specchio delle mie brame

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ASSOCIAZIONE ITALIANA
PER L’EDUCAZIONE DEMOGRAFICA
Consiglio delle Donne
del Comune
di Bergamo
“SPECCHIO
DELLE MIE BRAME”
Corpi pubblicitari tra inganno
e desiderio
Convegno 22 settembre 2012
in collaborazione con:
Assessorato Politiche Sociali e Pari Opportunità – Università
di Bergamo, Centro di Studi sui Linguaggi delle Identità
(Centro Zebra) – AIED
Indice
Presentazione
1
Luisa Pecce
Saluti
3
Gugliemo Redondi
Leonio Callioni
Introduzione
5
Luisa Carminati
Le ragioni di questo convegno
7
Silvia Dradi
Mogli meccaniche e altre meraviglie
9
Stefano Asperti
Quando il corpo va in scena: donne e uomini
tra uniformità, identità e ruoli
33
Alessio Capellani, Mattia Codazzi, Manola Del Greco, Manuela Rossi
Lo sguardo e il corpo maschile: l’oscuro soggetto
del desiderio
47
Stefano Ciccone
La fotografia della finzione
59
Cristina Sivieri Tagliabue
Città libere dalla pubblicità offensiva
Una proposta
CONSIGLIO delle DONNE
Redazione: Luisa Carminati
Grafica: Daniele Cortese
Stampa: Spaggiari® S.p.A. – Parma
Bergamo, gennaio 2014
63
Specchio
delle
mie brame
Presentazione
Luisa Pecce
Consigliera comunale e Presidente del Consiglio delle Donne
Benvenuti a tutte e a tutti. Come Presidente del Consiglio delle Donne, ente
istituzionale del Comune di Bergamo, ho il piacere di introdurre il convegno
voluto dal Consiglio delle Donne e in particolare preparato dalla IV Commissione “Politiche per la salute”.
Il titolo che abbiamo dato al Convegno, “Specchio delle mie brame”, è
quasi evocativo di una fiaba, che si traduce però immediatamente in realtà già
nel sottotitolo “Corpi pubblicitari tra inganno e desiderio”. Si tratta di un argomento che colpisce la sensibilità, soprattutto delle donne, ma non solo delle
donne: trattiamo, è ovvio, dell’immagine femminile così come viene trasmessa dal messaggio pubblicitario.
Qualcuno potrebbe dire che suona come un tema un po’ bigotto, un po’ da
femministe della prima ora, un po’ scontato. Niente di tutto questo perché il
Consiglio delle Donne ha voluto, come sempre, una riflessione concreta, direi
quasi scientifica. Noi donne lavoriamo e riflettiamo su un’ampia documentazione audiovisiva che proviene da una comunicazione che definirei ormai
invasiva e che ogni giorno sperimentiamo (spot, riviste e cartelloni stradali).
Emergono, accanto agli stereotipi femminili, anche quelli maschili. Nel
nostro concetto di Pari Opportunità vogliamo mettere sul piatto della bilancia
entrambi gli aspetti.
Le immagini e gli slogan che oggi vi mostreremo aiuteranno a comprendere meglio quei messaggi, che per loro primaria vocazione vogliono essere
persuasivi, nella loro varietà – permettetemi il riferimento al best seller di attualità – di “50 sfumature di rosa” e anche di azzurro. Che “realtà” ci mostrano
i media? Cliché che, in maniera subdola, propongono modelli di comodo.
Mi viene spontanea a questo punto una considerazione che definisce anche
la bassa qualità di questo tipo di comunicazione quando ricorre così spesso all’
esibizionismo con chiaro riferimento sessuale. Altro non è che scarsezza di
idee e quindi volontà di attirare l’attenzione a tutti i costi, anche con l’imbarazzo o con sollecitazioni di cattivo gusto. Mi ricorda la situazione di un comico
che, non sapendo più far ridere con la genialità, squallidamente ricorre alle
barzellette osè o alle “parolacce”.
Tornando all’incontro di oggi voglio ricordare che Il Consiglio delle Donne
ha potuto organizzare questo pomeriggio di studio grazie alla ormai consolidata capacità di creare sinergie. Abbiamo lavorato in sintonia con l’Assessore
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Specchio
delle
mie brame
Callioni il quale, avendo tra l’altro la delega alle pari opportunità, ci ha offerto
un appoggio di tipo economico e ha condiviso le nostre scelte tematiche. Ma
sostanziali apporti e sostegno sono giunti anche dall’Università di Bergamo e
dall’AIED che ringraziamo per la collaborazione.
Come al solito è nostra intenzione valorizzare al meglio gli interventi di
oggi pubblicando gli atti del convegno. Per cui buon ascolto e un arrivederci
alla presentazione del documento che scaturirà dalla odierna iniziativa.
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Specchio
delle
mie brame
Saluti
Gugliemo Redondi
Presidente del Consiglio Comunale di Bergamo
Benvenuti in sala consiliare, sede ufficiale dell’attività amministrativa della città, ma anche sede accogliente di convegni, conferenze, incontri con la
cittadinanza e con esperti di vari settori. Il Consiglio delle Donne organizza
parecchi incontri e convegni che contribuiscono alla crescita della città.
L’argomento di oggi è molto interessante: da alcuni decenni si parla di questo problema e da tempo il mondo femminile dice no alla donna oggetto, no al
corpo della donna come semplice immagine per attirare attenzione e suscitare
desideri. Sono pienamente d’accordo nel rifiutare l’utilizzo del corpo come
oggetto. Però le tante presenze maschili e femminili in sala oggi, mi ricordano
che oltre alla donna anche l’uomo adesso è diventato oggetto”: invece di valorizzare il cervello delle persone si valorizzano sempre di più i glutei, i seni e
i muscoli per reclamizzare, per far vedere, per “vendere”. È un argomento di
non facile soluzione perché il dio denaro imperversa e sembra imporre le sue
scelte alla gente.
Abbiamo con noi degli esperti che hanno competenza di questi temi: la
nostra opzione è che dovremmo valorizzare meglio le qualità il cervello delle
persone a scapito di qualche parte anatomica.
Perciò buon ascolto e buon lavoro.
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Specchio
delle
mie brame
Saluti
Leonio Callioni
Assessore alle Politiche sociali, Pari opportunità, Servizi cimiteriali
Anche da parte mia buongiorno a tutti. Permettetemi di dire grazie a voi
che avete scelto di essere qui in un sabato pomeriggio meraviglioso per le passeggiate o per godersi altri momenti più rilassati, per dare una testimonianza
al Consiglio delle Donne e alla comunità di Bergamo che questo è un tema sul
quale intendete fare sul serio e sul quale intendete chiedere agli amministratori
pubblici di fare sul serio.
Questo è importante perché il pubblico amministratore non è un tuttologo
e non deve e non può avere la pretesa di essere quello che sceglie e che esprime le valutazioni sulle politiche da attuare. L’amministratore deve avvalersi
di realtà, associazioni, funzionari, collaboratori che sappiano affrontare professionalmente una tematica per poi scegliere quale indirizzo dare all’Amministrazione comunale. Per questo ringrazio il Consiglio delle Donne. In
particolare la Presidente consigliera Luisa Pecce e la Vicepresidente signora
Luisa Carminati. Il mio grazie non è formale: infatti sto citando il Consiglio
delle Donne come esempio perché credo che la capacità di essere luogo di
riflessione, di analisi e di proposta, dimostrata concretamente anche in questa
occasione, possa essere di esempio per altre realtà territoriali e anche per altre
manifestazioni promosse dalla società bergamasca.
Il Consiglio delle Donne di Bergamo – ve lo dico da Assessore alle politiche sociali e alle pari opportunità – aiuta a scegliere e si pone come guida. Lo
dico consapevole della forza di questa parola.
Certo, insieme ai ringraziamenti devo anche scusarmi per l’esiguità dei finanziamenti che possiamo mettere a disposizione per le loro iniziative. Questo
è il paradosso di un momento di difficoltà della pubblica amministrazione in
Italia dove ci sono livelli di spreco intollerabili e vergognosi.
Sono, però, orgoglioso di rappresentare l’Amministrazione comunale di
Bergamo e l’Assessorato alle pari opportunità in questo convegno, i cui contenuti saranno sicuramente oggetto di attente riflessioni e contribuiranno a migliorare la vita nella nostra città.
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Specchio
delle
mie brame
Introduzione
Luisa Carminati
Vice Presidente del Consiglio delle Donne
Buongiorno a tutti e a tutte. Prima di introdurre e moderare questo incontro, personalmente vorrei ringraziare alcune persone che per questo convegno
si sono impegnate: la presidente Luisa Pecce, l’assessore Callioni e anche tutte
le componenti della IV Commissione che hanno contribuito ad organizzare – e
non è stato facile – questo convegno.
In particolare vorrei ringraziare l’associazione AIED per la sua grande collaborazione.
Tema di questo convegno è il corpo, come già è stato annunciato nei saluti ufficiali, e la sua immagine nella pubblicità: il corpo femminile o quello
maschile, così come nel tempo è stato rappresentato, ma anche come viene
usato da noi che spesso non lo accettiamo per come è e dai media che usando
l’immagine assecondano i nostri desideri più nascosti.
Il tema dell’utilizzo nella pubblicità dell’immagine femminile si è imposto in termini di emergenza lo scorso anno, ma è un tema che attraversa tutti i
secoli della storia. Con l’avvento dei media ha spesso assunto caratteristiche
discutibili. All’uso nella pubblicità dell’immagine femminile ha fatto seguito l’uso di quella maschile, in modo particolare il famoso uomo palestrato,
e in un diminuendo di età sempre più vengono usate immagini di bambine
e bambini.
È solo un problema di ipersensibilità femminile rispetto all’uso dell’immagine dei corpi o è una questione che investe l’essenza stessa della dignità
umana? È di questo che oggi parleremo.
Incominceremo dando la parola a Silvia Dradi, che fa parte della IV commissione, e ha steso una breve relazione su quanto discusso e condiviso dalla
commissione stessa.
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Specchio
delle
mie brame
Consiglio delle Donne
Commissione “Politiche per la salute”:
Luisa Carminati, Ruth Cuevas, Manuela De Vito, Annamaria Dorigatti, Silvia Dradi, Anna
Pagnini, Agostina Penna De Beni, Carmen Plebani, Federica Sposi, Rosi Tentori, Christiana
von Wunster
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Specchio
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mie brame
Le ragioni di questo convegno
Silvia Dradi
Consiglio delle Donne, commissione “Politiche per la Salute”
L’idea di questo convegno nasce da un percorso di riflessione che è iniziato
anni fa all’interno del Consiglio delle Donne, quindi da un impegno costante,
diffuso, che abbiamo rivolto ai temi della corporeità, della sessualità e dei giovani. Come esempio ricordo solo un convegno che facemmo nel 2010 che si
intitolava “Giovani corpi alieni – Sessualità e relazioni dei preadolescenti tra
modelli culturali dominanti e nuove tecnologie”.
L’esigenza che questo convegno esprime è quindi quella di ritornare a noi,
a noi adulti, uomini e donne che fanno i conti con il proprio corpo e il proprio
desiderio, anche noi alieni a noi stessi e mercificati nei modelli di plastica delle
immagini pubblicitarie. Abbiamo quindi scelto di interrogarci e coinvolgere
esperte ed esperti che con specifici sguardi di genere – sottolineo questa specificità – ci offrono strumenti di lettura e stimoli su questi temi.
Riflettiamo e ci confrontiamo, quindi, sui corpi, su corpi che si rispecchiano, che ci inquietano, che ci condizionano nelle scelte e nelle relazioni, con un
immaginario spesso prefabbricato cui dobbiamo sottoporci; corpi alieni quando ci sentiamo ingabbiati e irretiti in codici rigidi sociali e culturali.
Ricordo che l’uso dell’asterisco che trovate sul programma del convegno
non è un errore di battitura; intende segnare la necessità di andare oltre i generi
e i ruoli stereotipati, invitando ad aprire una riflessione sull’uso della comunicazione, sull’uso quindi delle immagini, ma anche del linguaggio scritto e parlato e su come ogni comunicazione eserciti un’influenza sul modo di percepire
la realtà. Ogni forma di comunicazione, quindi, influenza la nostra percezione
della realtà.
Il linguaggio non è affatto neutro né innocente, diffonde, riproduce, rafforza modelli e stereotipi potenti, non solo perché efficaci ma anche perché
utili alla struttura di potere che li genera e li controlla; a maggior ragione il
linguaggio della pubblicità ha come scopo di indurci a desiderare e ci persuade
a comperare e a consumare. Tutte e tutti siamo contaminati e influenzati da
immagini, da canoni estetici, dalla perfezione delle forme, dai corpi modellati
che ovunque ci bombardano.
Per questo anche noi non ci sentiamo affatto al riparo e ci siamo interrogate sul desiderio, sul nostro corpo, sul benessere, sul tempo, sull’invecchiare,
sul cambiamento del corpo nel tempo. E allora queste sono le domande che
ci siamo poste: “Cosa voglio io? Qual è il mio desiderio e quanto sto aderendo, invece, al desiderio dell’altro/a? La mia femminilità, la mia mascolinità
si esprimono nei più conosciuti e radicati stereotipi di genere e negli atti che
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Specchio
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mie brame
tradizionalmente vi sono associati, o invece si esprimono in un’ampia varietà
di emozioni, desideri, pratiche, negoziazioni irriducibili ai significati espressi
dagli stereotipi?”.
Per esempio come mai la retorica della virilità è ancora tanto diffusa, quando si dice che il virilismo è morto? Qual è l’impatto dei processi di cambiamento sociale (la presenza di cittadin*stranier*, di famiglie allargate, di
coppie di fatto, di uomini “casalinghi”, di uomini apparentemente molto virili,
ma in realtà molto materni, di donne single, di famiglie omogenitoriali….)
sulle immagini pubblicitarie e sui modelli mercificati che tendono ad annullare soggettività e differenze? Per tornare alla nostra città, ha senso e serve
introdurre regole, elaborare strumenti per contrastare la pubblicità offensiva
e gli stereotipi di genere come ad es. codici etici e indicazioni vincolanti (a
partire dagli spazi pubblicitari comunali)? Molti Comuni, per esempio, hanno
adottato queste disposizioni.
Ha senso sollecitare il nostro Comune e i nostri amministratori a lanciare
campagne di sensibilizzazione contro le immagini degradanti della donna (e
dell’uomo) nella pubblicità e nel marketing? (vedi la proposta a p. 63).
Le immagini ci offendono non perché immorali o scandalose, ma perché ci
pretendono passiv*, offendono l’intelligenza, umiliano e reprimono il nostro
rapporto con il desiderio e con i nostri bisogni più profondi limitando il nostro
immaginario.
L’obiettivo del convegno è quindi anche quello di orientare il Comune di
Bergamo a individuare iniziative e sostenere progetti su queste tematiche, evitando facili moralismi.
Per me è importante adesso lasciare la parola alle relatrici e ai relatori, con
l’aspettativa che ci aiutino ad aumentare la nostra capacità critica di donne
e di uomini di fronte a una comunicazione di immagini scritte e parlate che
spesso offende l’immaginario e l’intelligenza e direi che è diventata anche
molto noiosa. Quello che vorrei evitare, almeno personalmente, è di cadere in
moralismi, nel senso che non è una questione solo di parametri etici, non c’è
solo scandalo e indignazione di fronte a certe immagini; a me interessa che si
rifletta sul rapporto dell’io con il proprio desiderio, riflettere su queste immagini che ci pretendono passiv* e che minano la nostra soggettività, ciò che fa
di noi l’essere soggetti e quindi diversi, tutti, gli uni dagli altri.
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Specchio
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mie brame
Mogli meccaniche e altre meraviglie
Stefano Asperti
Università di Bergamo/Centro di Studi sui Linguaggi delle Identità “Zebra”
Introduzione
In questo mio intervento analizzerò alcune immagini pubblicitarie di varie epoche, a partire dagli anni Venti del Novecento fino ai giorni nostri, allo
scopo di evidenziare il permanere di certi stereotipi e di determinate visioni
della femminilità che impregnano la nostra società e che da tempo immemore
danno forma alle rappresentazioni delle donne, dei loro ruoli e dei loro corpi
nell’arte, nella letteratura e nei media.
Per motivi di formazione culturale personale il mio discorso prenderà in
esame principalmente il contesto statunitense. Ritengo, tuttavia, che molte
delle mie osservazioni e delle categorie da me utilizzate possano con buona
approssimazione essere applicate anche alle immagini pubblicitarie che sono
circolate e che continuano a circolare in Italia. Questo, innanzitutto, perché nel
nostro paese si è assistito, già a partire dal secondo dopoguerra, a un notevole
afflusso di prodotti di marchi statunitensi e, di conseguenza, alla diffusione
dell’immaginario pubblicitario a essi legato. Inoltre Stati Uniti e Italia, pur con
le differenze culturali che caratterizzano queste due nazioni, appartengono a
quella parte del globo che siamo soliti definire come “mondo occidentale” e
condividono un buon numero di convenzioni e di meccanismi rappresentativi.
