CAPITOLO SESTO IL SÉ E L`IDENTITÀ 1. IL CONCETTO D

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CAPITOLO SESTO
IL SÉ E L’IDENTITÀ
Sommario: 1. Il concetto d’identità personale. - 2. Formazione e sviluppo del sé.
1. IL CONCETTO D’IDENTITÀ PERSONALE
L’immagine del sé, ossia l’immagine che noi tutti abbiamo della nostra
soggettività, deriva dalle esperienze vissute sia nell’infanzia, in particolare nel rapporto con i genitori, sia nei rapporti sociali significativi. L’immagine di sé condiziona il modo di essere e di agire, influenzando o ostacolando gli obiettivi che l’individuo si propone di raggiungere. A sua volta, si
compone di immagini diverse ma in stretto rapporto tra loro: così, quella
relativa alla nostra sessualità può condizionare il rapporto affettivo-emotivo
con un eventuale partner, mentre quelle connesse alle nostre qualità e capacità possono condizionare le relazioni interpersonali e il raggiungimento di
certi traguardi. L’insieme organizzato di tutte le componenti costituisce lo
schema del sé, ossia l’identità personale, che si definisce positiva se il
soggetto mostra un alto concetto di sé e dunque un alto grado di autostima,
negativa nel caso opposto.
2. FORMAZIONE E SVILUPPO DEL SÉ
A) Il contesto sociale
Secondo l’approccio psicoanalitico, il nucleo primitivo dell’immagine di sé si costituisce attraverso le esperienze della primissima infanzia ed
è destinato a influenzare più o meno tutta la nostra vita. La psicologia sociale invece, pur affermando che un’immagine del sé si sviluppa già in quel
periodo, non crede che questa non possa modificarsi, ritenendola piuttosto
sottoposta a continui e ripetuti cambiamenti. Ognuno di noi infatti è inserito in un contesto sociale che partecipa alla costruzione dell’immagine
del sé, la quale risulta così condizionata dalla relazione con gli altri, a sua
volta in continuo cambiamento. Un ruolo di particolare importanza nella
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Capitolo Sesto
costruzione del concetto di sé è assunto dunque dal contesto sociale, il quale ci fornisce continui feedback su ciò che noi siamo, attraverso le opinioni
degli altri. Uno dei primi teorici della psicologia sociale che si soffermò ad
analizzare come le opinioni degli «altri significativi» (amici, genitori, fratelli ecc.) assumano un ruolo di primo piano nella formazione del concetto
di sé, fu George H. Mead. Egli considerò l’ambiente sociale come una
sorta di specchio, che svolge una funzione riflettente, in cui si modellano
parti della propria identità. Il rinforzo positivo, inteso nel senso di approvazione che l’ambiente sociale fornisce all’individuo, influenza decisamente
la propria autostima e più partirà da persone significative, più contribuirà ad
aumentarla. Così impariamo a considerarci e a modellare il nostro comportamento, anche in funzione del rinforzo positivo (approvazione) o negativo
(disapprovazione) fornitoci dalle opinioni altrui.
L’importanza giocata dall’approvazione degli altri viene confermata anche dal fatto che, persino quando sono le persone per noi significative a
ricevere dagli altri approvazione o lode, indirettamente noi stessi ci sentiamo gratificati. Questo meccanismo che conduce in pratica a «bearsi per
gloria riflessa» appare evidente nello sport ove, ad esempio, la vittoria della
squadra del cuore riesce ad alzare il morale anche del tifoso e la sconfitta, a
sua volta, ad abbassarlo. In altre parole, se ci rapportiamo con persone che
consideriamo socialmente degne di rispetto, la nostra autostima ne risulterà
accresciuta. Allo stesso modo, qualsiasi nostra scelta, dagli amici, al lavoro
o alla scuola, sarà sempre basata sulla conferma dell’immagine del proprio
sé.
Questa, a sua volta, è condizionata anche dal modo in cui le persone si
percepiscono distinte o distinguibili dagli altri. Lo stesso ambiente sociale
infatti, se da una parte spinge al conformismo, dall’altra può costituire un
fattore di affermazione delle differenze dei singoli. Ad esempio, i gruppi
etnici minoritari che si trovano in paesi diversi da quelli in cui sono nati,
sentiranno il bisogno di affermare il proprio sé in opposizione al nuovo
contesto sociale.
