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L'Iraq (talvolta anche Irak per via della traslitterazione francese) è uno Stato dell'Asia. Confina
con Turchia a nord, Arabia Saudita e Kuwait a sud, Siria a nordovest, Giordania a ovest e Iran verso
est. Discende dall'antica Mesopotamia. La capitale e città più grande è Baghdad. Il presidente è
stato per circa 25 anni Saddam Husayn. Dal 9 aprile 2003 l'Iraq è stato un protettorato militare
americano e dal gennaio 2005 un governo locale di transizione ha amministrato il Paese fino
all'esecuzione del dittatore Saddam Hussein. Possiede le terze riserve di petrolio mondiali.
L'area fertile della Mesopotamia, situata fra i fiumi dell'Eufrate e del Tigri, ha visto nascere alcune
delle civiltà più antiche del mondo come i Sumeri, i Babilonesi e gli Assiri. Dopo essere stato a
lungo parte dell'Impero persiano venne conquistato nel 656 dagli arabi e nel 762 il Califfato fu
spostato dalla nuova dinastia abbaside nella nuova città di Baghdad (vicino all'antica Babilonia). La
città è rimasta a lungo il centro più importante del mondo arabo fin quando è stata incorporato
dall'Impero Ottomano nel 1534.
Al termine del I conflitto mondiale, truppe britanniche occuparono l'odierno Iraq (fino ad allora
provincia ottomana) e Londra ricevette un mandato dalla Società delle Nazioni che ebbe fine il 3
ottobre 1932, quando l'Iraq ottenne un'indipendenza formale, tuttavia limitata sotto alcuni aspetti
militari ed economici.
Dopo la fine cruenta della monarchia e la gestione del potere da parte di militari di sentimenti
nazionalistici e in un secondo momento panarabi, il partito di ispirazione socialista-araba, il Bath,
prese il potere nel 1968 (dopo un primo colpo del 1963) ed ha instaurato un controllo molto stretto,
soprattutto dopo l'arrivo al potere di Saddam Husayn nel 1979. Nel 1980 l'America e i paesi NATO
convinsero l'Iraq a scendere in guerra contro l'Iran fornendo aiuti economici e militari: fino al 1988
si combatté una lunga guerra alla cui fine non ci furono né vincitori né vinti. Un merito che va
riconosciuto al governo iracheno un forte impegno nella modernizzazione del Paese con il
riconoscimento di numerosi diritti civili alle donne e l'instaurazione di un potere laico. In seguito
all'occupazione del Kuwait nel 1990 e la conseguente invasione da parte di una coalizione
internazionale, che agiva su mandato delle Nazioni Unite, l'Iraq è stato isolato internazionalmente,
fino all'anno 2003, in cui ha inizio la Seconda guerra del golfo. La sovranità dell’Iraq venne
sottoposta a serie limitazioni.
Infatti, oltre all’imposizione della "no-fly zone", il regime di Baghdad venne costretto a concedere
un’ampia autonomia ai distretti curdi e a riconoscere un oneroso tracciato dei confini con il Kuwait.
A ciò si aggiunsero misure di disarmo (di cui fu incaricata l’UNSCOM, Commissione speciale delle
Nazioni Unite, con l’ausilio dell’AIEA, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica) e restrizioni
nella vendita di petrolio, una cospicua parte della quale venne destinata a ripagare gli ingenti danni
inflitti al Kuwait.
Nel 1992 il rifiuto di concedere l’accesso agli ispettori dell’UNSCOM causò la proclamazione da
parte dell’ONU di un rigido embargo economico, i cui effetti si rivelarono devastanti soprattutto per
la popolazione civile. L’economia nazionale irachena, già pesantemente segnata dai due ultimi
conflitti, giunse infatti quasi al collasso, mentre fiorì un florido mercato nero strettamente
controllato dal regime. Nell’ottobre 1994 un nuovo spostamento di truppe irachene al confine con il
Kuwait spinse gli Stati Uniti a inviare nella regione un proprio contingente militare. Il regime di
Baghdad annunciò il ritiro dall’area e riconobbe ufficialmente la sovranità del Kuwait il 10
novembre dello stesso anno, in conformità alle risoluzioni dell’ONU. Ciò non fu ritenuto sufficiente
dagli Stati Uniti per rimuovere l’embargo, nonostante il parere favorevole di altri paesi occidentali.