Prima di iniziare l’analisi vera e propria delle immagini, vorrei menzionare alcuni testi a cui mi sono ispirato e che fungeranno da riferimenti teorici
per le mie analisi. Si tratta di tre saggi un po’ datati, ma ancora in larga misura validi. Il primo è il libro di John Berger intitolato Questione di sguardi.
Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità (1972).1 Il secondo
è una delle pietre miliari del femminismo della seconda ondata, La mistica
della femminilità2 (1963) di Betty Friedan, e il terzo è La sposa meccanica.
Il folclore dell’uomo industriale 3 (1951) di Marshall McLuhan, critico sta-
1
John Berger, Ways of Seeing, London: British Broadcasting Corporation; Harmondsworth: Penguin, 1972; trad. it. di Maria Nadotti, Questione di sguardi. Sette inviti al vedere
fra storia dell’arte e quotidianità, Milano: Il Saggiatore, 1998. Tutte le citazioni da questo
testo sono tratte da questa traduzione italiana.
2
Betty Friedan, The Feminine Mystique, New York: Norton, 1963; trad. it. di Loretta Valtz
Mannucci, La mistica della femminilità (1964), Milano: Edizioni di Comunità, 1982.
3
Marshall McLuhan, The Mechanical Bride: Folklore of Industrial Man, New York: Vanguard Press, 1951; trad. it. di Francesca Gorjup Valente e Carla Plevano Pezzini, La sposa
meccanica. Folclore dell’uomo industriale, Milano: SugarCo Edizioni, 1984.
9
Specchio
delle
mie brame
tunitense meglio conosciuto come autore de La galassia Gutenberg e Gli
strumenti del comunicare.4
John Berger, nel 1972, osserva come nessuna società, nel corso della
storia, sia stata dominata da immagini e messaggi visivi quanto la nostra.
La pubblicità, che ci circonda ogni giorno e in ogni momento della nostra
giornata, ne è un esempio, così come lo sono le fotografie e le immagini che
vengono caricate e diffuse su social network come Facebook, Twitter, Instagram, Pinterest, ecc.
Siamo saturi di immagini, dice Berger, eppure paradossalmente siamo
sempre meno capaci di leggerle e spesso ne accettiamo acriticamente i
messaggi e i contenuti ideologici. È importante, allora, soffermarsi sull’atto del vedere, che “determina il nostro posto all’interno del mondo che ci
circonda”.5 Non vediamo mai in modo completamente distaccato o neutro: il nostro modo di vedere le cose “è influenzato da ciò che sappiamo o
crediamo”.6 Il vedere, secondo Berger, è il risultato del guardare, che presuppone un atto di scelta e l’esistenza di un rapporto tra noi e ciò che ci circonda, l’oggetto dell’osservazione. L’archivio delle nostre conoscenze e dei
condizionamenti ideologici a cui siamo sottoposti orienta la nostra visione.
Le immagini che produciamo, perciò, non coincidono mai con gli oggetti in
esse rappresentati: sono visioni ricreate, riprodotte, che incorporano il nostro
modo di vedere. Perfino le fotografie – apparentemente le rappresentazioni
più fedeli – implicano un atto selettivo, l’inclusione di determinati elementi
e l’esclusione di altri: la visione proposta è solo una tra una moltitudine di
visioni possibili.7
Il modo di vedere incorporato dalle immagini pubblicitarie che prenderò
in considerazione in questo saggio, perciò, è figlio del proprio tempo. Scrive
ancora Berger:
[…] la macchina fotografica distrusse l’idea che le immagini fossero senza
tempo. O, per dirla altrimenti, la macchina fotografica rivelò che la nozione
di scorrimento temporale è inseparabile dall’esperienza visiva […]. Ciò che
4
Marshall McLuhan, The Gutenberg Galaxy: The Making of Typographic Man, Toronto:
University of Toronto Press, 1962; trad. it. La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Roma: Armando, 1962; Marshall McLuhan, Unterstanding Media: The Extension
of Man, New York: McGraw Hill, 1964; trad. it. di Ettore Capriolo, Gli strumenti del comunicare, Milano: Il Saggiatore, 1967.
5
John Berger, op. cit., p. 9.
6
Ivi, p. 10.
7
Ivi, pp. 11-12.
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Specchio
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mie brame
vedevi dipendeva da dove eri e in quale momento. Ciò che vedevi aveva a che
fare con la posizione che occupavi nel tempo e nello spazio.8
Tra le pubblicità che saranno esaminate ve ne sono alcune, risalenti a
qualche decennio fa, che oggi risulterebbero assurde o inammissibili e che
provocherebbero la nostra indignazione. All’epoca, però, non era così: quelle
immagini erano accettabili e non attiravano gli sguardi scandalizzati delle persone come avviene oggi. Ciononostante, anche ai giorni nostri ci troviamo di
fronte a rappresentazioni di donne e uomini che propongono dei cliché. Queste
rappresentazioni continuano a essere percepite come “naturali”, perché sono
le concezioni dei ruoli e delle identità di uomini e donne che abbiamo introiettato in secoli di storia (e che diamo per scontate) e perché manca ancora, nella
nostra cultura e nei nostri percorsi di studi, un’educazione all’analisi del testo
visivo e dei media, in particolare della pubblicità, dei telefilm, dei prodotti
della cultura “di massa”.
La mistica della femminilità
La divisione sessuale del lavoro è un tema centrale degli studi di genere
che si occupano di economia, di pubblicità, di design, ecc. Certi compiti,
svolti con determinati strumenti, sono stati associati al “lavoro femminile”,
mentre altri sono stati tradizionalmente assegnati agli uomini. Scrive Ellen
Lupton:
Le personalità degli individui sono modellate sulla base delle condizioni
sociali, dagli ideali di vita famigliare e di norme di comportamento a seconda
del genere sessuale di appartenenza fino alle opportunità economiche a disposizione delle persone come conseguenza delle loro identità culturali. Il soggetto
è, in qualche misura, un manufatto, un prodotto sociale.9
Nel corso degli ultimi due secoli le persone hanno definito sempre più se
stesse sulla base dei prodotti acquistati e adoperati. Nel periodo tra gli anni
Venti e gli anni Cinquanta del Novecento lo standard di vita americano si è
innalzato notevolmente, una crescita testimoniata dalla diffusione sul mercato
8
Ivi, p. 20.
Ellen Lupton, Mechanical Brides: Women and Machines from Home to Office, New York:
Cooper-Hewitt National Museum of Design Smithsonian Institution; Princeton Architectural Press, 1993, p. 7. Tutte le traduzioni delle citazioni dal testo sono mie.
9
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Specchio
delle
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di una miriade di nuovi prodotti di consumo. Le principali utilizzatrici di tali
prodotti – elettrodomestici, prodotti per la pulizia della casa, capi d’abbigliamento, alimentari, ecc. – e il target principale delle pubblicità che li reclamizzavano erano le donne sposate.
Il consumismo americano ha cominciato a imporsi nell’Ottocento. Già negli anni Ottanta di quel secolo molte famiglie statunitensi acquistavano abiti,
cibi, mobili e prodotti per la casa prodotti industrialmente. Mentre gli uomini,
solitamente, lavoravano fuori casa, alle donne veniva lasciata la responsabilità
di comprare, usare, pulire e conservare i beni di consumo. Le donne, quindi,
divennero le principali destinatarie delle pubblicità.
Da due secoli l’ideale di famiglia americana bianca borghese promosso dalle
pubblicità è composto da padri/mariti lavoratori e madri/mogli che stanno a casa.
Nonostante questa immagine “mitica” diffusa dalla pubblicità, già da molto tempo le donne hanno fatto il loro ingresso nel mercato del lavoro, per necessità o
per ambizione personale. Questo ha portato alla identificazione di macchine da
scrivere, telefoni e altri strumenti come simboli delle nuove professioni a loro
riservate (telefoniste, segretarie, dattilografe, ecc.). Al tempo stesso si è venuto
a creare un conflitto tra gli obblighi a cui le donne sono tenute a far fronte in
ambito domestico e le loro opportunità e aspettative come percettrici di reddito.
Questo conflitto è stato sfruttato, invocando l’ideale della vita domestica, per
scoraggiare le donne dal competere con gli uomini in ambito professionale e per
caratterizzare le loro attività lavorative come temporanee e non essenziali. L’ideale domestico è servito, inoltre, per descrivere le donne come “naturalmente”
adatte a lavori che richiedono cura, cortesia e servizio.10
Betty Friedan, ne La mistica della femminilità, osserva come sia i contenuti
delle riviste rivolte a un pubblico femminile, sia le inserzioni pubblicitarie
pubblicate su quelle stesse riviste, tendano a rappresentare donne felici nel
momento in cui svolgono il ruolo di casalinghe, madri e mogli devote, mentre
le donne in carriera, che occupano posizioni lavorative anche di un certo rilievo fuori dalle mura domestiche, sono rappresentate come donne nevrotiche
e infelici. Vi è, quindi, un tentativo di indirizzare il pubblico femminile verso
una scelta di vita – presentata come l’unica in grado di garantire un senso di
appagamento e di pienezza – che porta la donna a ricoprire i ruoli di madre,
di casalinga, di moglie, di “prestatrice di cure” che sacrifica se stessa per il
benessere dei figli e del marito. Questa visione è presente nelle pubblicità statunitensi già nel periodo tra le due guerre e si rafforza ulteriormente negli anni
Cinquanta.
10
Ivi, pp. 7-9.
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Specchio
delle
mie brame
Nella pubblicità delle cravatte “Van Heusen” una donna porta la colazione a letto al
marito e, stando in ginocchio, gliela porge
su un vassoio. L’uomo, dal canto suo, si
gode il privilegio. La cosa curiosa è che il
marito, pur essendo ancora sotto le coperte,
indossa camicia e cravatta. Il messaggio trasmesso è che l’uomo fa il suo dovere fuori
dall’ambiente domestico, svolgendo un’attività professionale e percependo uno stipendio che gli permette di provvedere ai bisogni
materiali della famiglia. Dentro le mura domestiche spetta invece alla donna il ruolo di
prestatrice di cure. Inoltre, la donna stessa,
deve essere sottomessa all’uomo e deve essere felice di ciò, come recita il testo della
pubblicità: “Mostrale che il mondo è degli
uomini. […] Le nuove stampe [delle cravate
Van Heusen] le dimostrano che il mondo è
degli uomini… e la rendono felice che sia
così”.
Il tema della sottomissione della donna
all’uomo, come condizione “naturale”, è presente anche nelle pubblicità seguenti.
In questa pubblicità di camicie stampate
Van Heusen un uomo, con indosso bermuda, camicia a maniche corte e cappello coloniale, se ne sta seduto beatamente su una
portantina, mentre un gruppo di donne attraenti e vestite di pelli lo trasportano, apparentemente felici di essere relegate al ruolo di
schiave. Il testo dello slogan, in alto a destra,
invita a tornare a una condizione “nativa”,
primigenia. Le donne che hanno lasciato la
casa per competere con gli uomini in ambito lavorativo, sono invitate a tornare a essere
sottomesse, perché quella è presentata come
la condizione originaria, l’ordine naturale
delle cose.
13
Specchio
delle
mie brame
In questa immagine vediamo una pelle di tigre, posata
per terra, con una testa di donna. Un uomo di cui vediamo
solo la parte inferiore del corpo, le posa un piede sul capo,
in una posa trionfale e di dominio. Lo slogan di questa pubblicità di un marchio di pantaloni recita: “È bello avere una
ragazza in giro per casa”. La donna ha una funzione decorativa, al pari di un tappeto. Al tempo stesso è un trofeo, ottenuto grazie a un’azione che dimostra la forza e il carattere
dell’uomo. Ancora più eloquente è il testo scritto in corpo
minore: “Benché fosse una donna tigre, il nostro eroe non
ha dovuto spararle per atterrarla. Un solo sguardo ai suoi
pantaloni Mr. Leggs e lei era pronta a lasciarsi calpestare da
lui”. La donna tigre – la ribelle, colei che lotta, che potrebbe
competere con l’uomo – alla fine viene domata dall’uomoeroe e accetta con piacere di essere soggiogata.
Qui vediamo una donna sdraiata per terra nell’atto di
ammirare, con il sorriso sulle labbra, una scarpa maschile.
Nello slogan leggiamo: “Keep her where she belongs…”
(“Tenetela al suo posto / al posto che le spetta”). Spostando l’affermazione dalla scarpa alla donna, ne ricaviamo
che il posto che spetta alla donna è ai piedi dell’uomo,
mentre l’espressione compiaciuta di lei ci dice che la donna deve essere contenta di questo stato delle cose.
In questa immagine vediamo un uomo in procinto di
sculacciare la moglie, la cui colpa è quella di non avere
comprato per il marito il caffè più fresco e profumato – il
caffè “Chase &
Sanborn”, contenuto in particolari
lattine ermetiche –, ma quello
di un’altra marca,
che risulta stantio. La pubblicità suggerisce che è dovere della donna fare del
proprio meglio per compiacere il marito,
comprargli e preparargli solo le cose migliori e renderlo felice. In caso contrario
le spetterà una meritata punizione.
14
Specchio
delle
mie brame
In questa pubblicità della birra Schlitz una donna è in
lacrime perché ha bruciato la cena. A provocare il pianto è
il senso di colpa per aver dimostrato di non essere affidabile e di non essere in grado di fare quello che socialmente
ci si aspetta da lei: provvedere alla famiglia e alla casa e,
nello specifico, cucinare. Notiamo, inoltre, come la donna
abbia un aspetto impeccabile: i capelli sono acconciati, le
labbra truccate, al polso sinistro c’è un braccialetto e, pur
nello sconforto, il fazzoletto è portato agli occhi con grazia. Da parte sua l’uomo si dimostra protettivo e indulgente. Abbraccia la moglie con un sorriso un po’ divertito e le
dice: “Non preoccuparti, cara, non hai bruciato la birra!”.
Questa pubblicità di un farmaco antinausea per le donne
in gravidanza ritrae una donna intenta a cucinare la colazione. La vediamo ancora in camicia da notte, ma truccata
e con i capelli perfettamente in ordine, mentre, sorridente,
è alle prese con uova e pancetta e caffè, presumibilmente
per il marito. Il testo recita: “Ora può preparare di nuovo
la colazione”. Siccome prima gli odori le provocavano la
nausea, non era in grado di fare il suo “dovere”. Non poteva, dunque, essere la “moglie perfetta” che ci si aspettava
che fosse. Ora, grazie al farmaco, può tornare a svolgere
i compiti che le convenzioni sociali le attribuiscono. Non
è dunque, il benessere fisico della donna che conta, ma il
fatto che possa rendersi utile e svolgere, in modo efficiente,
il proprio ruolo di moglie e casalinga.
In questa pubblicità del 1969 di una asciugatrice della Whirlpool vediamo una donna imbavagliata e legata
a una sedia. La parte più interessante della pubblicità la
troviamo nel testo. Qui si legge: “Se questa donna non
avesse avuto questa particolare asciugatrice, sarebbe stata in guai seri”. Perché? Perché rimanendo chiusi dentro
una qualsiasi altra asciugatrice certi capi si sarebbero
stropicciati, ma con l’asciugatrice della Whirlpool ciò
non accade. La donna, pertanto, non è nei guai per il
fatto di essere stata presa in ostaggio o, comunque, legata e imbavagliata, ma lo sarebbe stata se avesse permesso – non acquistando la “giusta” asciugatrice – che il
15
Specchio
delle
mie brame
suo bucato si stropicciasse, dimostrando, quindi, di non
essere una brava casalinga.
Nelle tre immagini nella pagina vediamo, ancora,
come l’amore e la devozione di una moglie per il marito sia testimoniata dalla capacità di questa di prendersi
cura di lui, comprando e adoperando i prodotti migliori. Nella prima pubblicità vediamo una donna, abbracciare amorevolmente il marito che indossa una camicia
di colore bianco splendente perché la donna l’ha lavata
con il detersivo Tide. Nel testo notiamo l’uso di superlativi e comparativi (“Cleanest”, le più pulite; “cleaner”, più pulite) che evidenziano come tale detergente
sia quello che pulisce meglio di tutti e, di conseguenza,
la donna che ne fa uso si qualifica come la migliore
moglie possibile.
Nella pubblicità del tostapane Proctor (1942) viene
stabilità un’equazione tra la capacità di una moglie di
amare e onorare il proprio marito (“love, honor”) e quella di preparare il pane tostato più croccante (“Crisper
toast”), cosa possibile grazie all’acquisto del tostapane
in questione.
Infine nella pubblicità della caffettiera Sunbeam
(1950), la caffettiera stessa diviene il simbolo dell’amore
coniugale: mentre una mano
femminile perfettamente curata versa del caffé in una tazza,
sulla superficie
lucente dell’elettrodomestico si
riflette il volto sorridente del marito,
che solleva lo sguardo dal giornale per
guardare amorevolmente la moglie che
si prende cura di lui.
