La farfalla dalle ali legate

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Palma La Bella
La farfalla
dalle ali legate
Diario della mia anoressia
Indice
Prologo
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Attilio Insardà
Antefatto
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LA FERITA
19
IL DIARIO
49
RIPRENDERSI LA VITA
99
Ringraziamenti
103
5
Ai «miei Angioletti», tutti i bimbi a cui sono «spuntate le ali» troppo presto... Vi penso lassù a giocare spensieratamente tutti assieme. Ognuno di voi
mi ha insegnato tanto e mi ha dato tanto. Vi sento sempre con me, accanto, ad accompagnarmi e
aiutarmi in quella che ormai è divenuta per me
una sorta di «missione»... Avrete sempre un posto
speciale e tutto vostro nel mio cuore! Sappiate che
la vostra «Trilly» vi vuole bene e non vi dimenticherà mai...
Prologo
Il gusto è il più primitivo dei sensi, quello che ci fa conoscere il buono e il cattivo prima che la morale intervenga
con le sue nobili e complesse disquisizioni. Alla sensazione
del gusto si associa inoltre un’emozione connessa a una
reazione affettiva di piacere o dispiacere che ci riconduce
all’origine della nostra biografia, quando la prima forma di
«sapere» era acquisita dal «sapore» delle cose. Il cibo, fin dal
primo giorno di vita, è fonte non solo di sopravvivenza, ma
anche di «conoscenza» e, quindi, di «coscienza». Il rapporto
dell’uomo col cibo è sempre stato improntato al sacro, perciò l’alimentazione ha assunto le caratteristiche di un
rituale religioso. Il rifiuto di un bene così prezioso come il
cibo, archetipo di vita e di esperienza, assume quindi le
sembianze del sovrannaturale: è il supremo distacco dal
mondo. Al contrario, l’eccesso di cibo è un rito vitalistico e
dionisiaco di comunione col mondo. In passato queste
modalità estreme di rapportarsi col cibo erano considerate
più una devianza eccezionale che una malattia: il rifiuto del
cibo come modello di trascendenza religiosa e di ascesi spirituale; il suo abuso come istinto peccaminoso e vizio capitale («la gola»).
Da quando l’abbondanza di cibo ne ha sostituito la
carenza, i suoi significati simbolici si sono affievoliti; laddove è ordinaria la facilità a reperire il cibo si attenua la lotta
per la sopravvivenza. Negli stessi tempi e negli stessi luoghi
si è progressivamente modificato il rapporto tra l’io e il
corpo: da soggetto di esistenza il corpo è diventato oggetto
di manipolazione; da essenza è divenuto apparenza. Queste
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alterazioni del rapporto col proprio corpo e col cibo che vi si
introduce sono alla base dei disturbi dell’alimentazione. Il
termine anoressia (dal greco anorexis, cioè senza appetito)
è fuorviante in quanto l’ostinato rifiuto del cibo non è causato dalla mancanza di appetito, ma dalla inflessibile
volontà di dimagrire. Anche il termine bulimia (dal greco
bou-limos: molta fame o fame da bue) non è corretto, in
quanto non è la fame a spingere verso le abbuffate, ma un
impulso irrefrenabile a ingozzarsi; sarebbe più esatto far
derivare «bulimia» da bulomai (voglio, desidero), perché
descriverebbe bene il desiderio ossessivo per il cibo. Il progressivo aumento di frequenza dei disturbi dell’alimentazione negli ultimi 40 anni sembra avere i caratteri dell’epidemia, per giunta contagiosa perché questi disturbi affascinano le adolescenti anziché spaventarle. Tuttavia l’aumento di prevalenza è associato a una diminuzione di gravità:
cioè aumentano soprattutto le sindromi parziali come il
Disturbo da Alimentazione Incontrollata (DAI) e le nevrosi
legate al cibo, come l’ossessione per il mangiare in bianco e
il rifiuto fobico di alcuni cibi (vegani). l disturbi «lievi» dell’alimentazione hanno una prevalenza del 15% circa, mentre
l’Anoressia ha una prevalenza dell’1% e la Bulimia del 23%. La frequenza nel sesso femminile è 10-20 volte superiore che nel maschile (90-95% F/5-10% M); questo dato,
unito al fatto che i pochi maschi anoressici hanno caratteristiche femminili o sono francamente omosessuali, porta
alla considerazione che queste sono malattie tipicamente
femminili e come tali sembrano rimpiazzare l’isteria del
secolo scorso. Anoressia e Bulimia, quindi, non sarebbero
disturbi distinti, ma estremi di un continuum rappresentato da tutti i comportamenti alimentari anomali, a loro volta
facenti parte dei disturbi dello spettro isterico. l disturbi alimentari sono «malattie sociali» e «disturbi etnici», cioè collegati alla cultura occidentale contemporanea, delle cui angosce e contraddizioni assurgono a espressione. Solo laddove
vi è abbondanza di cibo si possono fare abbuffate frequenti o, al contrario, permettersi il lusso di rinunciare al cibo.
