che penetra nelle pieghe di tutte le società e che non è
alieno dalla nostra.
In quale modo va combattuta?
Questa è la domanda che io pongo piuttosto agli arti della politica, del diritto, della Costituzione,
della società. Come va combattuta? E come può essere superata, non nel senso di sradicarla ma di non
lasciarla prevaricare così che diventi dirompente e del tutto irreversibile fino allo sbando totale?
Non abbiamo la pretesa utopica di giungere a una società assolutamente perfetta; chiediamo un
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impegno continuamente rinnovato di combattere, smascherare, superare, chiarire nelle sue radici il
fenomeno della corruzione, per riuscire ad arginarlo e ad assicurare nell'insieme una sanità sufficiente al
corpo sociale.
Mentre l'etica individuale si propone di combattere sempre e in qualunque circostanza e a qualunque
costo questa trasgressione quando si presenta nei singoli casi, la considerazione globale cerca i mezzi
più generali per facilitare le condizioni dell'impegno etico individuale. Non ho nessuna ricetta da offrire,
ma sottolineo la serietà della domanda: in quale modo superare la corruzione politica?
Perché è deleteria la deplorazione pura, a cui segue la rassegnazione; è pericolosissima. Se non
abbiamo in noi la persuasione che questo fenomeno può essere e va combattuto, non metteremo mai in
opera rimedi precisi. Siamo invitati ad aguzzare l'ingegno per cercare opportune vie, cammini, itinerari.
Non ho una risposta da proporre e però, avendo ascoltato persone competenti, rilancio suggerimenti che
sarà poi necessario approfondire nelle dovute sedi. Anzi, spetterà a ciascuno di noi perché questo male
se non è affrontato insieme non verrà superato. E un male che impegna responsabilmente tutta la
società.
Ridimensionare il fenomeno della corruzione politica
È sbagliato l'atteggiamento di chi pensa che tutti i politici sono corrotti, perché genera fatalismo e
rassegnazione. In realtà, ci sono tante persone che si sforzano sinceramente di compiere il loro dovere e
non tutti gli atti compiuti nel servizio della cosa pubblica sono soggetti a questa accusa.
Senza questo ridimensionamento, entriamo nel genericismo, nella nebulosa nera che ci impedisce di
operare. Ricordo che un politico africano, uditore al sinodo dei laici, diceva: «I cristiani impegnati in
politica sono messi a lavorare in un campo in parte impuro - in parte, non tutto! - dove l'esercizio della
forza e la lotta per il potere sono sovente determinanti ed è giocoforza constatare che non esistono né a
livello nazionale o continentale né su scala internazionale, luoghi di ristoro spirituale alle sorgenti,
carrefours di approfondimento, strutture di sostegno efficace».
La corruzione non sarebbe un male irrimediabile se coloro che hanno a cuore questi problemi
prestassero aiuto, collaborazione, riflessione.
È verissimo che !'immoralità politica ha raggiunto in non pochi paesi livelli preoccupanti e però
rischia di oscurare nell' opinione pubblica anche i meriti che la classe politica nel suo insieme ha
acquisito, e che noi dobbiamo anzitutto riconoscere. Se consideriamo la storia democratica del nostro
paese e pensiamo alla situazione di quarant'anni fa, non possiamo sottacere i meriti amplissimi della
classe politica nel suo insieme.
E dunque importante usare un linguaggio attento, serio, non irresponsabile, secondo il principio della
verità evangelica: pane al pane, vino al vino, chiamando le cose con il loro nome.
Chiarire il fenomeno della corruzione nelle sue manifestazioni e nelle sue cause
Dal libro che ho ricordato, cito l'introduzione al capitolo sulle tangenti illecite: «Stando al vocabolario,
la tangente sarebbe una componente lecita delle azioni di scambio. Regolamentata fin dai tempi remoti,
rappresenterebbe un riconoscimento materiale dell' efficacia di una mediazione, un servizio svolto
nell'interesse di due parti che ad divengono a un accordo, generalmente di tipo commerciale, e sarebbe
ormai legittimata dalla consuetudine». Il problema, quindi, si presenta quando questa realtà incomincia
ad assumere la figura di reato e per questo è importante precisarne i termini. «Ne deriva la possibilità di
una doppia tipologia di reato: la tangente applicata ai servizi e benefici dovuti (dove non c'è prestazione
ulteriore di tipo commerciale); la tangente applicata non per un servizio reale effettivamente svolto, ma
per ottenere un servizio non dovuto o illecito. Il primo è il caso della burocrazia che chiede di essere
oliata per svolgere la funzione assegnata nell' organismo pubblico in cui opera. Il secondo è il caso della
burocrazia che a pagamento esercita il potere discrezionale conferitole per favorire il corruttore. Ad
esempio, le tangenti versate per interrompere un accertamento fiscale o per garantire il non intervento
dei pubblici poteri in certi affari oppure per orientare un appalto ecc. ».
Se cominciamo a penetrare nel meccanismo, impariamo a distinguere, a chiarire. Nella accuse
generiche di tipo giornalistico questo lavoro non viene fatto, ma si sta sull'ipotetico. Parlando poi del
fenomeno della corruzione nelle sue manifestazioni, siamo invitati a distinguerlo da fenomeni affini.
Dicono, ad esempio, i competenti di politica che, in generale, il fenomeno delle lobbies tra i portatori di
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specifici interessi economici, professionali o anche religiosi, può esistere lecitamente: in tal caso, un
gruppo o una associazione assicura al partito o alla personalità politica il proprio sostegno anche economico. Il rapporto è pubblico, l'esercizio delle funzioni non ne viene turbato, essendo già noto
l'indirizzo che il partito o la personalità intende perseguire, ed è sulla base di tale indirizzo che raccoglie
i voti.
Vi sono, inoltre, forme che potrebbero apparire di tipo clientelistico, ma che proprio per la loro
dichiarata modalità di attenersi alle leggi e alle regole, non lo sono. Ci sono casi in cui un partito o un
uomo politico si fa portatore, ad esempio, degli interessi di una singola regione meno sviluppata, e
promuove dei provvedimenti, delle incentivazioni che agli occhi di tutti appaiono giustificati nell'ambito
del bene comune.
Insomma, è importante non fare di ogni erba un fascio e saper riconoscere il clientelismo individuale,
contraddistinto dal fatto che un partito o un uomo politico viene visto da qualche parte dell' elettorato
come il soggetto che può arrecare vantaggi individuali non previsti nell' esercizio generale delle leggi.
Vantaggi individuali che mirano a risultati che contraddicono in realtà l'esercizio e la ricerca del bene
comune. È questa forma (in tutte le sue ramificazioni e specificazioni] che. rischia nelle politiche di
tutto il mondo di diventare una cellula cancerogena, capace di rovinare dall'interno la situazione politica
generale e, a un certo punto, anche la figura, l'efficacia, l'incisività dei partiti presi nella loro singolarità.
Per aiutarci a chiarire il fenomeno della corruzione nelle sue manifestazioni e nelle sue cause,
possiamo porci alcune domande. La prima: l'immoralità di cui parliamo è frutto di comportamenti
individuali (che si riferiscono, cioè, alla prevaricazione di persone singole) o è determinata da cause
strutturali, attinenti quindi alla struttura sociale, alle abitudini, all' ethos comune? Perché, se è frutto di
comportamenti individuali, deve scattare l'allarme del meccanismo della giustizia che colpisce la
prevaricazione; se invece è determinata in qualche modo dalla struttura sociale, deve scattare l'allarme
sociale.