16
Specchio
delle
mie brame
L’immaginario della donna come moglie e madre
può essere trasportato anche al di fuori del contesto domestico, come nella pubblicità della compagnia aerea
American Airlines (a lato), dove vediamo un’assistente
di volo accovacciata su una sedia con un golfino sulle
spalle e il mento appoggiato su una mano. Il suo sguardo
è diretto allo spettatore e, anche in questo caso, l’aspetto è molto curato. La posa potrebbe ricordare quella di
una casalinga che si prende un attimo di pausa dopo una
lunga giornata di pulizie, bucato, cucina, ecc. Lo slogan
recita: “Pensate a lei come se fosse vostra madre”, una
frase che si può applicare sia alla compagnia aerea, sia
all’assistente di volo che si prende amorevolmente cura
dei passeggeri. Nel testo in corpo minore leggiamo: “Lei
vuole solo il meglio per voi. Una bevanda fresca. Una
buona cena. Un cuscino soffice e una coperta calda”. Un
immaginario chiaramente materno, come ad affermare
che anche una donna impegnata in ambito professionale possa svolgere solamente mansioni che riproducono
quella che è ritenuta la sua “vocazione naturale”.
Gli strumenti meccanici, dalle lavatrici alle macchine da scrivere, sono progettati per svolgere determinati
compiti. La loro funzione, però, non è solo utilitaristica,
ma anche culturale, in quanto contribuiscono a definire
le differenze tra uomini e donne.11 Così, a partire dalla
fine dell’Ottocento il mito di un progresso tecnologico
inesorabile contribuì ad alimentare l’idea che l’invenzione di nuovi elettrodomestici e prodotti per la casa potesse
liberare le donne dalle fatiche del lavoro domestico.12 I
pubblicitari promisero alle donne che le nuove apparecchiature sarebbero state in grado di fare da sole tutto il
lavoro, lasciando loro tempo libero per se stesse e per attività come lo shopping, il relax, ecc. Nella pubblicità del
1946 di una lavatrice Bendix vediamo una donna comodamente seduta su uno
sgabello accanto a una lavatrice. La donna, in abbigliamento da casalinga, non
11
12
Ivi, p. 7.
Ivi, p. 11.
17
Specchio
delle
mie brame
sta facendo nulla se non osservare sorridente il lettore. Il testo dell’inserzione
esprime il suo pensiero: “È meraviglioso il modo in cui la mia Bendix fa da sola
tutto il bucato. Lava, risciacqua, centrifuga – si pulisce perfino da sola, scarica
l’acqua e si spegne – tutto automaticamente”.
Betty Friedan e, dopo di lei, molti storici hanno sottoposto a revisione la favola della liberazione della donna dalle fatiche dei lavori di casa grazie agli elettrodomestici.13 Se è vero che le abitazioni si sono andate riempiendo di nuove
apparecchiature aventi il compito di facilitare lo svolgimento delle mansioni delle
casalinghe, è anche vero che tra il 1920 e il 1960 gli standard di pulizia e di cura
della prole si sono notevolmente innalzati, facendo sì che il lavoro delle donne
aumentasse anziché diminuire. Inoltre il tempo risparmiato nello svolgimento di
una determinata attività, spesso è riversato su un’altra. Questo avviene anche perché, come descritto da Betty Friedan ne La mistica della femminilità, le donne si
sentono in colpa per il fatto di avere tempo a disposizione per se stesse. Esse infatti,
hanno interiorizzato l’idea che il loro dovere sia quello di prendersi cura degli altri,
di essere al loro servizio, per cui cercano di riempire ogni momento libero con
altro lavoro. Nel rendere attraenti gli elettrodomestici, presentandoli come compagni in grado di aiutarle a raggiungere il benessere e la felicità, la pubblicità non
ha fatto altro che incoraggiare le donne a rispondere con entusiasmo a quella che è
presentata come la loro “vocazione naturale”.
In questa pubblicità del robot da cucina Kenwood Chef vediamo in primo piano l’elettrodomestico e dietro di esso un
uomo e una donna, entrambi sorridenti. In basso a destra leggiamo “I’m giving my wife a Kenwood Chef” (“Regalo un
Kenwood Chef a mia moglie”), mentre in alto lo slogan recita:
“The Chef does everything but cook – that’s what wives are
for!” (“Lo Chef fa tutto eccetto cucinare – è a questo che servono le mogli”). L’uomo ha regalato alla moglie il robot, affinché
possa prendersi cura di lui in modo ancora più efficiente. Se da
un lato questo genere di elettrodomestico permette di svolgere
in modo più rapido e preciso determinate operazioni, la cucina,
così come il bucato, continua a essere un’attività associata al
13
Cfr. Oltre a Betty Friedan, La mistica della femminilità, cit., per una panoramica critica
sul lavoro domestico e la tecnologia si vedano per esempio: Christine E. Bose; Philip L. Bereano; Mary Molloy, “Household Technology and the Social Construction of Housework”,
Technology and Culture, n. 25, January 1984, pp. 53-82; Nona Glazer-Malbin, “Housework”, Signs, n. 1, 1976, pp. 905-922.
18
Specchio
delle
mie brame
sesso femminile. È questo il compito naturale delle mogli e la donna raffigurata nella pubblicità accetta con entusiasmo di svolgerlo.
In questa doppia immagine (entrambe pubblicità della AT&T, la prima del
1955 e la seconda del 1958) vediamo la diversità nella gestione del tempo libero degli uomini e delle donne. L’uomo si rilassa senza interruzioni, perché ha
terminato la sua giornata lavorativa, e il telefono che sta utilizzando gli tiene
compagnia come il fedele cane sdraiato ai suoi piedi. Per la donna, invece, la
telefonata rappresenta solo una momentanea sospensione dei lavori domestici
che sta svolgendo, come testimoniato dall’aspirapolvere che vediamo spuntare
da dietro la poltrona. Per lei il soggiorno è al tempo stesso un luogo dove trascorrere il tempo libero e un luogo di lavoro.
Il sesso debole
Molte immagini pubblicitarie sembrano giustificare la condizione di inferiorità e di sottomissione delle donne raffigurandole come deboli, come fisicamente e attitudinalmente inadeguate a svolgere determinati tipi di attività
e, per questo, come continuamente bisognose dell’intervento salvifico degli
uomini. Questi ultimi, al contrario, sono ritratti come individui sani e vigorosi
e indulgentemente protettivi nei confronti delle donne, di cui “comprendono”
la buona volontà e “tollerano” i difetti.
In questa immagine che pubblicizza una marca di
salsa ketchup l’accento è posto sul fatto che la bottiglia
sia così facile da aprire che perfino una donna può farlo. La donna, che guarda verso lo spettatore dell’immagine, ha un’espressione di totale sorpresa. La frase di
commento recita: “Volete dire che una donna riesce ad
aprirla?”, con la parola “donna” evidenziata per rendere ancora più esplicito il concetto. A questo stereotipo
19
Specchio
delle
mie brame
dell’incapacità e della debolezza fisica della donna si
accompagna la rappresentazione di caratteristiche ritenute estremamente femminili: le sopracciglia perfettamente curate, il rossetto brillante, la posa aggraziata
della mano. L’idea che viene trasmessa, dunque, è che
una donna bisognosa di aiuto o di speciali accorgimenti per far fronte a incapacità e debolezze ritenute a lei
connaturate, al tempo stesso, deve offrire un’immagine
di sé improntata al decoro.
Nella pubblicità della marca di maglieria Drummond
vediamo due uomini in cima a una montagna intenti a
conversare. Appaiono vigorosi e sicuri di sé e il loro atteggiamento è quasi cameratesco. L’uomo sulla sinistra
tiene in mano, senza sforzo, una corda a cui è aggrappata una donna che cerca faticosamente di raggiungere la
vetta. La donna, di cui si vedono spuntare solo la testa,
le spalle e le braccia, sembra in grande difficoltà, ma gli
uomini non si curano affatto di lei. Il testo recita: “Gli
uomini sono meglio delle donne. Al chiuso le donne possono essere utili, persino gradevoli. In montagna sono
solo un peso morto”. Anche in questo caso l’idea veicolata è quella dell’uomo forte e prestante, adatto alle situazioni che richiedono resistenza, coraggio, capacità di
adattamento. Al contrario le donne devono rendersi utili
nell’ambiente domestico e svolgere una funzione decorativa (devono risultare gradevoli agli occhi dei mariti e
delle altre persone).
L’inserzione, che reclamizza un’automobile con cambio automatico, ritrae
una donna al volante. Anche in questo caso notiamo l’estrema cura dell’aspetto
estetico: unghie perfettamente laccate, gioielli in abbondanza, occhi truccati,
acconciatura secondo la moda dell’epoca. Anche in questo caso la donna offre
agli occhi del mondo un’immagine di sé impeccabile. Quello che colpisce la
nostra attenzione, però, è la sua espressione buffa, un misto di sconcerto e di
timore. Il messaggio che ne ricaviamo è che la donna che si pone alla guida
non sa da che parte iniziare, è inadeguata a svolgere tale attività e ha paura di
sbagliare. Le viene incontro la tecnologia: il cambio automatico facilita la guida, permettendo anche alle donne di farlo senza problemi (la didascalia, infatti,
riporta “Mini Automatica. Per una guida semplice”).
20
Specchio
delle
mie brame
I corpi delle donne
Nel terzo capitolo del suo saggio Questione di sguardi John Berger osserva
che “la presenza sociale della donna ha una qualità diversa da quella maschile”.14
La presenza dell’uomo è infatti legata al potere che ci si aspetta che egli eserciti
a livello economico, morale, fisico, psicologico, sessuale o sociale e che ha per
oggetto qualcosa o qualcuno che è esterno all’uomo stesso. Tale promessa (o
aspettativa) di potere identifica ciò che l’uomo è capace di fare a qualcuno o per
qualcuno. Il potere dell’uomo, quindi, deve essere esercitato sugli altri.
Al contrario, la presenza sociale della donna “esprime l’atteggiamento che
ella ha verso se stessa, e definisce cosa le si può e non le si può fare”.15 Come
acutamente osservato già da Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé e Le tre
ghinee o da Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso, la donna è oggetto di una
sorta di custodia, di sorveglianza da parte di un universo al maschile. Questo
appare evidente in gran parte della storia dell’arte e dell’immaginario pubblicitario. Allo stesso tempo la donna deve sorvegliare costantemente se stessa,
affinché il suo atteggiamento, le sue azioni e il suo aspetto rispettino determinati canoni a lei imposti. Ciò non avviene necessariamente con la forza: le
convenzioni e le modalità di rappresentazione sono introiettate e fatte proprie
attraverso una costante iterazione.
La filosofa Judith Butler dà a questo meccanismo di ripetizione continua e
subliminale di comportamenti e atteggiamenti il nome di performatività (performativity), termine che riprende dalla linguistica e dalla filosofia del linguaggio. È attraverso tale processo che delle identificazioni (che per loro natura
sarebbero fluide e transitorie) si cristallizzano in “identità”.
Judith Butler analizza anche il fenomeno delle drag queen. Benché queste
figure siano biologicamente degli uomini, nelle loro performance incarnano un
ideale/uno stereotipo di femminilità: una femminilità perfetta, da una prospettiva maschile. Di fronte a ciò l’interrogativo che si pone Butler è in che misura
tale performance sia una copia di un originale, di un’essenza della femminilità.
La performance drag, ci spiega Butler, gioca sulla triangolazione tra sesso
biologico, identità di genere e performance di genere, fatta passare come una
unità nella finzione normalizzatrice (maschile e eterosessuale). L’esistenza di
una parodia, l’interpretazione del femminile da parte delle drag queen (o del
maschile da parte dei drag king), non implica l’esistenza di un originale imitato. Viene parodiata, invece, la nozione stessa di esistenza di un originale: si
14
15
Ivi, p. 47.
Ivi, p. 48.
21
Specchio
delle
mie brame
imita il mito stesso di originalità. Il drag, quindi, rivela che tutti i generi sono
già di per sé una parodia, il frutto di una costante performance, di una ripetizione di azioni. Il drag, pertanto, nulla ha a che vedere con l’appropriazione o
l’espropriazione, da parte di individui appartenenti a un determinato sesso, del
genere appartenente a un altro sesso biologico, perché in realtà nessun genere
appartiene naturalmente ad alcun sesso.16
Tornando a John Berger, la donna è descritta come sorvegliata e, al tempo
stesso, come sorvegliante di se stessa. Ella vive questa scissione, questo duplice ruolo, e
arriva a considerare il sorvegliante e il sorvegliato che ha in sé come i due elementi costitutivi e pur sempre distinti della sua identità di donna. […] Per la
donna il sentirsi esistente in sé è sostituito dal sentirsi riconosciuta dall’altro. […]
Si potrebbe semplificare dicendo: gli uomini agiscono e le donne appaiono. Gli
uomini guardano le donne. Le donne guardano se stesse essere guardate.17
Questa dinamica non influenza solo il rapporto tra donne e uomini, ma
anche quello delle donne con se stesse. Il sorvegliante che la donna ha dentro
di sé è maschio, mentre il sorvegliato è femmina. Ecco allora che la donna si
trasforma in un oggetto e, per essere più precisi, in oggetto dello sguardo, di
una visione.
Le donne sono state il soggetto principale di un importante genere della
pittura a olio europea: il nudo. Nei nudi pittorici è possibile riscontrare molte
delle convenzioni che hanno storicamente caratterizzato le donne in quanto
oggetto dello sguardo: la donna peccaminosa e tentatrice, punita con la sottomissione all’uomo, la vanità, ecc. In tutti resta comunque sottinteso che la
donna ritratta è consapevole di essere vista dallo spettatore. Non è nuda in
quanto priva di vestiti. È nuda perché qualcuno la osserva e la vede tale. La nudità della donna è rappresentata secondo modalità che la rendono connivente
nel suo essere trattata come oggetto di visione. La donna appare passiva, segno
del suo assoggettamento all’uomo.18
John Berger, partendo da alcune osservazioni contenute nel testo Il nudo
di Kenneth Clark, osserva che, mentre essere spogliati significa semplicemente non indossare indumenti, il nudo implica sempre una convenzionalità
e che l’autorità delle convenzioni coinvolte deriva da una certa tradizione
16
Judith Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity (1990), New
York; London: Routledge, 1999, pp. 174-180.
17
Berger, op. cit., p. 48-49.
18
Ivi, pp. 51-54.
22
Specchio
delle
mie brame
artistica: “Essere nudi è essere visti spogliati e, tuttavia, non essere riconosciuti per se stessi. Per diventare un nudo, il corpo spogliato deve essere
visto come un oggetto. […] Lo spogliarsi è rivelazione di sé. La nudità è
esibizione”.19
Nella forma artistica del nudo, così come è stata elaborata in Europa, gli
spettatori, i pittori e i proprietari dei dipinti erano solitamente uomini, mentre
le persone trattate da oggetti erano per lo più donne. Oggi gli atteggiamenti che hanno per lungo tempo informato quella tradizione pittorica trovano
espressione attraverso media diversi: la televisione, internet, la pubblicità, ecc.
Il modo di vedere le donne, tuttavia, non è sostanzialmente cambiato. Esse
vengono rappresentate diversamente dagli uomini, non perché maschile e femminile siano diversi, ma perché si suppone che lo spettatore ideale sia sempre
maschio e l’immagine della donna abbia il compito di compiacerlo, di onorarlo, di farlo sentire potente.
In campo pubblicitario associare l’immagine di un corpo femminile a quella dell’oggetto che deve essere comperato serve ad associare alla promessa di
una vita più soddisfacente, grazie al possesso dei beni pubblicizzati, la promessa di una maggiore desiderabilità da un punto di vista sessuale o affettivo.
Il meccanismo in gioco è quello dell’invidia: vediamo qualcuno che possiede
un determinato bene, che l’ha trasformato in una persona più completa, più
desiderabile, più glamour, e vogliamo essere come lui.
L’immagine a lato è la pubblicità di un torneo di
beach volley. In essa la donna non è rappresentata durante il gioco, ma in piedi. Lo sguardo è rivolto al
lettore della rivista e il corpo, presentato pressoché
frontalmente, è in bella vista. Inoltre, benché lo slogan pubblicitario reciti: “These girls can hit. Hard”
(“Queste ragazze sanno colpire. Forte”) la giovane ha
il polso destro fasciato perché si è fatta male. Ancora
una volta, quindi, l’immagine ci dice che la donna è
un oggetto da guardare e possedere ed è intrinsecamente debole e facilmente soggetta a infortuni. Nessuna azione sportiva è raffigurata e se non vi fossero
una rete da beach volley sullo sfondo e i testi scritti
non riusciremmo nemmeno a comprendere che cosa è
pubblicizzato.
19
Ivi, p. 56.
23
Specchio
delle
mie brame
In questa pubblicità una donna nuda è ritratta
semisdraiata sopra un’enorme scatola di Velveeta, una crema spalmabile a base di formaggio.
La posa plastica ricorda quella dei nudi pittorici.
La parte superiore del busto e il capo compiono
una leggera torsione in modo da consentire alla
donna di fissare lo spettatore. L’accostamento
della figura nuda e del prodotto commercializzato porta a una identificazione dei due.
Nella pubblicità di un profumo di Burberry vediamo una donna nuda, solo parzialmente coperta da un trench (capo simbolo del
marchio di moda). La giovane ha un atteggiamento passivo e fissa con intensità e voluttà lo
spettatore, al quale sembra offrirsi completamente. L’idea della donna come oggetto sessuale che si sottomette all’uomo è rafforzata
dal nome del profumo: “Body”, cioè “corpo”.