In una ricerca, Mindy Csikszentmihalyi e Eugene Rochberg-Halton hanno analizzato
come la gente, pur avendo in comune gli stessi oggetti offerti dal mercato, attribuisse loro
valori diversi. È emerso che nonostante l’uguaglianza degli oggetti, le persone li sceglievano in
base a motivazioni profondamente personali e diverse tra loro. Insomma, questi rappresentavano i simboli della loro unicità.
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Oltre ai fattori sociali infine, anche i propri ricordi personali, in particolare quelli positivi, sembrano contribuire al miglioramento dell’immagine di sé.
B) Il ruolo
All’interno della società ognuno di noi riveste diversi ruoli, alcuni dei
quali ascritti (essere maschio o femmina, appartenere ad un certo gruppo
etnico), altri invece acquisiti (la professione, essere padre, madre, casalinga ecc.). Il problema sorge nel momento in cui si giunge ad identificarsi
totalmente con essi, dimenticando che il proprio sé non è riducibile al ruolo
sociale. Può anche accadere, al contrario, che pur rivestendo un certo ruolo
non si riesce ad identificarvisi: come nel caso di chi è padre, ma non ne
svolge i doveri. O ancora, che vi sia una distorsione dell’immagine di sé e ci
si percepisca per ciò che si crede di essere e non per ciò che realmente si è:
ad esempio, sentirsi capoufficio ma non esserlo. Ogni giorno, ci troviamo a
recitare inconsapevolmente dei copioni di vita, adattandoci di volta in volta
ai diversi contesti; in altre parole, ci mettiamo una maschera che alla lunga
diventa la nostra realtà, condizionando l’immagine di noi stessi e ostacolando il divenire della nostra identità.
C) L’identità stabile
Il continuo mutamento dell’immagine del sé, determinato dall’ambiente
sociale, non esclude comunque l’esistenza di un nucleo stabile dell’identità che ci consente il mantenimento di una determinata personalità. Le persone adottano diverse strategie cognitive per riuscire a mantenere questa stabilità. Ad esempio, se crediamo di essere in un certo modo (buoni
genitori, bravi studenti ecc.) adottiamo un comportamento coerente atto a
confermare la nostra immagine. Questo processo di autoconferma si costituisce attraverso tre elementi:
— attenzione orientata a conferma di sé. Le persone, nell’instaurare un
rapporto con noi, ci trasmettono molte informazioni, tra le quali però
noi tendiamo a selezionare solo quelle che confermano la nostra immagine. Se, per esempio, ci consideriamo attraenti, nella relazione con l’altro rivolgeremo allora la nostra attenzione a tutti quei messaggi che confermeranno questa nostra certezza;
— interpretazione orientata a conferma di sé. A volte, si verifica una
certa conflittualità tra l’immagine che si ha di sé e quella che gli altri si
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Capitolo Sesto
fanno di noi. Per salvaguardare la nostra identità adottiamo allora un
meccanismo di «minimizzazione», in modo da plasmare il giudizio altrui e renderlo concorde al nostro. Questo meccanismo si attua, ad esempio, quando subiamo una critica o non otteniamo un risultato sperato;
— scelta del gruppo e presentazione. Vi è maggiore possibilità di stabilire un legame con quelle persone il cui giudizio su di noi coincide con il
nostro. Quindi, scegliamo il gruppo di appartenenza che rinforzi la nostra immagine, rinviandoci un feed-back positivo. Per ottenere questo
feed-back però occorre che noi riveliamo la nostra identità, ossia che ci
«autopresentiamo», così da incoraggiare un certo tipo di reazioni attese.
Molte delle strategie cognitive a salvaguardia della propria immagine,
spesso vengono adottate inconsapevolmente, elaborando le informazioni che
si ricevono in base allo schema coerente di sé stessi.
In conclusione, possiamo dire che l’immagine del sé oscilla costantemente tra cambiamento e stabilità e che la persona costituisce un essere in
continua trasformazione e non definito una volta per tutte.
