Lo stress come esempio della sintesi mente/corpo

Lo stress come esempio della sintesi mente/corpo
dal volume Misurare lo stress
di S. Di Nuovo, L. Rispoli, E. Genta
ed. F. Angeli, Milano 2000
Lo studio scientifico dello stress ha storicamente inizio nel 1925 con il fisiologo di origine austriaca, Hans
Selye, quando egli era ancora studente di medicina presso l’Università di Praga. Nell’ascoltare le lezioni di
clinica medica tenute dall’illustre professore Von Jaksch, Selye osservò che il docente, prospettando il quadro
clinico dei malati, tralasciava sintomi aspecifici presenti nella maggioranza delle malattie quali febbre, malessere
generale, disturbi della cenestesi, perdita dell’appetito, dolori muscolari ed articolari, astenia, diminuzione della
libido, perdita dell’interesse e della concentrazione. Tali sintomi, presenti nella fase iniziale di quasi tutte le
malattie, erano ritenuti, sino ad allora, troppo generici ed aspecifici per essere presi in considerazione. Nel
soffermarsi proprio su questi sintomi, invece, Selye aveva focalizzato, in realtà, la sua attenzione su quella che
definirà meglio in seguito come “sindrome di malattia primitiva”.
Dieci anni più tardi Selye svolgeva attività di ricerca presso l’Università Mc Gill di Montreal e lavorava
ad un progetto di ricerca sugli ormoni sessuali. A tal fine iniettava estratti di ovaie e di placenta nei ratti, notando
in essi sempre la stessa reazione biologica: ingrossamento della corteccia delle capsule surrenali, riduzione di
volume del timo, della milza e dei linfonodi, ulcere gastriche e duodenali. Chiedendosi insistentemente perché
avesse ottenuto sempre la stessa risposta biologica all’inoculazione dei più svariati estratti d’organo, il suo
sguardo cadde su un flacone di formalina; di qui l’idea di iniettare nei ratti una sostanza chimica al posto di
estratti d’organo. Ancora una volta si verificarono, ma in maniera più marcata con la formalina, l’ingrossamento
della corteccia delle capsule surrenali, la riduzione di volume del timo, della milza, dei linfonodi, e la
formazione di ulcere allo stomaco ed al duodeno. Selye attribuì giustamente queste alterazioni ad un’attivazione
aspecifica dell’asse ipofisario-surrenalico, ma non fu immediatamente chiara alla sua mente l’importanza di
quest’ultima osservazione scientifica.
Solo qualche tempo dopo cominciò a nascere in lui dapprima l’idea, poi la convinzione, che vi fosse un
nesso logico fra le due osservazioni, quella di Praga e quella di Montreal, perché entrambe erano l’espressione di
una reazione organismica “globale ed aspecifica”. Infatti “la globalità e l’aspecificità” delle reazioni erano il
fattore comune sia della sindrome di malattia primitiva osservata nell’uomo, sia delle reazioni anatomiche
evocate in animali di laboratorio dalla inoculazione di estratti d’organo. Selye si chiese se le due risposte non
fossero l’espressione di un’unica reazione polisistemica.
Si veniva così delineando olisticamente una sindrome: un insieme di sintomi che ammette un’eziologia
multipla ed una patogenesi unica. Su quella linea Selye sviluppò l’idea che in ogni malattia ai sintomi iniziali,
generali ed aspecifici, di natura neurovegetativa (osservazione di Praga), faccia seguito una reazione ormonale
dell’asse ipofisario-surrenalico con conseguente risposta della corteccia surrenale, dei linfonodi, e delle mucose
gastrica e duodenale (osservazione di Montreal). Questa associazione tra le due osservazioni, così distanziate tra
loro nel tempo e nello spazio, segnò la nascita della “Sindrome Generale di Adattamento” (SGA).
Proseguendo nelle sue ricerche, Selye giunse alla conclusione che la sindrome generale ed aspecifica di
malattia era provocata dalle più svariate cause. Anche il lavoro pesante, la fatica, l’eccesso di caldo o di freddo, i
traumi, le emorragie, gli stessi interventi chirurgici e persino alcuni farmaci potevano indurre sempre la stessa
reazione corporea: aumento delle capsule surrenaliche, diminuzione del volume del timo e dei linfonodi,
ulcerazioni gastro-duodenali, oltre che, ovviamente, sintomi specifici di malattia.
Nel 1936 la rivista “Nature” pubblicò il primo articolo di Selye sulla sindrome aspecifica di malattia
primitiva, sottolineando un concetto fondamentale: agenti stressanti diversi provocano sempre la stessa reazione
biologica (SGA); dunque lo stress è la reazione aspecifica dell’organismo intero a qualsiasi agente stressante
(stressor).
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La reazione aspecifica agli stressors è costituita dalla SGA e dalle reazioni di attacco e di fuga, mediante
le quali il corpo, inteso in senso globale ed integrato, risponde in maniera unitaria con una reazione generale
ampia, e pertanto aspecifica. Essa è volta a superare o neutralizzare lo stressor, coinvolgendo in una reazione a
catena tutti i “sistemi della vita”: il sistema neurovegetativo, il sistema endocrino, il sistema immunitario ed i
sistemi metabolici. Dal punto di vista fisiologico, la SGA si presenta come una reazione di adattamento degli
automatismi biologici dell’ambiente interno alla continua variabilità, talvolta stressante, dell’ambiente esterno,
con la mediazione della reazione emozionale.
La SGA comprende tre fasi: la reazione di allarme, la fase di resistenza e la fase di esaurimento.
A sua volta la reazione di allarme comprende ancora tre fasi, che rilevano il modo tipico di funzionare del
sistema nervoso vegetativo. Al primo impatto con lo stressor si ha una mobilitazione generale di tutte le forze
difensive mediante l’attivazione del sistema nervoso autonomo, che è il sistema di primo intervento e di
emergenza. Selye chiamò “reazione di allarme” questa mobilitazione generale, con comparsa di sintomi specifici
ed aspecifici. Le tre fasi della reazione di allarme sono: la fase preliminare, la fase acuta di allarme e la fase di
ripresa.
Nella fase preliminare o di shock avviene un calo delle funzioni vitali. In questa fase, l’organismo subisce
passivamente, sia per limitare gli effetti nocivi dello stressor, assorbendolo senza opporre resistenza, sia per
organizzare le difese e far fronte allo stato di allarme. Segue la fase di contro-shock in cui prevale il sistema
simpatico con elevazione rapida ed energetica delle funzioni omeostatiche basali. E’ questa la “fase acuta di
allarme”, in cui l’organismo organizza aspecificamente tutte le sue difese. In questa fase il sistema simpatico,
oltre ad agire sul metabolismo e sulla circolazione sanguigna, attiva la costellazione endocrina simpatica, con la
secrezione e l’immissione in circolo di adrenalina e noradrenalina, e mette in funzione l’asse ipotalamo-ipofisicorticosurrene, con l’aumento del glucosio quale energia di pronto impiego.
