RIASSUNTO: IL MODELLO ISLAMICO (Francesco Castro)

RIASSUNTO: IL MODELLO ISLAMICO (Francesco Castro)
CAPITOLO I
Diritto musulmano o diritto islamico
L’espressione ‘diritto musulmano’ (o diritto islamico) ha 3 accezioni:
- come traduzione dell’arabo fiqh, designante quella parte della legge religiosa (= shari’a) che regola l’attività esterna del
credente verso Dio, verso sé stesso e verso gli altri;
- come estratto di quelle parti del fiqh che sono veramente giuridiche, arricchite di quelle parti del diritto pubblico che i
giuristi musulmani designano con il termine siyàsa shr’iyya;
- come il diritto vigente presso i musulmani di una data regione e comprendente sia le parti del fiqh classico e sia il diritto
locale consuetudinario, non necessariamente legato con l’islamismo.
Il diritto musulmano si afferma con la nascita dell’islam, termine che si riferisce non solo alla religione monoteistica fondata
da Muhammad, ma anche il sistema politico, sociale e culturale che ad essa si riconnette. Qualsiasi ripartizione dell’islam in
sistema religioso, politico e giuridico, comunque, rappresenta un adattamento occidentale, dal momento che per i
musulmani l’islam rappresenta la sola verità, alla cui salvaguardia sono destinati i dottori della legge (= fuqaha), che godono
di autorità puramente morale e intellettuale.
L’islam, pur tendendo a dominare tutte le manifestazioni della vita del credente, ignora completamene l’esistenza di un clero
gerarchicamente organizzato e composto di soggetti investiti di caratteri sacramentali. Quello che generalmente viene
definito come ‘clero musulmano’ rappresenta l’insieme degli addetti alle funzioni della moschea, dei quali può far parte
qualsiasi musulmano senza che sia necessaria alcuna investitura od ordinazione sacerdotale.
Secondo l’islam tutti i diritti si riferiscono a Dio e da ciò deriva la distinzione elaborata dai fuqaha tra:
- haqq Allàh (= Diritto di Dio), cioè il diritto cogente relativo all’utilità pubblica;
- haqq àdami o al-‘ibàd (= Diritto dell’uomo) cioè il diritto dispositivo riguardante l’interesse privato.
Alcuni fuqahà’ aggiungono a queste due categorie altre due intermedie, a seconda del prevalente interesse, divino - pubblico
o umano - privato al quale si riferiscono.
La comunità musulmana
a) Siyàsa
Muhammad ha profondamente trasformato la società pagana, ponendo al centro di questa trasformazione la tribù come
nuovo aggregato sociale basato sul vincolo religioso. Nasceva in questo modo una comunità detta ummat Muhammad (=
Comunità di Maometto) che il Corano stesso considera superiore alle altre comunità umane. Tale affermazione del vincolo
religioso non riuscì ad affermarsi, per la rapida diffusione della nuova fede sia nella penisola sia attraverso il moto delle
conquiste che fecero dell’islam una delle più grandi compagini politiche del mondo antico. La umma, tuttavia, è rimasta
ancor oggi ad indicare l’ideale unità di tutti i musulmani.
L’ “unica comunità” di cui si parla nel documento storico denominato Safiha o Carta di Medina ha carattere eterogeneo, dal
punto di vista religioso, ed è a base territoriale, poiché è formata da vari elementi della popolazione di Medina, il cui
territorio è dichiarato sacro. L’unico capo di questa eterogenea comunità è Muhammad che è nabì e rasùl (= profeta e
inviato di Dio) dal quale promana lo scritto: scopo di Muhammad è quello di assicurare la pacifica convivenza tra gli
abitanti di Medina.
Solo dopo l’espulsione da Medina di alcune delle tribù ebraiche, la umma acquista il suo definitivo carattere omogeneo di
organizzazione di credenti che credono in una determinata scrittura, che è il Corano, sulla base del quale devono essere
giudicati. Ai credenti di pieno diritto della comunità si contrappongono gli infedeli che si distinguono in Scritturati e Gente
degli Idoli.
A capo della umma vi è l’imam (=califfo) successore di Muhammad che però ricopre solo la funzione politica, essendo
quella profetica non è ereditabile. Tra i giuristi musulmani c’è sempre stato accordo d’opinione sulla necessità per la umma
di avere un unico capo denominato khalifa (=califfo), vicario e successore di Muhammad, o imam. Secondo la dottrina, la
nomina di califfo è un atto obbligatorio che grava sulla comunità nel suo insieme e non sul singolo credente. Secondo alMàwardì due sono i modi di acquisto del califfato:
1) elezione o scelta della comunità, o meglio, da parte di coloro che hanno capacità di sciogliere e legare, cioè quei
rappresentanti della comunità che sono anche capaci di riconoscere in un individuo l’esistenza dei requisiti necessari per
essere califfo;
2) designazione del successore da parte del predecessore;
3) altro modo riconosciuto dalla dottrina posteriore è l’occupazione del potere in forza del principio che all’anarchia è
preferibile la tirannia.
