Con Buona Pace - Michele Vargiu

estratti da
Con Buona Pace
confessioni d’un confinato
di Michele Vargiu
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Lo spazio è vuoto e semiilluminato. Da fuori si sente la voce del narratore, che parla
come se i secondini lo stessero di fatto scortando in aula.
-Puoi almeno liberarmi le mani, per favore? Si, lo so, la stanza 13 C! Conosco la
strada. Piano…! Piano! Ahi! Non c’è mica bisogno di spingere!
Il narratore entra in scena come se fosse spinto violentemente dall’esterno, cade su se
stesso al centro della scena. Si ricompone lentamente e si rialza.
-(rivolto verso l’esterno)Grazie, eh! Sempre molto carini voialtri del braccio “C”. Che
poi credo di aver capito perché si chiami “braccio”; qui fra un trasferimento e l’altro
cercano sempre tutti di rompertelo, il braccio!
(rivolgendosi al pubblico)
Signori della Corte… io comincio ad essere stufo di tutti questi colloqui!
No, per carità; lo so che lo fate per me,eh. Per “riesaminare il mio caso”, così almeno
mi dite. Però questa è la terza volta in un mese! Tre volte che vengo preso di peso
dalla mia branda e portato qui davanti a voi a forza di insulti e spintoni. Eh! Qui è
peggio della galera!
…Scusate. Involontariamente ho fatto una battutina. Certo che voi, non ridete proprio
mai, eh, signori della corte.
…Che poi, parliamoci chiaro; vengo preso regolarmente di peso e portato qui per
cosa? Per trovarmi davanti a voi che mi chiedete se mi sento “riabilitato”, pronto per
un lento e graduale reinserimento in società.
Ma la risposta è sempre la stessa, voi la sapete già; Certo, che mi sento riabilitato,
signori della corte! Anche perché a forza di vivere qui dentro, dopo un po’, anche
Jack lo Squartatore si sentirebbe riabilitato, pur di uscire di qui.
Certa umidità sui muri! Che poi dai muri ti entra nella carne e nelle ossa, ti vain
circolo come una trasfusione; le lasagne della mensa oggi sembravano cartone,
signori della corte. Cartone. Ormai il mio stomaco certe cose si rifiuta proprio di
trattarle, non le digerisce più. Va in sciopero coatto e le passa direttamente
all’intestino. E poi, signori della corte, guardate qui, e qui, e qui: (si solleva una
manica della tuta e mostra il gomito, poi un’anca, un ginocchio)
ZANZARE, signori della corte! Alla fine di ottobre! Ma che, vi sembra possibile?
(si gratta i polsi)
Queste manette poi mi graffiano sempre i polsi! Non potreste dire a quelli di stringere
un po’ meno? Mica scappo, eh! (indicando una sedia posta vicino al proscenio) Posso
sedermi lì? (si avvia)
Certo se fossi ancora bambino, da quelle manette sguscerei via in un lampo.
Quando ero piccolo avevo le braccia secche; magre magre. Avevo gambe grosse che
parevano robotiche, sottratte a Goldrake o ad altri mostri giapponesi durante una non
precisata replica televisiva. Avevo anche una gran pancia, tonda che sembrava finta,
riempita di piuma d’oca come un cuscino, gonfiata dallo spread di ovetti Kinder,
girelle Motta, calippo frizz Algida.
Quand’ero piccolo avevo paura del buio. Tutti i bambini a quel tempo avevano paura
del buio. Nel buio si annidavano i mostri. Mostri sporchi e terribili che mangiavano i
bambini che non dormivano in un sol boccone. Tutti i bambini dovevano dormire,
quando arrivava il buio. Mi chiedevo come fosse possibile addormentarsi, quando
sapevi che di li a poco dozzine di mostri avrebbero danzato intorno al tuo letto nella
speranza che tu ti svegliassi per trasformarti nel loro piatto del giorno.
Cosi’, quando l’oscurità aveva inghiottito gli ultimi rimasugli di sole e gli interruttori
avevano chiuso i loro occhi, io mi concentravo sull’ultima fonte di luce rimasta a
disposizione.
Quand’ero piccolo, io guardavo le stelle. Le stelle non ti tradiscono. Restano li e ti
illuminano, strizzandoti gli occhi da anni luce di distanza; disegnano in cielo figure
astratte, quasi inesistenti; fino a quando non capisci che è arrivato il momento di unire
i puntini. Come nella Settimana Enigmistica.