D) Il sé e le emozioni
Un ruolo particolare nella costruzione dell’immagine del sé è svolto anche
dalle emozioni. Tuttavia, mentre l’approccio umanistico-esistenziale considera decisive le esperienze emotive nella crescita personale e nella costituzione della nostra immagine, quello comportamentista e cognitivo mette in primo piano il ruolo dei processi cognitivi. In particolare gli orientamenti che specificano il ruolo delle emozioni sono quello biologico, cognitivo e costruzionista sociale:
— modello biologico. Considera l’emozione come il modo in cui il sistema nervoso reagisce agli stimoli. Così, a seconda di essi, avremo reazioni differenziate (paura, gioia, tristezza ecc.). In altre parole, la risposta
emotiva costituisce una delle tante risposte adattative all’ambiente ereditate dalla specie, come sostiene Darwin, in funzione della sopravvivenza: la paura ci spinge a sfuggire al pericolo, la rabbia a superare
ostacoli ecc. Il fatto stesso che i bambini apprendano e riconoscano rapidamente gli stati emotivi sui volti degli adulti, è secondo alcuni autori a
conferma dell’origine genetica delle emozioni. Occorre comunque riconoscere che tutte le emozioni, nonostante siano riconducibili a specifici meccanismi fisiologici, cambiano in base alla cultura e ai contesti;
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— modello cognitivo. L’orientamento biologico ci dice cosa avviene nell’organismo quando proviamo una particolare emozione, ma non ce ne
spiega la causa. A tentare un approfondimento al riguardo è invece la
teoria bifattoriale delle emozioni elaborata da Stanley Schachter
(1922-1997) che afferma l’esistenza di un primo fattore costituito da
uno stato fisiologico comune a tutte le emozioni (stato di eccitazione
fisiologico generalizzato) e di un secondo fattore rappresentato invece
dall’identificazione dell’emozione. In pratica, quest’ultimo è il modo in
cui le persone classificano il proprio stato emotivo che a sua volta è
inevitabilmente influenzato dalle «regole sociali»: così, se siamo attratti
da una persona di sesso opposto, tenderemo a classificare tale emozione
come innamoramento;
— modello costruzionista sociale. La critica al modello cognitivo operata
dalla scuola costruttivista ha evidenziato il carattere di «prestazione
sociale» delle emozioni. Così, la rabbia simulata da un attore sul palcoscenico, anche se diversa da un sentimento di rabbia reale, ha in ogni
caso valore di prestazione.
E) La conoscenza sociale del sé
Nell’affrontare le situazioni della vita, oltre che conoscere se stessi, con
i propri limiti e le proprie potenzialità, è necessario farsi conoscere: ossia,
come già abbiamo accennato, autopresentarsi. L’individuo comunica tramite le proprie azioni e dunque tramite il comportamento. Attraverso quest’ultimo, inoltre, egli influenza l’agire del prossimo. Ad esempio, se vogliamo ricevere un sorriso da qualcuno, sorridiamo e l’altro risponderà di
conseguenza. Questa sequenza di scambio sociale viene definita «copione»; così, in base alla reazione che vogliamo suscitare, mettiamo in atto un
determinato copione. Ogni individuo ne ha uno personale, in sintonia con il
proprio modo di pensare e di essere e desidera che l’altro ne entri a far parte.
I messaggi iniziali, in quanto «ambigui», implicano appunto copioni diversi
e tale ambiguità, a sua volta, permette di «negoziare» il copione: aggiungere cioè segnali a sostegno del testo desiderato, in modo da permetterne l’accesso.
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Capitolo Sesto
F) L’autogestione
La capacità di gestirsi nelle relazioni sociali, di comprendere e decodificare i messaggi, gli input provenienti dagli altri, deriva da molti fattori. Quelli
descritti da Mark Snyder (1979) sono:
— saper prendere spunto dagli altri su come agire in circostanze altamente
incerte;
— essere capaci di discutere con disinvoltura e al momento opportuno saper anche mentire;
— essere in grado di modificare il proprio comportamento in relazione alle
persone e ai contesti.