Per essere nominati califfo sono necessari alcuni requisiti:
- capacità giuridica (= essere musulmano e libero);
- capacità di agire (= pubere, integro di corpo e di mente, di condotta irreprensibile)
- appartenenza alla stirpe dei Quraysh (= tribù alla quale appartenne Muhammad);
- qualità di mugtahid (= possessore della dottrina sufficiente per la diretta interpretazione delle fonti della rivelazione e del
diritto).
Il contratto di imamato ha come effetti nei confronti del califfo:
- l’obbligo di osservare e di fare osservare la legge religiosa secondo la tradizione, evitando ogni innovazione riprovevole;
- l’obbligo di proteggere la vita, l’onore e i beni dei musulmani;
- provvedere all’amministrazione della giustizia, alla difesa militare e a condurre la guerra santa contro gli infedeli;
- riscuotere le entrate e provvedere alle spese pubbliche in conformità con la legge religiosa;
- nominare persone adatte alle varie funzioni.
Tale disciplina è la dottrina sunnita; ma le comunità non sunnite degli sciiti e dei kharigiti hanno elaborato proprie dottrine
dell’imamato.
b) Sharì’a e fiqh
Il termine sharì’a (= via rivelata da Dio) ha una triplice accezione:
- in senso latissimo indica la ‘via’, la ‘legge religiosa’, quindi la legge religiosa non solo musulmana;
- in senso lato indica la via rivelata ai soli musulmani;
- in senso stretto indica la via rivelata ai soli musulmani per regolare il solo foro esterno, cioè la condotta umana, e in questo
caso il termine sharì’a viene a coincidere con quello di fiqh.
La Sharì’a, in generale, ha il compito di fissare limiti alla libertà delle azioni umane, limiti che derivano dalla rivelazione
fatta da Dio attraverso il profeta Muhammad.
Il termine fiqh ha con il tempo assunto un significato più ristretto, designando la scienza del diritto religioso islamico. La
scienza del diritto islamico si ripartisce in: 1) radici della giurisprudenza (= usùl al-fiqh) e 2) rami della giurisprudenza (=
furù’ al-fiqh).
Le radici della giurisprudenza sono: il Corano, la Sunna, l’igmà’ (= consenso) e il qiyàs (= analogia). I rami della
giurisprudenza costituiscono un corpus delle regole sciaraitiche e sono a loro volta ripartiti in: ibàdàt (= regole rituali), cioè
le materie di carattere extragiuridico, cioè le pratiche del culto in senso stretto, le formalità rituali, le norme di
comportamento e galateo, la dottrina della purità rituale; e mu’àmàlat (= negozi) che corrispondono alle azioni di diritto
penale, diritto processuale, diritto tributario, diritto di famiglia e diritti reali.
Resta fuori dal fiqh tutta quella parte del diritto che diremmo costituzionale; a questo riguardo i giuristi si sono sempre
rifiutati di ritenere giuridiche le norme elaborate dalle autorità di governo, sostenendo che si trattasse di mere regole
amministrative. Il principale carattere del fiqh è la sacralità, da cui derivano altre caratteristiche come la personalità,
confessionalità, extraterritorialità e immutabilità.
Coloro che si dedicano allo studio del fiqh sono detti fuqaha, mentre quelli che studiano tutta la sharì’à sono detti ulama.
Nell’islam privo di un corpo ecclesiastico, tali soggetti hanno sempre goduto di una sorta di venerazione religiosa, pur non
potendo essere considerati il clero. I dottori della legge si sono nel tempo riuniti spontaneamente in scuole, tradizionalmente
suddivisi per territorio. In esse si riunivano musulmani sia sunniti che non sunniti, uniti nello sforzo di elaborare dottrine
giuridiche; solo in un secondo momento i non sunniti si organizzarono in scuole separate, tuttora sopravviventi. Attualmente
sono 4 le scuole giuridiche sunnite ancora attive, affermatesi tra il XI e XII secolo, e sono:
- la scuola hanafita (fondata da Abu Hanifa) alla quale risale l’uso del ra’y, cioè il ragionamento individuale e il
ragionamento analogico rispetto alle tradizioni. Essa rappresenta la scuola prevalente, prevalenza che deriva dal fatto di
essere stata la dottrina dell’Impero Ottomano;
- la scuola medinese (fondata da Malik ibn Anas), la quale fa ampio uso della Sunna, sebbene usi anche l’analogia e i criteri
sussidiari;
- la scuola shafi’ita (fondata da Muhammad al-Shafi’ì), alla quale va il merito di aver dato una sistemazione razionale alla
dottrina delle fonti del diritto;
- la scuola hanbalita (fondata da Ibn Hanbal), la quale si distinse per la strenue difesa delle tradizioni a discapito del ra’y e
dell’analogia.