Una seconda domanda: queste cause strutturali, posto che siano identificate, sono comportamenti di
società, abitudini di gruppo, oppure sono per così dire istituzionali, codificate da regolamenti o da leggi
che producono, come effetto collaterale, comportamenti riprovevoli e però, di fatto, inevitabili per
ottenere determinati fini politici? Nel primo caso basta ricorrere alla morale, mentre nel secondo il
problema diventa di tutti, ed è da studiare attentamente e profondamente per snidare quei
comportamenti che, nonostante la buona volontà di alcuni - pochi o molti - finiscono per obbligare quasi
a ricorrere a certi mezzi. In non poche situazioni politiche del nostro pianeta, sorge il sospetto che il
moltiplicarsi dei casi di trasgressioni nell'ambito amministrativo e politico non sia dovuto
semplicemente alla crescita del degrado di singoli individui, ma a fatti più strutturali. E ciò influisce sul
rapporto di fiducia globale tra cittadini e classe politica, quindi sul corretto funzionamento dello stesso
sistema costituzionale nel suo insieme. Allora l'allarme deve diventare pubblico e non si può permettere
che ci sia chi si tira indietro, chi si deresponsabilizza.
Smascherare il fenomeno nei suoi strumenti
Questo suggerimento operativo va congiunto con il precedente. Perché gli strumenti con i quali
avvengono le prevaricazioni sono rappresentati dal complesso degli uffici pubblici o delle relazioni
pubbliche che, attaccati da quel modo di agire, vengono pervertiti nella loro natura. Quando, ad
esempio, un supporto elettorale è coltivato mediante le diverse forme del clientelismo individuale, allora
il fenomeno non è più soltanto gestito dal singolo uomo politico, bensÌ esige un' organizzazione che
assume vari nomi pittoreschi (cordata, ad esempio) e che pone diverse persone in uno stato di correlazione trasgressiva per provvedere al bisogno di farsi sostenere nella ricerca del potere da una base
sufficiente e precedentemente abituata a questo tipo di servizio.
È necessario smascherare e perseguire quelle forme che possono assumere talora addirittura la figura
di una immoralità istituzionalizzata. E, infatti, immorale utilizzare l'ufficio pubblico per i fini privati di
singoli individui; è immorale trarre vantaggi finanziari illeciti dalla titolarità dell'ufficio pubblico; è
immorale non dedicare all'ufficio, al quale si è chiesto di essere preposti, tutte le energie e il tempo che
sono necessari alla sua conduzione. Tutte queste immoralità possono, come ho detto, collegarsi in modo
da formare delle situazioni intricatissime e difficili.
Ecco allora il richiamo ai semplicissimi principi evangelici della chiarezza, della radicalità, del guardare
a fondo ai problemi della società, con amore e con umiltà, con il desiderio sincero di conversione a
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partire da noi stessi, ma insieme con grande coraggio e con grande fiducia. Gerusalemme è sempre la
città della speranza e noi sappiamo che c'è una salvezza non solo per il peccato individuale, ma anche
per tutte le strutture di peccato nelle quali l'umanità è implicata. Altrimenti non ci sarebbe progresso e
non ci sarebbe speranza per l'uomo.
Una nuova cultura della legalità
Molti ormai avvertono l'urgenza di instaurare una nuova cultura della legalità. Dal Ministero
dell'interno sono partite iniziative In questo senso, di carattere culturale oltre che di carattere
legislativo. E il santo padre Giovanni Paolo II ha richiamato a un diffuso impegno per un forte
recupero di legalità, come primo rimedio per riscattare il paese dalla situazione nella quale versa. Nel
suo discorso agli amministratori pubblici della Campania, ha detto tra l'altro: «Non v'è chi non veda
l'urgenza di un grande ricupero di una moralità personale e sociale di legalità. Sì, urge un recupero di
legalità! »:
. Accanto a un' eclissi della legalità (e quasi in conseguenza di essa), dobbiamo registrare anche una
sempre maggiore marginalizzazione di un' autentica azione politica, Se essa viene gestita in modo
riduttivo di fronte al tumultuoso svilupparsi delle soggettività private e pubbliche, si favorisce
l'insorgere di un neofeudalismo in cui corporazioni e 1obbies tendono a dettar legge e ad acquisire
nuovi e più rilevanti privilegi. Perché vi sia un giusto e utile dispiegarsi dell' autonomia dei singoli e
dei gruppi, occorre invece che ci sia un forte e unitario quadro di riferimento che garantisca regole di
comportamento comune. Le leggi nasceranno così da una superiore sintesi degli interessi comuni,
invece di essere l'effetto di una contrattazione con quelle parti sociali che, essendo più forti, hanno il
potere di sedersi, palesemente o meno, al tavolo delle trattative, con il diritto di esercitare anche il
potere di veto. Si eviteranno, inoltre, pure quelle bellissime «leggimanifesto» che, però, mancando di
strutture e risorse adeguate, naufragano poi miseramente al primo impatto con la realtà.
Ma una vera e cosciente nuova cultura della legalità esige qualcosa di più profondo e sarebbe
importante, per questo, rifarsi alla ricchezza del vocabolario biblico, quando ci si riferisce alla nozione
della legge.
Le parole usate in proposito nella Scrittura sono molte, come dimostra la ricchezza del Sa1 119, tutto
intessuto di termini riferiti alla legge; termini che significano, volta a volta, istruzione sociale-religiosaculturale-politica di origine divina, testimonianze tramandate . fedelmente riguardanti l'ethos di una
comunità, via o cammino da seguire per la felicità e per la vita.
La cultura della legge, radicata nel popolo di Dio, non si appoggia semplicemente su leggi esterne, ma
sulla complessa realtà dell'alleanza, cioè su quel rapporto privilegiato che si instaura tra Dio e il suo
popolo e tra tutti i membri del popolo, che, riconoscendo nelle vicende delle origini una grande azione
provvidenziale, ne ricava la coscienza di un amore divino e di una missione religiosa, sociale e politica,
di cui le leggi sono la conseguenza e la condizione. Leggi, dunque, per la vita, per il bene, per il futuro,
per il Progresso del popolo; non leggi che possano diventare licenza di morte, come quella recentemente proposta dalla Commissione per la sanità del Parlamento europeo, riguardante l'eutanasia, che
ha trovato - mi pare fortunatamente subito dissensi forti, così come meritava.
Una cultura della legalità deve, quindi, affondare le sue radici in un profondo ethos religioso, sociale
e culturale. Deve distinguersi dal legalismo, favorendo situazioni in cui la legge è rispettata non solo per
il suo valore formale o per le sanzioni che comporta, bensì per il suo valore e il suo significato intrinseco, per la sua capacità di rappresentare gli ideali e i fini di una collettività.
Perseverare nel cammino
Oggi abbiamo bisogno di personalità forti e oneste, in ogni campo della vita sociale, economica e
politica.
Abbiamo bisogno di personalità indipendenti, creative, capaci di lungimiranza, capaci di fede e di
Speranza. Una speranza come quella di. Abramo, salda e certissima. E questa la sola virtù che permette
di superare la schiavitù del bisogno di successo immediato e di operare con lungimiranza.
Recentemente ci sono stati alcuni eventi che ci hanno invitato e stimolato a camminare in questa
linea.