Queste sindromi, infatti, sono assenti nelle regioni del
mondo in cui si patisce la fame e dove la magrezza non è
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considerata una virtù, ma una tragedia. l fattori psicologici
implicati nella genesi dei disturbi dell’alimentazione sono
riconducibili alle problematiche adolescenziali: l’identità,
l’immagine corporea, l’autonomia e la separazione-individuazione dalle figure genitoriali. Le anoressiche anzitutto
cercano disperatamente di essere uniche e speciali tramite
un atto così straordinario come il rifiuto del cibo. Esse sono
state delle bambine perfette, sviluppando così un falso sé
per compiacere i genitori e per evitare un immaginario
abbandono; durante l’adolescenza cercheranno di sviluppare un vero sé affermando la loro identità e autonomia tramite i sintomi anoressici. L’immagine corporea è altresì
disturbata perché viene percepita come abitata da una cattiva madre; bloccare la crescita del corpo e la maturazione
sessuale rappresenta il rifiuto del ruolo nascente di donna
e mamma. Le distorsioni cognitive tipiche delle anoressiche
(manicheismo, pensiero magico e ossessivo, compulsioni)
sono accentuate o addirittura determinate dal digiuno, che
così tende a perpetuare se stesso, anche per i vantaggi
secondari legati alla malattia {maggiori attenzioni, diminuzione di obblighi e doveri).
Le alterazioni psicologiche delle bulimiche sono il rovescio della medaglia rispetto a quelle delle anoressiche. Le
bulimiche presentano un io debole con scarso autocontrollo, le anoressiche invece sono dotate di un io forte con un
severo autocontrollo. Infatti, mentre le anoressiche conducono un’esistenza improntata alla rinuncia, le bulimiche
invece tendono all’abuso (di sesso, di sostanze ecc.).
Entrambe spostano i conflitti relazionali e i problemi esistenziali proiettandoli sul cibo e sul corpo, ma questa strategia difensiva è destinata a fallire perché fortemente maladattativa: infatti le bulimiche non raggiungono mai completamente il controllo del peso, né le anoressiche sono mai
soddisfatte della magrezza conquistata. L’ambiente familiare può, se non determinare, almeno acuire i disturbi alimentari: famiglie molto rigide, chiuse e con conflittualità
nascoste aggravano la prognosi dell’anoressia; famiglie caotiche, aperte e con conflittualità manifeste sono un fattore
di rischio per le bulimiche. Le bambine che diverranno ano-
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ressiche sono timide, remissive, ubbidienti, coscienziose,
perfezioniste, e tendono sempre al massimo in ogni prestazione. La malattia inizia spesso con situazioni di modesto
sovrappeso; per raggiungere il suo ideale corporeo la ragazza si prescrive una dieta dimagrante sempre più drastica,
fino al digiuno completo, che finisce con lo sfuggire al finalismo estetico iniziale, per progredire sulla strada del dimagrimento fine a sé stesso, oppure può sfociare nella bulimia.