A questo punto la mobilitazione delle difese è generale: il cuore batte più in fretta, aumenta l’afflusso
sanguigno ai muscoli che possono scattare con più rapidità, il sangue diviene più coagulabile per premunire
contro eventuali emorragie da ferite. Appare evidente come proprio quest’ultima difesa possa trasformarsi anche
in un infarto se le coronarie sono a rischio. Contemporaneamente, le funzioni corporee non strettamente
necessarie alla difesa (digestione, sessualità, sintesi proteica, ecc.) vengono messe in una sorta di ‘limbo’
funzionale.
In genere le difese allertate in questa fase sono sufficienti a neutralizzare o allontanare la causa nociva:
alla fase acuta di allarme segue allora la “fase di ripresa” con intervento del parasimpatico quale sistema di
rigenerazione energetica e di restaurazione della normalità man mano che l’eccitazione del simpatico decresce.
Esaurita la reazione di allarme, se in tempi relativamente brevi la causa nociva non è stata completamente
neutralizzata dai sistemi difensivi di pronto intervento, si attiva la “fase di resistenza o adattamento” nella quale
l’organismo organizza più stabilmente le sue difese. In questa fase il sistema difensivo neurovegetativo lascia il
campo libero all’asse ipofisario-surrenalico con modalità difensive a più lungo termine, per cui la
metabolizzazione della causa nociva viene ad essere diluita nel tempo in maniera più adeguata. Durante questa
fase l’organismo struttura un migliore adattamento all’agente stressante, elevando le funzioni omeostatiche
basali con un notevole dispendio di energie; la capacità di resistenza sale così al di sopra dei valori normali,
persistono sia i sintomi specifici che quelli aspecifici, mentre scompaiono i sintomi di shock e contro-shock della
precedente reazione di allarme.
Se anche la fase di resistenza non è in grado di metabolizzare l’agente stressante, i meccanismi
omeostatici, logorati dall’accumulo dei vari stressors, vanno incontro a esaurimento; l’organismo viene
sopraffatto per il crollo delle difese, diviene incapace di resistere ulteriormente alle cause di malattia. La fase di
esaurimento è l’esito di un sovraccarico funzionale per i sistemi generali difensivi, sovraccarico che si protrae
per troppo tempo a livelli che superano il punto critico di rottura. Nella fase di esaurimento ricompaiono,
aggravati, i segni della reazione di allarme, che possono raggiungere i livelli di shock irreversibile.
Nelle sue prime pubblicazioni Selye parlava di “sostanze nocive” capaci di indurre una reazione di
allarme, ma nel corso delle sue ricerche scoprì che non erano solo queste ad attivare la SGA, ma anche
stimolazioni fisiologiche, psichiche, meteorologiche ed emozionali (Selye, 1946).
Nella sua elaborazione finale, lo stress viene visto da Selye (1976) come una reazione adattiva e
fisiologica aspecifica a qualunque pressione esercitata sull’organismo da una gamma assai ampia di stimoli
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eterogenei, ed espressa essenzialmente da variazioni di tipo endocrino (attivazione della corteccia e della
midollare del surrene).
In base a questa definizione lo stress non è da considerare necessariamente una condizione patologica
dell’organismo, anche se può produrre patologie in determinate circostanze; esso infatti è prodotto da situazioni
di stimolo assolutamente fisiologiche (come un’attività sportiva o un rapporto sessuale) oltre che da stressor
potenzialmente dannosi per l’organismo (esposizione a freddo o caldo intensi, introduzione di allergeni).
Partendo dalla concezione dello stress di Selye, le ricerche successive sono state tese a spiegare i
meccanismi attraverso i quali gli stressor più svariati possono indurre una reazione di potenziale significato
patologico. Già Selye aveva postulato l’esistenza di un ipotetico mediatore, biochimico o nervoso, da lui
chiamato First Mediator, che fungesse da tramite tra gli stimoli e le strutture endocrine deputate alla produzione
della reazione di stress.
Tale ipotesi è stata successivamente ripresa e riformulata da Mason (1975), il quale postula che la reazione
di stress sia in realtà mediata costantemente da un eccitamento del livello emozionale. Il suo punto di partenza è
stato l’aver rilevato attraverso un’ampia documentazione che la reattività del sistema ipotalamo-ipofisicorticosurrene è stimolata dai più vari eventi psicosociali che, per loro natura, inducono comunque
nell’individuo una reazione emozionale. Il first mediator, la cui esistenza è stata postulata da Selye ma mai
dimostrata, sarebbe secondo Mason rappresentato dalle strutture anatomo-funzionali responsabili
dell’attivazione emozionale a livello fisiologico e dall’apparato psicologico coinvolto nella risposta emozionale.
L’importanza delle emozioni ha condotto alcuni autori a proporre il concetto di stress psicologico.
Secondo Lazarus (1966), “le circostanze stressanti vengono filtrate dal sistema cognitivo del soggetto”. Se, a
diversi livelli di consapevolezza, uno stimolo non è valutato come rilevante per l’individuo può non verificarsi
attivazione emozionale e reazione di stress.
Come rileva Pancheri (1979), i contributi di diversi autori di impostazione psicologica hanno permesso di
porre l’accento non solo sugli aspetti fisiologici dello stress, ma anche sugli altri aspetti comportamentali e
cognitivi ad esso associati.
L’alta variabilità delle risposte neurovegetative e neuroendocrine a stimoli standardizzati suggeriva
l’ipotesi che accanto o prima della attivazione emozionale si dovesse pensare ad un’elaborazione di tipo
cognitivo degli eventi stressanti. Si andava, così, profilando il concetto di uno schema multidimensionale
caratteristico di ciascun individuo, nel quale la componente di tipo cognitivo è naturalmente tanto più complessa
ed articolata man mano che si sale nella scala evolutiva filogenetica.
Pancheri (1984), nel sistematizzare questa concezione dello stress, elabora una rappresentazione sintetica
e significativa del processo generale dell’attivazione dello stress. Si è visto come l’organismo biologico
modifichi transitoriamente il suo stato funzionale per meglio adattarsi a cambiamenti del mondo esterno che
siano rapportabili alla conservazione della vita individuale o alla sopravvivenza della specie. Tali modificazioni
sono rappresentate da schemi integrati di reazione caratterizzati da una complessità crescente nella scala di
sviluppo filogenetico, a mano a mano che aumentano le capacità di apprendimento e di simbolizzazione, e
parallelamente all’aumento delle loro possibilità di attivazione da parte di una più ampia categoria di stimoli
psicosociali (comunque connessi ad un’attivazione di tipo emozionale ed affettivo).