- La celebrazione centenaria della Rerum novarum mostra come, dopo un secolo, la dottrina sociale
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della Chiesa è ancora capace di attrarre l'attenzione di tutti.
- Sono state ripristinate le Settimane sociali dei cattolici italiani, sul tema della nuova giovinezza
dell'Europa.
- Altri eventi non andrebbero sottovalutati: penso al referendum del 9-10 giugno 1991, che ha
evidenziato come non sia soltanto una minoranza a volere un cambio verso una politica più pulita;
molta gente è in grado di rispondere affermativamente quando si fa appello ai grandi temi della società.
Abbiamo, dunque, motivi di speranza e abbiamo stimoli.
SI PUÒ RESTAURARE LA LEGALITÀ?
La Nota pastorale della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace dell' ottobre scorso [1991] dal titolo
Educare alla legalità si presentava come espressione della «viva preoccupazione dei vescovi per una
situazione che rischia di inquinare profondamente il nostro tessuto sociale se non viene affrontata con
tempestività, energia e grande passione civile» (Introduzione). Parlando poi delle condizioni per un'
autentica legalità richiamava la necessità che i vari poteri dell' organizzazione statuale non sconfinassero
dai loro ambiti istituzionali e che la loro funzione di reciproco controllo non fosse elusa mediante
collegamenti trasversali tra coloro che vi operano, perché appartenenti a partiti o a gruppi di pressione o
di potere» (n. 5). In seguito richiamava più specificamente quella forma di nuova criminalità «che volge
a illecito profitto la funzione di autorità di cui è investita, impone tangenti a chi chiede anche ciò che gli
è dovuto, realizza collusioni con gruppi di potere occulti e asserve la pubblica amministrazione a
interessi di parte» (n. 6).
I recenti scandali di Milano ripropongono l'attualità di questi moniti e della «energia e grande
passione civile che i Vescovi invocavano come necessaria per affrontare una situazione che oggi
sentiamo tutti drammatica e di giorno in giorno più preoccupante. Purtroppo ciò che oggi emerge a
Milano non è se non uno specchio e un segnale di una assai più vasta realtà che era andata aggravandosi
da parecchi anni e per la quale non erano mancate le analisi, le denunce, gli inviti accorati a cambiar
rotta prima che fosse troppo tardi.
Come muoversi in questo frangente da parte di chi ha a cuore il bene comune e, pur senza anticipare
il giudizio della magistratura né colpevolizzare nessuno prima che venga giudicato, sente tuttavia che ci
si trova davanti a svolte civili e politiche di estrema gravità e urgenza? Come muoversi in particolare da
parte della comunità cristiana, che deve saper leggere ogni evento alla luce del mistero dell'iniquità ma
anche insieme del mistero della redenzione che Dio offre a una umanità fragile e per questo bisognosa
di essere continuamente richiamata alle sue più alte responsabilità e confortata con la forza dello Spirito
Santo?
Valgono innanzi tutto alcune osservazioni generali. Il fatto che si attui come una sorta, di «ribellione
morale», che emerga nell'opinione pubblica un rifiuto e un disgusto per tutto quanto succedeva da anni
senza che si potesse mai sapere a fondo la verità è in fondo un fatto positivo. Si doveva pure in Italia
cominciare in qualche luogo a far chiarezza rispetto ai «si dice», alle espressioni rassegnate e allusive di
chi parlava di inquinamento crescente nella gestione della cosa pubblica senza che si riuscisse mai ad
andare al di là di generalità, di sospetti, di stime statistiche. Il fatto che ora i meccanismi della
corruzione di cui si era dissertato in sede teorica appaiano alla luce del sole permetton,! di guardare in
faccia il problema, di coglierne la gravità e la pervasività, di esorcizzare un incubo che da tempo pesava
sull' animo di molti e di far emergere quelle forze sane che finora gemevano in una sorta di rassegnata
impotenza.
E dunque un momento di purificazione, una reazione di rigetto, che caratterizza un corpo sociale
malato ma ancora desideroso di lottare e di guarire. Occorre continuare nell' azione di smascheramento
e di scoperta dei meccanismi perversi e delle loro cause, andando fino alle loro radici. Non basta infatti
colpire quei delitti contro il codice penale che la cronaca porta alla ribalta, ma occorre andare più a
fondo nei vizi del sistema e/o del costume, come i favori di qualsiasi tipo elargiti a spese della
funzionalità delle istituzioni: ad esempio dare lavoro in determinati enti solo a chi ha una data tessera
selezionare ditte fornitrici sulla base di criteri diversi da quelli del «merito» obiettivo, far «gonfiare»
posti di lavoro inutili per sistemare persone raccomandate da questo o quel partito, emarginare persone
oneste perché non hanno la qualificazione politica richiesta ecc.
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Il regime basato sulla occupazione partitica delle istituzioni e delle aziende pubbliche non regge più.
Occorre una decisa svolta innovatrice, come una «palingenesi» dei partiti attraverso una franca
ammissione di colpe non solo di chi si è lasciato trovare con le mani nel sacco ma di chi sapeva e
taceva.
Al di là di queste osservazioni generali e venendo a quanto può essere fatto da ciascun cittadino e in
particolare dai membri della comunità cristiana, a prescindere da specifiche soluzioni di carattere
tecnico o politico, segnalerei i punti seguenti.
1. È importante anzitutto che si sostenga il coraggio civico di chi indaga e di chi collabora a far luce
su tutti gli atti criminosi sopra ricordati, anche soffrendone danno. Chiarezza innanzi tutto e fino in
fondo!
2. Insieme bisogna sostenere la necessità di un attento discernimento da parte dell' opinione pubblica
per non fare di ogni erba un fascio e giungere a delegittimare come tali le istituzioni. Risanare non
significa rendere inoperose o impotenti le realtà istituzionali, che trascendono gli interessi di questa o
quella parte politica perché sono bene prezioso di tutta la comunità. C'è bisogno di obiettività e di senso
di responsabilità in tutti, e anche di quella umiltà di chi pensa anzitutto a riformare se stesso e
contribuire alla riforma di quanto gli compete piuttosto che scagliare in ogni occasione la prima pietra.
3. Occorre dare per questo il sostegno a politici e amministratori onesti, che non mancano, perché si
sentano incoraggiati e sostenuti nella loro azione. Va fatto spazio a persone nuove, che abbiano
competenza e onestà, perché si assumano responsabilità gravi e complesse senza temere di entrare in un
campo minato e difficile. Non basta più stare alla finestra per commentare e criticare. Occorre scendere
in strada per un' azione responsabile, ciascuno secondo le sue competenze e possibilità.
4. Occorre esigere dai partiti che facciano una coraggiosa e radicale opera di rinnovamento delle
persone e delle regole. Se il logorio delle istituzioni è cominciato di qui è di qui che deve iniziare
l'autocritica severa e lucida, senza tentare di nascondere colpe o coperture. Solo quei partiti che
sapranno farlo si renderanno nuovamente credibili. In particolare il partito che si richiama all'ispirazione cristiana senza la responsabilità di un radicale rinnovamento di metodi e di persone che
consenta ai giovani di continuare a sperare nella possibilità di un servizio politico disinteressato ed
eticamente motivato.
5. Insieme sarà necessario che tutti si impegnino per una riforma delle norme istituzionali, a partire
dalle necessarie riforme elettorali, per la revisione delle regole interne dei partiti e per la definizione di
regole per il servizio pubblico che diano garanzie ~ meglio resistere al degrado che sempre minaccia la
vita politica.