Le fonti del diritto
Le radici del diritto sono quattro: il Corano e la Sunna, direttamente collegati alla rivelazione divina, l’igmà (= consenso
della comunità) e il qiyàs (= ragionamento analogico), collegati solo indirettamente.
Corano: è il libro ch contiene l’insieme delle rivelazioni che il profeta Muhammad ritenne di aver ricevuto testualmente in
arabo da Dio attraverso un messaggero celeste. La tradizione islamica è unanime nel riconoscere che il Corano fu rivelato a
brani isolati nel corso della sua ultraventennale predicazione religiosa. Muhammad, quando ne riceveva la comunicazione,
prima la affidava alla sua memoria e poi provvedeva a dettarla ai suoi segretari, che annoveravano il testo sul materiale
scrittorio che avevano a disposizione. Mettere insieme i testi delle rivelazioni divine fu opera personale di alcuni suoi
compagni; la redazione ufficiale del testo definitivo, che costituisce sostanzialmente il Corano attuale accolto da tutti i
musulmani, fu compiuta per ordine del terzo califfo Uthman, che seguì l’unico criterio del sistema per capitoli in ordine
decrescente per lunghezza; alla raccolta venne poi premessa la breve sura detta l’Aprente il Libro. Da secoli e secoli il
Corano si scrive in arabo con tutti i segni delle vocali e gli altri simboli ortografici. All’epoca di Uthman, tuttavia, i segni
per la notazione delle vocali non esistevano, motivo per cui la lettura e l’interpretazione del testo erano impossibili. I punti
diacritici e le vocali furono introdotte nel VII sec. d.C., troppo tardi per evitare alcune differenze di lettura nelle varie scuole
musulmane.
Con la sola eccezione della prima sura, il Corano è tutto in forma di discorso diretto a Muhammad da parte di Dio, di
contenuto assai vario. Nei brani rivelati alla Mecca l’argomento è tutto religioso e morale, mentre in quelli rivelati a Medina
il carattere giuridico comincia a risultare prevalente. Su poco più di 6.200 versetti contenuti nel Corano, solo 500 esprimono
norme giuridiche di diverso tipo:
- norme dogmatiche (es. credenza in Dio)
- norme morali (es. qualità dell’uomo virtuoso)
- norme culturali (es. preghiera, digiuno)
- regole alimentari e di vestiario
- regole giuridiche in materia di schiavitù e status libertatis, matrimonio, ripudio e successione, reati e pene stabilite per la
fornicazione, l’adulterio, il consumo di vino, la vendita, la locazione, il diritto di guerra, ecc..
Si incontrano talvolta norme di carattere contraddittorio, perché rivelate in epoche diverse, contraddizioni che tuttavia il
Corano ammette, asserendo che Dio può abrogare le sue precedenti disposizioni e sostituirle con nuove. Da qui la necessità
di sapere quale sia il versetto cronologicamente anteriore e quale sia il posteriore abrogante. Alla frammentarietà di alcune
parti ripara la Sunna cioè l’insieme delle tradizioni relative ai detti e alle azioni del profeta Muhammad.
Sunna: è la seconda radice e designa il modo di comportarsi del profeta Muhammad nelle varie circostanze, non in quanto
profeta ma in quanto uomo, la cui condotta è considerata ispirata dalla divinità e alla quale è stata attribuita efficacia
giuridica. Il concetto di sunna ha avuto uno sviluppo articolato e rappresenta uno dei problemi più complessi di tutta la
storia del diritto islamico, dal momento che la stessa dottrina si è posta il problema della sua autenticità.