Questa maggiore complessità fa crescere le capacità di adattamento e di difesa dell’essere umano ma allo
stesso tempo rappresenta anche una potente fonte di disturbo per il normale svolgersi della reazione
psicofisiologica agli stimoli stressanti (Pancheri, 1979).
Una notevole massa di dati sperimentali e clinici ci porta oggi a ritenere, infatti, che la genesi di numerose
patologie è basata su di una condizione di stress cronico, di alterazione che si può instaurare più o meno
stabilmente in quel complesso sistema con cui l’individuo interagisce con l’ambiente. E’ opportuno, dunque,
approfondire la differenza tra condizioni che possono essere definite di stress acuto o momentaneo e condizioni
di stress cosiddetto cronico, nelle quali le reazioni di stress finiscono per perdurare al di là degli stimoli.
Ad un approfondimento di questo tipo hanno contribuito gli studi che hanno sottolineato le differenze
nella misurazione delle caratteristiche cosiddette di “stato momentaneo” dalle caratteristiche cosiddette di
“tratto” (o “stato permanente”) connesse, appunto, con un processo di stabilizzazione instauratosi nell’individuo
(Spielberger, 1989).
Nella letteratura esistente, per stress acuto, detto anche stress costruttivo, adattivo o eustress (nel greco
antico il prefisso eu significava “bene”, “buono”), si intende la complessa reazione dell’intero organismo a
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stimoli ambientali che lo mettono nella necessità di intervenire e agire con prontezza, concentrazione, efficacia,
in tempi relativamente brevi. Possiamo dunque definire lo stress acuto come la condizione nella quale
l’attivazione biologico-comportamentale, indotta dallo stimolo stressante, si instaura rapidamente e si esaurisce
in breve tempo, con ritorno alla condizione di baseline (Pancheri, 1987). Ciò anche quando bisogna affrontare e
superare difficoltà e problemi emergenti che producono uno stato di preoccupazione e di allarme: dal sostenere
un esame all’affrontare un pericolo, dal dover fuggire o difendersi in caso di attacco a uno sforzo per
immaginare la risoluzione di un problema urgente, dall’adattarsi a nuove condizioni di vita all’affrontare
situazioni di lutto e di perdita.
Selye pose la sua attenzione su questa reazione e sull’attivazione dei sistemi endocrini e neurovegetativi
che vi erano implicati. Questi e altri studi di psicofisiologia hanno suggerito che la reazione di stress acuto
(come abbiamo già visto) coinvolge vari piani e funzioni dell’organismo che si attivano per affrontare l’evento:
la valutazione e la comprensione reale del pericolo, i sistemi progettuali per ideare e mettere in atto soluzioni, i
sistemi motori per essere pronti ad azioni di tipo rapido e intenso.
E’ evidente che l’attivazione dei sistemi fisiologici, biologici e psicologici è comunque caratterizzata da
emozioni. E’ presumibile pensare, però, che lo stato di stress acuto corrisponda non a una qualsiasi attivazione
emotiva ma soltanto ad una certa coloritura emozionale: quella appunto della preoccupazione, della paura,
dell’aggressività, della concentrazione, dell’espressione della forza. Esso corrisponde cioè ad emozioni connesse
a stati di allarme, vigilanza, attenzione, controllo e non a stati emotivi di calma, di allentamento, di tranquillità,
di tenerezza, di riposo.
Questa differenziazione tra stati di rilassamento e stati di eccitazione coincide con una concezione (oggi
sempre più prevalente) che considera l’attivazione dei sistemi interni fisiologici differenziata per grandi aree di
stati emotivi.
Comunque, nello stato di stress acuto l’attivazione complessiva dei vari piani psicobiologici si esaurisce
una volta affrontato il problema legato all’evento.
Ma può invece accadere che le condizioni di stress, e quindi di attivazione dell’organismo, permangano
anche in assenza di eventi stressanti, oppure che l’organismo reagisca a stimoli di lieve entità in maniera
sproporzionata, come se fosse in presenza di situazioni altamente pericolose e dannose alla sua sopravvivenza
individuale, riproduttiva e di gruppo.
Questa alterazione di tipo permanente della risposta di stress è connessa ad un processo di cronicizzazione
che si è instaurato nell’individuo: cioè ad uno stato di stress cronico, uno stato permanente di stress, una
presenza di caratteristiche di tratto dello stress; o in altre parole uno stato di distress (dal prefisso dys che
significa “male”).
Lo scopo del presente lavoro è appunto quello di approfondire ed esplorare l’area di funzionamento
interessata da una modificazione permanente della reattività dell’individuo agli stimoli esterni ed interni, e cioè
quella condizione che può essere definita di stress cronico perché legata ad alterazioni durature di vari piani e
meccanismi funzionali sia psicologici che fisiologici. D’ora in poi, quindi, usando il termine semplificato di
“stress” intenderemo la condizione di stress cronicizzato.
Numerosi sono stati fino ad oggi i contributi volti all’esplorazione delle cause dello stress: sia la presenza
di eventi altamente stressanti, traumatici, sia un accumularsi di eventi stressanti di minore entità. Altre ricerche
hanno maggiormente posto l’accento sulle conseguenze patologiche dello stress (Keith, 1990; Dohrenwend,
1998), sulle malattie specifiche ad esso imputabili e sull’impatto più generale dello stress sul sistema
immunitario (Glaser e Keicolt-Glaser, 1994; Toates, 1995; Cassidy, 1999). Altri studiosi ancora (ad esempio,
Harrell e al., 1998; Pages e Aubert, 1989; Um e Harrison, 1998) si sono soffermati sulle connessioni tra lo stress
e le caratteristiche strutturali e relazionali del lavoro, sia nel senso di individuare quelle condizioni lavorative
che sono concause della situazione di stress, sia nel senso di studiare gli effetti del cosiddetto “burnout”.
Ma la natura dei processi che portano alla cronicizzazione dello stress deve essere ancora per alcuni versi
ulteriormente chiarita; vanno identificate, cioè, le fasi di passaggio da una condizione positiva di stress
momentaneo, o di eustress, a quella negativa e più o meno strutturata definibile come distress.