Acquistare il profumo equivale a entrare in
possesso del corpo della donna, quella ritratta
nella pubblicità o, forse, quello della donna a cui il profumo sarà regalato.
Anche in questa pubblicità di un’associazione australiana di donatori di organi una donna seminuda si porge
allo sguardo dello spettatore e anche in questo caso l’atteggiamento è passivo, l’espressione sensuale e lo sguardo diretto fuori dall’immagine, in direzione del riguardante. Il testo, poi, è particolarmente esplicito per quanto
concerne il meccanismo del desiderio sessuale, per cui il
prodotto/servizio pubblicizzato si identifica con il corpo
che si vuole possedere. Lo slogan, infatti, recita: “Diventare donatore è probabilmente la tua unica possibilità di
entrarle dentro”.
24
Specchio
delle
mie brame
Uomini duri, uomini veri
L’immagine a lato risale al 1948 ed è tratta dalla rivista Esquire. In essa è ritratto un uomo il cui aspetto è
definito “audace”. È un esempio di una tipologia di rappresentazione della maschilità che godeva di una certa
fortuna a quell’epoca. Una “mascolinità aggressiva, severa, intelligente”.20 Anche la costruzione del maschile
appare ideologica e stereotipata: laddove alla donna è
richiesto di essere docile e remissiva, materna e servizievole, all’uomo si chiede di essere sicuro di sé, ben
curato, virile, maturo. È l’uomo che si misura sulla base
della forza fisica, del potere economico, della capacità
di avere successo professionale, della presenza sociale.
Ritroviamo lo stesso tipo di rappresentazione stereotipata nella fotografia della pubblicità del marchio di
abbigliamento Bond.
Il claim pubblicitario recita: “I’m tough” (“Sono un
duro”). Marshall McLuhan definisce questa tipologia di
uomo “neanderthalesca”. Nelle pubblicità degli anni Quaranta, ci dice il critico statunitense, l’immaginario maschile è spesso vagamente pre-industriale, primitivo. In questo
caso il volto dell’uomo ritratto è duro, con tratti marcati e
l’espressione seria. Tiene tra le dita un sigaro, simbolo di
potere e di benessere. Nel testo della pubblicità è proprio lui
a parlare: “Questa roba da signorine mi urta. Lavoro dieci
ore al giorno. Lo faccio da quando ero ragazzo. La ghenga
allo stabilimento mi chiama “capo”. Ora ne sono proprietario…”.21 Un uomo è giudicato un uomo “vero” se è un duro,
se ha successo nella vita grazie all’instancabilità nel lavoro,
se rifiuta categoricamente quelle frivolezze che lo farebbero sembrare troppo femminile e quindi lo degraderebbero
(perché le donne sono considerate inferiori), se guarda alla
sostanza e non agli orpelli, come nel caso degli abiti Bond:
resistenti, pratici, fatti di ottimi materiali e ben tagliati.
20
21
Marshall McLuhan, The Mechanical Bride, cit., p. 43.
Traduzione in Marshall McLuhan, The Mechanical Bride, cit., p. 251.
25
Specchio
delle
mie brame
Le tre immagini nella colonna sono tutte
dell’azienda telefonica americana AT&T. Le
prime due risalgono rispettivamente al 1937 e
al 1932. In contrasto con la ricezione “passiva” delle donne che svolgono professioni che
hanno a che fare con il telefono, l’uso di questo
strumento da parte degli uomini è rappresentato in termini più attivi. Così in queste fotografie
le mani maschili non afferrano la cornetta con
gentilezza, ma lo fanno con gesti decisi e quasi
teatrali.
Nella terza immagine, del 1920, per l’uomo ingegnere o dirigente, il telefono è contemporaneamente un frutto e uno strumento del
progresso, esattamente come il treno, l’aereo,
l’automobile, ecc.
Il femminile, invece, è associato alla tecnologia in modo differente, come vediamo
nell’immagine sotto, risalente al 1939: una
donna dal volto dolce, quasi angelico, si serve del collegamento telefonico per stabilire un
legame materno con gli Stati Uniti, che stringe
idealmente in una sorta di abbraccio.
26
Specchio
delle
mie brame
La sensualità delle donne: punire le perfide sorelle
Lo slogan di questa pubblicità di un videogioco di azione (“Hitman. Blood
Money”) gioca su un doppio senso piuttosto macabro. Nell’espressione “Beautifully executed”, infatti, il termine “executed” può significare sia “eseguito”, sia
“giustiziata” (“beautifully”, invece, vuol dire splendidamente, perfettamente, in
modo bellissimo, ecc.). Vediamo, perciò, una donna, attraente e con indosso solo
della lingerie e scarpe con tacchi alti, che è sdraiata, morta, su un letto con lenzuola di seta rossa. Sulla fronte si nota chiaramente il foro di un colpo di pistola.
La violenza che la donna ha subito è associata, anche nella morte, all’esposizione
del suo corpo: la giacca da camera aperta rivela la pelle levigata e bianchissima, i
capelli morbidi e lucenti si riversano come onde sul lenzuolo, le labbra sono carnose e dipinte di rosso (anche se un rivolo di sangue che fuoriesce da un angolo
della bocca testimonia ulteriormente l’aggressione subita), le gambe e le braccia
non sono scomposte, ma in una posa quasi da modella, la lingerie di pizzo nero
rimanda a un’immagine di sensualità, così come i sandali dorati con il tacco alto.
Pur rappresentando un atto di violenza, l’immagine ha un effetto estetizzante e anestetizzante. È come se il momento fosse stato congelato e l’attenzione
fosse tutta concentrata non tanto sulla brutalità del crimine commesso, quanto
sulla bellezza della donna, sul suo corpo esposto e sulla composizione formale
e cromatica dell’immagine. Tale modalità rappresentativa, insieme al claim che
l’accompagna (“Beautifully executed”), autorizza la violenza in essa implicita
in nome di una qualità estetica.
In Idoli di perversità (1986) Bram
Dijkstra mostra come, nell’arte della
seconda metà dell’Ottocento e degli
inizi del Novecento, tra le altre cose,
il sesso femminile fosse rappresentato come narcisista e infantile, oppure
fosse associato al mondo della natura
e degli istinti anziché a quello della civiltà e della ragione. In questo modo
si tendeva a giustificare la misoginia
e a rafforzare un ordine sociale in cui
gli uomini occupavano posizioni di
dominio. Alle donne erano attribuite
un’energia sessuale e un’istintualità
che ne facevano delle creature non
civilizzate, potenzialmente minacciose per la superiorità intellettuale degli
27
Specchio
delle
mie brame
uomini.22 Accanto all’immaginario femminile virgineo, desessualizzato e materno, ve n’è dunque uno caratterizzato da una sessualità spiccata, addirittura vorace, potenzialmente pericolosa: la donna vampira, predatrice, capace di privare
l’uomo delle energie e della ragione, che deve essere punita o addirittura eliminata. La violenza su donne così rappresentate (sensuali e provocanti) è dunque
implicitamente giustificata come punizione di un crimine o di un peccato.
In questa pubblicità di Dolce & Gabbana, che qualche anno fa ha fatto
molto discutere, sembra essere inscenato il preludio a uno stupro di gruppo.
Anche qui la scena è completamente
estetizzata. La sensualità della donna, ancora una volta, offre una giustificazione per l’atto brutale che sta per
subire, come troppo spesso avviene
nell’opinione comune.
L’immagine sotto è la pubblicità
di un noto salone di bellezza di Edmonton, nella provincia canadese
dell’Alberta. In un interno domestico
vediamo una donna seduta su un divano con una stampa floreale, ai lati del
quale si trovano due lampade da pavimento. La donna indossa un elegante
abito corto e scarpe aperte con il tacco
alto e ha un’acconciatura ricercata,
vaporosa e volutamente “selvaggia”.
Seduta in una posa femminile, mette
in mostra gambe affusolate. Dietro di
lei un uomo in giacca e cravatta con
un’espressione vagamente inquietante
tiene in mano una preziosa collana,
22
Bram Dijkstra, Idols of Perversity: Fantasies of Feminine Evil in Fin-de-siècle Culture, New York: Oxford University Press,
1986; trad. it. di Marisa Farioli, Idoli di
perversità. La donna nell’immaginario artistico, filosofico, letterario e scientifico tra
Otto e Novecento, Milano: Garzanti, 1988.
28
Specchio
delle
mie brame
come se fosse stato catturato dalla fotocamera nell’istante appena prima di mettere il gioiello al collo della donna.
Nel complesso l’immagine, nella sua grande compostezza,
ricorda un ritratto fotografico in posa scattato in un ambiente domestico. La cosa che colpisce maggiormente, però, è
l’occhio nero della donna. Ne deduciamo che sia stata picchiata. Forse il colpevole è proprio l’uomo che è alle sue
spalle e che ora sta per regalarle un gioiello. L’accostamento
produce un effetto stridente, ulteriormente accentuato dallo
slogan “Look good in all you do” (“Presentati bene, qualunque cosa tu faccia”). Qualsiasi cosa accada – perfino se
subisce delle violenze – l’imperativo per una donna è quello
di essere sempre presentabile e di mantenere il contegno.
Quel problema che gli uomini non hanno…
La storica Lara Freidenfelds ha osservato che negli
Stati Uniti degli anni Trenta e Quaranta gli odori corporei erano considerati estremamente offensivi dal punto di vista dei rapporti sociali. Ciò è testimoniato dalla
moltitudine di pubblicità relative a collutori, deodoranti,
shampoo e saponi profumati.23 In particolare, il problema
degli odori genitali femminili, legati al ciclo mestruale,
era fonte di grande preoccupazione, come testimoniano
le pubblicità di seguito riportate.
Nell’inserzione pubblicitaria, il marchio di disinfettanti Lysol, presenta un “quiz dell’amore” rivolto solo “alle persone sposate”.
Il quiz consiste, in realtà, di un’unica domanda: “Perché lei passa tutte le sere
da sola?”. Sopra questo interrogativo vediamo l’immagine di una donna seduta in poltrona, in lacrime, che probabilmente si pone la stessa domanda.
Sullo sfondo vediamo un uomo con un cappotto sul braccio e un’espressione
di disapprovazione, colto nell’atto di uscire di casa. L’intento dell’immagine è
chiaro: ricordare alle donne quanto poco basti per far sì che gli uomini siano
insoddisfatti di loro. Per far ciò prospetta uno scenario che, assai probabilmente, era uno dei più temuti dalle giovani mogli dell’epoca.
23
Lara Freidenfelds, The Modern Period: Menstruation in Twentieth-Century America,
Baltimore: Johns Hopkins University Press, p. 53.
29
Specchio
delle
mie brame
La pubblicità, poi, prosegue fornendo essa stessa la risposta all’interrogativo che ha posto. Non importa quanto
una donna ami il proprio marito, quanto sia brava a occuparsi della casa o quanto si prenda cura del proprio aspetto: tutto ciò è inutile se non si preoccupa con altrettanto
rigore della propria igiene. Il testo ci dice, dunque, che è
implicito che i primi tre “requisiti” siano indispensabili
affinché la donna sia una buona moglie, però non sono
sufficienti. Il fatto che il marito la abbandoni per trascorrere la serata fuori sta a indicare che lei ha perso la sua
preziosa “aria di romanticismo”, un profumo che i disinfettanti Lysol possono, a detta della pubblicità, aiutarla a
recuperare, insieme alla sua “delicatezza” e alla fiducia
nella propria capacità di risultare piacente.
È evidente come questa inserzione pubblicitaria si
fondi su una precisa ideologia di genere. Essa, infatti,
descrive l’immagine convenzionale della donna in termini di igiene personale. Mostrando quali siano le caratteristiche che la donna ideale deve possedere per essere
desiderabile, fissa gli obiettivi che tutte le mogli sono
chiamate a perseguire: essere mogli capaci di piacere, di
sedurre i loro uomini con la loro “aria di romanticismo”.
Senza questa aria e, anzi, con un odore giudicato fastidioso, una moglie non è altro che una graziosa domestica, priva, però, di qualsiasi attrattiva per il marito.
Lysol prosegue questa campagna con diverse pubblicità che esprimono lo stesso concetto: qualunque dubbio una donna abbia può
essere risolto usando Lysol per fare un lavaggio intimo e recuperare la sua delicata femminilità e la capacità di compiacere il marito. Le donne possono ovviare
ai “naturali” difetti del loro corpo con il semplice utilizzo di un disinfettante.
In quest’altra pubblicità vediamo una donna, anch’essa in lacrime, letteralmente chiusa fuori dalla camera da letto in cui si trova il marito. I lucchetti
che chiudono la porta sono contrassegnati dalle scritte “Dubbio”, “Inibizione” e
“Ignoranza”. Quest’ultima è particolarmente interessante: non è colpa della donna se è inconsapevole della propria mancanza di femminilità (causata dall’odore
mestruale). A tale ignoranza, però, può rimediare consultando un medico, il quale sicuramente le consiglierà di effettuare con regolarità dei lavaggi vaginali con
Lysol, che le permetteranno di recuperare la propria “delicatezza” femminile. È
interessante notare come gli odori intimi siano presentati come una malattia che
30
Specchio
delle
mie brame
deve essere curata. Il corpo femminile è descritto come intrinsecamente sporco
e difettoso, ma la donna può trovare una soluzione a tali difetti, a patto che sia
disposta a rimediare alla propria ignoranza. Se ciò non avviene la colpa del fallimento del rapporto matrimoniale ricadrà solo su di lei.
Le spose meccaniche
Marshall McLuhan ha incluso nel suo libro La sposa meccanica un
saggio sulle rappresentazioni dei corpi femminili come aggregati, simili
a macchine, di parti staccabili e intercambiabili, schema che egli ritrova
frequentemente nelle immagini pubblicitarie. L’espressione da lui usata, “sposa meccanica”, ricorda il fascino dei dadaisti e dei surrealisti per
il sesso e la tecnologia. Marcel Duchamp, Man Ray e altri artisti delle
avanguardie avevano visto nelle macchine non solo razionalità, ma anche
componenti erotiche e distruttive.24
McLuhan nel suo saggio analizza l’immagine pubblicitaria riportata
a lato, in cui un paio di gambe femminili, con indosso le calze di nylon
reclamizzate, sono poste su un piedistallo. Per il critico americano le
gambe separate dal corpo sono un esempio di una forma di standardizzazione del corpo femminile che porta le membra di questo ad assomigliare alle componenti di una macchina. Introducendo, inoltre, il tema
del rapporto tra sesso e tecnologia, egli aggiunge:
Non si tratta di un aspetto creato dagli agenti pubblicitari, ma sembra
piuttosto essere il prodotto di un’avida curiosità, da un lato, di esplorare ed
allargare il dominio del sesso per mezzo della tecnica meccanica e, dall’altro, di possedere la macchina in un modo sessualmente gratificante.25
In pubblicità come questa, tuttavia, il sesso è stranamente dissociato
non solo dalla persona umana, ma anche dall’unità del corpo.26
Le donne, nei loro ruoli di consumatrici e di lavoratrici, sono state
costantemente associate alla tecnologia. Al contempo nella progettazione e nella promozione di elettrodomestici, macchine e altri prodotti
si sono presi a prestito attributi fisici e psicologici delle donne, trasfor-
24
25
26
Ellen Lupton, op. cit., p. 9.
Marshall McLuhan, The Mechanical Bride, p. 188.
Ivi, pp. 197-198.
31
Specchio
delle
mie brame
mando le stesse apparecchiature per la casa e le attrezzature per l’ufficio in “spose meccaniche”, attraenti e al
contempo efficienti.
La pubblicità del televisore RCA Victor del 1966
paragona l’apparecchio televisivo a una donna. Entrambi hanno una parte frontale molto bella e una parte
posteriore robusta e affidabile. Un simile confronto lo
ritroviamo anche nella pubblicità degli arredi per ufficio
Corry Jamestown (1966): in essa vengono mostrati il davanti e il dietro sia di uno schedario verticale, sia della
segretaria intenta ad archiviare delle cartelle.
L’immagine sotto a sinistra, tratta da un catalogo
di arredi per ufficio della Globe-Wernicke del 1954, si
serve della scomposizione fotografica del movimento di
una segretaria e richiama alla mente gli studi sull’organizzazione scientifica del lavoro per dimostrare l’efficienza della scrivania a L.
Infine, nell’immagine a destra (una pubblicità della
General Electric del 1965), una donna appare “connessa”
a una serie di elettrodomestici – l’asciugacapelli, il telefono, la teiera, il frullatore – confondendosi quasi con essi,
come se fosse anche lei collegata a un sistema elettrico.
32
Specchio
delle
mie brame
Quando il corpo va in scena: donne e uomini
tra uniformità, identità e ruoli
Alessio Capellani, Mattia Codazzi, Manola Del Greco, Manuela Rossi
di “InChiaro”, Laboratorio di Ricerca Sociale sui Media, Università di Milano-Bicocca
Il Laboratorio di Ricerca Sociale sui Media “InChiaro” si è costituito all’interno del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca con
l’intento di creare uno spazio dedicato allo studio dei media in quanto veicolo
di rappresentazioni sociali. La principale attività del Laboratorio consiste nel
monitorare, analizzare e interpretare i messaggi trasmessi dalle trasmissioni televisive del palinsesto italiano, della stampa e dei contenuti web, allo scopo di
decostruirne i principali stereotipi riguardanti le relazioni di genere, di etnia e
di generazione. Al fine di indagare il rapporto tra media e mutamento sociale,
l’approccio che guida le nostre analisi attiene alla scuola costruttivista1 (Berger
e Luckmann 1969); sul versante metodologico si prediligono le tecniche che
si rifanno all’analisi del contenuto, alla sociologia visuale (Faccioli, Losacco
2003) e all’analisi documentaria applicata a documenti visuali2 (Arosio 2010).