Tale fonte normativa sarebbe stata, tuttavia, fissata all’inizio del III sec. dell’egira ad opera di Muhammad al-Shafi’ì. Fonti
di cognizione della sunna sono i racconti o ahadith, tradizioni che riferiscono un comportamento di Muhammad, trasmessi
oralmente da una catena di trasmettitori. Dalla lunghezza della catena o dal numero dei trasmettitori, in particolare, deriva
la maggiore o minore veridicità del testo. Il punto controverso in ordine agli ahadith è quello relativo alla loro autenticità: a
tale problema ha prestato attenzione anche la scienza giuridica musulmana, la quale sostiene che se i trasmettitori sono
attendibile e veridici, il fatto narrato è autentico ed è quindi la testimonianza di un fatto storico accaduto.
Igmà (= consenso): il termine rimanda all’accordo di opinione della Comunità in fatto di credenze religiose, di fiqh e di
etica. Per i sunniti l’igmà è la terza radice, posizione questa che viene giustificata soprattutto sulla base di un detto attribuito
a Muhammad, e cioè: “La mia comunità non si troverà mai d’accordo su un errore”. Da qui il concetto dell’infallibilità del
parere unanime della collettività musulmana, che sopperisce alla mancanza di una gerarchia ecclesiastica, utilizzata nel
nostro sistema per risolvere questioni giuridiche o teleologiche dubbie. Per certi aspetti, peraltro, la funzione dell’igmà
appare superiore anche a quella del Corano e della Sunna, dal momento che l’autenticità di queste due fonti e la loro
autentica interpretazione sono garantite proprio dal giudizio concorde delle generazioni di musulmani a loro riguardo.
I musulmani sciiti, al contrario, non ammettono l’igmà o la restringono in modo consistente ai soli discendenti diretti di
Muhammad seguiti dalla dottrina sciita.
Qiyàs (= procedimento analogico): quarta e ultima fonte del diritto, che nel linguaggio giuridico significa deduzione
analogica, cioè applicazione ad un caso nuovo di una delle cinque qualificazioni legali, sulla base della comparazione con
casi o atti che possono giudicarsi analoghi. Il presupposto dell’esistenza del qiyàs è che fra il caso nuovo e quello originario
vi sia una somiglianza indubbia, oppure che appaia logico applicare al nuovo caso il precetto di quello originario.
La legittimità del qiyàs, per affermarsi, ha trovato non pochi oppositori, cosa che ha creato non poche problematiche alla
dottrina. Ci si è chiesti in particolare:
- se sia lecito all’uomo investigare quale possa essere stato il motivo che ha determinato nell’intelletto divino il precetto;
- per quali vie si debba ritenere possibile la determinazione da parte della ragione di un precetto scaturente dal Corano, dalla
Sunna o dall’igmà;
- quali siano le condizioni indispensabili perché sia possibile il qiyàs.
Il ragionamento per dalil, cioè per induzione, consiste nell’applicare una disposizione di legge ad un caso che presenti,
anche in minima parte, delle analogie con il caso disciplinato, in modo da permettere di concludere che questa disposizione
è applicabile.
La consuetudine: è una fonte secondaria per la scienza giuridica; pur non essendo compresa tra gli usul, la consuetudine
ricopre un ruolo non indifferente, non mancando eccezioni ai principi generali introdotte proprio da istituti di origine
consuetudinaria, cioè dalla ripetizione continua di atti uniformi da parte di una comunità. Per il riconoscimento della
consuetudine è richiesto che essa non sia in contrasto con la sharì’a, anche se nella pratica sono state riconosciute anche
consuetudini contrarie.
Alcuni fuqaha hanafiti qualificano la consuetudine come una varietà dell’igmà e l’annoverano quindi tra gli usul, fondando
la loro argomentazione su uno degli stessi hadith su cui si basa l’autorità dell’igmà e cioè: “Ciò che è apparso buono ai
musulmani, è buono anche al cospetto di Dio”.
Solitamente i fuqaha distinguono tra:
- consuetudine generale, che è fondata sopra un interesse permanente e si ritiene in vigore fintanto che dura la causa
originante. Tale consuetudine viene prevalentemente qualificata come fonte del diritto (usul);
- consuetudine particolare di un luogo determinato, che non può essere estesa altrove e che vale solo per il tempo in cui
vige. Non fa parte degli usul, rappresentando solo un fondamento sul quale il faqih può fondare la sua teoria.
Criteri e presunzioni sussidiarie: utilizzati come guide sussidiarie al ragionamento, esterni alle usul ma facenti parte del
fiqh. La scuola hanafita fa ricorso all’histihsan (= ritenere buono ed equo), mentre la scuola malikita preferisce la maslaha
(= utilità generale). La scuola shafi’ita respinge l’histihsan ritenuta inconciliabile con il carattere del fiqh. Gli hanbaliti
seguono l’histishab, presunzione secondo cui una norma giuridica perdura nella sua efficacia fino a prova contraria.