In generale possiamo affermare che la psicologia ha fatto il suo ingresso nell’area tematica dello stress
solo in un secondo tempo ed in particolare quando si è considerato lo stress come qualcosa che non è connesso
solo con il piano fisiologico, ma anche con il piano cognitivo ed emotivo, con implicazioni di carattere sociale e
relazionale non indifferenti. In un manuale di psicologia lo stress è definito come “uno stato nel quale
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l’individuo si viene a trovare quando è messo di fronte a dei fatti ambientali che richiedono una modificazione
nel proprio atteggiamento o modo di comportarsi” (Darley ed altri, 1986, p. 109; corsivo aggiunto). Si evince in
modo abbastanza chiaro che ci si riferisce alle condizioni particolari in cui il soggetto viene a trovarsi di fronte a
stimoli ambientali rilevanti.
Diversi autori però, nel trattare lo stress, si sono riferiti non più alla condizione e allo “stato interno” della
persona ma alle condizioni ambientali e alle pressioni esterne, oppure alle modalità con cui il soggetto reagiva a
queste ultime, o addirittura alle conseguenze e alle patologie che si potevano innescare. Da qui deriva una certa
confusione terminologica tra “stress stimolo” e “stress risposta”, che ha indubbiamente notevoli implicazioni
teoriche, e allo stesso tempo differenti incidenze metodologiche (Lemyre e Tessier , 1988).
Sembra pertanto opportuno riportare separatamente i due differenti campi di indagine: quello degli stimoli
e quello delle risposte, precisando però già da ora che la definizione di stress, per tutto quello che abbiamo detto
e diremo, non andrebbe attribuita né agli uni né alle altre, ma a ciò che sta al centro fra le due: la condizione
psicofisica dell’organismo in stress.
Lo stress come stimolo
Lo stress, trattato secondo la prospettiva dello stimolo, permette di mettere a fuoco quelle particolari
situazioni ambientali che possono impegnare e superare le risorse adattive di un individuo. Questo approccio è
proprio di una corrente psicosociale che considera le modifiche ambientali di per sé stressanti, denominandole
‘stressors’, cioè condizioni di vita o eventi che comportano ‘pressioni’ sull’organismo.
In generale, però, l’accento è messo maggiormente sugli stressors di forte intensità, di tipo traumatico:
avvenimenti cioè che hanno un carattere critico, in un certo senso “drammatico”, per la loro intensità e severità.
La considerazione che, per l’individuo, il pericolo inizia quando gli stressors si fanno troppo numerosi e
pressanti ha convogliato l’attenzione sull’aspetto oggettivo della quantità. L’accumularsi, cioè, di una serie di
avvenimenti di vita critici, improvvisi ed inaspettati può impegnare in maniera eccessiva e far collassare le
capacità adattive di un individuo. Vedremo più avanti come un inquadramento teorico di questo tipo ha
giustificato l’elaborazione di vere e proprie liste di eventi chiave o gerarchie di stressors potenziali, con lo scopo
di valutare i livelli di stress psicologico attraverso la valutazione degli avvenimenti traumatici.
Più recentemente, all’analisi degli eventi di tipo straordinario si è aggiunta l’analisi di avvenimenti
presenti quotidianamente, di condizioni abituali di vita che comunque agiscono in maniera continuativa
sull’attivarsi del soggetto. E’ stata sottolineata, così, l’influenza di problemi che sono previsti e attesi, ma che,
verificandosi in modo ripetitivo, possono esercitare pressioni esagerate sull’individuo e rivelarsi portatori di
stress (Delongis e coll., 1982). Numerosi autori hanno anzi sottolineato che proprio gli avvenimenti quotidiani e
ripetitivi (che possono variare da piccole “seccature” fino a difficoltà anche più grosse) rivestono un peso
maggiore nel provocare malattie rispetto a episodi più pregnanti ma relativamente rari (Lazarus, 1984; Kanner
ed altri, 1981).
Dobbiamo riconoscere a Lazarus (1966) l’iniziativa di aver messo in evidenza un ulteriore aspetto relativo
all’evento, e cioè l’importanza della condizione soggettiva con cui esso viene vissuto, cioè la specificità del
significato che l’avvenimento ha per ciascun individuo. Secondo Lazarus, lo stress psicologico è un particolare
tipo di rapporto tra la persona e l’ambiente, un rapporto valutato dalla persona come gravoso, o superiore alle
proprie risorse, e minaccioso per il proprio benessere (Lazarus e Folkman, 1984).
Non si può quindi trascurare la variabilità delle reazioni in funzione dell’età, della cultura, del sesso, etc,
né sembra esistere equipotenzialità degli stimoli; nel senso che, per divenire causa di stress, l’avvenimento deve
essere valutato come potenzialmente dannoso. Anche per quanto concerne lo stato d’ansia, è stato ribadito che
essa “viene attivata solamente nelle condizioni in cui il soggetto valuta la situazione che sta vivendo come
minacciosa” (Spielberger, 1989, p.6).
A conclusione della panoramica dei differenti contributi che i vari autori hanno dato nell’ambito della
concezione dello stress come stimolo non possiamo non concordare con l’osservazione di Derogatis (1982), che
ritiene comunque improprio poter misurare le condizioni e lo stato di stress di una persona valutando
esclusivamente gli eventi stressanti. Questi dovrebbero essere, invece, più correttamente considerati soltanto
come caratteristiche relative all’ambiente generale in cui vive l’individuo piuttosto che come caratteristiche dello
stato di stress dell’individuo stesso.
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Lo stress come risposta
L’approccio psicologico che definisce lo stress come reazione a degli stressors focalizza invece l’analisi
sulle risposte adattive del soggetto, che possono poi essere o non essere patologiche, sia in senso psicologico che
fisiologico. Generalmente a questa reazione viene attribuita “tout court” una valenza negativa; essa viene vissuta
come uno stato malsano che genera conseguenze indesiderabili che bisogna eliminare o almeno minimizzare.
Questo modo di definire lo stress si ispira principalmente alla tradizione biologica di inizio secolo. In particolare
Cannon (1931) considerava lo stress emozionale come una “risposta d’urgenza adattiva”.
Oggi lo stress è considerato sempre più come concausa costante di moltissime malattie psichiatriche e
psicosomatiche, e recentemente di numerose altre patologie, causate in qualche misura da una depressione
dell’apparato immunitario sul quale in maniera sempre più indubitabile si è accertato che lo stato di stress
cronicizzato agisce negativamente (Toates, 1995; Buckingham e al., 1997; Cassidy, 1999; Finke, 1999).
Abbiamo già ricordato che, rispetto a quest’approccio, lo stress è spesso confuso con disturbi quali l’ansia,
la depressione, e con sintomatologie di vario tipo. Il problema in questo caso è legato al possibile equivoco che
può sorgere nell’assumere la patologia come un indicatore di stress.
