Corso di Studio: Scienze Naturali e Ambientali Anno di Corso di Studio: II Nome insegnamento: Biosistematica e fisiologia vegetale – modulo: Botanica sistematica CFU: 3 Frequenza: consigliata Dati del docente Nome: Lorenzo Peruzzi Dipartimento: Biologia (Unità di Botanica, via Luca Ghini 13) Telefono: 050 2211339 E-mail: [email protected] Sito web: http://www.biologia.unipi.it/index.php?id=157_biography Orario di ricevimento: su appuntamento Luogo di ricevimento: Dipartimento di Biologia (vedi sopra) Testi di riferimento: Judd W.S. & al., 2007 – Botanica sistematica: un approccio filogenetico, Ed. 2. Piccin, Padova Mauseth J.D., 2006 – Botanica - Biodiversità. Idelson-Gnocchi, Napoli. Raven P.H., Evert R.F., Eichhorn S.E., 2002 – Biologia delle piante. Zanichelli,Bologna Willis K.J., McElwain J.C., 2002 – The evolution of plants. Oxford University Press Ingrouille M.J. & Eddie B., 2006 – Plants. Diversity and Evolution. Cambridge University Press Prove di verifica dell’apprendimento: Prova orale finale (?) Programma dettagliato del corso La diversità biologica a livello genetico, tassonomico e ecosistemico. Sistemi di classificazione e nomenclatura: dai sistemi artificiali a quelli filogenetici. I grandi gruppi di diversità vegetale: “Imperi” Prokaryota ed Eukaryota. Importanza dell’endosimbiosi per l’evoluzione dei gruppi vegetali. Caratteri generali, riproduzione, significato ecologico, sistematica del Regno Bacteria (Sottoregni Negibacteria ed Unibacteria), con particolare riferimento al Phylum Cyanobacteria. Caratteri generali, principali cicli biologici, ecologia, filogenesi, sistematica, interesse economico ed esempi del Regno Fungi. Simbiosi fungine (micorrize; licheni) e loro significato bioecologico. Caratteri generali, cicli biologici, ecologia, filogenesi, sistematica ed esempi dei Regni Protozoa e Chromista, con particolare riferimento alla Divisione Heterokontophyta. Caratteri generali, cicli biologici, ecologia, filogenesi, sistematica ed esempi del Regno Plantae con particolare riferimento ai Phyla Rhodophyta, Chlorophyta, Charophyta. Caratteristiche e principali tappe evolutive delle piante terrestri (classe Embryopsida) La botanica sistematica La relazione tra sistematica, tassonomia e nomenclatura Il concetto di specie Il concetto di specie è molteplice, e può essere interpretato sotto vari aspetti: -biologico -evoluzionistico -tassonomico (identifica le specie come binomio) Aristotele (384-332 a.c.) L’iniziatore delle scienze della natura. Sono rimaste però solo copie delle sue opere (sette delle quali dedicate alle piante). Aveva della specie un concetto essenzialista, cioè identificava negli organismi l’essenza di un’idea tipologica concettuale. Mai considerò i concetti di genere e specie. Teofrasto (371-287 a.c.) Discepolo di Aristotele, scrisse 15 libri sulle piante. Identificò quattro categorie di vegetali: alberi, arbusti, cespugli (phrygana) ed erbe. Identifica già fatti biologici di grande importanza quali la riproduzione per seme e per via vegetativa e alcuni gruppi di diversità ancora oggi attualmente riconosciuti (Leguminosae, Labiatae) anche se con nomi diversi. Studiando la palma da dattero (Phoenix dactylifera), una specie dioica, riconobbe che era necessario spolverare la pianta femminile col polline maschile, non capendone però il significato. Fino al 1600 nessuno tentò di definire concetti tassonomici o di specie. John Ray (1627-1705): Historia plantarum (1686-1704). “Per poter dare inizio all'inventario delle piante e ad una loro corretta classificazione, dobbiamo scoprire criteri adatti a distinguere quelle che chiamiamo specie. Dopo lunga e paziente ricerca, nessun criterio più sicuro per delimitare le specie mi è venuto alla mente, tranne quello di distinguere le forme che si propagano per seme” ("distincta propagatio ex semine") Il concetto di specie è fissista e riflette il creazionismo Carlo Linneo (1707-1778) Systema Naturae (1737): "Species tot sunt quod ab initio creavit Infinitum Ens" "varietates laevissimas non curat botanicus" Philosophia botanica (1737): "Varietas est planta mutata a causa accidentali, climate, solo, calore, ventis et cetera" La constatazione della variazione lo induce a ritenere poi i soli generi come unità fissate dalla creazione divina. Buffon e Lamarck Georges Buffon (1707-1788): "Si deve considerare come stessa specie quella che per mezzo della generazione si perpetua e consacra la stessa specie. Come specie differenti quelle che con lo stesso mezzo non possono produrre nulla insieme: l'ibridazione non dà frutto. La volpe sarà una specie differente dal cane se, dall'ibridazione di un maschio e una femmina delle due specie non risulta nulla e se anche ne risultasse un animale intermedio, poiché esso non produrrebbe nulla, ciò sarebbe sufficiente per stabilire che volpe e cane non sono della stessa specie. Per costruire una specie è necessaria una produzione continua, perpetua, invariabile, simile a quella degli altri animali" Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829): Classi, ordini, famiglie, ecc. sono una proiezione della mente umana. La natura crea individui (teoria nominalistica). La specie quindi sarebbe una “astrazione” Verso il concetto moderno di specie Darwin (1809-1882) nel 1859 pubblica "On the origin of the species" e rifiuta la concezione fissista. La specie è una realtà dinamica plasmata dalla selezione naturale. Le variazioni, anche di modesta entità, diventano importanti Jordan (1814-1897), intorno al 1860, analizzò le differenze morfologiche in Draba verna (oggi Erophila verna) una crucifera che ha la possibilità di autofecondarsi. Scoprì circa 200 microvarianti morfologiche. Queste piccole unità geneticamente distinguibili (microspecie) vennero in seguito chiamate Jordanioni Lucien Quenot, intorno al 1930, sintetizzò la definizione