Di fronte ai gravissimi problemi umanitari causati dall’embargo, nel 1995 l’ONU attenuò le
sanzioni, avviando con la risoluzione 986 il programma "Oil for Food" ("petrolio in cambio di
cibo"), che autorizzava l’Iraq a esportare due miliardi di dollari di greggio al semestre per l’acquisto
di viveri e medicinali.
Temendo che il regime iracheno potesse usare il programma per approvvigionarsi di materiale di
uso bellico, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna frapposero tuttavia molti ostacoli alla sua
applicazione. Nonostante l’isolamento internazionale, Saddam Ḥusayn riuscì a rimanere saldamente
in sella e nell’ottobre del 1995 un "plebiscito" gli conferì un nuovo mandato presidenziale di sette
anni. All’interno del regime e della stessa famiglia di Saddam Ḥusayn si verificarono tuttavia
contrasti e defezioni, affrontati dal dittatore con metodi spicci e brutali. Il caso più clamoroso fu la
fuga in Giordania del generale Kāmel Ḥasan al-Majīd e di suo fratello, entrambi generi di Saddam
Ḥusayn; inspiegabilmente tornati in patria, vennero assassinati pochi giorni dopo il rientro. Nel
1997 riprese lo scontro tra Saddam Ḥusayn e l’amministrazione statunitense, causato dagli ostacoli
frapposti dalle autorità irachene ai controlli dell’UNSCOM. L’Iraq contestò sia la composizione
della commissione, a suo dire troppo caratterizzata dalla presenza di statunitensi, sia la sua richiesta
di accedere a determinati siti (cosiddetti "presidenziali"), dove l’UNSCOM riteneva potessero
essere celati piani di armamento. Verso la fine dell’anno il contrasto fu appianato grazie alla
mediazione della Russia, in seguito alla quale Saddam Ḥusayn accettò la ripresa dei controlli.
Una nuova crisi con gli Stati Uniti, che minacciarono di ricorrere nuovamente alla forza contro il
regime iracheno, fu risolta in extremis nel dicembre 1998 dall’intervento personale del segretario
generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, che ottenne la ripresa delle ispezioni a patto di una
revisione sostanziale delle misure alle quali l’Iraq era sottoposto. Nonostante quest’ultimo accordo,
la questione rimase irrisolta. Agli inizi del 1999 gli aerei statunitensi e britannici ripresero le
incursioni sul territorio iracheno. Dopo il fallimento della missione UNSCOM, i rapporti tra le
autorità irachene e l’ONU proseguirono, senza tuttavia pervenire a risultati apprezzabili. La nuova
missione istituita dall’ONU (UNMOVIC, Commissione per il monitoraggio, la verifica e
l’ispezione degli armamenti iracheni) non ottenne infatti l’autorizzazione del governo iracheno, che
chiese prioritariamente la rimozione degli ostacoli frapposti dalle autorità statunitensi e britanniche
al funzionamento del programma "Oil for Food". Nel febbraio del 2001 la tensione tornò
improvvisamente a salire in seguito all’attacco compiuto da 24 bombardieri statunitensi e britannici
contro alcune postazioni radar alla periferia di Baghdad. L’incursione sollevò le proteste della
maggioranza dei paesi arabi e fu criticata anche da numerosi esponenti dei governi europei, in
particolare in Francia e in Germania. Dopo l’attacco terroristico subito dagli Stati Uniti l’11
settembre 2001 (vedi Stati Uniti d’America: 11 settembre 2001) e la successiva campagna militare
Enduring Freedom ("Libertà duratura") che abbatté il regime afghano dei Ṭālebān, l’Iraq tornò nel
mirino degli Stati Uniti; il governo di Washington accusò infatti il regime iracheno di produrre armi
di distruzione di massa, violando le risoluzioni dell’ONU.
