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DAL CRITICISMO KANTIANO ALL'IDEALISMO
Sul finire del Settecento, i contemporanei di Kant erano pienamente consapevoli dell'enorme importanza
del pensiero critico, tanto da accostare, per il radicale cambiamento introdotto, la rivoluzione copernicana
operata dal pensatore tedesco in ambito gnoseologico alla rivoluzione francese. Tuttavia, si era convinti che
con Kant il criticismo non avesse raggiunto la sua piena formulazione, in quanto continuavano a vivere
dualismi inconciliabili (sensibilità/intelletto, soggetto conoscente/soggetto agente, noumeno/fenomeno),
ecc. Muovendo da queste considerazioni, alcuni pensatori della Germania a cavallo di secolo, generalmente
indicati col nome di post-kantiani, diedero vita ad una vivace discussione sul valore del criticismo e sulla
necessità di effettuare una revisione del kantismo. In realtà, con il passaggio di secolo cambia quello che
Hegel definirà lo spirito del mondo: cominciano ad affacciarsi prospettive romantiche, con l'inevitabile
conseguenza che molte delle tesi esposte da Kant e perfettamente accettabili in un panorama illuministico,
diventano ora improponibili. Uno dei primi ad intervenire, quando Kant era ancora in vita, nel dibattito sul
criticismo fu KARL LEONHARD REINHOLD (1758-1823), con il Saggio di una nuova teoria della facoltà umana
della rappresentazione (1786-1788). Reinhold non aveva la pretesa di presentarsi come pensatore
originale: lasciatosi convincere dalle tesi kantiane, egli sente il dovere di divulgarle e lo fa inserendo,
inavvertitamente, alcuni elementi nuovi, che apriranno la strada all'idealismo. Reinhold sottolinea che il
soggetto e l'oggetto non sono pensabili separatamente : non potrei mai pensare il soggetto senza tener
conto dell'oggetto, e, viceversa, non potrei mai pensare l'oggetto senza tener conto del soggetto. Ne
consegue inevitabilmente che soggetto e oggetto vengono da Reinhold concepiti e pensati come due facce
della stessa medaglia, come se essi facessero riferimento ad un unico principio: la coscienza , intesa come
facoltà della rappresentazione. Il soggetto costituisce la forma della conoscenza, cioè l'attività tramite la
quale il molteplice viene unificato in un concetto, mentre l'oggetto ne costituisce la materia, cioè il
contenuto rappresentativo che viene unificato. Questa indissolubile relazione, all'interno della
rappresentazione, dell'elemento soggettivo-formale e di quello oggettivo-materiale giustifica la stretta
connessione tra le diverse facoltà conoscitive: nella sensibilità l'oggetto prevale sul soggetto, nell'intelletto
vi è equilibrio e nella ragione vi è un predominio della libera attività del soggetto. Secondo Kant, noi
costruiamo l'oggetto fenomenico, ma a monte di esso esiste comunque una cosa in sè (noumeno),
indipendente dal soggetto e dalla sua attività costitutiva: proprio con questa distinzione Kant prendeva le
distanze dall'idealismo berkeleiano. Ora, Reinhold, concependo il soggetto e l'oggetto come facce di
un'unica azione (la rappresentazione), fa venir meno la netta distinzione kantiana tra soggetto e oggetto.
Sebbene Reinhold si consideri pienamente kantiano, egli apre la strada all'idealismo e alla sua tesi
fondamentale: secondo la tesi idealista, è il soggetto che costruisce l'oggetto partendo da zero. A ben
pensarci, una sorta di perdita della cosa in sè c'era già stata in Kant: più passava il tempo e più egli si
convinceva che la cosa in sè fosse un concetto puramente negativo (noumeno è ciò che non è fenomeno),
con un'attenuazione dell'autonomia dell'oggetto. E il passaggio all'idealismo consiste proprio in una
progressiva eliminazione della cosa in sè kantiana ; non a caso, l'idealismo tedesco di fine settecento può
essere definito come il progressivo tentativo di identificare l'oggetto con il soggetto, con una sfumatura
tipicamente monistica : l'obiettivo ultimo, infatti, è trovare un principio che possa spiegare tutto quanto.