di specie con la formula MES: M= morfologia/fisiologia E= ecologia/distribuzione S= sterilità esterna/fecondità interna Theodosius Dobzhansky (1900-1975): la specie è uno stadio del processo di divergenza evolutiva in cui una serie di forme, prima liberamente incrociantesi, si divide in serie separate, impedite ad incrociarsi l'una con l'altra da qualche meccanismo di isolamento fisiologico. La specie è quindi qualcosa che non può essere fissato nel tempo e nello spazio (1937). Ernst Mayr (1904-2005) “Le specie sono gruppi di popolazioni naturali attualmente interfeconde, che sono riproduttivamente isolati da altri” (1942) “La specie è una comunità di popolazioni interfeconde, riproduttivamente isolate da altre, che occupano una specifica nicchia in natura” (1969, 1982) Da notare che ciò vale per organismi anfimittici, non apomittici La specie tassonomica Rappresenta l’unità tassonomica di base in biologia e si identifica con un binomio latino e il nome dell’autore. Il binomio è legato ad un tipo che fa da riferimento poi per le successive identificazioni (tramite un processo di analogia tra più individui). Tipo = esemplare (generalmente un campione d’erbario) cui l’autore ha legato il nome da lui descritto. Il concetto di tipo non riguarda quindi la sistematica ma la nomenclatura (un particolare aspetto della tassonomia) Warren Wagner (1920-2000) “La specie è un’utile categoria tassonomica per definire un’unità di diversità (un’unità sistematica quindi) (“unit of organismic diversity”) in un dato intervallo di tempo e costituita da individui simili per tutti o parte dei loro caratteri strutturali e funzionali che si riproducono con ogni mezzo – gamico o agamico – (Wagner dice esattamente “sessuato” o “asessuato”, ma la sua definizione riguarda le piante superiori), unità che costituisce una distinta linea filogenetica, la quale differisce consistentemente e persistentemente da popolazioni di altre specie per una serie di combinazioni di caratteri (geografici, ecologici, fisiologici, morfologici, anatomici, citologici, chimici e genetici) il cui numero e tipo (di caratteri) è abitualmente utilizzato per distinguere specie nello stesso genere o in generi correlati; e che se è parzialmente o totalmente simpatrica con altre unità negli stessi habitat è incapace di incrociarsi con loro, o se ne è capace, riesce comunque a mantenere una propria speficica distinzione” (1984) L’utilizzo di una combinazione di due nomi (epiteti) per designare una specie è stato introdotto da Linneo (per il mondo vegetale: Species Plantarum, 1753), infatti a tal riguardo si parla di codice binomiale o codice linneano. Nella biologia pre-linneana i nomi degli organismi erano definiti da dei polinomii es. uno dei nomi pre-linneani del comune pino da pinoli era: Pinus ossiculis duris, foliis longis mentre l’attuale nome scientifico è Pinus pinea L. Il primo epiteto del binomio si riferisce al genere (termine generico) mentre il secondo è riferito alla specie (epiteto specifico). I due nomi latini vengono inoltre seguiti dal nome (spesso abbreviato) dell’autore che per primo ha descritto la specie. L’indicazione dell’autore è necessaria poichè a volte autori diversi hanno inconsapevolmente utilizzato lo stesso nome per specie diverse (così come a volte sono stati dati nomi diversi alla stessa specie). Bisogna precisare che il termine generico è unico, mentre lo stesso epiteto specifico può essere posseduto da più specie. Per esempio la veccia (Vicia sativa L.) e molte altre specie hanno lo stesso epiteto specifico del castagno (Castanea sativa Mill.). E’ dunque necessario designare una specie indicando sempre l’intero binomio. Soffermandoci sulle modalità di descrizione di una specie tassonomica (e, quindi, sull’assegnazione del nome alla stessa), bisogna ricordare che una regola di base risiede nel principio di priorità. In base a questo principio per ogni specie è valido solo il primo (in ordine di tempo) nome correttamente attribuito e, parallelamente per ogni nome attribuito è valido solo il primo uso che ne è stato fatto. L’intento di questo principio è di evitare quelle situazioni indicate precedentemente che possono essere fonte di confusione. Una situazione differente si ha quando una specie originariamente ascritta ad un genere da un autore, successivamente, alla luce di nuove evidenze scientifiche, è stata cambiata di genere da un altro autore. In questo caso il binomio più recente è seguito sia dal nome dell’autore originario, posto tra parentesi, sia da quello dell’autore cui si deve la risistemazione a livello generico. Consideriamo per esempio il caso dell’ontano nero, questa specie fu descritta da Linneo come Betula glutinosa, successivamente si è visto che la stessa specie è invece meglio ascrivibile al genere Alnus. Così oggi l’ontano nero viene definito come Alnus glutinosa (L.) Gaertn.; questa dicitura ci informa che la specie è stata descritta per primo da Linneo, mentre dopo Joseph Gaertner (1732-1791) l’ha inserita nel genere Alnus. Il primo nome adottato per un taxon prende il nome di basionimo (nel caso precedente, quindi, Betula glutinosa L. è il basionimo di Alnus glutinosa (L.) Gaertn. L’insieme di tutte le informazioni che l’autore ha riferito ad un determinato taxon prende il nome di protologo. La descrizione e l’assegnazione di un nuovo nome ad una specie necessita in primis della individuazione di un individuo (o un gruppo di individui) che presentano caratteri non compatibili con alcuno delle specie già descritte; oppure si può avere il caso in cui si rilevino delle congrue differenze tra individui finora considerati appartenenti alla stessa specie. A questo punto, affinchè l’autore sia in grado di designare validamente un binomio per la specie che ritiene di avere individuato deve, nel momento in cui procede alla pubblicazione