Vi è una costante ossessione per il cibo (fare scorte, cucinare cibi elaborati per gli altri) e per il corpo (pesarsi, guardarsi
allo specchio, fare ginnastica). Le complicanze mediche dell’anoressia portano a morte almeno nel 5% dei casi, il suicidio avviene nel 2,5% dei casi, mentre il 30% guarisce completamente e oltre il 50 % presenta sintomi attenuati o
disturbi psichici. Anche le bulimiche hanno un’alterazione
del rapporto col cibo e col corpo, ma la sua espressione è
influenzata da una personalità caratterizzata da disturbi del
comportamento e del controllo degli impulsi. Nella fase iniziale la ragazza pratica una dieta severa, arrivando spesso
all’anoressia, quindi vi è un aumento del desiderio di cibo,
soprattutto di dolci, e una diminuzione del senso di sazietà,
che conduce verso le abbuffate. Queste sono caratterizzate
dalla perdita dell’autocontrollo e dalla enorme quantità di
cibo ingerito (fino a 20.000 calorie!). Le abbuffate sono precedute da agitazione; nel corso di esse vi è uno stato di rilassato benessere, quindi subentra un angosciante senso di
colpa, alleviato solo dalle condotte eliminatorie (vomito, lassativi, diuretici) e dimagranti (digiuno e attività fisica). Di
bulimia si muore di meno che di anoressia, ma la malattia
si cronicizza facilmente. Non esiste ancora una terapia specifica dei disturbi dell’alimentazione; nei casi gravi di anoressia con pericolo di vita è necessario il ricovero ospedaliero, perché senza un minimo di adeguata nutrizione nessun
tipo di terapia è efficace. Purtroppo i disturbi dell’alimentazione sono caratterizzati dalla loro accettazione e dalla mancanza di consapevolezza, per cui raramente le ragazze gradiscono le terapie o sono motivate al cambiamento, né tantomeno accettano il ricovero. Il trattamento migliore avviene
nei pochi centri specializzati, perché l’ambiente puramente
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psichiatrico ha un impatto scioccante che determina rifiuto
e ostilità, mentre l’ambiente medico è privo del supporto
psicologico appropriato. L’iniziale terapia nutrizionale deve
essere affiancata da una adeguata psicoterapia che cerchi
di risolvere il disturbo del sé e le distorsioni delle relazioni
interiori. Anche la psicoterapia cognitivo-comportamentale
e i programmi psico-educativi possono essere utili, specialmente nei casi di bulimia. La psicoterapia familiare è adatta nei casi in cui è evidente la componente parentale nel
mantenimento del disturbo. Tuttavia l’intervallo che precede gli effetti positivi delle psicoterapie è troppo lungo e la
percentuale di guarigione è troppo bassa per essere accettabile, data l’elevata mortalità in queste malattie, perciò è
necessaria anche una terapia farmacologica. Quindi l’accostamento di terapie farmacologiche, psicologiche ed educazionali nell’ambito di un ambiente idoneo è la strategia che
finora ha dato i migliori risultati.
Ho conosciuto Palma all’inizio del 2011, inviatami da un
carissimo amico in comune. Era una donna fragile e delicata, appena uscita da una lunga storia di anoressia e da
un’odissea di ricoveri, anche lunghissimi, in varie strutture sia psichiatriche sia per disturbi dell’alimentazione.
Oltre all’anoressia presentava una strana febbre quotidiana, senza cause apparenti, tanto che i medici di Milano l’avevano denominata «febbre psicosomatica». Nel periodo in
cui l’avevo conosciuta era depressa e tentava spesso il suicidio, finendo ricoverata in Psichiatria. Dietro la facciata di
paziente psichiatrica, però, aveva talento: sapeva scrivere e
comporre poesie, era colta e studiosa ed era estremamente
brava a capire e a consolare i bambini malati. Infatti metteva a frutto questa capacità sia nel volontariato presso i
reparti di Pediatria sia nello studio. Sono passati quattro
anni, continuiamo a vederci ogni mese e a sentirci spesso
al telefono. Adesso non tenta più di farla finita. Lavora, studia, fa volontariato ed è sempre impegnata nonostante sia
costantemente afflitta da sintomi d’ansia, di depressione e
di stanchezza cronica. Il suo carattere è ambivalente: nello
stesso tempo è fragile e resistente, svogliata e volenterosa,
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umile e orgogliosa, vulnerabile e tosta, insicura e coraggiosa. Lei può contare su di me, perché, come canta De
Gregori, «quando mi cercherai, sempre e per sempre dalla
stessa parte mi troverai».
Attilio Insardà
Medico chirurgo, specialista in Igiene Mentale,
psichiatra e psicoterapeuta, «Centro di Salute Mentale»
dell’ASP di Catanzaro
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