Chi possiede queste capacità ha a sua volta un elevato potere di automonitoraggio: di osservare se stesso nei rapporti e di comprendere lo stato
d’animo degli altri. Sa inoltre organizzare la propria vita in armonia con le
proprie possibilità ed ha maggiori probabilità di diventare un leader. Per
una buona presentazione di sé è necessario essere attenti all’ambiente sociale e ai segnali altrui, anziché essere eccessivamente introspettivi. Benché
infatti il riflettere su se stessi faciliti la consapevolezza dei propri limiti, può
a volte costituire un ostacolo all’agire spontaneo. Tuttavia, secondo alcuni
ricercatori, le persone dotate di autoconsapevolezza riescono a dare un’immagine di sé più sicura e sincera, ad accettare il confronto con gli altri e ad
essere socialmente più collaborative.
CAPITOLO UNDICESIMO
L’INFLUENZA SOCIALE
Sommario: 1. Conflitto tra uguaglianza e individualità. - 2. Le conseguenze del potere. - 3. Resistenza alle pressioni sociali.
1. CONFLITTO TRA UGUAGLIANZA E INDIVIDUALITÀ
L’individuo sente, da un lato, l’esigenza di mantenere la propria libertà e
di resistere quindi alle influenze esterne; dall’altro, la necessità di aderire
comunque al mondo sociale. In altre parole, egli si trova costantemente combattuto tra il bisogno di uguaglianza e quello d’individualità. In particolare,
tre sono i tipi di uguaglianza prodotte da altrettante forme di influenza sociale: l’uniformità, la conformità e l’obbedienza.
A) L’uniformità
Gli uomini sono portati ad avere una condotta uniforme, a condividere
cioè caratteristiche simili agli altri membri del proprio gruppo di appartenenza. Se, da principio, la ricerca aveva trovato un fondamento di tipo biologico a questo bisogno di uniformità, attribuendolo ad un istinto gregario,
successivamente, invece, ha spostato la sua attenzione su fattori di tipo sociale quali:
— le norme sociali: l’uniformità sociale si basa sul rispetto di regole del
buon vivere comune, applicate in modo spontaneo e frutto degli insegnamenti provenienti dalla famiglia, dalla scuola ecc. Il mancato rispetto di tali norme comporta una reazione ostile degli altri membri del gruppo.
— i modelli di comportamento: gli individui imitano i comportamenti dei
loro simili per evitare un danno o per trarne un vantaggio, poiché hanno
avuto da questi un esempio su come certe situazioni debbano essere affrontate o evitate. Quando la diffusione del comportamento imitato riguarda un consistente gruppo di individui, essa prende il nome di «contagio».
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— il confronto sociale: il confronto con gli altri soggetti permette di trovare conferme alle nostre azioni e a dissolvere i dubbi che ci attanagliano.
Tutto ciò favorisce una maggiore percezione della realtà circostante. Fondamentale appare la scelta delle persone con cui confrontarci, le quali,
molto spesso, risultano essere quelle più vicine al nostro sentire. In particolare, in base alle caratteristiche della persona da noi scelta, avremo
due tipi di confronto:
— il confronto verso l’alto: cerchiamo il confronto con un soggetto che
riteniamo migliore di noi. È la scelta tipica di chi vuol migliorare le
proprie prestazioni e i propri risultati;
— il confronto verso il basso: cerchiamo il confronto con chi reputiamo
peggiore di noi. È la scelta tipica degli individui che vogliono rassicurarsi con altri che hanno avuto delle esperienze più negative delle loro.
B) La conformità
Secondo Kenneth Gergen la conformità può essere definita come «quel
tipo di eguaglianza che si realizza quando un individuo cede alle pressioni
sociali che lo obbligano ad essere simile agli altri». Il soggetto tende, di
norma, a conformarsi a gruppi di individui che appartengono al suo stesso
rango sociale, senza, peraltro, che questi ultimi esercitino alcun controllo
per verificare l’adesione del singolo alle loro regole. Egli cercherà, inoltre, di assumere un comportamento molto simile a quello degli altri membri. Conseguentemente dunque, il soggetto che si conforma ad un altro
gruppo giunge persino a modificare le proprie posizioni, al fine di poter
entrare in accordo con la nuova aggregazione sociale. È sotto questo aspetto
che la conformità si differenzia dall’uniformità: mentre nella prima, infatti, si parte da posizioni distinte a cui il soggetto si accorda, nella seconda
l’individuo si associa ad un gruppo per la semplice esigenza umana di
essere simile agli altri, senza che su se stesso venga esercitata alcuna
pressione.