Così come per le ricerche che ritengono di valutare lo stress solo attraverso la misurazione degli eventi,
anche nel caso dello “stress come risposta” una possibile considerazione critica andrebbe puntualizzata. In
questo caso, infatti, la misurazione avverrebbe esclusivamente tramite l’analisi delle conseguenze delle
condizioni di stress (siano essi sintomi o malattie), piuttosto che, come abbiamo già precisato precedentemente,
sulle condizioni stesse dello stato di stress.
Il contesto teorico in cui si è sviluppato il concetto di stress psicologico, centrato o sulla comprensione
dell’origine dello stress o sulla classificazione dei suoi effetti, ha notevolmente influito sull’elaborazione delle
misure psicometriche che da esso sono derivate.
Numerosi ricercatori hanno concentrato la loro attenzione sulle scale di misurazione generate dal modello
dello stress come stimolo, centrate cioè sugli avvenimenti di vita o stressors; molteplici sono inoltre le misure
relative alle conseguenze degli agenti stressogeni, associate al modello dello stress come risposta; in particolare,
la ricerca in ambito psichiatrico e psicosomatico ha dato un grosso contributo all’elaborazione di scale volte ad
individuare tutta una serie di malattie generate da una situazione di distress.
Componenti fisiologiche dello stress
Inizialmente, l’attivazione fisiologica associata all’azione di uno stressor è stata descritta soprattutto dai
modelli teorici che ne prevedevano l’influenza sul sistema nervoso vegetativo e sul sistema endocrino; solo
successivamente è stata sottolineata la ripercussione sul sistema immunitario.
E’ oggi un dato acquisito che gli stressors in genere, e quelli emozionali in particolare, producano
modificazioni funzionali a carico di tutti gli organi, attraverso la mediazione, oltre che del Sistema Nervoso
Vegetativo (SNV), anche del sistema endocrino e del sistema immunitario (Pancheri e Biondi, 1979; Biondi e
Ricciardi, 1997). Un indebolimento dei sistemi di difesa dell’organismo può dipendere sia da un deficit che da
un sovraccarico funzionale a livello endocrino o immunitario, ma in genere esso è influenzato dalle alterazioni
del funzionamento integrato di entrambi i sistemi con il SNV. Questo, sottoposto ad una situazione stressante,
modifica il livello di attività attraverso una complessa serie di meccanismi di regolazione, strettamente connessi
sia a livello periferico che centrale. Nel SNV periferico la stimolazione del sistema simpatico produce risposte
vegetative tali da predisporre l’organismo all’attività o all’emergenza: aumento della frequenza cardiaca e della
pressione arteriosa a causa della vasocostrizione periferica, con una migliore irrogazione degli organi vitali;
aumento della frequenza respiratoria; tensione e palpitazione muscolare che si esaurisce nell’azione. La via
parasimpatica del SNV può ugualmente essere attiva ma il suo effetto risulta meno dominante.
Nel SNV centrale la funzionalità autonoma di base viene modulata da centri di regolazione cerebrali che
permettono di adattare le reazioni vegetative dell’organismo ai diversi stimoli ambientali: il sistema limbico (il
cui ruolo è legato alle funzioni affettive), la corteccia cerebrale (che regola le funzioni cognitive) e l’ipotalamo
(la cui funzione è soprattutto coordinatrice) (Pancheri,1984).
Un gran numero di studi sperimentali hanno dimostrato le strette connessioni esistenti tra substrato
anatomofisiologico delle emozioni e centri del SNV il quale poi svolge una importantissima funzione di
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regolazione delle reazioni viscerali sia direttamente sia tramite le strutture neuroendocrine (con la conseguente
attivazione endocrina periferica).
Il sistema neuroendocrino, d’altra parte, è collegato anch’esso alle strutture cerebrali. Le due sezioni
principali del sistema neuroendocrino sono situate nei nuclei dell’ipotalamo, che ricevono importanti afferenze
dal sistema limbico (i cui neurormoni agiscono principalmente attraverso l’ipofisi anteriore) e nella midollare
del surrene (i cui neurormoni sono caratterizzati da un’azione tessutale diretta). La loro attivazione in condizione
di aumentata richiesta prestazionale produce, rispettivamente, un aumento degli ormoni ipofisari e un aumento
delle catecolammine circolanti. In particolare, l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene (HPA),
induce un aumento dei tassi plasmatici di 17-OH-corticosteroidi (rappresentati per circa l’80% dal cortisolo),
con effetti periferici a livello del metabolismo protidico, glicidico e lipidico. Il livello dei 17-OHCS può venire
modificato rompendo il meccanismo di feedback che normalmente ne regola la produzione. In questo circuito di
feedback intervengono l’ipofisi, attraverso la produzione dell’ormone corticotropo (ACTH), e l’ipotalamo
attraverso la produzione di un neuro-ormone detto Corticotropin-Releasing Factor (CRF).
Sono dunque stimoli di varia natura, sia puramente fisica che di tipo psicosociale, quelli che modificano il
livello di ACTH e quindi dei 17-OHCS. Numerose sono ancora oggi le ricerche sulle possibili correlazioni tra
emozioni e risposta HPA partendo dalla considerazione che gli stimoli fisici condizionano il livello di cortisolo
soprattutto attraverso la mediazione di un’attivazione emozionale (Toates, 1995; Finke, 1999).
L’attivazione catecolamminica, prodotta dalla stimolazione della midollare del surrene, ha un’azione
prevalentemente a carico della muscolatura liscia (accanto ad un’azione metabolica meno rilevante), con lo
scopo di modificare lo stato funzionale di tutti gli organi e sistemi durante l’esecuzione dell’azione di attacco o
di difesa. A livello cardiaco si ha un aumento della frequenza e della gittata sistolica; a livello vascolare si ha un
aumento della pressione per azione soprattutto della noradrenalina, mentre l’irrorazione muscolare migliora e
l’albero bronchiale si dilata per permettere un aumento della ventilazione polmonare. L’azione a livello tessutale
periferico degli ormoni prodotti dalla midollare del surrene (e cioè adrenalina e noradrenalina) è quindi analoga
a quella ottenuta attraverso una stimolazione del sistema simpatico.
Come si è già ricordato, fin dal 1911 Cannon aveva sottolineato l’esistenza di reciproci rapporti tra
sistema simpatico e sistema endocrino midollo-surrenale, e Selye, successivamente, ha chiarito la funzione
dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene, e cioè l’attivazione contemporanea e integrata sia del SNV che delle
sezioni del sistema endocrino direttamente controllate dall’ipofisi.
In questa prospettiva, SNV e sistema endocrino agiscono sinergicamente per adattare l’organismo alle
richieste operate su di esso da un’ampia gamma di stressors. In questo sinergismo funzionale, il SNV agirebbe
da organo di integrazione e di controllo attraverso i suoi centri e il suo sistema di vie efferenti ed afferenti,
mentre il sistema endocrino agirebbe da ‘servomeccanismo metabolico’ per modularne e potenziarne l’azione a
livello tessutale.