Introduzione
InChiaro ha partecipato al convegno “Specchio delle mie brame. Corpi
pubblicitari tra inganno e desiderio” proponendo un video stimolo dal titolo
“Quando il corpo va in scena: donne e uomini tra uniformità, identità e ruoli”
(le immagini sono riportate nel corso del testo). Lo scopo del nostro contributo è stato quello di offrire uno stimolo per la riflessione sull’“immaginario
sociale” diffuso dalle pubblicità presenti nei media tradizionali quali tv, riviste
e cartellonistica, concentrandoci, in particolare, sui ruoli di genere, sulle rap-
1
Paradigma epistemologico secondo il quale la realtà (e gli elementi che ne fanno parte)
non è data, bensì è costruita socialmente dagli attori che contribuiscono a reiterarla quotidianamente attraverso interpretazioni, azioni, linguaggio condiviso, istituzioni, pensiero
dotato di senso.
2
Dall’analisi di documenti, in particolare di tipo segnico – cioè testi, filmati, immagini,
creati con lo scopo di trasmettere un messaggio – possiamo trarre informazioni interessanti
sul contesto sociale e culturale in cui sono prodotti. Attraverso i documenti si può rilevare il
modo in cui gli individui o i gruppi sociali interpretano, vivono, rappresentano, idealizzano
e avvalorano la propria esperienza nonché la realtà in cui sono immersi.
33
Specchio
delle
mie brame
presentazioni maschili e femminili e sui modelli familiari che nelle pubblicità
hanno rilievo (e non).
Nello specifico si è inteso riflettere, attraverso il video-stimolo, sui cliché
riguardanti i ruoli femminili e maschili messi in scena dagli spot pubblicitari,
nonché sulle tipologie di famiglie rappresentate in essi, cercando di proporre
un angolo visuale alternativo utile a comprendere e a guardare con occhio critico “quale parte di realtà” è proposta dalle pubblicità.
Perché un video? Le immagini possono essere utilizzate in una duplice via:
da un lato come oggetto di analisi in quanto veicoli di messaggi che contribuiscono alla produzione di un immaginario, dall’altro diventano uno strumento
espositivo utile a produrre una riflessione sui contenuti stessi. Attraverso un
collage di video e immagini abbiamo cercato di presentare gli immaginari di
genere, etnia, orientamento sessuale, ruoli domestici, familiari e lavorativi che
vengono costruiti nei messaggi pubblicitari e che definiscono uno spartiacque
tra ciò che è legittimato socialmente e ciò che non lo è.
Alcune domande hanno guidato il nostro percorso di analisi: quali modelli di femminilità e maschilità sono veicolati dai media? Persistono ancora
ruoli tradizionali o vengono riflessi i mutamenti che stanno investendo i generi? Come sono rappresentati i corpi femminili e maschili? La sfera educativa
viene legata alla rappresentazione della maschilità oppure resta ancora una
dimensione prettamente femminile? Quale tipologia di famiglia è messa in
scena? E, per quanto riguarda l’orientamento sessuale, quello eterosessuale
resta il prevalente, se non l’esclusivo?
Per la costruzione del video abbiamo compiuto un monitoraggio che ha
riguardato due canali della televisione generalista e alcune riviste rivolte a
donne, a uomini e ad adolescenti. Nello specifico abbiamo monitorato le reti
ammiraglie Rai e Meidaset, Rai1 e Canale5, seguendo l’intero palinsesto di
due giornate prese a campione, mercoledì 4 e domenica 8 luglio 2012 in modo
da considerare sia un giorno feriale che festivo. Dalla registrazione abbiamo
quindi estratto tutti gli spot andati in onda nelle giornate da noi considerate, i
quali sono stati successivamente analizzati attraverso una griglia di analisi del
contenuto costruita ad hoc.
Inoltre, per rispondere al meglio agli obiettivi della nostra ricerca, sempre
attraverso una griglia di analisi, abbiamo esplorato le immagini pubblicitarie
presenti in tre riviste da noi scelte in base alla loro tiratura: “Men’s Health”
(mese di agosto 2012) per quanto riguarda gli uomini, “Amica” (mese di luglio
2012) per le donne e “Top Girl” (mese di luglio 2012) per le adolescenti. Infine
abbiamo rilevato dalla rete alcune immagini di cartellonistica che, a nostro
avviso, erano particolarmente rilevanti e utili ai fini conoscitivi della nostra
ricerca.
34
Specchio
delle
mie brame
Alcuni concetti
La questione del mutamento sociale è certamente di grande attualità e
costituisce un angolo visuale privilegiato all’interno delle nostre ricerche. In
generale, ci siamo chiesti quanto e se gli spot televisivi e della stampa rispecchiassero i cambiamenti che stanno investendo la società, e nel nostro caso
particolare, i ruoli e le identità di genere. Questo partendo dalla consapevolezza che lo spot è una forma comunicativa che poco si presta alla rappresentazione di significati complessi: essa sembra infatti proporre ruoli riformabili ma
sostanzialmente immutabili dove non c’è mai sovvertimento e reale innovazione ma si asseconda il divenire degli equilibri e squilibri sociali.
Come è noto, i media possiedono il potere di creare una visione comune,
legando i significati individuali a quelli sociali, il micro al macro, attraverso la
funzione di story telling (Gerbner 1986). Le rappresentazioni che passano al
loro interno sono quindi molto importanti poiché, data la loro elevata visibilità,
diventano modelli di comportamento e di legittimazione sociale.
Oltre a creare un senso condiviso, i media collegano il pubblico al privato,
la dimensione sociale alla dimensione domestica della casa. Per usare le parole
di Williams (1974) la televisione in maniera particolare, è una forma di “privatizzazione mobile” al servizio di un modo di vita mobile, che caratterizza la
modernità, e al tempo stesso incentrato sulla casa. Inoltre Meyrowitz (1985)
osserva come la televisione abbia abbattuto le barriere che hanno tradizionalmente diviso il “pubblico” e il “privato”, o, ricollegandosi a Goffman (1959)
la “scena” e il “retroscena”. Il pubblico invade lo spazio privato e il privato
diventa argomento pubblico. La presenza della televisione rende il contesto
domestico uno spazio interconnesso con l’esterno: oltre a fare esperienze mediate, si può accedere a numerose informazioni che fanno avere la sensazione
di partecipare alla vita sociale.
Da quanto sinteticamente delineato nei paragrafi precedenti, possiamo dire
che il ruolo dei media nella costruzione delle identità di genere è particolarmente importante dal momento che quasi tutti i contenuti mediatici presentano
personaggi che si possono assegnare a una delle due categorie di genere. Questi personaggi rappresentano un ricco bacino di modelli per l’identificazione
e l’imitazione e definiscono ciò che è normale e accettato dalla società cui
appartengono, perciò rafforzato positivamente, ma anche ciò che si ritiene eccezionale o addirittura deviante, e perciò esecrato.
Lo sfondo nel quale attraverso la nostra ricerca ci muoviamo è certamente
quello del genere, considerando tutte le implicazioni che esso ha sull’identità,
sui ruoli e sui modelli relazionali e famigliari.
Sappiamo che il genere, come ormai consolidato da numerose teorie e studi
35
Specchio
delle
mie brame
che si sono sviluppati a partire dalla seconda metà del secolo scorso (per una
rassegna cfr. Wallace e Wolf, 1994; Piccone Stella e Saraceno 1996), è una
costruzione sociale che a partire dalle differenze biologiche, cioè dal sesso,
definisce i comportamenti ritenuti più appropriati all’essere donna o all’essere
uomo. Le differenze, quindi, non sono “naturali” ma sono il prodotto della
cultura umana, dunque variabili nel tempo e nello spazio.
Il carattere sociale e quindi mutevole della dimensione di genere pare oggi
alquanto evidente: viviamo una fase di profondo mutamento sociale che sta
investendo le identità e i ruoli di genere, nonché le pratiche quotidiane e i
rapporti tra i generi.
Per fare alcuni esempi, ci basti pensare all’aumento della partecipazione
femminile al mercato del lavoro, alla ridefinizione della divisione dei compiti
di cura, alla crescente instabilità coniugale, all’instaurarsi di una società sempre più multiculturale, e così via.
Alla luce di tali premesse, come già accennato, abbiamo rivolto la nostra
attenzione alle rappresentazioni di genere, di ruolo e famigliari veicolate dai
media perché riteniamo che esse siano un importante mezzo di diffusione e
legittimazione di modelli femminili, maschili e familiari: come è stato scritto,
oggi assistiamo a quel processo di “mediatizzazione della cultura” (Thompson, 1998) per cui «la presenza pervasiva e istituzionalizzata dei media induce trasformazioni nella cultura, nell’esperienza, nelle rappresentazioni sociali
e nelle immagini di realtà» (Grossi, Ruspini, 2007, p. XIV). I media agiscono
quindi come “agenti di socializzazione” che «propongono figure femminili
e maschili che diventano modelli di comportamento normativi dal momento
che la loro elevata visibilità li trasforma in strumenti di legittimazione sociale» (Capecchi, 2009, p. 4); e inoltre «il processo di generazione delle rappresentazioni costituisce il momento in cui il “sociale” esercita la sua influenza,
mischiandosi ai nostri schemi e alle nostre conoscenze pregresse» (Ferrari,
Capecchi 1998, p. 23).
Ci sembra utile precisare, che con identità di genere si intende «la percezione sessuata di sé e del proprio comportamento, acquisita attraverso l’esperienza personale e collettiva, che rende gli individui capaci di relazionarsi con
gli altri, in quanto portatori di un’identità di genere riconoscibile, chiara e
condivisa» (Ruspini 2001, p. 18).
L’identità di genere è frutto di un processo relazionale che vede in gioco
una molteplicità di fattori che incentivano la conformazione alle aspettative
legate all’essere donna o uomo. Bambine e bambini, ragazze e ragazzi, sono
incoraggiati a comportarsi in modi differenti: imparano a camminare, parlare
e atteggiarsi nel modo prescritto per il proprio genere e secondo le aspettative
del gruppo sociale e della cultura di appartenenza (Lorber 1995).
36
Specchio
delle
mie brame
Tuttavia le identità di genere non sono riconducibili al solo dualismo maschile/femminile; non sono immutabili ma possono, per esempio, tramutarsi
in un senso di appartenenza al genere maschile, a quello femminile, o a particolari sfumature tra i due generi sessuali. Come sostiene Scott (1987), uomo e
donna sono categorie prive di un significato definitivo in quanto modelli “ideali” che contengono al proprio interno costruzioni e rappresentazioni alternative
e possibilità spesso negate.
Essendo l’identità un processo relazionale, essa entra in relazione con le
rappresentazioni veicolate dai media, e in questo caso con quelle presenti negli
spot, e risulta quindi importante riflettere sui significati trasmessi da questi ultimi proprio perché, se è vero che non ci “costruiscono” è altrettanto vero che
certamente ci influenzano, è ciò vale soprattutto per le generazioni più giovani.
Il nostro video ha voluto quindi mettere in luce quali identità, ruoli, modelli
di genere e famigliari sono rappresentati e quanto essi siano ancora pervasi da
stereotipi o capaci di riflettere il cambiamento.
In generale possiamo anticipare che «i ritratti di uomini e donne in TV descrivono un mondo sociale che differenzia i due generi in modo sistematico»
(Lemish 2007, p. 114). Persistono quindi molti stereotipi di genere: le donne
vengono associate all’essere nella sfera privata e paiono generalmente passive, emotive, solidali, infantili, sexy, subordinate agli uomini, di classe sociale
inferiore. Il messaggio prevalente relativo alla femminilità implica una svalorizzazione dell’esperienza, delle competenze, dell’intellettualità delle donne,
validando così l’ipotesi che vede una correlazione tra questo tipo di messaggio
e la minor importanza attribuita alle donne rispetto agli uomini nella società
(Capecchi 2006).
Gli stereotipi veicolati dalla televisione non sono solo al femminile ma anche al maschile: complessivamente gli uomini si identificano con l’agire nella
sfera pubblica e vengono associati a caratteristiche come l’intraprendenza, la
razionalità, la determinazione, l’indipendenza, l’ambizione, la competitività,
l’efficacia. L’uomo è ritratto come «vincente, conquistatore, seduttore, ma anche solidamente inserito nei ruoli familiari, ottimista, misurato nello stile, ben
piazzato nei ruoli di potere» (Caligaris 1997, p. 85).
La pubblicità: quali immaginari?
La prima parte di “Quando il corpo va in scena: donne e uomini tra uniformità, identità e ruoli” tratta la tematica del corpo. Sappiamo che il corpo
oggi costituisce una dimensione importante in quanto si presenta non solo
come il principale dell’espressione del sé, ma anche «dei valori prevalenti in
37
Specchio
delle
mie brame
Da “Amica”,
luglio 2012.
Pubblicità profumo Dolce & Gabbana
Pour Femme.
Pubblicità cosmetici Dolce & Gabbana.
una determinata epoca storica, dal momento che (i corpi)
non si presentano mai “al naturale”, ma sono costruiti e ri-costruiti secondo l’ideologia dominante, (come)
per esempio secondo i canoni estetici diffusi dai media»
(Capecchi 2009, p. 38).
Per quanto riguarda il genere femminile, la rappresentazione prevalente resta quella della “donna oggetto”:
il tipico stereotipo di femminilità proposto dai media,
ossia “corpo”, “belle donne dal giovane aspetto chiamate a esibirsi nei momenti di spettacolo” (Azzalini, 2009).
L’aspetto esteriore risulta essere la caratteristica più
importante dell’essenza di una donna. Quest’enfasi viene comunemente espressa attraverso la glorificazione
di un determinato modello di bellezza: corpo snello, attraente e giovane (Ibid. 2007). L’esteriorità del corpo si
collega direttamente all’enfasi eccessiva posta dai media
sul ruolo sessuale delle donne, che vengono relegate a
mero oggetto del desiderio maschile (Lemish 2007).
Tale associazione è confermata anche dallo strettissimo legame tra la figura femminile e i prodotti di cosmesi: creme, depilazione, trattamenti dimagranti, antirughe, sono tutti prodotti a essa associati. Ciò indica
come forti e omogeneizzanti siano le prescrizioni sulla
cura e l’estetica del corpo femminile che deve essere,
come abbiamo detto, snello, giovane e “presentabile” in
ogni momento.
Inoltre, questi legami simbolici riflettono la persistente subordinazione delle donne rispetto al genere
maschile, e rimanda a uno dei più diffusi stereotipi di
genere: quello che definisce l’uomo voyeur e la donna
esibizionista. Questa relazione è stata definita male gaze
o sguardo maschile (una prospettiva onnipresente ma
invisibile, da poco identificata, tematizzata e messa in
questione) che ha per lungo tempo permeato la produ38
Specchio
delle
mie brame
Pubblicità profumo Dolce & Gabbana
Light Blue.
zione mediatica e televisiva in particolare (la prospettiva
maschile è la “normalità”; Goffman 1976). Il male gaze
si fonda su precisi stereotipi di genere che celano una
chiara gerarchia: l’uomo osserva, guarda, desidera e la
donna si fa guardare, è desiderata e accende il desiderio
maschile (Grossi, Ruspini 2007).
Anche la componente maschile ha iniziato negli ultimi anni a divenire oggetto di “sguardi” portando in
primo piano la dimensione corporea. Infatti accanto alla
tradizionale immagine dell’uomo virile e potente, nonché sessualmente attivo, si affianca, o meglio si innesta,
una nuova tipologia di maschilità: il metrosexsual 3, il
maschio particolarmente preoccupato dell’aspetto estetico e della cura del corpo (nonché della moda), narcisista,
dai consumi metropolitani e tendenzialmente eterosessuale (Boni 2004).
Questo modello cura il proprio corpo e il proprio
aspetto con una sorta di autodisciplina (Foucault 1999)
che fa riferimento a una stringente medicalizzazione della maschilità e una serie di forti prescrizioni (Inghilleri,
Ruspini, a cura di, 2011), dove l’aspetto della cura è rivolto verso il raggiungimento di performance adeguate.
È tuttavia necessario sottolineare che «i confini della
metrosessualità paiono al contempo sempre più elastici:
essa comprende uomini giovani e meno giovani, padri
e non, eterosessuali e non. Per quel che riguarda il binomio metrosessualità-paternità, facciamo riferimento
al già citato modello di David Beckham: quest’ultimo,
uno degli uomini più belli, affascinanti, curati e contesi
sia dal genere femminile che maschile, ma al contempo
uomo coniugato e padre di quattro figli.»
Pubblicità intimo Armani
Underwear.