Ma noi sappiamo molto bene che tutto ciò rimane parola che risuona all' esterno se non si punta al
rinnovamento morale della persona. Per questo l'azione pastorale della Chiesa darà un vero contributo al
rinnovamento della vita del Paese se aiuterà a prendere coscienza del male che è stato compiuto o lasciato che si compisse, chiamando a convertirsi e ad abbandonare il vecchio modo di fare politica ed
esortando chi è compromesso col vecchio sistema a lasciar libero il campo a chi vi si è opposto e a
quanti altri sono desiderosi di impegnarsi con spirito di servizio. Che cosa questo rinnovamento
comporti come quadro futuro è difficile prevederlo. Siamo certamente in un periodo di transizione e
occorre anche fare spazio al nuovo. Ciò avverrà più facilmente se si incoraggerà l'azione creativa e
responsabile del laicato e se si continuerà ad avviare i giovani alla conoscenza della dottrina sociale
della Chiesa.
Come si è fatto ad esempio in questi anni nelle «Scuole per l'impegno socio-politico», ma per troppo
breve tempo per poterne già cogliere i frutti.
Come cristiani sappiamo che un profondo rinnovamento del cuore è opera della grazia di Dio e della
preghiera. In momenti come questi in cui si rischia il naufragio morale e istituzionale il ricorso a Dio con
cuore sincero e contrito si impone per chiunque senta che c'è una speranza che può venire solo dal1'alto.
Occorre educare a guardare ai beni ultimi dell'esistenza umana. La concentrazione sui beni immediati, anche
legittimi, e sui mezzi per ottenerli con strumenti efficaci, staccata da uno sguardo di fede sui fini ultimi
finisce nell'idolatria dei mezzi. E urgente un'educazione al discernimento, che si attua solo in una visione
«escatologica» della storia umana. Viviamo nell' attesa del regno e del ritorno del Signore. Vivere come se
avessimo qui una dimora stabile (cf Eh. 13, 14) significa a un certo punto lasciarsi imprigionare dal successo
politico e dalla bramosia di possedere. Le circostanze presenti rendono questa predicazione cristiana quanto
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mai attuale.
TEMPO DI SAGGIO E MATURO DISCERNIMENTO
Al servizio della società
Appare importante, a questo punto del nostro cammino, pensare al dopo, alla società che avete studiato con
amore e intelligenza, al fine di mettersi concretamente al suo servizio
Come è stato sottolineato c'è un triplice impegno che si offre alla vostra competenza e interpella
seriamente la vostra responsabIlità.
- Anzitutto un impegno di tipo culturale, che può essere espresso per esempio, nei numerosi Centri
culturali del territorio diocesano, nati anche in conseguenza delle Scuole.
- Un impegno di tipo sociale, nella vasta gamma delle possibilità e dei. bisogni: per esempio nel campo
della famiglia, della scuola della sanità dell' assistenza, della presenza degli stranieri (accoglienza e
Integrazione), del sindacato, ecc.
- Un impegno più specifico nel campo politico, a diversi livelli.
Sappiamo tutti che oggi si ha paura dell'impegno politico; chi vi è dentro, tende a sottrarsi, vorrebbe
uscirne, quasi si pente di avervi dedicato tempo ed energie. C'è insomma aria di disimpegno e di fuga
dalle responsabilità. Il momento è indubbiamente molto grave e sarebbe disastroso se proprio ora le
molte persone oneste e volonterose si ritirassero. Occorre perciò avere idee ben chiare anche sull'
attuale difficile situazione e contribuire, da parte di tutti, ad affrontare in maniera seria i problemi, a
riportarli all'essenziale, a discernere quali sono gli imperativi urgenti.
Gli imperativi urgenti del momento presente
In altre occasioni ho ricordato che questo è tempo di saggio e maturo discernimento.
1. - In primo luogo bisogna auspicare che si faccia luce su tutti i comportamenti chiaramente illegali,
sostenendo quanti si impegnano nella lotta contro la corruzione. Il nostro corpo sociale (non solo
milanese) è ammalato; deve essere dunque medicato e curato, non ucciso o distrutto.
2. - A ciascuno compete la sua responsabilità. La magistratura può compiere interventi di tipo
chirurgico, atti ad asportare corpi cancerogeni, a individuare corrotti e corruttori, a distinguerli da chi
non ha dirette responsabilità personali e, ancor più, da chi si è comportato correttamente. Ma un'
efficace azione terapeutica è propria di tutta la società e deve partire da premesse di oggettività e di
serietà.
Dobbiamo evitare ogni generalizzazione indebita, ogni accusa prematura e non provata, ogni
colpevolizzazione prima del giudizio definitivo. Solo così sarà possibile sostenere i buoni e gli onesti,
che ci sono e sono ancora tanti. Solo così sarà possibile incoraggiare chi ha capacità di mettersi a disposizione con umiltà e realismo.
Occorre per questo sostenere e difendere le Istituzioni (ne ha parlato ampiamente l'avvocato
Cananzi), evitare ogni delegittimazione e i troppo frequenti ricorsi alle urne in assenza di prospettive
politiche che la gente possa comprendere e a cui possa saggiamente decidersi.
Quando si rischia di andare verso un qualunquismo disgregante o anche verso esiti peggiori, di tipo
conflittuale; quando si rischia la paralisi di imprese e di attività commerciali e amministrative e la fuga
di responsabilità dagli Enti, bisogna dare animo e coraggio alle persone di buona volontà. Bisogna fare
appello ai valori comuni, condivisi da tanti, in vista di maggioranze larghe, che permettano un rinnovato
impegno per il vero bene della gente.
3. - Per questo dobbiamo aiutare tutti a riscoprire il valore del bene comune, il significato della
responsabilità di ciascuno nei ruoli a lui assegnati o per i quali si è pubblicamente impegnato, cercando
ciascuno di fare la propria parte senza invadenza di campo o supplenze affatto necessarie.
4. - Infine è urgente che i politici si impegnino per un serio e radicale rinnovamento dei partiti. E
stato detto che i partiti non possono essere cancellati né sostituiti, se si vuole difendere la vita
democratica del Paese; tuttavia vanno rinnovati e rimotivati.
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Si sente parlare di rifondazione, di azzeramento, ecc. lo mi auguro che queste espressioni
corrispondano a effettive volontà e siano condivise da tutti i responsabili, in basso e in alto. Vanno
quindi incoraggiati coloro che si mettono a disposizione per aiutare a tradurre in realtà quello che è
l'auspicio di tutte le persone che vogliono continuare a sperare in un futuro democratico.
5. - Vorrei allargare un poco il nostro angolo di visuale, per 110n sembrare prigionieri dei nostri
problemi, pur se drammatici, ricordando le sofferenze di Paesi a noi vicini.
Penso all' ex Jugoslavia, con tutto quanto di drammatico e di inaccettabile vi avviene, penso al Sudan
la cui tragedia è tra le più dimenticate. Sono tanti i luoghi che stimolano il nostro impegno responsabile,
che ci sollecitano a non tirarci indietro per il bene non solo dell'Italia, ma di tutta l'umanità.
IL LAVORO POLITICO COME REALTÀ SPIRITUALE
A quali condizioni è possibile la santità politica?