Oggi si sa che il SNV ha, inoltre, la medesima funzione di controllo, di integrazione e di mediazione (tra
ambiente esterno e interno) sul sistema immunitario. Recenti studi sperimentali eseguiti su animali e studi clinici
effettuati sull’uomo hanno dimostrato la presenza, nelle cellule del sistema immunitario (linfociti T per
l’immunità cellulare e linfociti B per l’immunità umorale) di recettori specifici per agenti alfa e beta-adrenergici
(adrenalina) e per agenti colinergici (acetilcolina), suggerendo la possibilità di un’azione diretta del sistema
neurovegetativo sulle cellule specifiche del sistema immunitario. Questi studi hanno fatto avanzare l’ipotesi che
l’attivazione del simpatico produca una inibizione della reazione immunitaria, mentre l’attivazione del
parasimpatico ne provocherebbe una stimolazione.
Un’influenza del sistema neurovegetativo sul sistema immunitario, che può invece essere considerata
indiretta, è rappresentata dalla mediazione neuroendocrina. La risposta dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene agli
stressors di varia natura, ormai nota da molti anni, è stata ancora più ampiamente studiata e definita negli animali
da laboratorio, anche per mezzo degli studi istologici a livello ipotalamico, ipofisario e surrenale, ed è stata ben
documentata anche nell’uomo e nei primati. Un metodo usato per valutare l’influenza dei corticosteroidi sul
sistema immunitario è costituito dalla somministrazione a dosi farmacologiche di glucocorticoidi naturali (o più
frequentemente di sintesi). I dati sperimentali così ottenuti hanno dimostrato una associazione significativa tra
aumento dei corticosteroidi plasmatici indotto da vari stressors e immunodepressione. Nelle scimmie, ad
esempio, sia la somministrazione di glucocorticoidi che le elevazioni del cortisolo in risposta alle procedure
sperimentali producono alterazioni dei parametri immunitari cellulari e di quelli umorali.
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Misure di stress fisiologico
Questo campo di indagine – per l’approfondimento del quale si rinvia a Katkin e al. (1993) e a Finke
(1999) - è ricco di misure dello stato di attivazione del sistema nervoso, endocrino e immunitario in relazione
allo stress.
Il SNV rappresenta uno dei sistemi fisiologici più chiaramente e prontamente sensibili agli stimoli
emozionali e stressanti (Panconesi, 1990); la misura delle variazioni di attività di esso in risposta a stimoli di
carattere fisico, emozionale o psicosociale è dunque un metodo di valutazione diretta dell’attività vegetativa.
In particolare, si possono individuare tutta una gamma di misure elettrofisiologiche che permettono di
misurare l’attività del SNV. Per ciò che riguarda lo stress si misurano generalmente: l’attività dell’encefalo
(EEG), la funzione cardio-vascolare (ECG, Pulsazione, Temperatura cutanea), l’attività muscolare (muscoloscheletrica EMG) o più specificamente l’attività elettrica della muscolatura liscia dello stomaco
(elettrogastrogramma), le proprietà elettriche della pelle (GSR) e la funzione respiratoria (Ritmo).
La ricerca psicofisiologica per un primo periodo ha centrato l’attenzione sulle caratteristiche e sulla
relativa sensibilità delle singole risposte delle funzioni viscerali dell’organismo a stimoli emozionali e stressanti.
Studi successivi hanno permesso di chiarire come esse siano intercorrelate l’una con l’altra riconoscendo così
l’esistenza di una risposta vegetativa multimodale agli stressors (Biondi e Pancheri, 1984). Infatti, lo studio di
singole reazioni neurovegetative agli stressors emozionali dà scarsi risultati proprio perché l’attivazione del SNV
tende a manifestarsi come uno schema complesso di reazione che coinvolge molti organi e sistemi.
Ne consegue che il ricorso a queste misure per la valutazione dello stress (ed in particolare per lo stato di
stress cronico) non si può limitare a singoli parametri, ma deve tenere presente l’intera reattività vegetativa. Ad
una risposta vegetativa multimodale allo stress, corrisponde una modifica della reattività di gran parte dei
principali sistemi endocrini. E’ fondamentale a questo riguardo l’opera di Mason, che tra gli anni ‘60 e ‘70,
proseguendo la linea di ricerca di Selye sullo stress, effettuò una serie di studi in ambito
psiconeuroendocrinologico, dimostrando come le reazioni emozionali rappresentassero significativi e potenti
stimoli per modificare la reattività di gran parte dei principali sistemi endocrini in una sorta di “risposta
multiormonale agli stressor” (Mason, 1975).
Numerosi studi hanno dimostrato, attraverso il dosaggio plasmatico di vari ormoni, che in situazione di
stress si osserva un aumento dell’ACTH, del cortisolo, dell’ormone somatotropo (GH), della prolattina e delle
catecolammine periferiche ed una riduzione dell’LH e del testosterone.
Per alcuni aspetti, la misura dei tassi plasmatici degli ormoni dello stress è considerata di più facile
valutazione rispetto alle misure psicofisiologiche: è possibile, infatti, misurare esattamente la quantità di ormoni
prodotti nel corso di una situazione di stress, e confrontarla con quanto avviene in situazioni normali. Va però
ricordato come dice Pancheri (1979), che “la risposta multiormonale agli stressors presenta una sua intrinseca
complessità di rilevamento e di valutazione che deve essere adeguatamente considerata: direzione e
configurazione delle risposte, variazioni quantitative rispetto al baseline, interferenze con i ritmi circadiani,
possibilità di interazioni multiple tra ormoni, ecc.” (p.139).
La valutazione di questi aspetti neuro-ormonali ha comunque permesso di aprire orizzonti del tutto nuovi
in psicosomatica e nelle neuroscienze, in particolare per la genesi delle ulcere gastrointestinali e delle malattie
cardiovascolari.
Prospettive particolarmente interessanti sembrano inoltre aperte dal ruolo degli oppioidi endogeni (come
le endorfine) nel dolore cronico e dall’intervento delle benzodiazepine sulla modulazione degli stimoli dolorosi.