3
Questo termine è stato coniato dal giornalista Mark Simpson nel
1994 e indica appunto l’uomo che valorizza e cura il proprio corpo esattamente come avviene per le donne. Egli individua il prototipo del metrosessuale nel calciatore inglese David Beckham,
che pur incarnando la maschilità tipica (è un calciatore quindi un
“uomo vero”), ama essere oggetto dello sguardo altrui, maschile o
femminile non importa.
39
Specchio
delle
mie brame
Pubblicità detersivo Cilit Bang.
Pubblicità bicarbonato Solvay.
In generale possiamo affermare che per gli uomini i
modelli di “manager”, “sportivo” e “seduttore” sono oggi
i più rappresentati. Ma, come abbiamo visto, stanno emergendo figure alternative: «quelli che “fanno concorrenza”
alla donna, per esempio per quel che riguarda l’abbigliamento, la cosmesi, la cura del corpo e nuove immagini
più “fluide” come per esempio figure asessuate e che richiamano l’idea di omosessualità» (Grossi, Ruspini 2007,
p. XXXIX). Inoltre il corpo maschile è oggi al centro dello sguardo dei media: oggi le maschilità sono oggetto e
non solo soggetto dello “sguardo” (Boni 2007). L’enfasi
sul corpo tonico degli uomini legittima così lo sguardo
femminile sull’uomo, il così detto female gaze.
Altra dimensione toccata dal nostro video è stata
quella dei ruoli di genere: «modelli che includono comportamenti, doveri, responsabilità e aspettative connessi
alla condizione femminile e maschile e oggetto di aspettative sociali: a essi uomini e donne sono chiamati a
conformarsi» (Ruspini 2001, p. 20). Agendo attraverso i
ruoli sociali vengono così sperimentati, appresi, espressi
e consolidati quei dogmi che indicano cosa sia il maschile e il femminile e quali i “giusti” comportamenti e
atteggiamenti da seguire.
Il legame tra la figura femminile e i lavori domestici
resta una costante: è lei che deve occuparsi della casa,
dell’economia domestica, della cura della famiglia. È a
lei che sono associati i prodotti alimentari, per la pulizia della casa mentre gli uomini al massimo si occupano
della manutenzione o di lavori extraordinari.
Inoltre le donne sono simbolicamente legate alla cura
intesa anche nella sua accezione medica: la gran parte
degli spot relativi a medicinali la vedono infatti come
protagonista e questo ha un duplice significato. Da un
lato viene riprodotto lo stereotipo che lega la figura femminile alla dimensione
della cura e, dall’altro, attraverso la sua reiterazione si rafforza lo stereotipo
stesso, rassicurando in questo modo il consumatore.
L’educazione alle identità e ai ruoli di genere, come ricordato in precedenza, inizia già dalla tenera età. Non solo attraverso spot che pubblicizzano giochi per bambine e per bambini i cui protagonisti sono rispettivamente femmine
40
Specchio
delle
mie brame
Pubblicità
sottilette Kraft.
Pubblicità
dentifricio
Mentadent.
e maschi (abituati quindi alla separazione di genere già nelle attività ludiche),
ma anche attraverso pubblicità che vedono come protagonisti i più piccoli impegnati in attività “da grandi”, come per esempio nello spot delle “Sottilette
Kraft”, dove una bambina lava i piatti dopo aver preparato il pranzo.
I bambini e le bambine vengono quindi “coltivati” da piccoli ad assumere quelli che socialmente sono considerate le identità e i ruoli adatti al proprio genere.
Possiamo quindi proporre in questo contesto la teoria della coltivazione elaborata
da George Gerbner (1986): l’uso massiccio del mezzo televisivo non ha effetti
immediati sul pensiero ma produce nel lungo termine un effetto di “coltivazione” e
provoca un cambiamento della percezione della realtà, facendo vivere lo spettatore
in un mondo modellato su ciò che viene trasmesso nella televisione.
Le rappresentazioni della componente maschile passano invece attraverso
il ruolo dell’esperto: è l’uomo che possiede la professionalità, che è detentore
del sapere, che dimostra la sua autorevolezza. Se c’è una pubblicità di detersivi, anche se è la donna a usarlo, è lui che spiega quali sono le componenti
e le proprietà. Altro caso emblematico è costituito dagli spot sui dentifrici:
indossando il camice bianco e un paio di occhiali l’uomo
diventa il “dottore”, colui che garantisce la qualità del
prodotto proprio a partire da suo ruolo di esperto.
In questo modo vengono reiterate le differenze di genere che nella realtà quotidiana causano e legittimano
discriminazioni e la subordinazione della figura femminile. Pensiamo per esempio al mondo del lavoro dove
notevoli e persistenti sono le differenze tra le possibilità
di carriera di uomini e donne e i rispettivi salari.
Infine altra tematica affrontata da “Quando il corpo
va in scena: donne e uomini tra uniformità, identità e
ruoli”, è quella relativa alle rappresentazioni dei modelli
famigliari.
Abbiamo precedentemente affermato, che sono molto profondi i mutamenti che stanno investendo le forme
famigliari e i rapporti tra i generi. Innanzitutto è evidente
il crescente fenomeno dell’instabilità coniugale. Biso41
Specchio
delle
mie brame
gna dire che in Italia essa è minore rispetto agli Stati Uniti e i paesi dell’Europa settentrionale, e ciò può essere associato a un modello di relazioni familiari
definito “dei legami forti”, tipico dei paesi dell’Europa meridionale, dove i
rapporti famigliari rivestono un’importanza simbolica e materiale molto intensa (Micheli 2005). Tuttavia separazione e divorzio sono fenomeni in costante
aumento anche nel nostro Paese, affermazione che trova corrispondenza nelle rilevazioni Istat (2012): dalle 81.359 separazioni del 2007 si è passati alle
88.191 del 2010, e dei 50.669 divorzi del 2007 si è passati ai 54.160 del 2010.
Inoltre l’età media ai matrimoni è salita di 6 anni per entrambi i coniugi
dalla metà degli anni Settanta a oggi (Rosina, Ruspini 2011), il 34% dei matrimoni è preceduto da un periodo di convivenza, si assiste a un abbassamento
del tasso di fertilità che viene mantenuto stabile solo grazie alle presenze degli
stranieri nel nostro Paese, che assicurano il 17% delle nascite. Infine l’allungamento della speranza di vita, insieme a una bassa probabilità di rimanere sani
nell’età avanzata, ha portato un ulteriore carico all’interno delle famiglie, che
a causa di un welfare carente diventano l’unico punto di riferimento per i suoi
membri (Ruspini 2011).
Altro fattore che concorre al cambiamento della famiglia italiana è quello
legato all’immigrazione: sono in crescita, anche se in misura minore rispetto
agli altri Paesi europei, i matrimoni misti e il numero di stranieri che chiedono
il ricongiungimento famigliare e che vanno quindi a creare nel nostro Paese
una famiglia a tutti gli effetti.
C’è da dire, poi, che le questioni del riconoscimento ufficiale, cioè attraverso matrimonio, di coppie omosessuali e dell’omogenitorialità, cioè la possibilità di avere o adottare dei figli da parte di una coppia composta da persone
dello stesso sesso, sono attuali ed emergenti, anche all’interno del dibattito
pubblico, dove tuttavia le posizioni sono molto diverse e per lo più contrarie
a questo tipo di forma famigliare che viene spesso definita come “innaturale”.
Non si può quindi più parlare, per il contesto italiano, di famiglia nucleare, eterosessuale e composta da persone di pelle bianca, ma diventa sempre
più necessario prendere coscienza dei mutamenti che stanno attraversando la
famiglia e che producono nuove forme: allargate, ricostituite, multiculturali,
monogenitoriali, omosessuali e omogenitoriali.
A partire da queste considerazioni quello che ci siamo chiesti è se le pubblicità rappresentassero questi mutamenti rispecchiando le molteplici forme
famigliari che caratterizzano la nostra epoca. La risposta sembra purtroppo
negativa. All’interno dei media infatti domina fortemente ancora la famiglia
tradizionale, caratterizzata da un legame affettivo eterosessuale tra uomo e
donna dove è costante la presenza di figli e figlie. Ciò concorre certamente a
legittimare un solo modello che è quello volto alla procreazione: la famiglia
42
Specchio
delle
mie brame
Pubblicità
“La macchina
dell’acqua”
Beghelli.
giusta è quella eterosessuale il cui ruolo (e valore) è quello riproduttivo.
I tipici esempi che possiamo fare sono
quelli relativi agli spot che pubblicizzano i
prodotti della “Mulino Bianco”, della “Barilla” (Dove c’è Barilla c’è casa), della “Beghelli”. Ciò che viene enfatizzato è il rapporto affettivo non solo tra i coniugi, che in
questo modo riafferma l’ideale dell’amore
romantico, ma anche tra diverse generazioni
(genitori-figli, nonni-nipoti), che simboleggia
l’importanza dell’identità e del sostegno reciproco (la famiglia è l’avere radici, è la propria storia). Questo in un contesto dove ancora forte è sì il modello
familista, ma è al contempo estremamente in crisi perché come abbiamo visto
sulla famiglia grava un compito che il nostro welfare non riesce a sostenere.
La famiglia tradizionale rappresentata è poi composta esclusivamente da
persone di pelle bianca escludendo dall’immaginario quella fetta di realtà che
invece è composta dalle famiglie di persone immigrate, che ricordiamo essere
cinque milioni, circa il 10% della popolazione italiana. Inoltre le rappresentazioni degli spot mettono in scena famiglie appartenenti alla classe media,
benestanti, nel senso che sono per lo più raffigurate in belle case e si possono
permettere acquisti anche superficiali. Certo è che le pubblicità devono accattivare e creare quell’ideale che è poi la molla che porta il consumatore ad acquistare la merce, tuttavia per far ciò essa concorre a creare un falso immaginario,
soprattutto in un momento storico di crisi economica come questo, dove le
famiglie in condizione di povertà crescono di giorno in giorno.
Pubblicità
lasagne Barilla.
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Specchio
delle
mie brame
Infine, sempre per rappresentare una famiglia ideale, i suoi membri sono
sempre giovani e belli, curati, rispondenti ai dogmi estetici dominanti: così
come le identità, le persone, anche le famiglie devono seguire i principi di
giovinezza e bellezza caratteristici della nostra società. Belli, giovani e quindi
sani come i prodotti ai quali vengono associati.
Conclusioni
A partire dai mutamenti che stanno investendo i generi, la relazione tra loro
e la sfera famigliare, abbiamo visto che esiste una profonda scollatura tra gli
immaginari proposti dai media attraverso le pubblicità e la realtà concreta, la
nostra quotidianità.
Il mondo dei media è ancora fortemente permeato da stereotipi: esso è al
contempo prodotto e produttore di modelli e immagini stereotipate.
È vero che essi sono lo specchio della società, ma è altrettanto vero che la
realtà sociale non si esaurisce in essi. Se ci fermassimo a guardare soltanto le
rappresentazioni che passano all’interno degli spot vedremmo una realtà limitata, ancorata a contesti che non ci sono più, ferma su identità e ruoli di genere
che sono ormai superati.
“Quando il corpo va in scena: donne e uomini tra uniformità, identità e ruoli” intende rivolgere lo sguardo su tutto questo. Si tratta di uno sguardo critico su
una realtà statica, omogenea, appiattita sulle solite rappresentazioni di genere,
di ruolo e di famiglia, che offre un immaginario uniforme, dove le donne sono
erotiche, casalinghe e madri, dove gli uomini sono virili, potenti, professionisti,
esperti, e dove la famiglia è una sola possibile, quella tradizionale.
Ciò che manca è tutta la varietà che caratterizza il nostro periodo storico
post o tardo moderno (Lyotard 1981; Giddens 1990; Bauman 1999), vale a
dire la frammentazione e la molteplicità dei vissuti, delle esperienze, dei modi
d’essere e di fare famiglia; il crescente e inarrestabile multiculturalismo; la
libertà di esprimere la propria identità e il proprio orientamento sessuale; l’invecchiamento della popolazione italiana.
Tutti elementi che vengono eclissati dai media, che costruiscono così un
immaginario “parziale e illusorio”, un mondo ideale (ma per chi?) separato
dalla realtà quotidiana. Ci sembra dunque oggi più che mai necessario continuare a riflettere sulla relazione che intercorre tra immaginario diffuso dai
media e realtà quotidiana. Ciò al fine di scardinare alcune “griglie” in cui si
muove la società e che portano al rischio, tutt’altro che lieve, di non farci riconoscere i cambiamenti in atto, perpetrando stereotipi “discriminanti” e “marginalizzanti” che come sappiamo, e non sembra difficile da capire, comportano
sostanziali ricadute sulla dimensione lavorativa, sociale, affettiva.
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Specchio
delle
mie brame
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Specchio
delle
mie brame
Lo sguardo e il corpo maschile: l’oscuro
soggetto del desiderio
Stefano Ciccone
Associazione Maschile Plurale
Anch’io ho qualche immagine, abbiamo fatto un po’ una scorpacciata di
immagini e l’idea è che rischiamo di esserne un po’ schiacciati.
Ripartirei dalle cose che ci siamo detti dall’inizio, cioè come fare una riflessione critica sull’immaginario prodotto dalla pubblicità, dai media, senza
cadere in una posizione moralistica che quindi sia facilmente marginalizzata
come lamentazione, come resistenza più o meno ipocrita a un cambiamento
in corso. Quindi su questo, secondo me, c’è da porre al centro la riflessione
sul corpo e sul desiderio, anche evitando probabilmente un rischio che ritorna
spesso in queste nostre riflessioni e cioè il rischio di individuare il corpo come
un dato problematico nella soggettività.
Che cosa intendo? Intendo dire che siccome, giustamente, facciamo una
riflessione critica su quanto il corpo sia esposto, strumentalizzato, consumato
ed enfatizzato, spesso siamo portati a dire che la soluzione è coprire questi
corpi, contestare l’eccessiva esposizione o contestare il fatto che le persone
vengano valutate per la loro bellezza anziché per la loro intelligenza o per la
loro competenza, quasi riproducendo noi un dualismo, questo sì un po’ moralistico, che chiede che le donne vengano valorizzate per le loro competenze
e non per il loro aspetto. Ciò rischia di portarci indietro perché il movimento
femminista – io credo – ha avuto in positivo anche questo aspetto, cioè quello
di affermare il corpo come luogo della soggettività, non come ingombro, non
come problema ma, al contrario, come una parte costitutiva della nostra identità che deve avere cittadinanza nel mondo, nella politica, nelle istituzioni.
Su questo ci tornerò subito dopo, però credo che dobbiamo evitare il rischio
che una resistenza al consumo dei corpi ci porti a mettere da parte il corpo.
L’altro elemento su cui, secondo me, dovremmo fare una riflessione è qual
è il richiamo che facciamo agli uomini rispetto a questo, cioè se il nostro richiamo è una richiesta agli uomini di rispetto verso le donne, (cioè in qualche
modo una richiesta agli uomini, politicamente corretta, di rispettare la dignità
delle donne) o, al contrario, di riconoscere che questo terreno, (cioè il terreno
della rappresentazione pubblica, sociale, dei corpi, del desiderio, della sessualità), è un terreno che riguarda donne e uomini, cioè che riguarda la libertà di
donne e uomini; quindi, riflettere su questo come uomini non vuol dire farsi
carico un po’ cavallerescamente della dignità delle donne ma, invece, di ri47
Specchio
delle
mie brame
conoscere che dietro quella rappresentazione
delle pubblicità che abbiamo visto c’è anche
una gabbia per la libertà del desiderio maschile e quindi anche una gabbia per la costruzione di una propria identità come uomini.
Quella pubblicità, insomma, non ci racconta solo come sono i corpi delle donne ma
ci racconta quali sono le aspettative che donne e uomini hanno e quali sono le aspettative
che noi abbiamo su uomini e donne, quindi in
realtà costruisce dei destini segnati, dei ruoli
segnati per tutti e due i sessi.
Il problema non è quanto sono scoperti i
corpi ma cosa ci dice quell’immagine dei corpi che vediamo e, quindi, quanto il corpo rimanda – da un lato – a una soggettività (cioè
quanto quel corpo femminile o quale corpo
maschile che vediamo è un soggetto autorevole, autonomo, determinato, che ha un suo
desiderio, uno sguardo sul mondo) e quanto,
appunto, dentro quel corpo c’è un nesso con
la libertà.
Ci tornerò poi molto velocemente nel tentativo di raccontarvi un po’ il nostro punto di
vista come Maschile Plurale.
Parto da immagini che non sono immagini
pubblicitarie ma sono immagini istituzionali
e da un tema che sembra non entrarci molto,
che è il tema della violenza contro le donne. È
un tema su cui noi, come Maschile Plurale, lavoriamo molto per le campagne di sensibilizzazione che spesso vengono fatte anche dalle
Commissioni Pari Opportunità, da associazioni anche di donne, da istituzioni… L’immaginario che abbiamo più o meno è questo: una
donna piegata in un angolo che si protegge,
schiacciata da un’ombra.