Occorre dunque superare la sfilza di dualismi irrisolti lasciati in eredità da Kant (primo fra tutti quello
soggetto/oggetto) riconducendoli, come tutto il resto, ad un unico principio. Queste problematiche sono
già in parte avvertite da Reinhold, il quale risolve il problema della cosa in sè con questo ragionamento:
l'aspetto formale della conoscenza, imputabile esclusivamente al soggetto, rientra nell'ambito della
rappresentazione, al contrario, la materia conoscitiva deriva da una cosa in sè intesa come un qualcosa di
assolutamente indeterminato e inconoscibile; in quanto tale, essa non è nemmeno rappresentabile, cioè
cade al di fuori della rappresentazione stessa. E, non essendo rappresentabile, essa non è alcunchè di reale,
poichè, se lo fosse, sarebbe un oggetto e rientrerebbe nella rappresentazione. La cosa in sè è dunque solo
un concetto che, per quanto necessario alla giustificazione dell'elemento materiale della conoscenza, per la
sua stessa impensabilità va al di là della rappresentazione e, quindi, della realtà. Autore di grande rilievo
per il passaggio dal kantismo all'idealismo è anche GOTTLOB ERNST SCHULZE (1761-1833), il cui
pseudonimo fu Enesidemo. Nel 1792 apparve anonimo il suo scritto Enesidemo, ovvero sui fondamenti
della filosofia degli elementi sostenuta a Jena dal sig. prof. Reinhold, assieme a una difesa dello scetticismo
contro le pretese della critica della ragione . Nella filosofia critica, da lui intesa come fusione del pensiero di
Kant e di Reinhold, Schulze rinviene una serie di contraddizioni che giungono all'apice con l'affermazione
della cosa in sè. Egli difende le posizioni dello scetticismo e vede in Reinhold un difensore ortodosso del
criticismo, senza tener conto delle modifiche che ha apportato. Nel testo poc'anzi citato, Schulze muove
una critica esplicita alla cosa in sè , mettendo in evidenza le contraddizioni scaturite dal criticismo. Kant ha
mostrato razionalmente come la categoria di causalità sia applicabile legittimamente solo in ambito
empirico, però poi ne ha fatto un uso meta-empirico applicandola alla cosa in sè: dicendo che la conoscenza
altro non è se non il frutto dell'elaborazione del materiale d'esperienza, a sua volta frutto della cosa in sè ,
non è forse vero che Kant ha fatto un uso della cosa in sè come causa? La cosa in sè è infatti intesa come un
qualcosa che causa, in maniera oscura, l'emergere dell'esperienza. Se la cosa in sè modifica i nostri organi di
senso poichè da essa ricevono il materiale dell'esperienza, vuol dire che la cosa in sè agisce causalmente su
di noi. Il paradosso colto da Schulze è che la cosa in sè resta inconoscibile, ma attorno ad essa Kant
costruisce l'intero processo conoscitivo. Altro paradosso: Kant dice che si può conoscere solo se si unificano
dati dell'esperienza con l'intelletto, con la conseguenza che dove non c'è esperienza non c'è conoscenza;
tuttavia egli ammette la conoscibilità delle categorie, le forme a priori dell'intelletto, riconoscendo dunque
che si può avere conoscenza anche senza l'apporto della sensibilità. L'intera Critica della ragion pura è
proprio questo, un tentativo di conoscere le forme della conoscenza, quando Kant ha spiegato,
paradossalmente, che le forme prive di dati sensibili sono inconoscibili. Tutto ciò porta Schulze a rifiutare
l'esistenza della cosa in sè poichè, ammettendola, si cadrebbe inevitabilmente in contraddizione. Ecco che
con Schulze entriamo pienamente nell'idealismo: tutti gli autori di questo periodo (Schulze compreso)
hanno la pretesa di essere, per così dire, più kantiani di quanto non fosse Kant stesso, quasi come se il
pensatore di Königsberg fosse stato ispirato dallo spirito giusto (l'idealismo), ma non avesse avuto il
coraggio di spingersi oltre: la spinta idealistica, in effetti, è presente in Kant, soprattutto quando egli
afferma che la conoscenza ruota tutta attorno al soggetto; ammettendo però l'esistenza di una cosa in sè,
egli si è macchiato di pavidità, non avendo avuto il coraggio di riconoscere che tutto dipende dal soggetto.