Le aviazioni statunitense e britannica ripresero gli attacchi aerei contro obiettivi strategici e militari
iracheni, preparando il terreno per un nuovo intervento militare. Nel luglio 2002, nel tentativo di
scongiurare il conflitto, si svolse a Vienna un incontro tra il ministro degli Esteri iracheno e il
segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, per discutere la ripresa dei controlli
dell’UNMOVIC, senza tuttavia pervenire a un accordo. In seguito all’intensificarsi degli attacchi
aerei e all’esplicita minaccia degli Stati Uniti di scatenare una nuova guerra, a settembre l’Iraq
consentì la ripresa delle ispezioni dell’ONU.
Il presidente statunitense George W. Bush, scettico nei confronti dell’accordo, chiese una nuova
risoluzione dell’ONU che autorizzasse un nuovo intervento militare contro il regime di Saddam
Ḥusayn; la richiesta di Washington fu tuttavia accolta solo da pochi paesi e da un solo altro membro
del Consiglio di sicurezza dell’ONU, la Gran Bretagna. Il 1° ottobre, messo alle strette, l’Iraq firmò
l’accordo per la ripresa delle ispezioni, aprendola incondizionatamente a tutto il territorio nazionale
iracheno. Nell’autunno 2002 gli Stati Uniti e la Gran Bretagna iniziarono ad ammassare forze in
Kuwait, mentre diverse portaerei presero posizione nel Golfo Persico, nel Mar Rosso e nel
Mediterraneo orientale.
Accogliendo le richieste statunitensi, l’8 novembre il Consiglio di sicurezza dell’ONU promulgò la
risoluzione 1441, richiamando il governo iracheno al rispetto degli impegni di disarmo sottoscritti
con il cessate il fuoco del 1991; per l’opposizione di Francia, Russia e Cina, il Consiglio di
sicurezza non autorizzò tuttavia il ricorso automatico alla forza, limitandosi a minacciare "serie
conseguenze" qualora l’Iraq non avesse soddisfatto le richieste. Nonostante la ripresa dei
sopralluoghi degli ispettori dell’ONU e della distruzione degli arsenali iracheni, gli Stati Uniti
sollecitarono una nuova risoluzione che li autorizzasse all’uso della forza contro l’Iraq. La richiesta
venne sostenuta dalla sola Gran Bretagna, ma, corredata di prove incerte (che in seguito si
sarebbero rivelate del tutto infondate se non addirittura create ad arte), non trovò il sostegno degli
altri membri permanenti del Consiglio di sicurezza e cioè di Francia, Russia e Cina, che invece la
respinsero. Secondo i governi di Washington e Londra, la "guerra preventiva" contro il regime di
Saddam Ḥusayn era però inevitabile, per contrastare il terrorismo e le strategie di riarmo di altri
dittatori e per "prevenire", quindi, più sanguinosi conflitti.
Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sollevarono così un’aspra controversia, che divise la diplomazia
internazionale indebolendo irrimediabilmente il ruolo dell’ONU. Poi, il 19 marzo 2003, pur
trovandosi contro il segretario Kofi Annan e gli altri membri del Consiglio di Sicurezza, la gran
parte degli stati e delle opinioni pubbliche, nonché le principali autorità religiose internazionali,
lanciarono l’attacco contro l’Iraq. A sostenerli si schierarono una trentina di paesi, tra cui la Spagna,
l’Australia, la Danimarca, i Paesi Bassi. Molti di essi fornirono solo un sostegno politico; altri, tra
cui l’Italia, non presero parte all’offensiva ma inviarono truppe in un secondo momento, con
funzioni di stabilizzazione e di aiuto alla ricostruzione. La Francia, la Germania, la Russia e la Cina
criticarono apertamente la scelta bellica compiuta da Stati Uniti e Gran Bretagna; a loro si unirono
altri paesi, tra cui il Canada, la Nuova Zelanda, il Messico e il Brasile. L’operazione Shock and
Awe ("Colpisci e terrorizza") iniziò con un intenso bombardamento aereo su Baghdad e sulle altre
città irachene, che prese di mira le sedi del comando politico e militare così come le strutture di
comunicazione e industriali del paese. L’armata americano-britannica, penetrata nel paese dal sud e
dal nord (dove si avvalse del sostegno dei curdi), si impose agevolmente sulla resistenza irachena,
conquistando in pochi giorni gran parte delle città e assumendo nel contempo il controllo degli
impianti petroliferi.