Cosa ci racconta questo tipo di immagine? Che le donne sono dei soggetti deboli
che hanno bisogno di tutela e di protezione,
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Specchio
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protezione che ovviamente può essere fatta dallo Stato,
o dal marito, dal suo uomo. Pensate che fino al 1975
nel nostro Paese vigeva ancora l’autorità maritale, cioè
l’idea che l’uomo, il capofamiglia dovesse proteggere e
mantenere la donna ma potesse esercitare anche l’uso
dei mezzi di correzione sui figli e sulla moglie. Quindi
questa idea di donne deboli, che hanno bisogno di essere protette, rimanda a una precisa immagine di dominio
e di controllo maschile, ma poi manda ovviamente immagini di controllo delle donne, le donne sono il nostro
territorio, non si toccano e noi le proteggiamo dall’invasione degli altri: gli altri sono gli immigrati, gli stranieri,
tutte le differenze, dai rom a quello che sia, ma possono
essere anche gli italiani.
Questa è una campagna svizzera: in questo caso c’è
Ivan, ce n’è un’altra con Antonio, perché c’è un razzismo verso l’italiano che dice “Antonio (o Ivan) oggi
violentatore e magari presto svizzero, cioè gli daremo
la cittadinanza”.
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Specchio
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Dietro questo aspetto c’è un immaginario da un lato di donna bisognosa di protezione ma anche di donna eterea, fragile. Questa è una campagna della Giornata
Mondiale contro la Violenza sulle Donne,
ce ne sono tante molto simili: “Una donna
non si tocca neanche con un fiore”. La donna è fragile, va rispettata e messa magari
sotto una campana di vetro, come dire, di
nuovo sotto controllo.
In un video fatto dal Centro Antiviolenza
di Siracusa, c’è Beppe Fiorello che gira per
una città e incontra sempre più donne con la
bocca coperta da una mano; il testo parla della violenza contro le donne e delle donne che
non denunciano la violenza. Queste donne
sono sempre di più, in fila, con Fiorello che le
segue, fino a portarle dentro una villa e dentro questa villa, finalmente, è lui che le libera,
abbassando la mano di una donna che tiene
la bocca coperta. L’idea è che c’è un uomo
salvatore di queste donne, le quali incapaci
di prendere parola da sole, anche se sono in
100 in una stanza, tutte con la bocca chiusa,
aspettano che un uomo le liberi. Questo immaginario quindi è dentro una comunicazione
istituzionale, è anche dentro una comunicazione esplicitamente a sostegno delle donne,
contro la violenza maschile. Non ce lo saremmo aspettati.
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Specchio
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Questo tema rimanda a un altro aspetto che è quello della virilità. Questa è una campagna che si fa nelle
scuole: “I veri uomini non picchiano le donne”.
Qual è il concetto? Il concetto è che il “valore” è essere un vero uomo e un vero uomo è quello che rispetta
le donne e che non le picchia; quindi, qui dentro, ci sono
due elementi che strutturano il nostro immaginario. Il
primo è che la virilità è un “valore”, è un dispositivo
che controlla il comportamento maschile a cui noi dobbiamo fare riferimento (cioè: per contrastare la violenza
che è frutto di un disordine nella nostra società dobbiamo tornare a un “valore”, che è quello tradizionale della
virilità).
L’altro immaginario è che gli uomini sono portatori
di un desiderio e di una sessualità naturalmente bulimica
e violatoria, ma che possono regolarla con il controllo
virile dei propri sentimenti.
Quale virilità? Quella di chi domina le proprie emozioni, le donne sono preda delle proprie emozioni, gli
uomini sono quelli che le controllano e le dominano.
L’idea della virilità torna: questa è una campagna romana, sempre fatta da un’associazione di donne, che dice
“Colpire non è virile”, quindi, di nuovo, se picchi una
donna non sei virile.
Fino a questa campagna estrema, che è stata fatta
dalla Commissione Pari Opportunità di Bolzano contro
il bullismo, che dice “l’uomo è quello con una grande
banana, il bullo è quello con un piccolo pisello (ovviamente stiamo vedendo una sottile metafora proposta dalla campagna).
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Specchio
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Se ci pensate, cosa dicono i bulli a un ragazzino che viene perseguitato?
Che ce l’ha piccolo, quindi in realtà stiamo facendo un’operazione di bullismo
contro i bulli. In realtà la comunicazione istituzionale non è solo la comunicazione programmata ma è tutto un immaginario in cui noi siamo immersi. I
bagni delle donne hanno l’immaginario che le donne abbiano anche uno spazio per prendersi cura dei bambini, anche con la nursery. Al contrario, sempre
per l’immaginario, nella pubblicità dell’ATM,
la compagnia della Metropolitana a Milano,
la donna è in primo piano con la carrozzina,
accanto a lei c’è un uomo, ma l’uomo è accanto, lei è con la carrozzina. Sempre a Milano,
altra comunicazione che dice “questo è il bike
sharing”, cioè prendi la bicicletta e usala, e
dice “Perché essere fedele a una sola bicicletta quando puoi prenderle e lasciarle come ti
pare?”. È un appello chiaro a un desiderio maschile, di avere appunto più donne che vuoi.
L’immagine a lato rimanda all’estremità
di questa idea di desiderio maschile, appunto “Diventare donatore è l’unica chance che
hai per entrare dentro di lei”. Qui tornerei un
po’ a questo aspetto, perché penso che questo
sia un aspetto su cui dobbiamo ragionare e ci
rimanderà poi all’aspetto conclusivo, almeno
della mia riflessione.
In questa rappresentazione di modelli c’è
sì un’esposizione del corpo della donna, ma
c’è anche un altro elemento ed è la rappresentazione di una asimmetria di desiderio: gli
uomini desiderano e hanno un desiderio bulimico continuo; le donne… il loro desiderio è
rimosso socialmente, non c’è una visibilità del
desiderio femminile. Questa asimmetria di desiderio è quella che porta a due aspetti: da un
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Specchio
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lato, il desiderio maschile naturalizzato, che va disciplinato; dall’altro, invece,
l’idea che ci sia una differenza tra donne e uomini per cui c’è uno scambio
ineguale tra donne e uomini, sesso contro denaro e potere, denaro e potere per
ottenere sesso; quindi, la dimensione del consumo e della pubblicità non è solo
un elemento che strumentalizza questa rappresentazione ma rimanda a questo
aspetto: per consumare corpi di donne devo scambiare sesso, denaro e potere e
il mio potere è condizione per disporre del corpo delle donne; al contrario la disponibilità di corpi delle donne è misura del mio potere. Pensiamo a personaggi
del vicino passato in cui questa rappresentazione di disporre di corpi di donne
era misura del proprio potere e del proprio successo maschile.
Penso che ci sia un’altra riflessione che dovremmo fare e cioè il desiderio
maschile che viene rappresentato in queste campagne: è un desiderio naturalizzato, cioè rappresentato come un dato naturale che può essere al massimo
regolato dalle buone maniere, dal comportamento corretto, dal rispetto. Credo
che, invece, dovremmo provare a riflettere su quanto il desiderio maschile sia
colonizzato, obbligatorio, cioè gli uomini sono obbligati a desiderare in un certo modo; se non desideri non sei un vero uomo e le forme del tuo desiderio
sono anche costruite dalla pubblicità, cioè la pubblicità non semplicemente fa
riferimento a un desiderio preesistente a cui si adegua per vendere dei prodotti
ma costruisce, struttura il mio modo di guardare, il modo di guardare le donne,
il mio modo di pensare il mio corpo e di desiderare. C’è anche un obbligo da
questo punto di vista.
L’altro elemento che secondo me dovremmo riprendere con attenzione è
quello della disponibilità femminile. La rimozione del desiderio femminile rimanda all’idea che le donne siano oblative, siano a disposizione del desiderio
o del bisogno maschile (vedi la donna materna che c’era nelle pubblicità degli
anni ’40 e ’50), cioè la donna che non sessualmente ma in modo materno
risponde ai miei bisogni, oppure la donna che è a disposizione del mio desiderio maschile come terreno di consumo. Ora, si può dire che di fronte a una
simile rappresentazione ci sia un nodo maschile su cui possiamo lavorare ed
è anche quello della frustrazione maschile, cioè quanto in questa rappresentazione ci sia la ricerca di donne che rispondano al nostro bisogno di consumo:
c’è anche una incapacità di fare i conti con la nostra dipendenza come uomini
e il nostro bisogno?
In realtà il consumo, l’idea di poter consumare qualcosa, mi permette di
trasformare nel mio immaginario quello che è un mio bisogno, e che quindi
sarebbe una mia debolezza (io ho bisogno di cure, di attenzioni, di affetto, di
relazioni) in consumo (vado al supermercato e compro degli oggetti che io
posso consumare). Questo è molto interessante, secondo me, perché rimanda a
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Specchio
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un immaginario maschile molto importante che è quello
della fuga dalla dipendenza delle relazioni.
Molte pubblicità maschili, pensate a quelle per le
auto, rimandano a questa idea: il sogno di libertà maschile è quello della solitudine, cioè di chi non dipende da
nessuna relazione, che va in macchina in un deserto e in
quella velocità misura la propria libertà.
Questo aspetto, cioè di fare i conti con il fatto che
siamo tutti inscindibilmente dipendenti da relazioni e
affetti e che invece in questo c’è un’ansia maschile di
emanciparsi dall’affetto e dalla relazione, è un dato su
cui in questo immaginario molto forte dovremmo lavorare perché dietro questo c’è l’idea che se non ti allontani
dalla gonna di tua madre non diventerai mai un uomo e
che se ti fidanzi con qualcuno ti avrà messo il cappio al
collo e non sarai più un uomo libero, quindi meglio avere
tante donne come James Bond ma non una che ti vincoli
nella tua libertà.
Questo è l’immaginario che viene rimandato. Il rischio qual è? Che noi parliamo di tutto questo e facciamo
un’operazione un po’ passatista, ci dicono guardate che
non è più così, nel video che ci veniva proposto ormai i
corpi maschili sono esposti, si vedono da tutte le parti,
sono corpi nudi.
Ecco, io penso che non sia così, penso che se guardiamo la presentazione dei corpi nudi che avete visto di
uomini e di donne c’è qualcosa di diverso.
L’esercizio è chiedersi che cosa stanno pensando o
dicendo quegli uomini e quelle donne che guardiamo.
Qui abbiamo due pubblicità, io le ho fotografate in una
stazione di Torino perché sono un po’ fissato col cellulare. Questa è una pubblicità della Yamamay, sicuramente
“lui” è bello come tanti ragazzi che avete visto nelle immagini, e poi c’è il suo contraltare femminile.
La differenza è evidente, questa ragazza è qui e guarda voi, cioè dice:
“Io ti sto aspettando, il mio scopo è quello di essere guardata da te, di aspettare il tuo sguardo”; mentre lui non sta aspettando nessuno, lui cavalca le
onde con il surf, cioè lui non dipende dallo sguardo femminile per essere
nel mondo. Non c’è un ballo delle debuttanti per gli uomini in cui tu esisti
perché qualcuno ti sceglie, tu – maschio – esisti “a prescindere”, mentre lei
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Specchio
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aspetta di essere guardata. David Beckham è
oggetto dello sguardo delle donne che possono ammirarlo ma non dipende dal loro
sguardo, lui è un campione del mondo, è uno
super tatuato, determinato, che guarda fisso
verso l’orizzonte, non sta lì per essere guardato, ma sta lì perché è sicuro del suo posto
nel mondo.
Questa è la nazionale di calcio. L’immagine anche qui qual è? Di uomini che stanno
qui perché sono in esposizione allo sguardo
femminile?
No, loro sono campioni del mondo (…erano campioni del mondo), stanno in uno spogliatoio, cioè nessuno di questi uomini vi sta
dicendo che dipende dal vostro sguardo.
Allora il nesso tra corpo e soggettività è
idem, qui è la stessa cosa, cioè quello che
queste pubblicità ci dicono è che i corpi maschili possono essere esposti ma rimandano
a dei corpi di uomini che sono soggetti pienamente, padroni del proprio destino, che
non aspettano uno sguardo ma anzi invece
sono a conquistare lo sguardo. Quindi da
questo punto di vista il nesso non è quanto
facciamo vedere – donne più o meno nude in
televisione o nella pubblicità – ma come rappresentiamo quelle donne come corpi nudi ma come corpi muti,
cioè corpi che non hanno desideri, non hanno parola,
non hanno progettualità, non hanno autonomia, non
hanno soggettività.
Questa è una pubblicità svizzera che invece gioca il
corpo maschile in modo diverso, cioè c’è un “gratta e
vinci” e lei gratta sul petto di lui le lettere per cercare
di vincere alla lotteria. Allora la lettura che si può dare
è: 1°, non essere scelte ma scegliere e, 2°, un corpo maschile che può essere bello ma è bello come macchina,
cioè come strumento che ha una prestazione, una sua
performance. Qui la cosa, secondo me, è abbastanza
interessante.
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Specchio
delle
mie brame
Questo è Iggy Pop e fa vedere un corpo maschile
differente. Lui in qualche modo dice non mi vergogno di
essere vestito da donna perché penso che non ci sia niente di vergognoso nell’essere donna, niente di ridicolo.
Ci sono due aspetti: da un lato credo che sia interessante ragionare su come appunto l’immaginario rimandi
a una femminilizzazione come perdita di autorevolezza e
come questo sia un freno al cambiamento maschile, cioè
tutte le rappresentazioni di cambiamento maschile vengono raccontate come femminilizzazione e quindi come
perdita di virilità: i mammi che si prendono cura dei figli, l’uomo sensuale, l’uomo che si cura e quindi perde
di femminilità. Ecco, io penso che qui ci sia un elemento
interessante perché dopo un po’ questa immagine ci fa
impressione ma non ci sembra ridicola, lui ha una forza
nel suo sguardo talmente potente e autonoma che appunto dice che ci può essere un uomo che rompe con quello stereotipo.
Questa sotto è l’immagine finale, questo è l’immaginario di una donna negli anni ’50 in Italia che, come vedete, non è vestita in modo particolarmente
appariscente né è scoperta ma che cosa c’è in questa immagine?
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Specchio
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mie brame
L’immagine di una donna che è nello spazio pubblico, per strada, da sola,
senza un uomo, e lo spazio pubblico è determinato dagli sguardi maschili, cioè
da una rete di sguardi che possono essere ironici, seduttivi, aggressivi e che
producono come uno spazio in cui lei è estranea, cioè lei non ha cittadinanza
nello spazio pubblico.
Allora io penso che dovremmo tornare a questo e dovremmo tornare a
riflettere su come quindi la nostra costruzione si basi su questo aspetto, cioè
da un lato le donne gravate dal loro corpo, che toglie cittadinanza alle donne,
le donne se sono in gravidanza sono meno affidabili lavorativamente, le donne oggetto di desiderio sono prima oggetto che soggetto e via di seguito, e
quindi noi in questo costruiamo un’idea che il corpo è una gabbia, il corpo è
un qualcosa che ti frena dalla tua costruzione di autonomia e al contrario gli
uomini hanno fatto un’operazione opposta, quella di rimuovere il corpo, cioè
di essere qualcuno che non dipende dal proprio corpo, che usa il corpo come
una macchina.
Perché dico questo? Perché io penso che su questo ci sia un rischio. Veniva
citata Judith Butler e tutta una riflessione su questo del femminismo degli ultimi anni. Il nostro rischio è quello di pensare a una prospettiva di libertà che
non sia una libertà del corpo ma una libertà dal corpo e non una libertà nelle
relazioni ma una libertà dalle relazioni.
Allora io come maschio conosco molto bene questo sogno, questa fantasia
di libertà, che è quella di liberarsi dal corpo e di considerare il corpo come la
lavagna su cui noi scriviamo la nostra identità ma non invece qualcosa che
costitutivamente è parte della nostra identità e quindi in questo credo che la
nostra riflessione critica sull’uso dei corpi non possa essere basata sull’idea di
allungare le gonne alle veline o di coprire i corpi che stanno sui manifesti ma
invece, al contrario, di fare due operazioni.
La prima è quella di riscoprire il corpo come luogo dell’identità e della
soggettività; la seconda, fare i conti con un elemento di cambiamento nella
nostra società che in queste ultime pubblicità emerge ma che noi non riconosciamo ed è il fatto che le donne non sono più un corpo ma hanno anche un
desiderio.
Allora per gli uomini misurarsi con il desiderio femminile, misurarsi con
la soggettività femminile, viene oggi raccontato come una minaccia, come un
pericolo. Io stamattina sono andato alle 6 a fare una trasmissione a Milano,
a Uno Mattina, in cui Tiberio Timperi conduceva la trasmissione il cui tema
era: “gli uomini non sono più uomini, le donne hanno preso il potere, le donne
sono aggressive, si stanno mangiando tutti i posti di potere, gli uomini sono
frustrati e depressi perché le donne sono anche sessualmente sempre più libere
e intraprendenti”.
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Specchio
delle
mie brame
Ecco, questa narrazione può essere ribaltata? Io penso di sì, cioè possiamo
ribaltarla dicendo che invece per gli uomini scoprire lo sguardo femminile,
scoprire il desiderio femminile e quindi anche uno sguardo sugli uomini, che
vuol dire che gli uomini tornano ad avere un corpo e le donne tornano ad avere
uno sguardo, cioè superare quell’asimmetria per cui noi avevamo il potere
e le donne avevano il corpo, io penso che su questo noi possiamo provare a
fare un discorso anche sulla rappresentazione dei corpi nella pubblicità, meno
schiacciato sull’alternativa tra moralismo e libertinismo o tra buone maniere e
volgarità e invece scoprire che, su questo, è possibile costruire una riflessione
che a partire dalla libertà femminile parli anche alla libertà degli uomini.