del nome, accompagnarlo con una diagnosi e con l’indicazione del typus. La diagnosi è la descrizione (in latino) della nuova specie, mentre il typus è un individuo di riferimento, di norma si tratta di un campione conservato in erbario sotto forma di exsiccatum. Bisogna sottolineare che il tipo di una specie non deve per forza essere l’esemplare più tipico della specie stessa, infatti esso è semplicemente l’esemplare cui si riferisce il binomio assegnato. Dunque esiste una stretta corrispondenza solo tra tipo e nome della specie e non tra tipo e variabilità della specie stessa. Prima del 1958, non era obbligatorio designare un typus durante la descrizione di una specie. Ciò ha portato all’esigenza di tipificare molti nomi descritti prima di quella data, come ad esempio tutti quelli di Linneo (es. Linnean Typification Project). Questo processo è ancora ben lungi dall’essere concluso. Esistono quindi varie categorie di tipi: Holotypus – Indicato espressamente (deve comparire la parola “typus”) dall’autore nel protologo. Dopo il 1958 abbiamo solo Holotypi. Paratypus – Indicato dall’autore nel protologo, oltre all’Holotypus. Syntypus – Qualora l’autore indichi più di un campione, senza sceglierne alcuno come typus, essi sono tutti syntipi. Isotypus – duplicato del typus. Lectotyus – Singolo campione, scelto a posteriori da uno studioso tra il materiale sicuramente utilizzato dall’autore originario del taxon e che sia corrispondente alla descrizione data. Molto importante ai fini della tipificazione delle specie descritte da Linneo. Neotypus – Da designarsi qualora il tipo di una specie sia andato distrutto o disperso sulla base di tutte le informazioni possibili (non solo protologo). Epitypus – Materiale di supporto (può essere anche l’indicazione di una specifica popolazione vivente!) al typus, qualora quest’ultimo sia insufficiente ad una chiara applicazione del taxon in questione. Particolarmente utilizzato nel caso di iconotipi. Unità tassonomiche Regno Divisione (o Phylum) Classe Ordine Famiglia Genere Specie Sono valide combinazioni costruite con i prefissi "super-", "sub-" e Tribus, subtribus, Sectio, Subsectio, Series, Subseries, Varietas, Subvarietas, Forma, Subforma Le informazioni sulle discontinuità e, quindi, sulle unità di diversità ottenute dallo studio della variabilità delle piante (cioè dalla sistematica), necessitano successivamente di un processo di organizzazione definito classificazione. Pertanto la classificazione deve condurre ad inserire i modelli di variabilità identificati all’interno di un sistema logico costituito da una serie di categorie. Perciò gli individui vengono riuniti in gruppi collettivi. Questi gruppi si chiamano taxa (singolare: taxon), e la scienza che li delimita, ne studia la struttura e le modalità di aggregazione in taxa di ordine superiore è la tassonomia. I sistemi tassonomici comunemente utilizzati sono gerarchici, cioè al loro interno i taxa sono stratificati in modo che un livello più elementare sia incluso in livelli via via più alti e più comprensivi. Inoltre i sistemi da noi utilizzati sono esclusivi, cioè un taxon può appartenere ad un solo taxon di ordine superiore. Riguardo ai criteri secondo cui le specie vengono organizzate all’interno di un sistema tassonomico, bisogna dire che essi rispecchiano le finalità (in termini di informazione) che il sistema stesso possiede. Da questo punto di vista distinguiamo i sistemi artificiali (che riuniscono le piante secondo un criterio di comodo, per esempio in relazione al valore agronomico, alle proprietà fitoterapeutiche etc.), dai sistemi naturali (in cui vengono messe in evidenza le affinità tra le specie vegetali indipendentemente dal loro rapporto con l’uomo). Andrea Cesalpino: De Plantis (1583). Classificazione sulla base della morfologia di frutto e seme Il sistema sessuale di Linneo (Classes Plantarum, 1738) è puramente arbitrario e, quindi, artificiale. Comunque la struttura di tale sistema presenta due doti fondamentali, può essere espanso all’infinito (è aperto) ed è molto funzionale per l’identificazione di ciascuna pianta di cui non si conosce il nome (per comparazione con la specie più simile già descritta). Oggi questo sistema non è più utilizzato a fini di classificazione, però la sua logica è alla base dei manuali di identificazione delle piante (le cosiddette chiavi analitiche). Oggi la tendenza è quella di sviluppare dei sistemi di classificazione che siano naturali, e rispecchino quindi, per quanto possibile, le reali affinità filogenetiche tra gli organismi. Ciò può essere possibile solo considerando il maggior numero possibile di caratteri, provenienti dalle più svariate fonti di informazione es. macro- e micro-morfologia, cariologia, biochimica, embriologia etc. Lo sviluppo del sistema tassonomico si accompagna con la creazione di un linguaggio, rigidamente formalizzato, che deve rendere univoche tutte le definizioni tassonomiche. Nasce perciò l’esigenza dello sviluppo di un sistema di nomenclatura semplice ed utilizzato da tutti i botanici. Il codice di nomenclatura permette di sintetizzare il rango tassonomico di un determinato gruppo con il nome scientifico ad esso assegnato. Pertanto dare un nome formalmente codificato ad un gruppo tassonomico, non vuole indicare le sue caratteristiche o la sua storia, ma è necessario per fornire un termine di riferimento compreso da tutti, e per indicarne il rango tassonomico. Oggi il sistema nomenclaturale è riportato nel Codice di Melbourne (2012) detto anche Codice Internazionale di Nomenclatura per Alghe, Funghi e Piante. Questo codice rappresenta un metodo stabile per la denominazione dei gruppi tassonomici, il cui scopo principale risiede nell’evitare o eliminare l’uso di nomi che possono essere fonte di o comunque produrre confusione. La base del codice è costituita da sei