Premessa
Il nostro è un incontro di preghiera e di spiritualità. Non discuteremo quindi sui grandi temi del bene
comune, ma focalizzeremo la nostra riflessione sulle realtà spirituali soggiacenti al nostro servizio.
Voglio partire da una lettera scrittami dal Sindaco di un paese dove mi recavo per la Visita pastorale.
Dopo avermi rivolto il benvenuto e il saluto dell' amministrazione comunale, dei diversi soggetti sociali
e culturali, delle famiglie e di tutti i cittadini, aggiungeva le seguenti parole: «La sua presenza per me,
oggi, in cui viviamo momenti difficili, è motivo di conforto e di sostegno per il lavoro quotidiano che gli
amministratori si sforzano di compiere come realtà spirituale e non come semplice offerta di servizio».
Mi è piaciuta molto questa espressione e ho pensato di fame il titolo del mio intervento: Il lavoro politico
come realtà spirituale.
Non mi fermo quindi unicamente sul piano etico, giuridico, ma affronto il tema al massimo livello,
come realtà spirituale. Potrei dare anche un altro titolo all'intervento di questa sera, equivalente al
primo: A quali condizioni è possibile la santità politica? Perché il Papa, rispondendo a un giornalista durante il suo recente viaggio a Santo Domingo, ha detto: Per fare la politica ci vuole la santità. D'altra
parte la stessa storia ci parla di molti santi politici: per esempio, santa Caterina da Siena è stata una
grande figura politica del suo tempo e insieme una grande santa, una grande mistica. Potremmo pure
ricordare le figure di santi re che hanno amministrato la politica in tempi difficilissimi: san Luigi re di
Francia, santo Stefano di Ungheria, i santi re della Boemia, ecc.
Venendo ai nostri giorni, sappiamo che è stata introdotta la causa di beatificazione di Giorgio La Pira,
di Alcide De Gasperi, di Robert Schumann. Molti di noi si sono nutriti degli scritti spirituali di Dag
Hammarskjoeld, il segretario delle Nazioni Unite morto nel 1961. E stata introdotta anche la
causa di beatificazione di Giuseppe Lazzati.
Non è dunque incongruo parlare della santità dei politici; anzi, è discorso necessario.
Santa Caterina da Siena
Per domandarmi insieme a voi in quale senso il lavoro politico possa essere vissuto come realtà
spirituale, a quali condizioni è possibile la santità politica, cercherò di ispirarmi a santa Caterina da
Siena che è stata un'importante figura di riferimento per re, governanti, vescovi e papi in una situazione
epocale molto grave per la Chiesa e per la società.
Ella visse dal 1347 al 1380 e svolse attività intensissima di pacificazione tra stati, città, fazioni,
lottando per l'unità della Chiesa. Si conservano 381 lettere dettate ai suoi discepoli e parecchie di queste
trattano di argomenti politici.
Recentemente Gianfranco Morra ha scritto un libro intitolato La città prestata. Consigli ai politici di
Caterina da Siena ed è in preparazione anche uno studio sulla santa, del prof. Pajardi, Presidente del
Tribunale di Milano.
Dice G. Morra nel suo libro: «Le lettere di Caterina sono in anticipo profetico la confutazione del
'Principe' di Machiavelli della ragion di Stato e della Realpolitik. Nei solco della tradizione cristiana, la
santa considera la politica come la continuazione della morale».
Non intendo ovviamente esporre la sua dottrina politica, ma mi limito a citare il brano di una lettera
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scritta «ai signori difensori della città di Siena». Il brano è il seguente: «E male possedere la cosa
prestata se prima non si governa e signoreggia sé medesimo. Signoria prestata sono le signorie delle
città o altre signorie temporali, le quali sono prestate a noi e agli altri uomini del mondo, le quali sono
prestate a tempo, secondo che piace alla divina bontà e secondo i modi e i costumi dei paesi. Sicché, per
qualunque modo egli è, veramente sono prestate. Colui che signoreggia sé le possederà con timore
santo, con amore ordinato e non disordinato, come cosa prestata e non sua». E una splendida pagina
sulla santità del politico.
Commenterò il brano secondo le due parti: la prima dove la santa insiste sulle condizioni personali
della santità politica, la seconda sul concetto di prestito. Per usare le parole della lettera: «chi prima non
governa e signoreggia sé medesimo», non può governare la città; «le signorie delle città e le altre
signorie temporali sono prestate».
1 - La santità politica parte dal governare e signoreggiare se stesso
La parola che noi usiamo per indicare che non si può essere buoni politici «se prima non si governa e
non si signoreggia sé medesimo» è ascesi.
L'ascesi è appunto quella capacità del governo di sé che permette di vivere con libertà, con energia,
con moralità, con onestà, con perseveranza anche la responsabilità della cosa pubblica.
E di tale ascesi ho scritto ne)la Lettera Sto alla porta, al paragrafo intitolato: «Per un'ascetica della
vigilanza» (n. 24). Vorrei parlarne più ampiamente in questa sede, perché l'ascetica della vigilanza è
qualcosa di molteplice, di ricco e non possiamo ridurla a vivere qualche sacrificio, qualche rinuncia, a
stare un po' attenti a sé e al proprio comportamento.
Distinguo l'ascesi in diversi momenti: un' ascesi più immediata, quella delle rinunce; un' ascesi più
complessa, quella del discernimento delle passioni; un' ascesi ancora più alta, quella del discernimento
delle diverse personalità che sono in noi; infine, un' ascesi che regge tutte le altre, ed è il discernimento
dei valori relativi delle cose.
1. - Che cosa intendo per ascesi delle rinunce? La capacità di rinunciare a parecchi beni per avere il
cuore libero. Ora, è certamente vero che il politico rinuncia a molti hobby personali; spesso rinuncia al
sonno, al viaggiare tranquillo, a prendersi un po' di riposo quando vuole, rinuncia spesso alla vita
familiare, a occuparsi dei figli. Tuttavia il politico che fa queste rinunce le fa spinto dalla volontà di
riuscire; sono rinunce forti, dure, e però sempre ritmate dal desiderio di farcela, di mantenere il suo
posto.
E il politico deve sapere che, al di là delle rinunce imposte dalla volontà di avere successo, di avere
molti voti, di vedere il suo nome sul giornale, ce ne sono altre che può imporsi al fine di ordinare la sua
vita, di riordinarla, di tenerla in mano. Si tratta di rinunce a qualcosa di lecito: per esempio, nel
modo di usare dei beni, di usare delle possibilità che la stessa vita politica presenta (soprattutto i politici
importanti hanno tantissimo a loro disposizione). Il mostrare un certo ritegno, una certa capacità di
rinuncia è fondamentale, è un segnale che la persona non approfitta di tutto quanto può avere al di là
delle rinunce strettamente necessarie per riuscire nel suo intento.
L'ascesi del discernimento è il gradino ulteriore, che comprende e approfondisce il precedente.
Un discernimento che è triplice: delle passioni che sono in noi, delle diverse personalità che sono in
noi, del valore relativo dei beni.
2. - Il discernimento delle passioni che sono in noi.
Le passioni sono fondamentalmente amore e odio, fuga e desiderio, ripugnanza e attrazione, e tutte
scuotono la vita di ogni uomo e di ogni donna di questo mondo. Il politico deve imparare a discernere in
sé tali passioni, perché la passione politica è molto forte, coinvolge e porta (se non si sta attenti, se non
si vigila) a vedere tutte le cose sotto il proprio colore, per cui l'amore e l'odio diventano simpatie o
antipatie immediate, epidermiche, improvvise e coinvolgenti, e distinguo le persone tra chi mi è
favorevole politicamente, chi è dalla mia parte e chi, invece, non è con me, chi è dall' altra patte.