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Specchio
delle
mie brame
La fotografia della finzione
Cristina Sivieri Tagliabue
Giornalista e scrittrice
L’intervento di Stefano Ciccone, che mi ha preceduto, offre la possibilità di
sviluppare una riflessione in continuità.
Sono una giornalista che insieme a un gruppo di videomaker e di donne
creative ha avviato un’attività con caratteristiche particolari. L’8 marzo 2008,
data significativa perché ricorre la festa della donna, insieme a 5 videomaker,
registe, autrici, giornaliste, ho fondato una casa di produzione video1: ho dato
vita a un’impresa sociale no profit dedicata alla produzione video, cioè alla
produzione di format, (molte delle cose che vedete in televisione, i programmi
televisivi, le pubblicità, l’advertising, sono format) e di documentari, che è un
nuovo modo di fare giornalismo. Il documentario ha un linguaggio specifico
che potete incontrare al cinema per esempio guardando “Bowling for Columbine” di Michel Moore, o che ritrovate in tutte le grandi inchieste (anche il
programma di Milena Gabanelli “Report” usa in qualche modo un linguaggio
documentaristico). È infatti un linguaggio anche cinematografico, non soltanto
televisivo.
Ebbene, con questa casa di produzione che si chiama “Non chiederci la
parola”, (che è il titolo di una poesia di Eugenio Montale), abbiamo dato vita
a una provocazione: abbiamo provato a raccontare con la nostra voce e i nostri occhi di donne, attraverso il linguaggio del video, quello che noi desideravamo. In realtà è proprio vero, noi donne non sappiamo esattamente cosa
vogliamo. Per prima cosa perché non abbiamo mai avuto gli strumenti tecnici
per raccontarlo, poi perché non abbiamo mai avuto l’opportunità di narrare il
nostro mondo all’interno di mondi che non ci esponessero in prima persona.
Non abbiamo mai avuto cioè la possibilità di essere presenti nel backstage. Il
backstage è il luogo che sta dietro a quello che noi vediamo. È il lavoro dietro
le quinte, quello che il pubblico non vede, ma contribuisce alla costruzione del
suo immaginario per controllare sogni e desideri della società (negli anni ’60,
a questo proposito, si parlava di persuasori occulti). Oggi noi donne abbiamo
preso consapevolezza del fatto che era necessario entrare all’interno del mondo dei media per avere un ruolo nella costruzione dell’immaginario comune e
provare a far vedere quello che invece noi desideravamo.
1
Quest’anno ho 39 anni, le mie colleghe socie hanno tra i 25 e i 45 anni. Adesso siamo
diventate tante anche perché una azienda no profit è un’associazione che vive della collaborazione volontaria e ciascuna ci mette del suo nel dare il proprio contributo.
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Specchio
delle
mie brame
Prima di arrivare a fondare una casa di produzione, ho scritto lungamente
per “Il Sole 24 Ore”. Dopo 15 anni di giornalismo, all’interno del quale mi
sono misurata con tante inchieste nel mondo della cultura, ho pubblicato anche
dei saggi su questi temi. In questo percorso mi sono resa conto che la maggior
parte dei direttori, dei responsabili del mondo culturale italiano sono uomini.
Questo cosa significa? Che coloro che creano l’immaginario che noi guardiamo in televisione o al cinema o negli spot, sono di genere maschile e in genere
sono persone di un livello culturale non eccezionale. Hanno un’expertise di
creatività, quindi sanno come va girato uno spot, conoscono la pellicola, conoscono lo strumento del montaggio, conoscono il computer, ma non conoscono
cosa accade nel cervello. Eppure sono loro che decidono quali sono le pubblicità che andranno in onda, quali sono gli immaginari che stanno creando.
A loro volta hanno dei committenti, che sono i direttori delle reti televisive e,
guarda caso, in Italia sono tutti uomini. Lo stesso avviene per i responsabili
delle pubblicità delle aziende italiane, dei grandi investitori, come Telecom
Italia, Fastweb, Vodafone, (questo solo per parlare delle telecomunicazioni che
sono i primi investitori in ambito pubblicitario). A decidere sono gli uomini,
che poi utilizzano le donne per le loro pubblicità.
Per illustrare questa verità, vi racconto un aneddoto, che ha valore di
storia esemplare, relativo alla campagna pubblicitaria di Telecom con Belen
Rodriguez come testimonial: mi riferisco a quella campagna dove lei cammina esibendo il fondoschiena nella piscina. Ovviamente non è che in Telecom Italia2 non esistano donne. Ci sono anche delle dirigenti donne pienamente consapevoli del fatto che il messaggio che viene dato dalla pubblicità
della Telecom sia assolutamente sbagliato, anche proprio nei confronti delle
clienti donne che devono comprare dei telefoni. Non più tardi di due anni
fa si sono riunite in assemblea. Le 25 donne dirigenti (in Telecom Italia ci
sono circa 300 uomini dirigenti e soltanto venticinque donne, ma questo è un
altro discorso), con tutte le donne “quadri”, si sono messe insieme e hanno
chiesto all’amministratore delegato il perché di questa pubblicità, che ovviamente consideravano offensiva. Dal momento che è l’immaginario creato
dall’azienda nella quale vivono, che frequentano tutti i giorni e dalle quali si
dovrebbero sentire rappresentate, hanno fatto un po’ la voce grossa. Allora
l’amministratore delegato ha convocato Belen Rodriguez con tutti i dirigenti,
cercando in qualche modo di creare un’atmosfera gioviale. C’è stata questa
assemblea all’interno della quale Belen Rodriguez si è presentata in camicia
2
Telecom Italia è un’azienda che occupava 100 mila persone, e che adesso comunque occupa ancora circa 40 mila persone.
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Specchio
delle
mie brame
bianca, jeans, la scarpa bassa, cercando di fare amicizia con le donne. I dirigenti della Telecom alla fine hanno detto: ma vedete come è alla mano, come
è fresca, come è carina questa ragazza? Non è un problema della ragazza,
anzi noi crediamo che sia proprio il volto giusto, eccetera. Le donne presenti
obiettarono che era chiaro che non era un problema della ragazza, o non
solo della ragazza o del fatto che fosse associata a un immaginario simile a
quello di Corona, eccetera, ma che il problema era di come veniva presentata
la ragazza: che fosse vestita in un certo modo, che guardasse in un certo
modo, che fosse ammiccante in un certo modo. A quel punto il direttore
della pubblicità ovviamente ha portato le slides con i risultati delle ricerche
che dimostravano come una donna ammiccante, una donna sensuale, cattura
molto di più l’attenzione.
Ovviamente si sostiene che se c’è una donna ammiccante all’interno della
pubblicità il prodotto si vende di più. La pubblicità ha pochi secondi per cogliere l’attenzione della persona e quindi in un attimo parla ai nostri desideri
più bassi, alle nostre aspettative immediate, non parla quasi al nostro cervello,
parla al nostro istinto. E l’idea diffusa è che parla a coloro che dovrebbero
essere i clienti-tipo e che sono i detentori del portafoglio, che tipicamente una
volta erano uomini.
Paradossalmente rispetto agli anni 50 non è cambiato assolutamente nulla
nel mondo della pubblicità, mentre è cambiato tutto nel nostro mondo. Sappiamo che oggi il 60% dei clienti sono donne o comunque sono loro che decidono il portafoglio della spesa della famiglia. Comunque quest’assemblea di
Telecom Italia si chiuse con le donne sempre più rammaricate, un po’ distrutte
da questi numeri e che si ponevano la questione che allora non è possibile
fare niente. Per rimediare al problema le donne hanno poi ha cercato di fare
un’opera di sensibilizzazione attraverso diverse associazioni al femminile che
in Italia operano in questo senso.
Questo per darvi comunque un’idea di quanto sia difficile cambiare le cose
anche dall’interno delle aziende, che in realtà sono molto meglio di quanto
pensiamo, perché le aziende di per sé sono fatte di persone, che spesso sono
molto meglio di quelli che sono i loro spot. Soprattutto all’interno di un’azienda il cammino della consapevolizzazione del mondo dell’advertising e della
pubblicità è quanto mai complesso, perché è un mondo legato a dei grossi
budget, è un mondo legato al potere.
Quindi sono dei mondi molto difficili da disinnescare. Anche adesso che
è diventata Presidente della Rai una donna, la dottoressa Tarantola, che ci ha
coinvolto subito come casa di produzione al femminile per cercare di immaginare dei format un pochino più tesi alla narrazione al femminile, vi assicuro
che dai direttori di rete ai vice direttori, ai capi di struttura, eccetera, il cammi61
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delle
mie brame
no è lunghissimo perché comunque anche cambiando una posizione apicale in
realtà poi c’è tutto un sistema che resiste.
Qualche anno fa scrissi un libro che si intitolava “Appena ho 18 anni mi
rifaccio”. In questo caso prendevo di mira i chirurghi plastici e quindi il mondo
dei desideri indotti dalla chirurgia plastica e della bellezza. Dopo questo libro,
ho fatto un documentario che verrà mandato in onda da Rai. Per questo progetto mi incontrai con Conchita Di Gregorio, che era allora direttore dell’Unità, e
pensammo di creare una serie di racconti per spiegare cosa è il mondo pubblicitario odierno, cercando non di giudicare, ma di offrire strumenti alle persone
che guardavano questi video, strumenti di interpretazione. In realtà fare pubblicità non è così difficile, ma ci sono alcune cose che vanno notate, che vanno sottolineate. Prima tra tutte, nelle pubblicità bisogna sempre, secondo me,
andare a cercare la responsabilità. Su una pubblicità non c’è la firma come per
un articolo o un format televisivo. Dunque di chi è la responsabilità di ciò che
viene raccontato? La prima cosa che noi abbiamo insegnato attraverso questo
format, che abbiamo chiamato “La réclame”, è stata quella di andare a cercare
chi è il responsabile della pubblicità, chi l’ha firmata, perché comunque anche
questo è un elemento importante per la valutazione del messaggio che andremo ad assorbire. Non dobbiamo fermarci all’azienda che presente il prodotto,
ma risalire al creativo, al direttore creativo che lavora dentro l’agenzia e che ha
preso la decisione. Spesso e volentieri i creativi che lavorano dentro l’agenzia
di pubblicità vogliono raccontare quello che preme a loro, non tanto il prodotto. Usano il prodotto pubblicitario come una scusa per dare sfogo alle loro
velleità. Allora, abbiamo cercato, attraverso questo format, di raccontare non
soltanto chi sono i clienti ma anche chi sono i direttori creativi. Poi abbiamo
cercato di destrutturare il linguaggio, cioè di separare le immagini. Il nostro
tentativo è stato divulgato su internet, un po’ come una forma di guerrilla marketing, cioè messo in rete da donne che usano molto internet. Noi abbiamo
proprio voluto cominciare così e tante donne lo hanno ritwittato, lo hanno
postato nelle loro pagine Facebook: è cominciata una sorta di passaparola che
ha fatto sì che ogni giorno ci arrivassero delle segnalazioni di spot. Ovunque
delle donne hanno cominciato a fotografare con il cellulare cartelloni strani.
Insomma, è stata una bellissima esperienza, un viaggio nel mio mondo, che è
il mondo del video.
(testo non rivisto dall’autrice)
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Specchio
delle
mie brame
Città libere dalla pubblicità offensiva
Una proposta
CONSIGLIO delle DONNE
commissione “Politiche per la salute”
Per contrastare la diffusione della pubblicità discriminatoria e lesiva della
dignità soprattutto delle donne, proponiamo al Comune di Bergamo di aderire, attraverso una delibera della Giunta, all’iniziativa promossa dall’Unione
Donne in Italia (U.D.I.), a sostegno della campagna “Città libere dalla pubblicità offensiva” per la moratoria delle pubblicità lesive della dignità della
donna.
Vorremmo che la Giunta approvasse le regole per la valutazione dei messaggi da affiggere sugli spazi in carico all’Amministrazione comunale. Gli stessi
indirizzi dovrebbero essere seguiti anche dalle società ed enti partecipati dal
Comune. In questo modo la città di Bergamo darebbe un forte segnale affinché
i cartelloni pubblicitari, a partire da quelli sugli spazi comunali, siano ispirati
sempre ai criteri di rispetto delle Pari Opportunità tra donne e uomini e di corretta rappresentazione dell’identità di genere, lontano da stereotipi avvilenti per
la dignità delle persone.
Potrebbe essere garantita una maggior effettività all’azione del Comune
anche con l’individuazione di alcune tipologie di messaggi ritenuti incompatibili con l’immagine che si vuole promuovere; ad esempio:
– le immagini che rappresentano o incitano atti di violenza fisica o morale;
– i messaggi discriminatori e/o degradanti che, anche attraverso l’uso di stereotipi, tendono a collocare le donne in ruoli sociali di subalternità e disparità;
– la mercificazione del corpo, attraverso rappresentazioni o riproduzioni della donna quale oggetto di possesso o sopraffazione sessuale;
– i pregiudizi culturali e gli stereotipi sociali fondati su discriminazione di
genere, appartenenza etnica, orientamento sessuale, abilità fisica e psichica, credo religioso.
Si tratterebbe di un provvedimento molto importante per promuovere il
principio di parità a tutti i livelli e un’assunzione di responsabilità per quanto
riguarda la diffusione di immagini femminili. La mercificazione dei corpi, soprattutto – ma non solo – di quello delle donne, è un sintomo di imbarbarimento e non di libertà: non è “il corpo” – luogo fondante della nostra identità – a
costituire un problema, ma la sua rappresentazione strumentale. Perciò l’adesione alla campagna non vuole essere una censura moralistica, ma un impegno
per la dignità e inviolabilità della persona e un’occasione per riflettere. Oggi
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Specchio
delle
mie brame
più che mai, il tema della violenza alle donne non può essere affrontato senza
intervenire anche sull’utilizzo dell’immagine femminile nella pubblicità.
Questo provvedimento si inserirebbe nel percorso dettato dall’Unione europea con la risoluzione n. 2038 del 3 settembre 2008, con l’obiettivo di valorizzare una comunicazione che si impegni a veicolare messaggi commerciali
positivi. La sperimentazione di queste regole, che sono il frutto di un percorso
che ha coinvolto molti soggetti impegnati su questi temi (a partire dall’Istituto
di Autodisciplina Pubblicitaria), può rappresentare un primo passo.
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Il Consiglio delle Donne
Il Consiglio delle Donne, organo istituzionale del Comune di Bergamo, venne
istituito il 1° aprile del 1996 usufruendo delle indicazioni contenute nell’art. 70
dello Statuto Comunale.
Questo organismo di partecipazione ha lo scopo di:
• dare voce alla presenza, alla soggettività, alla competenza, all’autorevolezza
delle donne;
• far emergere, proporre, confrontare valori e riferimenti che stanno alla base
di una convivenza democratica, partecipata, nonviolenta e che determinano
la qualità della vita delle persone;
• presentare proposte in merito ai problemi della città;
• essere punto di riferimento per le associazioni e i gruppi femminili;
• far conoscere il punto di vista delle donne;
• costruire una città solidale da vivere e condividere.
Il Consiglio delle Donne ha funzioni di:
• studio, ricerca, documentazione e proposta sulle problematiche riguardanti
la vita della città;
• proposta nei confronti della Giunta e del Consiglio Comunale;
• consultazione esprimendo pareri su tematiche riguardanti l’organizzazione
sociale e politica della città;
• supporto, incentivazione, consulenza, messa in rete coordinamento di gruppi
e associazioni di donne;
• progettazione e realizzazione di percorsi di riflessione, confronto e azione
in collaborazione con l’Amministrazione comunale e agenzie del territorio.
Il Consiglio è costituito dalle donne elette nel Consiglio comunale, dalle rappresentanti delle consigliere circoscrizionali e dalle referenti di gruppi e associazioni
della città.
Il Consiglio delle Donne svolge i suoi compiti attraverso l’assemblea, l’esecutivo
e le commissioni.
Le commissioni, che costituiscono i laboratori dove vengono ideate, progettate,
organizzate le diverse iniziative, stanno sostanzialmente affrontando le seguenti
tematiche:
• le politiche educative e familiari, con particolare attenzione ai minori;
• le politiche culturali, tese alla valorizzazione dei saperi delle donne attraverso
le parole e le pratiche delle stesse;
• le politiche per una città accogliente e accessibile, per vivere Bergamo come
luogo di incontro, di benessere e di sicurezza;
• le politiche per la salute, per star bene con se stesse, con gli altri e le altre;
• le politiche per l’ambiente, per ritrovare armonia con la natura con particolare attenzione ai parchi;
• le politiche per il territorio, per una visione al femminile circa la ricaduta delle
scelte urbanistiche sulle dinamiche sociali.
Segreteria organizzativa:
Comune di Bergamo - Consiglio delle Donne
Palazzo Frizzoni, P.zza Matteotti - Bergamo
tel. 035.399897; fax 035.399898 (in continuo)
email: [email protected]
orario: (da lunedì a giovedì: 9.30-12.00 e 14.30-17.00;
venerdì solo mattino).
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