Gli studiosi hanno individuato tre categorie di fattori che influenzano il
grado di conformità al gruppo:
1) Le caratteristiche del gruppo:
— la dimensione: tanto maggiore è il numero degli appartenenti al gruppo e più significativa sarà la tendenza dei singoli alla conformità;
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Capitolo Undicesimo
— l’unanimità: mano a mano che le adesioni a certe opinioni si incrementano, avvicinandosi all’unanimità, aumenterà di conseguenza
anche la conformità dell’individuo alle idee della maggioranza.
2) Le caratteristiche individuali. Anche i caratteri propri di ciascun individuo hanno la loro valenza, nell’ambito del processo attraverso cui ci si
conforma ad un certo gruppo sociale. Giocano un ruolo importante, in
tal senso, due importanti variabili:
— la nazionalità: sembra che la tendenza a conformarsi sia in relazione al diverso sistema economico dello Stato d’origine;
— il sesso: i differenti caratteri sessuali vanno valutati in relazione alla
qualità dello stimolo oggetto d’esame.
Così, se lo stimolo viene dall’uomo, le donne si conformano più degli
uomini; se, al contrario, viene dalle donne, sono gli uomini a conformarvisi in misura maggiore; infine, se lo stimolo è neutro, gli uni e le altre si
conformano in modo press’a poco uguale.
3) La relazione tra l’individuo e il gruppo. Possiamo individuare due tipi
di relazioni:
— raggiungimento di una ricompensa comune: quando gli appartenenti
al gruppo sono tesi al raggiungimento di una ricompensa comune, piuttosto che individuale, il loro grado di conformità risulterà maggiore;
— attrazione verso un gruppo: maggiore sarà l’attrazione esercitata
da un gruppo, più significativa sarà la conformità.
Moscovici, a sua volta, ha teorizzato persino una spiegazione genetica della conformità.
Lo studioso ritiene, infatti, che la conformità non è il frutto solo dell’azione esercitata dal
gruppo sull’individuo, quanto piuttosto una delle possibili soluzioni che il soggetto sceglie per
affrontare una limitata serie di situazioni. Egli parla di norma d’oggettività, in base a cui
esisterebbe un unico tipo di risposta ad un certo problema, alla quale risulterebbe dunque
inevitabile conformarsi. A questo punto, due saranno le condizioni necessarie che si dovranno
verificare. La prima è che il gruppo sia nomico: che possieda cioè una posizione fortemente
interiorizzata e si attivi per affermare questa posizione. La seconda è che, all’opposto, il soggetto sia anomico: che non sia presente in lui una posizione fortemente interiorizzata. Per
Moscovici, la conformità riduce il conflitto eliminando la devianza; riflettendo in tal modo la
sottomissione pubblica, piuttosto che l’accettazione privata.
C) L’obbedienza
L’obbedienza, che possiamo definire come «l’eguaglianza originata dalla
acquiescenza alle richieste di una figura autoritaria» (Kenneth Gergen), si
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verifica quando un individuo si sottopone agli ordini di un’autorità superiore ritenuta legittima e prevede un duplice controllo: imporre l’obbedienza agli ordini e verificarne la corretta applicazione. Inoltre, è sempre
sollecitata da una figura che occupa un posto superiore nella scala gerarchica e, mentre nel caso della conformità, chi si conforma ad un gruppo finisce
con l’assumere sempre un comportamento simile a quello degli altri individui, nell’obbedienza non vi potrà mai essere somiglianza di comportamento
tra chi dà gli ordini e chi invece li dovrà eseguire.