Interpretatio prudentium: secondo la dottrina islamica, poiché le azioni umane non sono stabilite dall’uomo ma da Dio,
per la qualificazione in senso sciaraitico delle stesse occorre compiere uno sforzo interpretativo volto a conoscere la
qualificazione stessa. L’attività ermeneutica si è particolarmente sviluppata intorno al Corano, la cui interpretazione, basata
sulla Sunna o sulla giurisprudenza, si svolge utilizzando mezzi diversi (tipo la grammatica, la logica, l’allegoria..).
Per la Sunna, lo sforzo è stato prevalentemente concentrato sulla verifica dell’autenticità delle tradizioni, attraverso la
valutazione della veridicità dei trasmettitori.
‘Amal – prassi e giurisprudenza forense: questa tecnica mostra che il magistero del giudice si combina con usi,
consuetudini e con prassi di autorità locali. Occorre sottolineare che è la dottrina a fissare per iscritto lo ‘amal, il quale,
quindi, non è una vera e propria giurisprudenza forense alle cui raccolte si possa fare ricorso direttamente. Dato che in
alcuni casi questo prodotto giudiziario contiene innovazioni, i fuqaha si sono continuamente posti il problema del suo valore
giuridico.
Secondo la dottrina malikita un’innovazione portata dallo ‘amal può essere seguita qualora sia fondata sull’opinione
dottrinale di un faqih qualificato. Sono, comunque, sempre la necessità e l’utilità pubblica ad ispirare la soluzione adottata.
CAPITOLO II
Le persone e la capacità giuridica
Nel diritto musulmano manca una dottrina delle persone giuridiche e si ha anche un minor numero di istituti rispetto a quelli
sviluppati dal diritto romano o dal diritto civile contemporaneo. Non esiste, ad esempio, un istituto corrispondente alla
‘corporazione’ intesa come soggetto di diritti ed obblighi indipendente dalle persone dei soci.
Per capacità giuridica si intende la capacità di essere titolari di diritti e di doveri. Perché tale capacità possa essere attribuita,
nel modo musulmano risulta necessaria la compresenza di tre requisiti:
1) appartenenza al genere umano (essere uomo = ragul); con la nascita si ha il momento iniziale della capacità giuridica, a
patto che il feto sia del tutto distaccato dall’alveo materno, sia vivo e sia vitale. Il fiqh non si limita alla ponderazione della
nascita, ma si spinge anche a valutare il momento del concepimento, a cui viene riconosciuta una valenza giuridica;
2) appartenenza alla religione musulmana, l’islam divide l’umanità in fedeli (soggetti di diritto) e infedeli, a loro volta
distinti in: a) Gente del Libro, cioè i seguaci delle religioni monoteistiche diverse da quella islamica (ebraismo,
cristianesimo) che in alcuni casi possono divenire titolari di determinati diritti; b) Gente degli Idoli, cioè gli appartenenti alle
religioni politeistiche che sono assolutamente privi di capacità giuridica. Assume, poi, particolare importanza la conversione
all’islam (entrata) e l’apostasia (uscita) che rispettivamente conferiscono o privano il soggetto della capacità giuridica;
3) stato di libertà, sebbene il diritto musulmano mantenga la distinzione tra stato di libertà e stato di schiavitù, l’influsso
delle nuove influenze religiose porta alcune ripercussioni nella costruzione dottrinale dell’istituto della schiavitù. Nel diritto
musulmano, infatti, lo schiavo è generalmente considerato come un oggetto di diritti, vi sono alcune ipotesi speciali nelle
quali gli vengono riconosciuti dei diritti, ad esempio nel caso dell’affrancamento convenzionale.
Schiavitù
Cause: non può avere origine da cause volontarie (vendita di sé stessi), ma può derivare solo da prigionia di guerra o da
nascita. In quest’ultimo caso vi sono delle eccezioni, infatti il figlio che la schiava ha avuto dal proprio padrone nasce libera
o ancora nascono liberi i figli che un uomo libero ha avuto con una schiava non sapendo che ella fosse tale.