Principi, quindi abbiamo una serie di Regole (organizzate in Articoli) e Raccomandazioni. Uno dei principi impone l’utilizzo della lingua latina per tutti i nomi scientifici. Le regole vogliono uniformare i nomi passati e far si che quelli futuri siano assegnati correttamente; perciò i nomi passati o futuri in disaccordo con esse non possono essere mantenuti o accettati. Le raccomandazioni sono dei punti sussidiari che hanno lo scopo di aumentare l’uniformità e la chiarezza dei nomi assegnati, esse sono rivolte ai nomi futuri; dunque un nome assegnato in disaccordo ad una raccomandazione non può essere rigettato ma non rappresenta un esempio da seguire. Riguardo i taxa di rango superiore a quello specifico, i loro nomi derivano di norma dal nome di un taxon di rango immediatamente inferiore in essi compreso, cui viene apposto un determinato suffisso. I seguenti suffissi sono validi solo nel Regno Plantae: Rango Specie Genere Sottotribù Tribù Sottofamiglia Famiglia Superfamiglia Sottordine Ordine Superordine Sottoclasse Classe Sottodivisione Divisione (o Phylum) Sopradivisione Sottoregno Regno Suffisso -inae -eae -oideae -aceae -ae -ineae -ales -anae -idae -opsida -ophytina -ophyta -ophytanae -obiotina (-biota) Taxon Lilium candidum L. Lilium Lilieae Lilioideae Liliaceae Liliales Lilianae Magnoliidae Embryopsida Charophyta Viridiplantae (o Phytobiotina) Plantae (o Phytobiota) Ogni Regno ha dei suffissi specifici, che spesso possono differire tra loro. Ad esempio, nel Regno Fungi, la Divisione si indica con il suffisso –mycota, nel Regno Animalia con -zoa etc. Plasticità morfologica e genetica delle specie vegetali Rispetto al mondo animale: maggiore plasticità morfologica e, soprattutto, genetica. Una pianta presenta un margine di variabilità morfolofica (dimensione generale, taglia e forma delle foglie, colore e dimensione dei fiori etc.) ben superiore a quello di un animale; ciò è in larga parte riconducibile alla sua possibilità di accrescimento indefinito. Infatti, la presenza e la persistenza, durante tutto l’arco vitale dell’individuo, di tessuti indifferenziati (primari e secondari) ne permette una crescita dimensionale che spesso è solo funzione del tempo e delle risorse disponibili. Oltre alla variabilità del fenotipo (cioè l’insieme dei caratteri espressi), le piante presentano anche una grande plasticità a livello del genotipo (cioè l’insieme dei caratteri codificati dal DNA), ciò offre grandi possibilità di differenziamento. Oltre che a fenomeni come le mutazioni (che interessano anche gli animali), le variazioni genetiche nelle piante sono associate alle peculiarità dei loro processi riproduttivi (vedi i vari tipi di riproduzione gamica (biparentale o uniparentale) o agamica (sempre uniparentale). Il valore della diversità tra gli organismi è prevalentemente di natura adattativa: spesso è possibile ricondurre a tale aspetto anche la complessa variabilità osservata tra i vegetali. Consideriamo ad esempio una tra le più rilevanti differenze che esistono tra un vegetale ed un animale: la capacità di movimento. In effetti, l’immobilità delle piante potrebbe incidere in maniera decisiva sia sul loro successo vegetativo (in relazione alla ricerca di risorse, impossibilità di evitare condizioni ambientali sfavorevoli quali ad esempio il clima avverso, competizione interspecifica ed intraspecifica etc.), sia sulla performance riproduttiva (dispersione dei gameti, ricerca del partner, accoppiamento e fecondazione, dispersione delle nuove generazioni etc.) Di fronte a queste problematiche vi sono due sole vie percorribili: risposte attive (migrazioni o comunque spostamenti più o meno ampi nell’ambito del proprio territorio) o risposte passive (variazioni morfo-fisiologiche, sviluppo di organi di resistenza, adozione di sistemi di trasferimento indiretto di gameti, embrioni etc.). Naturalmente le piante non hanno potuto adottare che soluzioni di natura prevalentemente passiva ai problemi originati dal proprio ambiente. Pertanto emerge un dato fondamentale dal punto di vista adattativo: il vincolo territoriale delle piante. Verosimilmente proprio per la necessità di dover affrontare le mutevoli condizioni ambientali, senza potere fuggire attivamente alle fasi ostili, nel mondo vegetale viene espressa una ampia capacità di variazione di quelli che possono essere i modelli fenotipici e genotipici di base. Questa variabilità può essere espressa sia a livello di individuo (variabilità parziale), a livello inter-individuale (variabilità individuale) che, più spesso, a livello di popolazione (variabilità popolazionale). Infatti è molto probabile che, condividendo nello stesso tempo lo stesso luogo, tutti gli individui di una medesima popolazione siano soggetti alle stesse condizioni ecologiche e, quindi, presentino una alta omogeneità fenotipica e genotipica. Esempi di variazioni espresse a livello di individuo/popolazione Variabilità parziale Spesso, in singoli individui, la forma delle foglie può variare anche di molto (eterofillia). Un esempio è dato dal leccio (Quercus ilex L.), tipica quercia sempreverde dei nostri territori. Accade sovente che i lecci che vivono in aree molto ombreggiate (es. nel sottobosco) presentino foglie decisamente più ampie di quelli che vivono in aree più esposte alla luce solare. Inoltre individui di leccio possono presentare foglie più coriacee, tendenti ad arricciarsi lungo il margine fino a diventare quasi spinose (divengono simili a quelle dell’agrifoglio, Ilex aquifolium L.). Ciò può essere il risultato di una tipica risposta ad uno stimolo biotico (la predazione), e infatti si registra soprattutto nelle piante giovani o, in piante adulte, nelle foglie poste più in basso. Nell’edera (Hedera helix L.) e in Ficus repens Rottl. le foglie dei rami fioriferi sono profondamente diverse da quelle dei rami