Una delle prime ricerche sperimentali sul fenomeno dell’obbedienza e,
in particolare, dell’obbedienza distruttiva, in cui l’esecuzione degli ordini
impartiti determina una lesione della proprietà o delle persone, fu compiuta
da Stanley Milgram nel 1974. Scopo dell’esperimento era quello di capire
il comportamento di un soggetto al quale venivano impartiti degli ordini che
prevedevano l’inflizione di pene corporali ad un altro individuo. I protagonisti dell’esperimento erano tre: lo sperimentatore che impartiva gli ordini,
l’individuo oggetto dell’esperimento a cui era stato conferito il ruolo di professore e un finto allievo. Il professore aveva la mansione di porre una serie
di domande all’allievo il quale, per ogni errore commesso nel rispondere,
veniva sottoposto ad una scossa elettrica che aumentava via via di intensità
(all’insaputa del professore le scosse non erano realmente trasmesse al finto
allievo). Ogni volta che l’allievo sbagliava, il personaggio autoritario ordinava al professore di incrementare la potenza della scossa. Milgram verificò
che tanto più vicino era l’allievo al professore, tanto minore risultava essere
l’obbedienza di questo agli ordini. Dunque, se l’allievo si trovava in un’altra
stanza, l’obbedienza del professore si accresceva; mentre, se vittima e insegnante erano nella stessa stanza e addirittura in condizione di vicinanza
tattile, era la resistenza all’obbedienza a divenire maggiormente significativa. Milgram potè così dimostrare la correlazione positiva esistente tra quest’ultima e la vicinanza fisica. Tale correlazione si dimostrò a sua volta contraria se riferita invece allo sperimentatore (il personaggio autoritario) e all’individuo sottoposto all’esperimento (il professore): in tal caso, infatti,
tanto più il primo si avvicinava, tanto più la spinta a disobbedire diminuiva.
Altre variabili individuate attraverso questo esperimento furono quelle
relative al fatto che l’obbedienza si produce anche quando l’autorità non si
presenta come un’istituzione prestigiosa e, infine, che la condotta morale
della stessa è del tutto superflua ai fini della esecuzione degli ordini. Un
ulteriore elemento che andava ad influenzare l’intero contesto, inoltre, era
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Capitolo Undicesimo
costituito dalle caratteristiche individuali dei soggetti: chi aveva una personalità incline all’autoritarismo ed era dotato di una moralità bassa risultava
infatti essere maggiormente obbediente.
Nel fornire una spiegazione teorica all’obbedienza, Milgram distingue
innanzi tutto due stati psicologici:
— autonomia: condizione di responsabilità del soggetto per gli atti da lui
compiuti;
— stato di «agente»: il soggetto inserito in una struttura gerarchica giunge
a deresponsabilizzarsi, poiché si convince che sono i suoi superiori a
dover necessariamente rispondere dei suoi atti.
Il fenomeno dell’obbedienza, quindi, sarebbe caratterizzato dal passaggio dallo stato mentale di «autonomia» a quello di «agente». In tale condizione l’individuo avvertirebbe una responsabilità minore rispetto alle proprie azioni.
2. LE CONSEGUENZE DEL POTERE
A) Gli effetti del potere su chi lo esercita
Una ricerca condotta nei penitenziari americani pose una serie di interrogativi sul comportamento delle guardie carcerarie. Gli studiosi appurarono che il modo di comportarsi di queste ultime non era dovuto alle loro
peculiarità personali (carattere autoritario, sadico ecc.), ma era piuttosto da
ascriversi all’influenza che il potere carcerario esercitava su di essi. Infatti,
persino degli studenti universitari coinvolti nella ricerca, nel momento in
cui si trovarono a svolgere il ruolo di guardie carcerarie, cambiarono enormemente il loro modo di relazionarsi agli altri, mostrando un atteggiamento
crudele prima a loro sconosciuto.
B) Potere e corruzione
L’esperimento sulle guardie carcerarie dimostrò, quindi, che il potere
tende a corrompere chi lo esercita. Lo studioso David Kipnis nel 1976 individuò le diverse fasi del processo che porta alla corruzione:
— il ricorso al potere è proporzionalmente legato all’accesso agli strumenti
del potere;
— più il potere verrà usato e più forte sarà la convinzione da parte del detentore di poter controllare l’operato del «bersaglio»;
L’influenza sociale
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— ogni volta che il detentore di potere trarrà tale credito dall’azione del
bersaglio, questo sarà fatto oggetto di svalutazione;
— il credito del bersaglio decresce in proporzione alla distanza sociale con
il detentore di potere;
— accesso al potere e suo uso continuo aumentano l’autostima del potente.