Condizione giuridica: mentre in diritto pubblico il principio dell’assoluta incapacità giuridica dello schiavo è sempre
rigorosamente applicato, in diritto privato esistono delle parziali eccezioni. Secondo il principi generali, cha possono subire
delle deroghe, lo schiavo:
- non può avere beni propri, sebbene la scuola malikita ammetta il peculio;
- non può contrarre obbligazioni né dal lato attivo né dal lato passivo, ma è ammessa una forma di affrancamento che
consiste in un contratto fra padrone e proprio schiavo;
- lo schiavo non acquista per sé, ma per il proprio padrone però sono ammesse delle liberalità inter vivos o mortis causa;
- i rapporti tra padrone e schiavo sono basati sul carattere umanitario; i maltrattamenti, l’abuso del potere di correzione
spettante al padrone, l’uccisione del proprio schiavo danno luogo o ad un’azione penale o alla vendita forzata dello schiavo
o all’affrancamento;
- il padrone ha l’obbligo di mantenimento del suo schiavo, obbligo che non cessa neppure se lo schiavo diventa inabile al
lavoro a causa di vecchiaia o per altri motivi involotari.
Modi di estinzione della schiavitù: si distingue tra cause volontarie e cause legali.
- Affrancamento: causa volontaria unilaterale; è uno dei pochi negozi formali del diritto musulmano, infatti per la validità
dell’atto è sufficiente che siano state pronunciate delle espressioni che, secondo il loro significato comune, indicano la
volontà di affrancare. Secondo la scuola malikita è un atto irrevocabile e raccomandato da Dio. Si distingue tra
‘affrancamento puro e semplice’, ‘sottoposta a condizione’ o ‘sottoposto a termine’: nell’ultimo caso può essere certo an et
quando (sarai libero tra un anno) oppure certus an incertus quando (sarai libero alla mia morte). Quest’ultima ipotesi da
luogo ad un particolare tipo di affrancamento indicato con il termine tadbìr e cioè l’affrancamento post mortem, in base al
quale finchè il padrone è in vita lo schiavo (mudabbar) rimane nello stato di schiavitù e alla morte del padrone acquisterà la
libertà se l’asse ereditario permette l’uscita di tale bene patrimoniale.
- Affrancamento per ultimo atto di volontà: altra causa di affrancamento unilaterale, disciplinato dalla materia successoria. È
revocabile da parte del padrone.
- Affrancamento convenzionale: atto bilaterale, in base al quale padrone e schiavo (= mukatab) possono stipulare un
contratto con il quale il padrone si obbliga a concedere la libertà allo schiavo dietro pagamento da parte di quest’ultima di
una somma di denaro a titolo di corrispettivo. Tale pagamento può avvenire in un’unica soluzione o a rate; in genere viene
usata la forma scritta, ma non è prevista a pena di nullità. Lo schiavo, quindi, rimane in tale condizione finchè non ha pagato
la somma convenuta con il padrone per il proprio riscatto.
- Cause legali di affrancamento: sono tali la maternità, quindi alla morte del padrone la schiava che ha avuto da lui un figlio
o che è incinta acquista di diritto la libertà. Tale schiava è detta umm walad e i suoi figli nascono liberi anche durante la vita
del padrone. La posizione giuridica della umm walad è analoga a quella degli schiavi affrancati quindi anch’ella è sottratta
alla disponibilità patrimoniale del padrone.
Lo schiavo mudabbar, lo schiavo mukatab e la schiava umm walad sono sottratti alla disponibilità del padrone, dal momento
che il loro stato di schiavitù è destinato a cessare in futuro. Tra schiavo liberato e antico padrone rimane, comunque, un
vincolo giuridico (= wala), equiparato a quello derivante dalla parentela di sangue. Alla morte del patrono tale vincolo si
trasmette agli agnati maschi più vicini, mentre alla morte del liberto si trasmette ai suoi figli maschi e discendenti maschi di
essi.
Cause di perdita della capacità giuridica
a) Morte: segnando il momento finale dell’esistenza umana, rappresenta anche il momento finale della capacità giuridica.
Nel caso in cui non possa essere provata la morte effettiva, opera l’istituto della presunzione di morte, come si presumono
tutte morte le persone che si trovavano insieme nel momento di un evento che può aver causato la morte di molte persone.
b) Assenza: colui che scompare senza lasciare notizie (assente = mufqùd), dopo un certo periodo di aspettativa, viene
dichiarato morto dal giudice e considerato come tale. Caratteristica è quindi la distinzione di due momenti: quello di
aspettativa, finchè dura la presunzione di vita, e quello nel quale, a seguito della dichiarazione di morte fatta dal giudice,
l’assente è considerato morto. La scuola malikita ha costruito l’istituto dell’assenza basandolo su 4 ipotesi:
- scomparsa in terra musulmana;
- scomparsa in terra non musulmana;
- scomparsa in tempo di guerra;
- scomparsa in tempo di guerra civile, peste o di un’altra epidemia.
c) Apostasia: data la natura confessionale del diritto musulmano, rinnegare la religione equivale a perdere la capacità
giuridica. Ed è considerato con maggior sfavore della miscredenza. I malikiti distinguono in particolare due momenti:
- in un primo momento, quando si ha solo il sospetto dell’apostasia, la posizione del sospettato resta sospesa;
- in un secondo momento, quando risulta provata l’esistenza dell’apostasia, il soggetto viene considerato privo di capacità
giuridica e viene pertanto escluso dalla umma.