Ovviamente tale distinzione è necessaria per chi si trova nella vita politica, ma se abbraccia tutto fino
a far vedere in ogni incontro, in ogni persona, in ogni articolo del giornale, quelli che sono per me e
quelli che mi osteggiano, che non mi votano, allora la passione mi soggioga.
E dunque estremamente importante uscire dalla passionalità politica, considerando le persone come
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persone, con le loro qualità, le loro virtù, i loro difetti, senza collegarle con ciò per cui sto lottando.
Senza questo discernimento delle passioni non è facile crescere, non è possibile concretamente crescere
nella spiritualità e compiere il lavoro politico come una realtà spirituale.
3. - Il discernimento delle diverse personalità che sono in noi e anche delle piccole o grandi nevrosi
conseguenti alle diverse personalità che sono in noi.
Che cosa voglio dire con questo? Voglio dire una verità biblica molto semplice: che ciascuno di noi è
un guazzabuglio di istinti, di pulsioni, di energie che si contrappongono; ciascuno di noi, non soltanto il
politico, bensì ogni uomo che viene in questo mondo. E un guazzabuglio nel quale è difficile capirei;
san Paolo stesso ammetteva di non comprendersi e affermava in Romani 7, 15: «lo non riesco a capire
neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto».
Paolo è un uomo onesto, che non si proclama tale, ma che confessa di avere in sé delle pulsioni
contrastanti, diverse, non facili da discernere: «Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che
non voglio» (Rm 7, 19).
Dobbiamo perciò imparare a distinguere in noi ciò che c'è e che solitamente è molteplice perché non
siamo personalità semplici, composte, armoniche. Lo saremo forse nella vecchiaia, quando ormai
avremo abbandonato - speriamo - la politica.
La distinzione per compiere un vero cammino spirituale, la offre ancora san Paolo: «Quando io faccio
quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me» (v. 17). Paolo ci insegna a
riconoscere che in noi abita anche il peccato, non soltanto noi stessi e dobbiamo imparare a dominarlo, a
sottoporlo alla grazia di Dio: «Sono uno sventurato» quando mi riconosco così diviso in me stesso. «Chi
mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio, per mezzo di Gesù Cristo nostro
Signore» (vv. 24-25).
L'Apostolo usa inoltre una distinzione tra «carne» e «spirito»: «lo so che in me, cioè nella mia carne,
non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo» (v. 18). C'è in ciascuno
di noi la tensione innata, istintiva, di natura sua ineliminabile, di volere ciò che piace, che soddisfa, che
dà plauso, che dà successo. Insieme però c'è in me lo spirito, il desiderio del
bene assoluto, del vero assoluto, della giustizia in assoluto, la volontà di considerare l'altro come
assoluto, non come strumento.
Ciò che io sono e il peccato che abita in me, oppure la «carne» e lo «spirito» che convivono in me,
oppure ancora la «natura e la grazia». Sarebbe un bel breviario, per i politici, il libretto della Imitazione
di Cristo. Vorrei citarne un brano da un'antica edizione appartenuta a Emanuela Della Chiesa, moglie
del Generale Alberto: «La natura s'affatica per lo suo proprio vantaggio e al vantaggio che da altri le
potesse venire riguarda». Ed è vero, perché noi anzitutto diciamo: che cosa mi viene da quel dato incontro, che cosa ne ricavo? se vi partecipo otterrò più successo, per la causa che servo o per il mio
personale prestigio?
Prosegue l'Imitazione di Cristo: «La grazia all' opposto non pone mente a quello che sia utile e
comodo a sé, ma a ciò che a molti sia profittevole» (cf Imitazione di Cristo, Lib. III, c. LIV, n. 4).
Questa è una regola fondamentale della politica: «La grazia all' opposto pone mente ... a ciò che a molti
sia profittevole», cioè al bene comune.
Dunque in noi coesistono la tendenza a servirsi del bene comune come proprio e la tendenza, nobile,
suscitata dallo Spirito santo in noi, che vuole piegare il bene proprio ordinandolo al bene comune. Ecco
la santità politica.
Per questo occorre imparare a conoscere natura e grazia in noi, secondo l'espressione della Imitazione
di Cristo. In linguaggio più moderno, occorre distinguere in noi l' 'io' superficiale, ambizioso, voglioso,
capriccioso, irritato, depresso, malinconico, oppure esigente, ossessivo, dall"io' profondo che cerca
verità, giustizia, amore, pace, cioè i grandi ideali della vita politica.
E la grazia di Dio ci invita anzitutto a fare tale introspezione, tale analisi, a capire che molte
disarmonie e molte nevrosi sorgono dalla disarmonia tra i due 'io'; in un secondo momento ci invita a
sottomettere l"io' superficiale a quello profondo.
Ciascuno deve ammettere di vivere piccole o grandi nevrosi, ansie, angosce, scoraggiamenti, oppure
ossessioni per arrivare, per fare. Il problema vero è appunto di ammetterle per vedere se si è disposti a
dominarle facendo in modo che lo spirito prevalga sulla carne, la grazia sulla natura, l"io' profondo
sull"io' superficiale. Perché non di rado comportamenti negativi dell'uomo e dell'uomo politico sono da
ricondursi non soltanto e subito a deviazioni morali, a cattiva volontà, ma, almeno in prima battuta, a
lati non armonici di questa composizione tra natura e grazia; lati non armonici e non ben gestiti che però
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prendono a poco a poco possesso dell' azione politica rendendola oppressiva, centrata su di sé, sul
proprio interesse, incapace di cedere il passo.
Vorrei rifarmi in proposito a una famosa opera di Kierkegaard, intitolata La malattia mortale, dove si
afferma che l'uomo può giungere al suo 'io' autentico, profondo, a vivere un rapporto giusto con se
stesso, solo se è in grado di accettare di essere creato e spirituale, quindi infinito, fatto per Dio e insieme
finito in quanto creato e posto in una natura limitata. Se l'uomo, afferma Kierkegaard, fosse solo
finitudine, sarebbe identico a se stesso, come una pietra o un uccello o un fiore; se fosse infinito sarebbe
Dio. La sua libertà risulta invece dal fatto che deve porsi come essere in qualche modo infinito nel
finito, che deve operare in una sintesi continua, quotidiana, tra infinità di desiderio e finità di azione, tra
possibilità e necessità. Nell' accordo di questi aspetti sta la vera libertà dell'uomo e la sua capacità di
essere d'accordo con se stesso e dunque di agire armonicamente anche nella gestione politica.
Un accordo dinamico, interiore, sempre da rifare, quello che santa Caterina chiama «governare e
signoreggiare sé medesimo».
T orno a sottolineare - per la sua importanza - che ogni squilibrio in tale rapporto si paga in termini di
peccato e anche di nevrosi, di squilibrio psichico, di insoddisfazione. Talora infatti certe scelte, certe
azioni sono frutto di frustrazioni interiori proiettate all' esterno.