normalmente rampicanti. Variabilità individuale Una certà variabilità (genetica) individuale, nelle specie anfimittiche, è dovuta alle caratteristiche intrinseche nella riproduzione sessuale (comprese le ricombinazioni geniche che avvengono durante il crossing over nella meiosi). Spesso però, in risposta a possibili fenomeni abiotici e biotici registrabili nell’ambiente in cui l’organismo vive, si possono avere variazioni nella forma generale della pianta (portamento). Molte specie di piante erbacee, se crescono in ambienti soggetti a calpestio o pascolo presentano piccola taglia e portamento prostrato, mentre se crescono in ambienti non disturbati assumono un portamento eretto. QUESTE VARIAZIONI MORFOLOGICHE CONTINGENTI NON SONO GENETICAMENTE FISSATE Unità tassonomica generalmente utilizzata (ormai rara): Forma Uno dei casi più comuni riguarda le piante che vivono lungo un ampio gradiente altitudinale, in questo caso sarà facile osservare come gli individui che crescono alle quote superiori presentino una forma generale (cioè un portamento) diverso da quelli che vivono in basso. Un esempio è dato dal faggio (Fagus sylvatica L.), che noi conosciamo come pianta arborea, le cui foglie sono normalmente tenere con una ampia lamina. Quando il faggio si trova lungo le creste montuose vicino alle quote limite per la sua crescita (ca. 2000 m s.l.m.), la forte esposizione a sole e vento e l’effetto delle temperature (più basse e secche) ne determinano una crescita arbustiva, spesso a pulvino e con foglie meno espanse e più coriacee. Variabilità popolazionale Cline = variabilità continua in una certa specie, FISSATA GENETICAMENTE, e correlata ad un gradiente ecologico e/o geografico Unità tassonomica generalmente utilizzata: Varietà o Sottospecie Razze geografiche e/o ecologiche: variabilità discontinua in una certa specie, FISSATA GENETICAMENTE, e correlata a differenze nella distribuzione geografica o ecologia, rispettivamente Turesson, 1922 Unità tassonomica generalmente utilizzata: Sottospecie Abbiamo visto quindi che tra le popolazioni che compongono una specie, la variabilità geografico-ecologica può esprimersi in maniera continua oppure questa variabilità può assumere una distribuzione discreta in modo da segregare delle razze locali. Essendo la presenza di un cline di norma legata ad una distribuzione continua della specie nel suo areale, ne consegue che lo scambio genetico tra le popolazioni non viene interrotto. Al contrario l’origine di razze geografiche ed ecotipi è legata alla presenza di barriere (geografiche e/o ecologiche) che possono isolare anche riproduttivamente le stirpi stesse; pertanto questi fenomeni possono determinare l’avvio di processi speciazione nelle piante biparentali (la maggioranza). C’è anche da ricordare che comunque l’anfimissia, almeno nelle embriofite, è sempre la condizione riproduttiva di partenza. Con il termine di speciazione si intende il processo definito anche microevoluzione che determina la nascita di nuove specie. Alla base di un fenomeno di speciazione vi è la differenziazione di nuovi genomi. Tuttavia la nascita di un nuovo genoma non comporta sempre l’origine di una nuova specie, infatti il nuovo genoma può originare un fenotipo che non permette l’adattamento sotto determinate condizioni e, perciò, viene eliminato. Pertanto possiamo affermare che la nascita di una nuova specie è legata alla comparsa di un nuovo genoma, che si conserva in seguito ad isolamento riproduttivo, e che origina un fenotipo con caratteri favoriti dai processi di selezione. Ogni nuovo genotipo che si origina è soggetto all’azione della selezione che agisce sul corrispondente fenotipo e, in definitiva, ne permette o meno l’insediamento ed il mantenimento in un determinato ambiente. Così possiamo definire la selezione naturale come l’insieme delle cause che favoriscono la riproduzione preferenziale di alcuni genotipi rispetto ad altri. La selezione può agire su una popolazione in maniera diretta o indiretta (es. agendo sui parassiti della specie o su suoi predatori). Possiamo distinguere tre forme di selezione. Selezione direzionale: è associata al continuo variare dell’ambiente (relazioni abiotiche e biotiche) in cui una specie vive ed alla variazione della specie stessa (senza che si originino nuove specie). Selezione disruptiva: comporta la formazione di nuove specie a partire da una specie madre, è associata spesso a drastiche variazioni ambientali che determinano la scomparsa della specie madre e la persistenza quali nuove specie di stirpi da essa originate (es. ecotipi). Selezione stabilizzatrice: agisce su specie tipiche di ambienti ben definiti ed omogenei, pertanto determina col tempo un abbassamento della variabilità della specie. Grazie ai fenomeni riportati dunque possono nascere nuove specie. Le modalità con cui ciò si verifica sono fondamentalmente due. La prima è caratterizzata dal progressivo differenziamento della popolazione originaria (speciazione graduale). La seconda comporta la brusca formazione di nuovi genomi e la loro affermazione (speciazione improvvisa). La speciazione graduale o allopatrica è tipicamente associata alla formazione di razze geografiche e/o ecotipi ai margini dell’areale di una data specie. Il risultato è una o più nuove specie con areale distinto rispetto a quello della specie madre (da cui il termine di allopatrica). 