Il 9 aprile l’avanguardia militare statunitense entrò a Baghdad. Saddam Ḥusayn si diede alla fuga,
mentre il suo regime andava sgretolandosi e il paese precipitava nel caos. Il 21 aprile, gli Stati Uniti
insediarono alla testa di un’autorità provvisoria (Coalition Provisional Authority, CPA) il generale
Jay Garner, che fu sostituito l’11 maggio dall’ambasciatore Paul Bremer. Il 1° maggio il presidente
statunitense Bush proclamò la fine della guerra. Il 22 maggio, su richiesta dello stesso Bush, il
Consiglio di sicurezza dell’ONU pose fine alle sanzioni contro l’Iraq con la risoluzione n. 1483.A
luglio venne instaurato un Consiglio interinale di governo, i cui posti chiave vennero assegnati a
membri dell’opposizione rientrati dall’esilio e ai rappresentanti delle comunità curda e sciita.
Tuttavia, nei mesi seguenti la situazione irachena andò via via deteriorandosi. Le forze alleate
incontrarono infatti una crescente resistenza, condotta da forze di origini e ispirazioni diverse (ex
membri del regime, dei servizi segreti e del disciolto esercito; miliziani iracheni e stranieri più o
meno legati ad al-Qāʿida; estremisti wahhabiti, salafisti e delle altre correnti della galassia radicale
islamica). Queste lanciarono una strategia terroristica mirante a colpire gli occidentali, militari e
civili, e gli iracheni loro alleati.
In agosto, un commando terrorista colpì la stessa rappresentanza dell’ONU, uccidendo l’inviato
speciale Sergio Vieira de Mello. Tra i primi effetti della guerra e della caduta del regime, vi fu
anche il risveglio delle tradizionali divisioni religiose e tribali tra la comunità sciita (maggioritaria
ma emarginata durante il regime bathista) e quella sunnita. In entrambe le comunità crebbe
comunque l’avversione contro l’occupazione militare e l’amministrazione straniera, anche a causa
di grossolani errori e di eccessi compiuti dalla truppe della coalizione; a tale proposito, grave fu agli
inizi del 2004 la crisi causata dalla diffusione delle immagini delle torture inflitte da alcuni militari
americani ai detenuti del carcere di Abū Ghrayb, che sollevarono nel mondo una generale
riprovazione. Di fronte alle difficoltà e allo stillicidio di caduti tra le file della coalizione, gli Stati
Uniti si rivolsero nuovamente all’ONU e alla comunità internazionale, chiedendo collaborazione. In
ottobre, con la risoluzione 1511, l’ONU riprendeva un ruolo centrale nella crisi irachena;
autorizzando la presenza della forza multinazionale in Iraq, fissava tuttavia un piano rivolto
all’elezione di un Parlamento e alla costituzione di un governo, cui sarebbe stata trasferita la
sovranità entro il mese di giugno del 2004. A dicembre, le forze americane catturarono Saddam
Ḥusayn nei pressi di Tikrit, la sua città natale. Nel marzo 2004, il Consiglio interinale di governo
raggiunse un accordo su una "legge di transizione", che avrebbe dovuto accompagnare il paese nel
delicato processo del passaggio dei poteri all’amministrazione civile nazionale.
Nello stesso mese scoppiò il conflitto all’interno della comunità sciita, una cui ala radicale minacciò
di unirsi ai sunniti, insorti in diverse città del centro del paese e soprattutto a Fallūja. L’8 giugno il
Consiglio di sicurezza dell’ONU, con la risoluzione 1546, avviò la fase di passaggio della sovranità
dall’amministrazione militare a un nuovo governo provvisorio iracheno. Questo, risultato di una
difficile ricerca dell’equilibrio tra le diverse comunità e soprattutto tra quelle sciita e curda, si
insediò il 28 giugno. Alla sua guida venne nominato lo sciita Iyad Allawi, uomo di fiducia degli
Stati Uniti, i quali conservarono larghi poteri, specialmente in materia di sicurezza. Il nuovo
governo, il cui principale compito era quello di far svolgere nuove elezioni e di redigere la nuova
carta costituzionale, si trovò di fronte a una difficile situazione. Nella comunità sunnita, che
svolgeva un ruolo pressoché marginale nel processo di transizione, si rafforzò intanto un’ala
radicale, che intensificò la sua offensiva guerrigliera e terroristica, dirigendola contro le nuove
istituzioni irachene e soprattutto contro le costituende forze di polizia.