In particolare l'incapacità a esprimere il rapporto tra finitudine e infinità genera nel l'uomo i due opposti:
o la pretesa di essere al centro di tutto (ambizione politica sfrenata, tipica dei grandi dittatori), e più
semplicemente la pretesa di non volersi mai tirare da parte ritenendosi indispensabile, oppure la paura,
la demissione, la fuga, il disimpegno, l'omissione (i peccati di omissione sono spesso il chiudere gli
occhi, il non vedere, il non guardare). La stessa ambizione politica sfrenata, propria dei dittatori, è una
forma di nevrosi giunta alla pazzia, che causa poi gravissimi danni nell'umanità.
lo credo che gli sbagli del politico, da giudicare caso per caso come sbagli morali, hanno la loro
radice più profonda nel non saper governare sé medesimo.
4. - Il discernimento del valore relativo dei beni, dell' accessorio dal primario, del temporale dall'
eterno. Lo accenno brevemente perché lo potete trovare in Sto alla porta dove spiego come si debba
distinguere il temporale dall'eterno. «Dio, quale orizzonte ultimo e patria vera, diviene il criterio della
decisione morale; il discernimento di ciò che è penultimo rispetto a ciò che è ultimo e definitivo si offre
come la forma concreta in cui si esercita la responsabilità etica» (cf n. 22). "Distinguere dunque le realtà
che restano e a cui non si può mai venir meno, da quelle che sono contingenti, che valgono poco, sulle
quali si può passar sopra: non c'è bisogno di tanto successo, di tanto denaro, di tanto accumulo!
Piuttosto c'è bisogno di più verità, di più giustizia, di più amore. Tale discernimento deve guidare la
quotidianità anche dell'uomo politico.
2 - Responsabilità politica e signoria prestata
La seconda parte del brano che ho citato da una lettera di santa Caterina da Siena, parla della
«signoria prestata».
Dall' aspetto più profondamente personale e psicologico passiamo all' aspetto strutturale.
Con l'espressione «signoria prestata», Caterina vuol dire che la responsabilità politica è
responsabilità Su cose non nostre. E un fatto ovvio, semplicissimo, che però lei ha intuito come uno dei
cardini della politica e lo ripete infatti nelle sue lettere a molti uomini politici: sei responsabile di cose
non tue.
«Signoria prestata sono le signorie delle città o altre signorie temporali, le quali sono prestate a noi e
agli altri uomini del mondo, le quali sono prestate a tempo, secondo che piace alla divina bontà e
secondo i modi e i costumi del paese». La santa mostra pure rispetto per la gente, per le tradizioni, e
oggi possiamo dire per le tradizioni democratiche dei diversi paesi.
La signoria prestata, l'impegno politico riguardo a cose non nostre, ha un triplice significato. 1. - Il
potere, in quanto ci è affidato e non è dunque nostro, è da conservare e promuovere come bene altrui, come
bene di tutti. E condannato alla radice ogni uso privato del potere politico.
2. - Il potere politico è «prestato» e a un certo punto le cose prestate devono essere restituite. Se da una
parte il politico si impegna a far di tutto per riuscire, per arrivare, per operare ciò che ritiene utile per servire
il bene comune, dall' altra parte sa, e deve sapere, che un giorno dovrà restituire il mandato. Proprio come
ogni genitore che deve sapersi rendere superfluo ai propri figli, deve fare in modo che a un certo punto i figli
comincino ad agire senza di lui, che compiano la loro strada, e di questo il genitore gode. Bene «prestato»
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significa anche questo.
Il politico deve coltivare altri interessi, affinché al termine del suo impegno non abbia la sensazione di
trovarsi a zero, di non saper che cosa fare, sensazione che agisce da deterrente per rinunciare alla politica.
La storia politica mondiale dalla fine della guerra ai nostri giorni, mostra come quasi nessuno dei grandi
politici si sia preparato un successore; le successioni sono avvenute tutte per cessazione, per vecchiaia.
Credo sia invece compito del politico il formare le nuove generazioni, l'essere contento che i giovani
vadano avanti, prendano spazio, sostituendo quanti li hanno preceduti.
È anche il problema del rinnovamento della vita politica, del rinnovamento nelle persone e nei partiti: il
tirarsi da parte. non rinnova niente, di per sé, se non abbiamo coltivato le generazioni, se non godiamo dell'entusiasmo dei giovani, se non vengono affidate loro delle responsabilità.
Non a caso, a Milano, abbiamo costituito le Scuole per l'impegno socio-politico; esse intendono dare
entusiasmo ai giovani, prepararli seriamente, nella speranza che poi possano ricevere il mandato politico.
3. - Il potere politico, la signoria della città, è prestato a tempo, secondo che piace alla divina bontà, e va
fatto fruttare per la collettività con spirito solidaristico.
Mi permetto comunicarvi una breve riflessione proprio su questo problema in Europa. Negli ultimi
giorni, infatti, ho avuto parecchie occasioni di incontri sia a Bruxelles (dove si sono trovati i rappresentanti
di tutte le religioni del mondo, in una preghiera per la pace, sul tema della solidarietà oggi nel nostro
Continente), sia a Bonn.
In questa città, con la Conferenza Episcopale Tedesca e le autorità del Parlamento e del governo tedesco,
abbiamo riflettuto p~nsando al futuro dell'Europa e al bisogno che la Chiesa si impegni per la solidarietà.
Partendo dall'ultimo Sinodo straordinario dei Vescovi Europei, vorrei domandarmi: come va la
solidarietà in Europa?
Certo, il Sinodo ha preso apertamente posizione per un'Europa aperta alla solidarietà universale e ha
insistito che tra i grandi valori etici e la solidarietà che postula l' equilibrio tra i più deboli e i più forti.
Ha pure dichiarato: «E urgente soprattutto una cultura della solidarietà che sappia individuare le vie di
una giusta soluzione per le antiche e nuove povertà», e ha auspicato <<un'Europa aperta alla solidarietà
universale». «La storia dell'Europa conosce anche molti lati oscuri, tra i quali bisogna annoverare
l'imperialismo e l'oppressione di molti popoli, con lo sfruttamento sistematico dei loro beni. È
necessario perciò respingere un certo spirito eurocentrico ed ascoltare il grido di dolore che giunge da
tante parti del mondo» (cf Dichiarazzone finale del Sinodo, n. 10).
A Bruxelles e a Bonn ci siamo interrogati su ciò che ostacola oggi lo spirito di solidarietà in Europa
e ritengo utile riassumere i miei interventi.
Ho detto che, guardando la situazione sociopolitica dell'Europa in genere e tenendo presente le
ricerche sociologiche di questi anni Sui valori in Europa, si nota che sono soprattutto tre le forze
antisolidaristiche che si stanno scatenando nel nostro Continente.
a) - La paura di perdere la patria o di essere privati della patria. Da qui nascono conflitti. e disordini
razziali, specialmente nei paesi del nord, nell'antica Germania dell'est, dove la gente teme non di
perdere la patria fisica, bensì il benessere in cui si è installata come in una patria inalienabile. Teme di
perdere il benessere conquistato a causa delle grandi immigrazioni, in particolare per la Germania dell'
est, a causa di migliaia di persone che premono alle frontiere.
L'ansia, la paura, generano fenomeni di rigetto, evidentemente violenti, limitati, che però nascondono
uno stato d'animo preoccupante. Mi confermava qualche politico tedesco che, più dei fenomeni, teme lo
stato d'animo che essi nascondono.