Numerosi studi pongono al centro del loro interesse gli aspetti più attuali della psiconeuroendocrinologia
(Henry, 1990). Una recente ricerca svolta dall’equipe britannica del Centro di ricerche di Dundee, diretta dal
professor Cohen, imputa ad un eccesso di stress (con una produzione abnorme di adrenalina) l’insorgenza di una
serie di gravissime malattie: da alcune forme di cancro, al diabete, alle malattie cardiache e persino ad alcune
malattie infettive, come il colera. Allo stesso modo, i medici dell’Inserm (Istituto Statale Francese di Ricerche
Mediche) attraverso un minuzioso lavoro di misurazione con metodi biochimici, sono riusciti a individuare una
maggiore quantità di ormone corticosterone nel sangue dei tossicodipendenti: questo verrebbe considerato come
prova di uno stretto legame tra una intensa reazione di stress e la predisposizione alla tossicodipendenza.
Ancora più recenti sono invece le ricerche nel campo della psicoimmunologia, o della
psiconeuroimmunologia, che considerano l’effetto dello stress come immunosoppressore (Buckingham, Gillies e
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Cowell, 1997). Questo effetto può essere misurato in differenti modi e costituisce oggi una misura di stress
complementare. Importante è ricordare, dicono Palma e Biondi (1993), che “la ricerca psiconeuroimmunologica
che analizza la via indiretta nel controllo dell’attività immunitaria, utilizza in prevalenza la misurazione di alcuni
ormoni (GH, tiroide, PRL, ACTH, FSH, LH, estrogeni, ecc.), delle catecolammine e più in generale dei
neuropeptidi (VIP, B-endorfine, CCK, sostanza P, vasopressina, bomboseina), che si sono dimostrati sensibili
agli stressors psicofisici e parimenti hanno dimostrato di possedere un’attività immunomodulante” (p.43).
Dai numerosi studi sugli animali e sugli uomini è stato invece possibile individuare vari sistemi di
stimolazione comunemente utilizzati dalla metodica immunologica per la valutazione soprattutto della immunità
cellulare: test delle rosette E e EAC, reattività dei linfociti T alle PHA (fitoemoagglutinina) e ConA
(concanavalina), test cutanei di ipersensibilità ritardata, ecc.
In particolare, in una ricerca svolta all’Università Laval del Québec, partendo dall’ipotesi che lo stress
psicologico può avere effetti negativi sull’immunocompetenza, Fillon e al. (1989) e Mouton e al. (1989) hanno
verificato l’immunità umorale con la misurazione della immunoglobulina A in saliva insieme al dosaggio di
anticorpi sierici (IgA, IgG, IgM). La scelta di questi parametri appare giustificata sulla base di diverse
motivazioni, ma sembra importante qui riportare, in riferimento al nostro campo di interesse, che la decisione di
scegliere questo parametro era legata principalmente alla sua qualità primaria, d’essere cioè un indice indiretto
d’attivazione associato allo stress psicologico. Gli stessi autori, sulla base della contradditorietà dei risultati
ottenuti, sostengono che limitarsi ad un solo indice costituisce una misura insufficiente e si finisce col misurare
un effetto associato allo stress e non il livello di stress. Anche per il sistema immunitario, dunque, risulta
insufficiente l’uso di un unico indicatore.
Non possiamo trascurare la constatazione degli autori canadesi citati relativamente alla debolezza
metodologica delle ricerche empiriche che appoggiano l’ipotesi di una relazione tra lo stress psicologico e la
risposta immunitaria; debolezza legata non solo alla confusione del concetto di stress (acuto-cronico), ma anche
alla carenza di controllo delle altre variabili che possano minare la risposta immunitaria.
Nonostante ciò queste osservazioni aprono stimolanti prospettive per comprendere in che modo condizioni
psicofisiche di stress possano influenzare la suscettibilità dell’organismo verso malattie infettive come la
mononucleosi, le eruzioni da herpes simplex, l’angina streptococcica, l’influenza e infine anche l’HIV.
Allo stato attuale, la ricerca identifica nella depressione immunitaria una delle possibili concause di
numerose malattie come carcinomi e altri tumori, così come l’iperattività del sistema immunitario è messo in
relazione ad alcune malattie autoimmuni, mentre in altre malattie ancora il sistema immunitario pare intervenire
patogeneticamente a vari livelli condizionando sia l’insorgenza che il decorso della malattia.
Dallo stress al benessere
Riepilogando il quadro teorico di riferimento fin qui illustrato, possiamo ancora una volta ribadire che il
suo interesse focale è rappresentato dall’interrelazione tra le varie modalità di risposta di stress (fisiologica,
biologica, psicologica) che caratterizzano quella particolare condizione definita stato di stress cronicizzato.
Questo stato di stress cronico è, come abbiamo visto, tendenzialmente aspecifico rispetto ai vari soggetti (al di
là dell’entità delle alterazioni), e risulta ben distinto sia dalle cause che lo precedono (eventi) che dalle
conseguenze prodotte (patologie). Infatti, eventi e patologie sono al contrario altamente specifici, cioè
estremamente diversi da situazione a situazione, da individuo a individuo, da storia a storia. Lo stato di stress
cronico è caratterizzato da particolare condizioni e configurazioni del Sé che in questo lavoro si sono volute
approfondire analizzando anche i sistemi di misurazione che le riguardano o che permettono di rilevarne
l’esistenza e l’entità.
Dunque l’ipotesi centrale di ricerca riguarda soprattutto il perché e il come si arrivi ad uno stato di stress
cronico. Come illustrato nella figura allegata, esiste un doppio circuito di funzionamento psicofisico: uno
relativo allo stress acuto e l’altro allo stress cronico. Vanno studiati di benessere e salute o viceversa ad uno
stato di malessere e malattia.
Gli eventi stressanti producono un impatto su tutto l’organismo, e il tipo di impatto dipende dalle
condizioni psicofisiche dell’organismo stesso e cioè dalla configurazione e dalla modalità di funzionamento di
tutti i processi funzionali del Sé, rappresentati nello schema dal filtro funzionale della percezione. Per
percezione qui si intende non soltanto una valutazione cognitiva degli eventi stressanti, ma una registrazione in
senso globale della situazione di allarme, di pericolo e di necessità di attivazione.
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In questo filtro possiamo dunque individuare diversi elementi. Vi rientrano il peso delle immagini e delle
fantasie interne in quel momento preminenti; fantasie ripetitive, ad esempio, quasi sempre relative alle antiche
esperienze del Sé che possono avere assunto coloriture di positività in base all’appagamento dei bisogni
fondamentali del bambino o di negatività nel caso contrario.
Il modo di funzionare del sistema muscolo-scheletrico (determinati irrigidimenti dei muscoli) può
amplificare una sensazione di pericolo, di allarme, anche perché veicola una certa sensazione di incapacità nei
movimenti di lotta e di reazione. Viceversa, un apparato muscolo-scheletrico in grado di rimandare sensazioni di
forza, di prontezza al movimento, di capacità elastica e scattante, contribuisce ad una diffusa sensazione di
sicurezza nei confronti dell’evento allarmante.