Conseguentemente, non esiste più alcun rapporto giuridico fra l’apostata e i membri della umma, dalla quale egli è escluso.
Conseguenze: si scioglie il matrimonio dell’apostata, se l’apostata è in condizione libera i suoi beni vengono incamerati
dall’erario musulmano, se l’apostata è schiavo i suoi beni si trasmettono al padrone a titolo di proprietà, l’atto di ultima
volontà dell’apostata è nullo.
Acquisto e cause limitatrici della capacità d’agire
La capacità di agire consiste nella capacità di compiere atti volontari. I requisiti di acquisto della capacità di agire variano a
seconda del sesso:
- per i maschi soggetti alla potestà paterna occorrono il raggiungimento della pubertà ed una sufficiente attitudine ad
amministrare bene il proprio patrimonio;
- per le femmine, oltre ai due requisiti previsti per i maschi, occorrono alternativamente l’essere stata emancipata dal padre
o dal tutore, l’aver consumato un matrimonio o l’essere di età abbastanza avanzata.
Le cinque cause limitatrici di tale capacità producono il comune effetto di impedire il compimento di atti giuridici, cioè
l’esplicazione principale della capacità di agire. Tali cause sono:
1) Età: nel diritto musulmano è importante la distinzione fra impuberi e puberi, ma un altro elemento fondamentale è la
capacità di amministrare il proprio patrimonio; e quindi:
- dalla nascita al settimo anno, mancando qualsiasi capacità di discernimento, si è incapaci di agire in modo assoluto;
- dal settimo anno fino a quando non sussistono i requisiti di cui sopra, il soggetto versa in parziale capacità di agire.
2) Imperfezioni fisiche e infermità di corpo e di mente: per quanto riguarda i vizi di corpo, la mancanza di certi organi e
di certe funzioni rappresenta una causa di incapacità d’agire. In particolare, una persona colpita da un vizio è incapace per
quegli atti rispetto ai quali la mancanza dell’organo risulta rilevante. Inoltre, il fiqh stabilisce che colui che si trova in stato
di gravissima malattia, implicante il pericolo di morte, deve essere considerato incapace di agire.
Per quanto riguarda i vizi di mente, si distingue tra demenza continua (incapacità assoluta) e demenza intermittente, in
presenza della quale sono nulli gli atti di natura patrimoniale ma sono validi quelli di natura personale, a patto che siano
compiuti in un periodo di lucido intervallo.
Vengono considerati parzialmente incapaci anche il prodigo, che non può porre in essere atti di liberalità, e l’ubriaco, con
riferimento al quale i malikiti e gli shafi’iti prendono posizioni diverse, attribuendo rilevanza al diverso grado di ubriachezza
o alla volontarietà o meno di tale stato.
3) Sesso: un principio generale che ha applicazione in molti campi del diritto musulmano è quello per cui la donna vale metà
del maschio, secondo la proporzione che 2 donne = 1 uomo. Mentre per quanto riguarda i rapporti personali lo stato di
subordinazione della donna musulmana non cessa mai durante la sua vita; per quanto attiene ai rapporti patrimoniali il
matrimonio segna un momento fondamentale, perché con esso la donna acquista la capacità di disporre liberamente dei suoi
beni entro 1/3 del patrimonio.
4) Comportamento riprovevole (fisq): consiste in un comportamento opposto a quello etico-religioso prescritto dall’islam.
Colui che si comporta in modo religiosamente ed eticamente riprovevole viene colpito da una parziale incapacità di agire,
non potendo essere testimone e non potendo assumere o continuare ad esercitare determinate funzioni. Viene considerato
fasiq colui che è stato condannato per un reato grave, l’eretico e chi esercita mestieri turpi, ignobili o proibiti dall’islam.
5) Stato di insolvenza: la cessazione del pagamento dei propri debiti è ritenuta una causa di parziale limitazione della
capacità di agire o, più in particolare, come una causa di impedimento della libera disponibilità dei propri beni. Tale istituto,
detto falas, prevede che l’incapacità di agire cambi nei suoi caratteri a seconda che si versi nel periodo anteriore o posteriore
alla dichiarazione di insolvenza da parte del giudice. L’insolvente, comunque, conserva la capacità di agire per gli atti di
natura personale che prevedono oneri patrimoniali (es. matrimonio).