La paura di perdere la patria ha scatenato conflitti nazionalistici tra i popoli dell' est europeo, che ci
hanno dato tutte le sorprese del post-comunismo.
b) - Una seconda ragione, più profonda, della spinta antisolidaristica è data, a mio avviso, dalla
ricerca a ogni costo dei beni materiali messi al centro della condizione umana come gli unici capaci di
offrire senso all' esistenza. I grandi problemi che scuotono l'Europa sono i fenomeni del denaro, i fenomeni monetari. Perché il denaro rappresenta la possibilità di avere tutto; sembra che con esso si possa
convertire tutto, che tutto sia acquistabile. Si tratta di un fenomeno assai preoccupante e da cui il
politico deve guardarsi non solo per sé, ma con la lungimiranza di chi pensa al futuro.
c) - La terza forza antisolidaristica ha la sua ragion d'essere nella concentrazione spasmodica dell'uomo
sulla vita terrena, su questo mondo come l'unica realtà da prendere sul serio. Ed è, a mio parere, la
radice di tutte le deviazioni (il messaggio di Sto alla porta dice l'opposto: c'è una vita eterna, che fin da
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ora viene in mezzo a noi aprendo ci un futuro).
In un'inchiesta recentissima si è proposto a tutti i paesi europei di dare una valutazione sulla seguente
espressione: Il senso del tempo di questa vita è di ricavarne il massimo possibile. La frase (che
sottolinea appunto la concentrazione spasmodica sulla vita terrena) ha ricevuto in Europa il 76% dei
consensi, come particolarmente significativa dell' esistenza. Vorrei farvi notare pure le differenze in
questo globale 76%: 83% nell'Europa nord-ovest; 60% in Italia, Spagna e paesi del sud Europa.
In ogni caso l'avvenire di un'Europa con quelle percentuali non può lasciarci tranquilli.
Parlando, a Bruxelles, ai seguaci di tutte le religioni del mondo, dicevo che il grande compito delle
religioni è proprio quello perenne di aiutare l'uomo a guardare verso un orizzonte che sta oltre e che è
distinto dall'orizzonte nazionale, economico, politico; perché è più alto, è più universale, è eterno,
assoluto, non viene mai meno e quindi ci toglie la paura, l'ansietà che portano alle lotte fratricide per
assicurarci dei beni terreni. E l'orizzonte ultimo a determinare il modo di vivere sulla terra e a dare le
ragioni di vivere e di sperare.
Ritorno al senso della mia Lettera pastorale, che vuole essere semplicemente questo: portare la forza
delle ragioni ultime dell' esistenza come luce sulla condizione quotidiana dell'uomo.
Che cosa sperare da un impegno politico vissuto secondo la santità cristiana?
Concludendo, vorrei rispondere all'interrogativo: in concreto, che cosa è possibile sperare da un
impegno politico vissuto secondo la santità cristiana? Qualcuno infatti potrebbe dire: abbiamo ascoltato
parole e princìpi molto belli, magari difficili, e il Signore ci aiuterà, ci darà grazia. Tuttavia.' dopo che
ci saremo impegnati m questa linea, che cosa saremo se non una voce che grida nel deserto, se non una
piccola minoranza che non avrà cambiato niente?
Ancora in Sto alla porta (nn. 18-19) ho cercato di esprimere le speranze temporali, partendo
ovviamente dalla speranza eterna. Perché, al di là delle utopie e delle futurologie che oggi sono tra
l'altro in ribasso, dal punto di vista cristiano c'è non solo la speranza della vita eterna, ma pure una
speranza di poter stabilire un ordine più giusto in questa terra.
La Sacra Scrittura non ci parla di un' éra messianica millenaria, che ci faccia sognare un paradiso in
terra. Ci insegna piuttosto che la vita sulla terra sarà sempre una grande lotta. Tuttavia ci sono per il
politico cristiano delle speranze concrete, che ho cercato di riassumere ,nella Lettera e che ora vi
rileggo. «Il regno di Dio viene realizzato già in parte sulla terra, ovunque, in forza dello Spirito di
Cristo, appaiono segni di conversione alla pace, alla giustizia, alla. comunione (...) Ogni piccolo segno
sociale di questo tipo, ogni incontro di fratelli e di sorelle che si realizza nella vittoria del dono sul
calcolo è una pregustazione del Regno definitivo e può essere sperato come dono di Dio» (n. 19). Come
a dire: se tanti ci mettiamo insieme a lavorare in tal senso, qualcosa avverrà' non tutto perché ci saranno
sempre problemi difficoltà, defezioni personali e collettive però molto avverrà.
«Il formarsi di una rete di tali realizzazioni del regno di Dio fin d'ora e il loro coagularsi in alleanza
per tutta la terra. in costante combattimento contro il male e contro il degrado, è il massimo che
possiamo sperare per la nostra storia». Non possiamo sperare di più, dal momento che «il
sovrabbondare dell'ingiustizia, la ricerca sfrenata dei propri comodi, le liti e le inimicizie, lo
sfruttamento selvaggio della natura, minacciano continuamente di sommergere i luoghi della speranza». Tuttavia tali luoghi possono esserci e quando ci sono sono regno di Dio, quando si mettono
insieme costituiscono una rete di realizzazioni che realmente può cambiare qualcosa di importante sulla
faccia della terra. Dipende da noi se questa rete sarà piccola o grande.
«Ogni nostro sforzo autentico nelle direzioni sopra indicate, è consapevole del fatto che la forza del
peccato e dell'ingiustizia è sempre all' opera e contrasta continuamente gli ideali del bene ( ... ). Siamo
perennemente in condizione di lotta e tuttavia abbiamo la certezza che la forza dello Spirito non ci
mancherà mai, che nessuno di coloro che invocheranno con fede il nome del Signore soccomberà alla
tentazione ( ... ). Sappiamo che le forze del male e dell'ingiustizia non riusciranno a distruggere quanto è
stato costruito per grazia dello Spirito d'amore» (ibidem).
Tutto ciò che viene costruito da un politico cristiano, santo, rimane per sempre e nulla potrà
distruggerlo. Dunque queste realizzazioni possono davvero cambiare anche una società degradata e
difficile come la nostra. Ed è la speranza che io affido a voi.
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Fonti
Vivere l'impegno politico alla luce della carità: intervento per l'inizio della 3a edizione della «Scuola di
formazione all'impegno socio-politico» Milano, 18 gennaio 1992.
Dai problemi dell'etica pubblica all'interrogativo morale: articolo pubblicato su «Il Sole - 24 Ore» febbraio
1992.
Il cristiano e la politica: da «Rivista Diocesana Milanese» e ripreso da Pace, giustizia, Europa, EDB, 1989,
pp. 98-99; 529-532; Interiorità e futuro, EDB, 1987, pp. 522-524; Etica, politica, conversione, EDB, 1988,
pp. 131-133; 514.
La corruzione politica: da «Rivista Diocesana Milanese» e ripreso da Pace, giustizia, Europa, EDB, 1989,
pp. 100-107 e EDB, 1991, pp. 342-344.
Si può restaurare la legalità?: articolo pubblicato su «Avvenire» il 10.5.1992.
Tempo di saggio e maturo discernimento: intervento per la conclusione della «Scuola di formazione
all'impegno sociopolitico» Milano, 13 giugno 1992.
Il lavoro politico come realtà spirituale: meditazione all'incontro di Spiritualità dei politici della zona di
Varese Tradate, 23 ottobre 1992.
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