Sulla strada iniziata da Schulze si inoltra, percorrendola fino in fondo, Salomon ben Joshua, un ebreo
lituano studioso di Mosè Maimonide, dal quale assunse lo pseudonimo di SALOMON MAIMON (17541800). Il suo pensiero trova l'espressione più matura nello scritto Ricerche critiche sullo spirito umano
(1797). Se le contraddizioni del criticismo portavano Schulze a propendere per lo scetticismo di stampo
humeano, Maimon è del parere che si possa restituire piena validità al criticismo, a condizione di una
completa eliminazione della cosa in sè , la quale altro non è che un assurdo residuo di dogmatismo, quasi
come se Hume non fosse stato in grado di svegliare del tutto Kant dal sonno dogmatico in cui era
sprofondato. Se tutto ciò che è rappresentabile è contenuto nella coscienza, come asseriva Reinhold, allora
la cosa in sè , cadendo al di fuori della coscienza ed essendo irrappresentabile, è una non-cosa (in tedesco
Unding ) e una mostruosità inaccettabile. Essa viene accostata da Maimon ai numeri immaginari, alla radice
quadrata di un numero negativo, che sono nella loro stessa essenza impossibili. Ma l'eliminazione totale
della cosa in sè significa riconoscere che l'intera conoscenza, per quel che riguarda i suoi princìpi e i suoi
contenuti, cade nella sfera della coscienza. Il dato non proviene da fuori, ma è ciò di cui, all'interno della
coscienza, abbiamo ancora una conoscenza imperfetta e incompiuta: più precisamente, esso è l'elemento
indeterminato della conoscenza, quel che non è ancora stato determinato dalle forme a priori dell' Io. Al di
fuori della coscienza non c'è nulla: nel caso della conoscenza meramente intellegibile (matematica) il
soggetto può determinare del tutto il proprio oggetto, nel caso della conoscenza sensibile, invece, è
possibile solo un avvicinamento indefinito alla completa determinazione, senza poterla mai ottenere. Se
penso ad un triangolo, il mio intelletto inquadra totalmente l'oggetto in questione; ma quando ho un
approccio conoscitivo con l'oggetto sensibile che mi sta di fronte (ad esempio il libro), una parte di esso
sarà inquadrata dalle mie facoltà conoscitive, mentre una parte ne resterà esclusa e costituirà la famigerata
cosa in sè . Questo residuo di indeterminatezza è ciò che ci fa apparire l'oggetto come dato, e non come
prodotto del soggetto. Così facendo, Maimon sgancia il criticismo dal suo ancoraggio empirico e lo avvia
verso esiti idealistici. Maimon porta alle estreme conseguenze il fatto che la cosa in sè sia un concetto
puramente negativo, arrivando a concepirla come assolutamente relativa: la cosa in sè altro non è se non
quel residuo non perfettamente inquadrato dalle forme conoscitive dell'uomo; è ciò che resta fuori
dall'inquadramento categorico. Il processo conoscitivo va avanti all'infinito e, proprio per questo, non potrà
inquadrare tutto nelle sue forme: ciò che resta non-inquadrato è appunto la cosa in sè . L'espunzione della
cosa in sè dal quadro del criticismo viene ribadita anche da JACOB SIGISMUND BECK (1761-1840) , autore di
uno scritto dal titolo L'unico punto di vista dal quale può essere giudicata la filosofia kantiana (1796). Beck
si propone di interpretare il pensiero kantiano in modo da coglierne la verità essenziale e rimanere fedele
ad esso, ma, ciononostante, egli finisce per compiere un ulteriore passo verso l'idealismo: a ragion veduta,
dunque, egli viene sconfessato da Kant. Beck, in modo simile a Fichte, distingue due momenti nello
sviluppo del processo conoscitivo: la produzione originaria e il riconoscimento. Se la cosa in sè non esiste,
ne deriva necessariamente che il processo con cui il soggetto genera l'oggetto non è più una costruzione
(organizzazione intellettuale di dati sensibili), ma una produzione: non lavoro su materiale che mi è dato
(come credeva Kant), ma lo costruisco io stesso, sto all'origine dello stesso materiale che poi dovrò
conoscere. Ne consegue che l'oggetto è una produzione del soggetto, il quale produce sia la forma sia il
materiale della conoscenza. Il mondo che mi circonda è una mia produzione: non è vero che esiste un
mondo e noi lo vediamo in modo diverso da come è (come credeva Kant); al contrario, il mondo lo
produciamo noi (produzione originaria). Sembra un paradosso, poichè, se io come soggetto produco il
mondo, come mai quando nasco sono convinto che esso esista indipendentemente da me, ovvero come
oggetto a sè stante? Perchè abbiamo l'impressione di avere di fronte un mondo da noi indipendente? Beck
lo spiega con con il secondo passo dello sviluppo nel processo conoscitivo, il riconoscimento: il soggetto
produce l'oggetto (produzione originaria), ma lo fa in modo inconscio, dopo di che lo riproduce, ovvero lo
riconosce (riconoscimento). L'illusione che esista una cosa in sè, un mondo da noi indipendente nasce
proprio dal fatto che la produzione originaria sia inconscia, produciamo il mondo senza rendercene conto.