Lì ci dev’essere Andromeda. La costellazione di Andromeda è caratterizzata da una
doppia linea curva di stelle che parte da un angolo del quadrato di Pegaso e che forma
la sagoma di un grande cuneo. Si trova facilmente partendo dalla Stella Polare e
attraversando la costellazione di Cassiopea.
La stella Polare invece dev’essere laggiù. E’ l’unica che resti sempre al suo posto.
La stella polare è come un secondino; sta li, in fondo al suo corridoio, e ti guarda,
sapendo che tanto tu non potrai mai raggiungerla. Le altre sue compagne si spostano,
lentamente, costantemente, seguendo l’inclinazione dell’asse terrestre. Lei no.
Anche a me a volte piacerebbe essere una stella. Brillare anche quando c’è il buio,
annientando i miei mostri sul nascere.
Ma io non sono una stella. Io non brillo della mia luce, non esplodo in milioni di
particelle illuminando il cielo, né posso permettermi di fare l’occhiolino a qualcuno
da anni luce di distanza.
Le stelle non sono soggette ad un controllo superiore. Le stelle non hanno dèi, né
padroni né santi. Le stelle devono rendere conto solo e soltanto all’immensità del
cielo. Sono libere, le stelle; per questo, quando vogliono… evadono.
Evadere.
Verbo intransitivo.
Scappare dal luogo in cui si è rinchiusi o sorvegliati.
Esempio: evadere dal carcere.
Sinonimi: fuggire, prendere il largo.
Allontanarsi da un luogo o una situazione soffocante per ritrovare le energie e la
vitalità.
Esempio: evadere dalla città, evadere dalla noia della vita quotidiana.
Verbo transitivo.
Cercare di non pagare le tasse.
Esempio: evadere il fisco.
Quelli delle sbarre sono dei confini finti. Il mondo non finisce mica quando vai a
sbatterci contro; e questo chi sta dall’altra parte lo sa. Il mondo da dietro le sbarre lo
intuisci, lo percepisci; ti passa davanti lentamente. Ogni tanto hai anche quasi
l’impressione che si giri a guardarti, come farebbe una madre che abbandona un figlio
non voluto. Lo lascia sulla strada, magari davanti ad un portone; lo infagotta per bene
per assicurarsi che non gli manchi niente, che non prenda freddo. Gli volta le spalle e
si avvia, lontano, guardando un punto indefinito, ripromettendosi di dimenticare quel
giorno, quell’episodio; rassicurandosi sul fatto che Dio un giorno troverà una
spiegazione per il suo gesto e la perdonerà. Ma nessuna madre riesce a completare
quel percorso senza voltarsi. Senza voltarsi un’altra volta per guardarlo, guardarlo
ancora, ancora per un po’, quel figlio suo. Non è vero che le sbarre ti isolano dal
mondo; è tutta un’illusione, una suggestione, una favoletta che ti hanno raccontato
talmente tante volte da fartela scambiare per vera. E a te non rimane nient’altro che
scegliere: scegliere di credere alla favoletta, facendotela raccontare fino in fondo fino
a fartela piacere, o scegliere di non crederci, di ribellarti e di guardare oltre,
aspettando che qualcosa arrivi, che il tempo passi e che qualcosa succeda. Io ho scelto
la seconda. Con buona pace mia, e di tutti quelli che anche qui dentro riescono a
credere ancora alle favole.
E voi, signori della corte?
Voi che oggi siete qui per riesaminare il mio caso, voi giurati attenti e dall’aria
irreprensibile, che per venire qui oggi a dibattere di questo poveraccio vi siete messi il
vostro vestito migliore, voi dalla vita perfetta, lucidata a specchio come le lamiere
della vostra auto, voi che pagate le tasse puntuali ad ogni fine del mese, o che non le
pagate affatto ma fate finta di farlo, voi, ci credete alle favole?
(Reazione)
…Avete ragione.
Questa non è una domanda pertinente. Io non ho nessun diritto. Io non posso
nemmeno pensare di farvi domande; figuriamoci se posso pretendere di avere delle
risposte.
Già li vedo, alcuni di voi, un po’ impauriti, sottovoce, con quella indignazione a buon
mercato rivolgersi a quello che hanno di fianco, dicendo: “ma che vuole questo?
Parlare?”
No, signori della corte. Non è questo che intendo fare. Non è questo quello che
voglio.
Però, signori della corte, voi che oggi siete venuti tutti qui davanti a me come se
questo fosse un parlatorio, forse potreste avere voglia di sentirla, una storia che ho da
raccontarvi; ed ora, che vi ho tutti qui, di fronte a me, ed ho esaurito perfino le stelle
con cui unire i puntini, io ve la racconto, questa storia mia.