1 buoni esempio (tra i tanti possibili) vengono dalla Famiglia Pinaceae: genere Abies nel Mediterraneo Tutti hanno 2n = 24 cromosomi e formano un ologamodemo. A. borisii-regis è di origine ibridogena tra A. nordamanniana e A. cephalonica, poiché le due specie vengono in contatto Abies alba A. nordmanniana A. pinsapo A. marocana A. borisii-regis A. nebrodensis A. numidica A. cephalonica A. cilicica La speciazione improvvisa o simpatrica è associata all’origine improvvisa di una nuova forma (associata ad un nuovo genoma) all’interno dell’areale di una data specie. Il risultato è una o più nuove specie dislocate in maniera puntiforme all’interno dell’areale della specie madre (da qui la definizione di simpatrica). Le mutazioni genomiche (soprattutto la poliploidia) sono spesso alla base di questo fenomeno. Abbiamo visto che la diversità origina delle discontinuità che permettono di delimitare delle unità di diversità. Le mutazioni I meccanismi primari che conducono all’esitenza di genomi diversi sono le mutazioni: geniche – puntiformi, relative a una o poche coppie di geni alleli cromosomiche – interessano frammenti di cromosomi (delezione, duplicazione, inversione, traslocazione) genomiche – il fattore di variabilità più importante per l’evoluzione dei vegetali 1) poliploidia – moltiplicazione del genoma di base (artioploidi: 2x, 4x, 6x etc. o perissoploidi: 3x, 5x, 7x etc.) 2) aneuploidia – il numero dei cromosomi non è multiplo esatto del genoma di base ma ne diverge per una o più unità cromosomiche in eccesso (iperploide) o in difetto (ipoploide). Deriva da mutazioni cromosomiche stabilizzate. 3) aploidia – rara e difficilmente osservabile in natura (importante per l’uomo) Le mutazioni genomiche portano alla variazione del numero cromosomico che, a differenza di quanto si registra negli animali, nelle piante frequentemente può variare anche all’interno della stessa specie. Tali variazioni (soprattutto la poliploidia) interessano il 50 – 70 % delle piante con fiore ed il 95 % delle felci. Infine riportiamo la possibile presenza dei cosiddetti cromosomi B (= cromosomi accessori) che di norma sono più piccoli dei normali cromosomi, non presentano centromero e quindi variano a caso anche nell’ambito delle cellule uno stesso individuo. Possono anche verificarsi casi in cui poliploidia, aneuploidia e presenza di cromosomi B siano in vario grado associati. esempi di autopoliplodia Plantago media (diploidi solo nella porzione meridionale dell’areale) Dactylis glomerata (gigantismo somatico) esempi di allopoliploidia Galeopsis tetrahit (specie spontanea “ottenuta” anche sperimentalmente) Triticum aestivum (ibrido alloesaploide) Progenitori selvatici dei principali tipi di frumento coltivati, ottenuti tramite domesticazione dall’uomo da Zohary & Hopf, 1993 – Domestication of plants in the Old World Triticum monococcum subsp.Triticum boeoticum turgidum subsp. dicoccoides Aegilops squarrosa Diploide 2n = 14 (AA) Tetraploide 2n = 28 (AABB) Diploide 2n = 14 (DD) spighe fragili, cariossidi vestite spighe fragili, cariossidi vestite mai domesticata domesticazione monococco coltivato Triticum monococcum subsp. monococcum Diploide 2n = 14 (AA) spighe non fragili, cariossidi vestite ampiamente coltivato in passato, relitto oggi domesticazione farro coltivato Triticum turgidum subsp. dicoccum Tetraploide 2n = 28 (AABB) spighe non fragili, cariossidi vestite ampiamente coltivato in passato, relitto oggi Direttamente derivato dal farro: grano duro, con cariossidi nude T. durum (comunemente coltivato nei climi di tipo addizione del genoma D tramite ibridazione grano tenero coltivato Triticum aestivum Esaploide 2n = 42 (AABBDD) spighe non fragili. Inizialmente cariossidi vestite (T. spelta, relitto oggi), e direttamente derivato da esse, il comune grano tenero a cariossidi nude universalmente coltivato esempi di aneuploidia Fritillaria montana (aneuploidia per fusione centrica) di norma, altri rappresentanti del genere Fritillaria hanno 2n = 24 cromosomi con 2 coppie di cromosomi grandi metacentrici e 10 coppie di cromosomi più piccoli telocentrici F. montana ha 2n = 18 cromosomi: 5 coppie di cromosomi grandi metacentrici e 4 coppie di cromosomi più piccoli telocentrici 6 coppie di cromosomi telocentrici, per traslocazione robertsoniana, si sono fuse a formare 3 coppie di cromosomi metacentrici F. messanensis x=9 2n = 24 F. montana 2n = 18 di questa specie, esistono anche degli autotriploidi 2n = 3x = 27 F. imperialis ruolo dei B-cromosomi Listera ovata 2n = 34 ± 0-12 B-cromosomi Nelle popolazioni della Gran Bretagna, che crescono nelle brughiere, l’85% delle piante studiate presentava B-cromosomi in numero elevato (4-12). In Germania ci sono popolamenti con il 50%, sulle Alpi Apuane il 35% delle piante presenta B-cromosomi, e pochi (max 3). In alcuni valloni presso Amalfi (limite meridionale di distribuzione di questa specie) le piante non presentano mai B-cromosomi In presenza di B-cromosomi i crossing over alla meiosi aumentano molto (maggiore variabilità e maggiore adattabilità) Ibridazioni, introgressioni, fenomeni di autofecondazione, fenomeni apomittici etc. possono poi ulteriormente accrescere (o limitare) la variabilità genetica (già creata però precedentemente dalle mutazioni) Riguardo all’isolamento riproduttivo si deve sottolineare che questo non è solo funzione dello spazio, ma è anche fortemente legato alle caratteristiche biologiche proprie della specie (meccanismi di impollinazione, di dispersione, modalità di sviluppo delle strutture riproduttive etc.). In tal modo, avendo definito microevoluzione l’insieme dei fenomeni che porta alla nascita di nuove specie, possiamo parlare anche di macroevoluzione o megaevoluzione, quando ci riferiamo all’origine di grandi gruppi di organismi. Lo studio macroevolutivo si basa è basato sulle indagini delle tracce fossili lasciate dalla la comparsa (o la scomparsa) di grosse unità vegetali. Le speculazioni sui fossili non hanno chiarito come agiscano i fenomeni macroevolutivi (ammesso che, come sostenuto da alcuni autori, siano diversi da quelli microevolutivi). Soprattutto appare difficile spiegare l’apparentemente brusca ed improvvisa affermazione delle piante con fiori (Magnoliopsida); questo ha determinato la nascita di numerose teorie. Comunque qui ricordiamo