Fichte spiegherà anche il senso di questa operazione, Beck si limita a proporla. In lui è implicita anche l'idea
che vi sia una sorta di processo triadico per cui il soggetto pone l'oggetto, e poi lo riconosce, quasi come se
lo recuperasse, in una sorta di processo triadico: prima c'è il soggetto che sta in sè, poi c'è il soggetto che
pone l'oggetto e, infine, c'è il soggetto che recupera l'oggetto riconoscendolo. Questo, peraltro, è molto
vicino alla Trinità cristiana: c'è il Padre, poi il Padre che genera il figlio e infine l'amore tra i due (Spirito
Santo). Ad esplicitare quest'idea, presente embrionalmente in Beck, sarà Hegel. Su queste basi finora
esposte nascerà la celebre triade degli idealisti, costituita da Fichte, Schelling e Hegel. Essi si succedono in
tempi molto ravvicinati, cosicchè la parabola discendente dei primi due è molto rapida, poichè di volta in
volta il nuovo arrivato oscura la fama del suo predecessore. E così il periodo culminante della riflessione
fichteana si colloca negli ultimissimi anni del Settecento, quando sarà surclassato dall'appena
venticinquenne Schelling, il cui predominio si estenderà fino al 1807 e non oltre: a questo punto entrerà in
gioco Hegel. Dopo la fatidica data del 1800, quando ormai il suo astro è declinato, l'esito del pensiero di
Fichte prende una coloritura teologico-religiosa: è interessante, perchè il periodo che segue alla filosofia
kantiana è caratterizzato da una polemica anti-intellettualistica, una polemica contro l'intelletto, ovvero
contro la facoltà conoscitiva del finito; in età romantica, dove è particolarmente sentita la ricerca
dell'infinito, all'intelletto, che era la facoltà preferita da Kant e dagli illuministi, subentra la ragione, ovvero
la facoltà di cogliere l'infinito, l'assoluto. In questo panorama vi saranno due atteggiamenti diversi: ci sarà
chi rifiuterà sia l'intelletto sia la ragione, avvicinandosi in tal modo alle posizioni mistico-intuitive; ci sarà poi
chi, come Hegel, riconoscerà l'inferiorità dell'intelletto rispetto alla ragione e, dunque, si dedicherà
interamente ad essa. Il rischio della critica all'intelletto è, per così dire, di farsi troppo coinvolgere e di finire
per travolgere con tale critica anche la ragione, negandole ogni legittimità conoscitiva. Resta però vero che
tutta la cultura romantica sarà anti-intellettualistica, ma non tutta sarà anti-razionalistica (Hegel in primis).
Naturalmente, finchè all'intelletto contrappongo la ragione e mi attengo ad essa, resto pur sempre nella
sfera della filosofia, dell'indagine razionale; se però, oltre a criticare l'intelletto, critico anche la ragione,
ecco che non mi muovo più nell'ambito della filosofia, la quale affonda le sue radici nella razionalità.
Tornando ai tre idealisti, l'unico che resta coerentemente fedele alla ragione, fino in fondo, è Hegel (la sua
scala gerarchica sarà 1 filosofia, 2 religione, 3 arte); Fichte e Schelling, invece, partono entrambe dalla
filosofia per poi sconfinare in campi che esulano dalla ragione: Fichte riconoscerà il privilegiamento della
religione, Schelling dell'arte. In questi due pensatori è come se, paradossalmente, la ragione decretasse
essa stessa il proprio suicidio, appellandosi alla religione (Fichte) e all'arte (Schelling).
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