Rientra in questo filtro, attraverso cui si percepiscono gli stressors, la capacità di progettare strategie e
comportamenti più opportuni, capacità che definiamo di immaginazione progettuale, utile per affrontare le
condizioni stressanti e diminuirne gli effetti. E ancora, hanno una loro inferenza i ricordi di situazioni passate di
successo o insuccesso, che possono essere di sostegno o meno per l’immaginazione progettuale.
Importante è l’attivazione del sistema neurovegetativo, e di quella che noi definiamo più in generale
“l’area fisiologica”, come insieme di tutti i sistemi o apparati interni dell’organismo. Attivazione eccessiva del
sistema simpatico, battito cardiaco accelerato, sudorazione intensa, alta pressione del sangue possono accrescere
esageratamente la sensazione di pericolo e di minaccia. Una buona “modularità” di funzionamento e di
equilibrio tra simpatico e parasimpatico assicura invece una percezione più realistica delle situazioni esistenti.
Altrettanto notevole importanza, sempre nell’area del fisiologico, hanno fenomeni quali brividi interni,
tremori, giramenti di testa, correnti nelle gambe, che, se troppo intensi o troppo bloccati o vissuti in maniera
negativa, generano sensazioni globali di immobilità, di malessere, di impotenza e di incapacità. Anche le
ipersensibilità epidermiche influenzano il modo di percepire gli eventi, a seconda se ci sia una buona
circolazione periferica con un corrispondente senso di piacevolezza, o ad esempio stati di freddo, sudorazioni
intense, o sensazioni di dolore acuto (a punture) in alcune zone del corpo.
Tutto questo ci riporta all’ipotesi di base che il filtro funzionale della percezione degli eventi stressanti
può essere considerato espressione dello stato (di alterazione o meno) delle varie funzioni psicocorporee e dalle
sconnessioni tra i piani funzionali; alterazioni e sconnessioni, come abbiamo visto, tipiche dello stato di stress
cronico.
Questo stretto legame tra funzioni del Sé e stress cronico configura un circuito a feedback
autoriproducentesi, che finisce con l’essere la causa della intensificazione dello stato di stress cronico. Il filtro è
a sua volta condizionato dal persistere dello stato di stress acuto oltre che da esperienze di vita negative e
frustanti stratificatesi nella persona a partire dalla prima infanzia, e in modo particolare proprio nel periodo
evolutivo.
Sono queste stratificazioni che, accanto all’impatto dello stress acuto, possono intensificare le alterazioni e
le sconnessioni dei processi funzionali del Sé, caratteristiche appunto dello stato di stress cronico; o per meglio
dire, caratteristiche del funzionamento del filtro nel particolare caso di stress cronico.
Il filtro è ovviamente peggiorato dallo stato innescato di stress cronico. Lo stato di stress cronico produce
esso stesso uno stimolo stressante all’interno dell’organismo, indipendentemente dalla realtà esterna: uno
‘stimolo fantasma’.
Dalla figura emerge dunque un doppio circuito, con una strada che porta verso la salute e il benessere, ed
un’altra verso lo stress cronico e le relative patologie. Se il filtro funzionale della percezione non è
eccessivamente alterato (sia dal permanere dello stress che dalle esperienze passate) l’evento stressante produce
uno stress acuto (o eustress) con attivazione solo momentanea dei processi relativi, la quale rafforza lo stato di
benessere poiché mette l’individuo in condizione di reagire positivamente e di gestire con buone capacità
l’evento, portandolo alla risoluzione del problema, e in contemporanea all’esaurimento della reazione di stress.
Vogliamo qui dire che lo stato di benessere influisce direttamente sugli eventi stressanti, nel senso che il
soggetto non solo tende a non drammatizzarli e a non viverli in maniera catastrofica, ma tende anche ad evitarli
prima che si siano scatenati, agendo in modo da prevenirli, almeno quando è possibile. Lo stato di benessere
prodotto da una condizione acuta e piacevole di stress attivante, influenza positivamente le capacità di gestione
del mantenimento dello stato di salute, nel senso che il soggetto saprà scegliere spontaneamente comportamenti
alimentari corretti, alternanze di lavoro e riposo, condizioni di soddisfazione e piacere intellettuale, corporeo e
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sociale, ricerche di mete raggiungibili e quindi gratificanti, attività fisiche e sportive piacevoli, momenti di
allegria e gioia, di piacevolezza nella sessualità.
Viceversa, nella condizione di filtro alterato, non si passa attraverso lo stress acuto ma si approda (come
abbiamo visto) direttamente ad una condizione di alterazione delle funzioni e quindi di stress cronico. Questo
secondo circuito può permanere anche in assenza dell’evento stressante perché l’alterazione e la sconnessione
funzionano da stimolo fantasma.
Lo stato di stress cronico (contrariamente al circuito prima esaminato) conduce ad un’incapacità di gestire
gli eventi: sia nel senso di non riuscire a risolvere le condizioni di difficoltà che si presentano, sia nel senso di
incapacità a prevenirle e anzi di tendenza inconsapevole a far intensificare e proliferare ostacoli ed eventi
stressanti. D’altra parte lo stato di stress cronico produce direttamente, come molte ricerche hanno ormai
attestato, innumerevoli condizioni di malattia, influenzate anche dall’incapacità di gestire e migliorare la propria
salute. I soggetti tenderanno, quasi paradossalmente, a peggiorare il rapporto con essa: assumendo sostanze
nocive (come l’alcol e il fumo), o seguendo un’alimentazione inadeguata, o ancora tendendo a superare il
disagio mettendosi in situazioni spesso ancora più stressanti: ad esempio prendendo sempre nuovi impegni di
lavoro o prefissandosi mete irraggiungibili e portatrici di delusioni e frustrazioni ulteriori.
EVENTI
STRESSANTI
INTENSIFICAZIONE
ESAURIMENTO
STIMOLI
STIMOLI
INCAPACITA
’DI GESTIRE
GLI EVENTI
STATO DI
STRESS
CRONICO
INCAPACITA’
DI GESTIRE
LA SALUTE
Stimoli
fantasma
Stratificazione
esperienze
precedenti
Filtro funzionale
della percezione
Alterazioni e
Sconnessioni
di funzioni
MALATTIA
Permane
lo stress
acuto
Stress
acuto
Attivazione
momentanea
SALUTE
CAPACITA
DI
’ GESTIRE
GLI EVENTI
STATO DI
BENESSERE
CAPACITA’ DI
GESTIRE LA
SALUTE
Circuito di funzionamento psicofisico dello stress acuto (linea continua) e
dello stress cronico (linea tratteggiata); la linea spessa indica il circuito delle
alterazioni del filtro funzionale
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