brevemente tre ipotetici modelli: gradualisti, discontinui e la teoria delle zone adattative. Secondo il modello gradualista l’azione di situazioni ambientali particolarmente favorevoli può aver determinato un’apparente accelerazione del corso evolutivo dei vegetali (in particolare si sottolinea come l’origine degli insetti sia contemporanea a quella delle piante con fiori); inoltre si ipotizza che la storia fossile sia in realtà incompleta e non possa quindi rappresentare tutte le tappe evolute di queste piante. Il modello discontinuo invece propone l’esistenza di fenomeni megaevolutivi sconosciuti che agiscono in maniera discontinua; in tal modo si alternerebbero fasi di quasi equilibrio con momenti di rapida trasformazione che generano grosse discontinuità. La teoria delle zone adattative può in un certo senso mediare tra le vedute gradualiste e quelle discontinue. Questa teoria identifica delle zone di grande stabilità ma assai diverse tra loro (zone adattative), quali l’ambiente acquatico, terrestre e semiacquatico. Finchè gli organismi permangono in uno di questi ambienti, la stabilità ambientale determina un basso livello di variazione; ma allorchè si creano le condizioni per la colonizzazione di una nuova zona adattativa, il forte cambiamento ambientale determina un forte aumento dei processi di differenziamento. Ogni specie è presente allo stato spontaneo in una propria determinata area geografica ed occupa una precisa nicchia ecologica. I requisiti ecologici di una specie ne determinano l’areale Areale = distribuzione geografica di un certo gruppo di diversità biologica Fitogeografia = disciplina botanica che studia la distribuzione dei vegetali sulla terra. Ha una propria classificazione gerarchica in Regni floristici, Regioni floristiche etc. Elemento ecologico = esprime le esigenze ecologiche di una certa specie per quanto riguarda fattori climatici come il regime di illuminazione (sciafila, eliofila etc.), la disponibilità di acqua (xerofila, mesofila, idrofila etc.), le temperature (microterme, termofile etc.); fattori edafici come il tipo di substrato (psammofila, rupicola) o la sua acidità/salinità (calcifila, silicicola, alofila etc.); fattori topografici (ipsofila, orofila etc.) e fattori biotici come le interazioni con altri vegetali, predatori, impollinatori etc. Elemento geografico (o corotipo) = esprime sinteticamente la distribuzione geografica di una specie (es. Steno-Mediterranea, Euri-Mediterranea, Europea, Alpica, Eurosibirica, Circumboreale etc.) La flora di un’area è dinamica nel tempo, e testimonia le vicissitudini geologiche e climatiche di un dato luogo Lo spettro corologico di una flora esprime le percentuali di presenza dei vari corotipi (es. 50% Mediterranee, 13% Euopee, 3% endemiche etc.) Secondo una classificazione effettuata da Raunkiaer in base alle modalità di portare le gemme durante la stagione avversa, vi sono 6 tipi principali di forme biologiche per le piante: FANEROFITE – gemme portate a più di 30 cm dal suolo (alberi o arbusti) CAMEFITE – gemme portate tra 1 e 30 cm dal suolo (piccoli arbusti o suffrutici) EMICRIPTOFITE – gemme portate a livello del suolo, con foglie a rosetta basale IDROFITE – piante acquatiche (gemme sott’acqua) GEOFITE – gemme portate sotto il livello del suolo (bulbi, rizomi etc.) TEROFITE – piante annuali: l’individuo non supera la stagione avversa, solo il seme Lo spettro biologico di una flora esprime le percentuali di presenza delle varie forme biologiche (es. 31% Fanerofite, 10% Emicriptofite, 5% Terofite etc.) Relitto tassonomico = taxon che rappresenta una linea filogenetica isolata, depauperata all’attuale, maggiormente diversificata in passato es. Sottodivisione Lycopodiophytina, Classe Equisetopsida, Ordine Ginkgoales etc. Relitto geografico = taxon con un’areale pregresso maggiore di quello attuale, accantonatosi solo in particolari aree aventi caratteristiche ecologiche congeniali (NOTA: spesso è un concetto relativo, analogamente a quello di endemismo!!) es. Picea abies in Toscana Rhododendron ferrugineum in Toscana Hypericum elodes in Toscana etc. Endemismo = fenomeno di stenocoria. Il concetto (ripreso per la biologia da De Candolle nel 1820 mutuando un termine medico) però è relativo e va sempre riferito a un’area geografica. La conoscenza dell’endemismo di determinate aree geografiche o degli endemiti nell’ambito di certi gruppi sistematici assume grande rilievo nell’interpretazione dei fenomeni speciativi. Come nasce un endemita? recente origine (endemismo attivo o per novazione) parziale estinzione (endemismo passivo o relittuale) La stenocoria di un endemita è di norma associata a fenomeni di stenoecia o alla presenza di barriere geografiche La diversità dei vegetali può essere analizzata, descritta e interpretata sfruttando tutte le informazioni potenzialmente utili che provengono da: Morfologia (forma di crescita, radici, fusti, gemme, foglie, fiori etc.) Morfometria Anatomia (xilema e floema secondari, nodi, foglia, strutture secretrici, fiore etc.) Ontogenesi (studio dello sviluppo delle varie strutture) Biologia della riproduzione (strategie riproduttive, impollinazione, etc.) Embriologia (modalità di formazione dei gametofiti, embrione, endosperma) Palinologia (struttura e vitalità del polline) Metaboliti secondari (betalaine e antocianine, glucosinolati, glucosidi cianogenetici, poliacetileni, terpenoidi, flavonoidi, alcaloidi etc.) Proteine (sequenze aminoacidiche, sierologia) Cariologia (numero dei cromosomi, struttura del cariotipo, taglia del genoma, comportamento alla meiosi, ibridazioni in situ) Acidi nucleici (sequenziamento, DNA fingerprinting) Non esiste un approccio risolutivo “per se”. Ogni tipo di ricerca (per quanto “antiquata” possa sembrare) porta il suo contributo alla conoscenza della microevoluzione o della megaevoluzione di un certo gruppo. Anche l’ultima arrivata in ordine di tempo (sistematica basata sulgli acidi nucleici) nonostante l’indubbio vantaggio di andare a studiare direttamente il genotipo di una pianta, presenta molte assunzioni a priori e molti limiti (dovuti all’ovvia impossibilità di sequenziare – a parte casi particolari – TUTTO il genoma di una pianta). 