In Iraq si susseguirono così migliaia di mortali attentati e di atti di sabotaggio. La città di Najaf, uno
dei principali santuari della guerriglia, venne stretta in un severo assedio dalle forze statunitensi e
conquistata infine a novembre dopo diverse settimane di violentissimi combattimenti condotti casa
per casa. In un clima di forte tensione, il 30 gennaio 2005 si svolsero le elezioni per eleggere il
nuovo Parlamento. Sfidando le minacce della guerriglia, otto milioni e mezzo di iracheni si
recarono tuttavia alle urne. Lo scrutinio segnò la rivincita degli sciiti e dei curdi, emarginati durante
il regime bathista, sulla comunità sunnita, il cui elettorato in larga parte disertò le urne. L’Alleanza
unita irachena sostenuta dall’ayatollah Ali al-Sistani, principale forza degli sciiti, ottenne infatti il
48% dei suffragi, seguita dall’Alleanza curda con il 26%. Uscì sconfitto dalle elezioni, penalizzato
dai suoi stretti legami con gli Stati Uniti, il capo del governo provvisorio Iyad Allawi, la cui lista
ottenne solo il 14% dei voti. Agli inizi di aprile Jalal Talabani, leader dell’Unione Patriottica del
Kurdistan, venne eletto alla presidenza del paese. Alla fine del mese, dopo difficili trattative estese
anche alla comunità sunnita nel tentativo di coinvolgerla nel processo di transizione, si insediò il
nuovo governo, alla cui guida fu nominato il leader dell’Alleanza unita irachena, Ibrāhīm al-Jaʿfarī.
In ottobre, con un referendum disertato dalla comunità sunnita, venne approvata una nuova
Costituzione. Nello stesso mese prese avvio il processo contro Saddam Hussein, accusato di crimini
contro l’umanità, e che verrà giudicato colpevole e impiccato.
Il governo di transizione promulgò una legge, in sei articoli, sul terrorismo. Il terrorismo venne
definito "ogni attività criminale compiuta da individui o gruppi contro individui, gruppi o
organizzazioni; il causare danno a proprietà nazionali e private con l'obiettivo di minare la
sicurezza, o alla società causando rivolte e disturbi tra la popolazione". Secondo la legge, che
faceva presa sul senso dell'onore delle tribù e sul nazionalismo di una parte del Paese, "il terrorismo
è considerato immorale e disonorevole".
Le elezioni legislative del 15 dicembre 2005 si concludono con la vittoria dell’Alleanza unita
irachena, che tuttavia si ferma al 41% dei suffragi mancando la maggioranza assoluta (128 seggi su
275). L’Alleanza democratica e patriottica del Kurdistan ottiene il 21,7% dei voti e 53 seggi. Al
terzo posto si piazza il Partito degli iracheni con il 15% dei voti e 44 seggi. Scarsa è la
partecipazione alle elezioni della comunità sciita, in seno alla quale è forte l’influenza delle
formazioni di resistenza armata al nuovo governo. Nonostante le pressioni statunitensi e
britanniche, la costituzione del nuovo governo viene più volte rimandata a causa dei disaccordi tra
le varie forze politiche. Nei primi mesi del 2006 si rafforzano le attività guerrigliere contro le forze
d’occupazione e si intensifica lo scontro tra le comunità sciita e sunnita, con diversi attentati a
moschee che provocano la morte di centinaia di persone. Tragico è il bilancio dei tre anni di
conflitto. I morti iracheni ammontano a diverse decine di migliaia (più di 100.000, secondo alcune
fonti); pesanti sono anche le perdite delle forze di coalizione, tra le quali gli Stati Uniti, con più di
3400 morti e migliaia di feriti, pagano il più alto prezzo. Secondo il programma alimentare delle
Nazioni Unite il governo succeduto alla guerra non è stato in grado di apportare significati
miglioramenti alle condizioni di vita dei bambini iracheni. Secondo lo studio dell'ONU le
condizioni si possono definire peggiori a quelle precedenti alla guerra. Durante il regime di Saddam
Hussein i bambini almeno avevano accesso al programma internazionale di aiuti umanitari.
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