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STORIA
L’ORDINE NEL DIRITTO INTERNAZIONALE
DISAMINA STORICA DELLA LEGITTIMITÀ DELL’ORDINE
DIRITTI DEI MILITARI RIGUARDANO TUTTI I CITTADINI
Riportiamo un interessante articolo ripreso dal sito dell’A.I.C. (Associazione
Italiana dei Costituzionalisti), preceduto da una breve presentazione di Cleto IAFRATE, componente del direttivo
nazionale di FICIESSE.
In linea di principio gli ordini militari
riguardano il servizio e non possono
eccedere i compiti d’istituto.
Il servizio ed i compiti d’istituto vengono stabiliti con legge ordinaria emanata dal Parlamento sovrano nei modi
previsti dalla Carta Costituzionale.
Nel panorama del diritto penale internazionale, però, il concetto di ordine
militare, a causa delle sue implicazioni, ha rappresentato un punto centrale
di riflessione che spesso ha diviso le
diverse filosofie giuridiche ed influenzato gli ordinamenti dei singoli Stati,
in ragione del loro grado di democrazia da essi raggiunto.
A fare da perimetro alle diverse posizioni assunte dai singoli governi nel
corso della storia, si possono individuare le seguenti due posizioni estreme, che corrispondono ad altrettante
elaborazioni mutuate dalla filosofia
del diritto.
a) Il primo orientamento, tipico di un
regime autoritario ed assolutista, si
rifà al pensiero di Thomas Hobbes
(1588 – 1679) che, a tal proposito,
scrisse:
“Il re deve determinare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e per questo
motivo è erroneo l'argomento che (...)
si sarebbe dovuto ubbidire al re solo
nel caso in cui i suoi ordini fossero legali. Poiché prima della costituzione
della pubblica autorità non esistevano
legalità e illegalità, così come la loro
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di Cleto Iafrate
L’ORDINE NON È
CIECA
OBBEDIENZA
STORIA
essenza derivava da un comando,
un'azione in sé non è né giusta né
sbagliata. Legalità e illegalità derivano
dalla legge del pubblico potere. Ciò
che viene ordinato da un re legittimo è
reso legittimo dal suo comando e ciò
che egli proibisce è reso illegittimo dal
suo proibirlo. Contrariamente, quando
i singoli cittadini pretendono loro stessi
di giudicare ciò che è giusto e ciò che
è sbagliato, essi vogliono rendersi
uguali al re, contrastando la prosperità dello Stato. … Quando eseguo,
perché ordinatomi, un'azione che è
sbagliata per colui che me l'ha ordinata, non è il mio agire sbagliato, nel
momento in cui colui che me l'ha ordinata è il mio maestro legittimo”.
In base a questo orientamento, il sovrano è al di sopra della legge e l'obbedienza agli ordini superiori scusa
sempre il subordinato. Tale orientamento propende, quindi, per l'incondizionata non punibilità del subordinato, la cui obbedienza viene definita
“cieca”.
Secondo tale punto di vista, gli ordini
provenienti da un'autorità legittima sono per ciò stesso legittimi e, dunque,
devono essere eseguiti. Chi li riceve
non ha il diritto, e neppure il dovere,
di sindacarne la legittimità; non può
disobbedire e, pertanto, non può essere ritenuto responsabile per l'esecuzione dell'ordine stesso.
Tale corrente di pensiero è alla base
di una concezione autoritaria dello
Stato che presume l'assoluta legalità e
legittimità di qualsiasi ordine che provenga dall'alto.
b) In posizione diametralmente opposta si pone il secondo orientamento,
proprio degli Stati di diritto, a mente
del quale, qualsiasi autorità è subordinata alla legge e, dunque, anche l'obbedienza deve essere subordinata alla
legalità del comando.
Nella filosofia del diritto, i principi alla
base della seconda scuola di pensiero
traggono origine dalle parole di John
Locke (1632 – 1704), secondo il quale
"La fedeltà non è altro che un'obbedienza alla legge, se egli (il sovrano)
la viola, egli non ha diritto di obbedienza, e nemmeno può reclamarla
poi come persona pubblica investita
con il potere della legge, e così egli
deve essere considerato come Immagine, Spettro o rappresentante della Comunità e deve quindi agire attraverso
il volere della società, dichiarato dalla
legge; quindi egli non ha Volere e Potere se non quello della legge".
In altre parole, la legge è al di sopra
del sovrano, dal momento che gli organi dello Stato sono subordinati alla
legge. Essi non sono in alcun caso legittimati a violare le norme penali,
l'ordine di commettere un fatto che costituisce reato non è vincolante. Di
conseguenza, il subordinato, la cui
obbedienza è definita “consapevole”,
è in condizione di disobbedire all’ordine ricevuto e, qualora dovesse eseguirlo, non è esente da responsabilità.
All’interno dei solchi tracciati dalle due
concezioni, si sono sviluppati tutti gli
ordinamenti giuridici europei, in ragione del loro grado di civiltà e democrazia raggiunto. Inoltre, man mano
che uno Stato tende verso la conquista
delle libertà democratiche, anche le
soluzioni al problema della legalità
degli ordini militari traslano verso la
seconda corrente di pensiero.
Viceversa, quando le libertà democratiche perdono terreno a vantaggio di
una visione autoritaria ed assolutista
dello Stato, le questioni che attengono
alla conformità alla Costituzione degli
ordini militari si modificano nei contenuti, nel senso di cui al pensiero di
Hobbes. In tale scenario, il principio di
stretta legalità e tassatività degli ordini
militari indietreggia e si fanno strada,
all’interno dell’ordinamento giuridico,
nuove “clausole di non punibilità per i
militari”.
Considero i diritti dei militari il termometro che misura il grado di democrazia che si respira anche e soprattutto
fuori dalle caserme.
Se i cittadini dovessero ritenere che le
modifiche alle norme che regolano i
diritti dei militari sono un problema
che riguarda solamente i militari, commetterebbero un grave ed imperdonabile errore.
Si consideri che durante i processi per
crimini di guerra e contro l'umanità, in
particolare durante quello di Norimberga, la difesa più frequentemente eccepita dai collegi difensivi degli accusati è stata il cosiddetto principio di
“obbedienza agli ordini del superiore”.
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