3. RESISTENZA ALLE PRESSIONI SOCIALI
Non tutti gli individui cedono all’influenza proveniente dalla società in
cui vivono. Esistono infatti due diverse forme di resistenza: indipendenza e
anticonformismo. La prima può essere definita come la volontà di realizzare le proprie aspirazioni al di fuori delle opinioni prevalenti in un determinato gruppo; il secondo caratterizza invece quel genere di comportamento
avente come unico scopo la violazione delle regole stabilite dall’autorità.
A) Indipendenza
Due, fondamentalmente, sono i fattori psicologici che spingono all’indipendenza. Il primo di questi è rappresentato dalla reattività (il bisogno di
sentirsi liberi). La pressione sociale conduce l’individuo a conformarsi al
gruppo, ma quando questi sente di rischiare una riduzione della propria libertà, tende a resistere a tale conformazione. La reattività sarà dunque tanto
più marcata quanto più risulterà alto il rischio di perdere la libertà; quanto
più importante sarà per l’individuo il comportamento ostacolato e quanto
più il soggetto crederà nella propria libertà.
Il secondo fattore che spinge l’individuo all’indipendenza è costituito
dal bisogno di essere unico, che trova la sua ragion d’essere nella tendenza,
propria di tutte le culture e particolarmente di quelle occidentali, ad attribuire al concetto di originalità una valenza estremamente importante. Ognuno
di noi infatti è portato a fondare la propria identità su ciò che ritiene lo renda
originale, unico, piuttosto che su ciò che lo accomuna agli altri.
B) Influenza delle minoranze sulle maggioranze
La psicologia sociale ha ritenuto per molto tempo che soltanto le maggioranze potessero influenzare il comportamento degli individui e che ciò
fosse funzionale alla conservazione dell’organizzazione sociale. Tale considerazione si fondava sul fatto che le maggioranze o i gruppi più numerosi,
essendo dotati di migliori informazioni, avessero anche una maggiore capa-
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Capitolo Undicesimo
cità di elargire ricompense o infliggere punizioni. Se questo fosse l’unico
schema con cui si esercita l’influenza sociale però, la situazione rimarrebbe
sempre allo status quo; non si potrebbe verificare alcuna rottura del sistema
e questo continuerebbe ad autoconservarsi in eterno. Dunque, l’ordine in
cui è strutturata la società potrà essere cambiato solo con la pressione
proveniente dalle minoranze sociali, definite minoranze attive. L’azione
portata avanti da queste minoranze, affinché risulti efficace, deve essere a
sua volta codificata con uno stile comportamentale, caratterizzato da un
linguaggio intenzionale e organizzato, e strutturato inoltre come un messaggio.
In esso dovranno essere presenti un aspetto strumentale, che fornisce informazioni sull’oggetto da giudicare e un aspetto simbolico, che informa invece sul soggetto che adotta uno
stile particolare. In tal modo, si avranno un referente empirico, l’oggetto su cui verte lo stile
comportamentale (messaggio) e uno simbolico, la persona che pratica quel determinato stile.
Infine, poiché è nella fase dell’interazione che lo stile comportamentale assume un proprio
significato, esso avrà necessariamente un valore intersoggettivo. Sarà infatti ostentando un
proprio stile particolare che un soggetto trasmetterà informazioni, tanto sull’oggetto, quanto
su se stesso come individuo giudicante. Il ricevente, a sua volta, ne coglierà il contenuto, decodificando i frammenti visibili e conferendo ad essi significato.
Gli stili di comportamento adottati dalle minoranze possono essere di
varia natura: investimento, autonomia, equità, rigidità e consistenza. In particolare, come sottolineato da Moscovici, quest’ultima designa molte forme
che vanno «dalla ripetizione persistente d’una affermazione particolare, evitando ogni dichiarazione contraddittoria, fino alla elaborazione di un sistema di prove logiche». Tutti i comportamenti inclusi nel concetto di consistenza sono caratterizzati dalla coerenza. Sarà proprio attraverso quest’ultima che la minoranza potrà influenzare la maggioranza, mostrando di mantenere ferme le sue posizioni.
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