2 principali approcci per costruire un sistema di classificazione “naturale”: Scuola fenetica (tassonomia numerica) vs. Scuola filogenetica (cladistica) Adanson: era dell’opinione che si dovessero considerare “tutti” i caratteri di una pianta per poter delimitare le famiglie, i generi e le specie Rohlf nel 1966 e Sneath & Sokal nel 1973 hanno coniato il termine di “tassonomia numerica”: una tassonomia cioè basata sulla analisi della variabilità del maggior numero possibile di caratteri, ritenuti tutti della stessa importanza Linneo: nonostante avesse costruito una classificazione dichiaratamente artificiale, selezionava per delimitare i generi alcuni caratteri (similis fructificatio) come più significativi di altri Hennig nel 1966 ha iniziato la scuola cladistica basata sulla parsimonia evolutiva e su caratteri selezionati Fenogramma Cladogramma In seguito all’origine della vita, ca. 3,6 miliardi di anni fa (vedi concetti di Brodo primordiale, Teoria genotipica vs. Teoria fenotipica), si è avuta una continua complicazione degli organismi e delle loro stutture. Uno dei principi fondamentali dell’evoluzione (tra l’altro non sempre veritiero!!) è che il più semplice dovrebbe precedere il più complesso. Come vedremo, l’evoluzione può essere graduale e “per salti” I primi organismi a comparire sono stati i procarioti, caratterizzati da ribosomi 70s, seguiti dopo qualche centinaio di milioni di anni, dagli eucarioti, caratterizzati da ribosomi 80s. Per alcuni autori questa differenziazione sarebbe avvenuta all’interno di cellule (Teoria autogena di Woese, 1979), mentre per altri risalirebbe addirittura al periodo prebiotico (Teoria ribotipica di Barbieri, 1981). Storicamente, la prima “classificazione” dei viventi effettuata dall’uomo è stata tra: animali = esseri animati piante = esseri fissati al terreno successivamente sono stati suddivisi anche: funghi (esseri fissati al terreno, ma eterotrofi) e, in seguito ai primi sviluppi della microscopia: batteri (procarioti: mancanza di un nucleo e di organelli citoplasmatici etc.) Whittaker (1969) propone per primo una classificazione dei viventi in 5 Regni: - Monera (tutti gli organismi procariotici) - Protista (tutti gli organismi eucariotici unicellulari) - Fungi (funghi, licheni: organismi eterotrofi con cellule a parete chitinosa) - Animalia (invertebrati e vertebrati: organismi pluricellulari eterotrofi) - Plantae (alghe, piante terrestri: tutti gli organismi pluricellulari autotrofi) Ben presto, si è rivelata chiaramente la natura artificiale di questo sistema di classificazione, che riuniva sotto lo stesso regno organismi estremamente diversi tra di loro (es. tutte le alghe messe con le piante terrestri; tutti gli organismi unicellulari eucariotici messi “a forza” in uno stesso Regno) Margulis (1982) mantiene 5 Regni dei viventi, ma organizzati diversamente: - Prokaryota (tutti gli organismi procariotici) - Protoctista (comparsa del nucleo e dei mitocondri) - Fungi (funghi, licheni: eterotrofi, cellule con parete di chitina) - Animalia (invertebrati e vertebrati: pluricellulari, eterotrofi) - Plantae (piante terrestri: pluricellulari, autotrofi) I Protoctista in realtà rappresentano un gruppo di comodo, estremamente eterogeneo (parafiletico) che riunisce tutti gli organismi (uni- o pluri-cellulari), sia eterotrofi che autotrofi, che non erano chiaramente ascrivibili agli altri regni. La terza edizione del libro dove viene proposta questa teoria risale al 1998: Grazie a studi sempre più complessi e approfonditi basati in larga parte sulla comparazione delle sequenze di porzioni del DNA, ci si è resi conto che alcuni gruppi precedentemente inclusi nei protoctista erano filogeneticamente correlati alle piante, altri agli animali, ed altri ancora molto distanti tra di loro e quindi ulteriormente separabili: I Regni sono stati aumentati a 6: Cavalier-Smith (2004) Gli studi recenti vanno sempre più supportando (almeno parte del-)la teoria della origine endosimbiontica della cellula eucariotica (Ipotesi di Margulis): Origine endesimbiontica di plastidi e mitocondri 1) Modificazione delle caratteristiche del plasmalemma di alcuni procarioti di grandi dimensioni (organismi simili alle attuali amebe) 2) Inglobamento per endocitosi, in questi organismi, di batteri aerobi e alghe azzurre con formazione di simbiosi 3) Perdita di autonomia degli organismi inglobati con conseguente incapacità di sintetizzare la loro parete cellulare 4) Formazione di mitocondri (da batteri aerobi) e plastidi (da cianobatteri) delimitati da una doppia (o tripla) membrana Keeling (2004) I 5 Regni “eucariotici” secondo l’autore Origine del plastidio: Palmer & al. (2004) Per quanto riguarda i vegetali, come avevamo accennato, i principali gruppi “tradizionali” oggetto della botanica sistematica erano chiamati: “alghe azzurre” “alghe” funghi archegoniate spermatofite (procarioti) tallofite non vascolari vascolari a semi nudi con frutti crittogame (eucarioti) cormofite (o embriofite) fanerogame Oggi, come abbiamo visto, non esiste ancora una visione tassonomica dei viventi accettata da tutti, infatti i diversi modelli di aggregazione dei taxa cui afferiscono i vegetali non sono oggettivi, ma rispecchiano il tipo di informazione utilizzata per la loro costruzione, conseguentemente anche la classificazione che qui proporremo cerca di tenere conto dei lavori più aggiornati in proposito, ma esiste un numero impressionante di soluzioni diverse proposte, più o meno contrastanti.