Famiglia musulmana
La famiglia musulmana è basata sul vincolo di sangue (= nasab), ha carattere patriarcale ed è fondato sulla discendenza
maschile, salvo casi eccezionali. Anche nel diritto musulmano, base della famiglia è il matrimonio, poligamico di tipo
monandrico poliginico. All’interno del nucleo familiare, l’uomo ha un’assoluta posizione preminente nei confronti della
moglie e dei figli, siano essi nati in costanza di matrimonio, nati da una relazione con la schiava o riconosciuti
successivamente.
Matrimonio musulmano (nika)
a) Funzione: è quella di regolare il fenomeno naturalistico del coniuctio maris et foeminae dandogli un certo grado di
stabilità. I fuquha ritengo il matrimonio come un contratto di scambio (compravendita) la cui principale prestazione è
rappresentata dal pagamento da parte dell’uomo di una somma che aveva originariamente la natura di corrispettivo per il
godimento fisico della donna. Non è tuttavia scontato definire in modo univoco il concetto di matrimonio, un istituto che ha
avuto una plurisecolare esistenza ed un ampio ambito di applicazione.
b) Struttura del matrimonio:
1) Soggetti secondo la costituzione malikita, sono soggetti del matrimonio l’uomo, la donna e il walì al-nikàb (= tutore
della donna). Mentre secondo gli shafi’iti sono soggetti solo l’uomo e il walì al-nikàb, poiché la donna viene considerata
come un semplice oggetto del contratto. Quindi sulla base della seconda teoria bisogna analizzare i due soggetti:
- il futuro sposo deve essere musulmano, deve avere le necessarie capacità fisiche e mentali e deve avere piena disponibilità
dei propri beni da momento che il matrimonio comporta un fondamentale onere patrimoniale a carico dell’uomo. Il
matrimonio tra impuberi non è nullo, ma annullabile, sebbene la coabitazione è rimandata al momento in cui le parti
raggiungano la maturità.
- il walì al-nikàh, la cui rilevanza varia a seconda dell’importanza data alla donna. Infatti per i malikiti, che ritengono la
donna uno dei soggetti del matrimonio, il walì al-nikàh è semplicemente colui che integra la volontà della donna. Mentre
per gli shafi’iti, essendo la donna considerata come semplice oggetto del contratto, il walì al-nikàh è colui la cui volontà
forma il vincolo del rapporto matrimoniale.
Per esercitare la funzione di walì al-nikàh occorre possedere i requisiti richiesti per la capacità d’agire e per la capacità
giuridica. Si discute su quale sia l’ordine di chiamata dei parenti della donna a ricoprire tale funzione: secondo i malikiti
occorre fare riferimento ai possibili successori legittimi, mentre secondo gli shafi’iti sono esclusi i figli della donna e
qualsiasi altro discendente.
2) Oggetto: la principale prestazione del matrimonio è il mahr, cioè un corrispettivo pagato dall’uomo ai congiunti maschi
della donna per il godimento fisico assicurato dalla stessa. Tale corrispettivo presenta notevoli analogie con il prezzo pagato
nella compravendita. Per quanto riguarda l’ammontare minimo e massimo del mahr vi sono divergenze di opinioni: alcune
scuole non fissano tale limite, altre stabiliscono o l’uno o l’altro, con varie divergenze circa l’importo.
3) Vincolo: la volontà del futuro sposo e del walì al-nikàh viene considerata imprescindibile da entrambe le scuole
musulmane, ma della volontà della donna si discute: per la scuola malikita la volontà della scuola è un elemento
fondamentale, mentre per quella shafi’ita risulta irrilevante. Entrambe le scuole ammettono in alcuni casi la liceità del
matrimonio di coazione, consistente nel diritto concesso in certi casi a determinate persone di dare marito alla donna senza
bisogno del suo consenso. La volontà dei soggetti deve formarsi liberamente e il consenso deve essere scambiato tra presenti
secondo lo schema generale di proposta e accettazione. Non sono necessarie forme solenni, essendo sufficiente una
manifestazione di volontà, che per la donna può essere anche tacita.
c) Requisiti per contrarre valido matrimonio: bisogna distinguere tra le cause di nullità del matrimonio e quelle di
annullabilità del matrimonio.
CAUSE DI NULLITA’:
- parentela di sangue (è vietato il matrimonio tra ascendenti e discendenti di qualunque grado);
- parentela di latte (equiparata a quella di sangue quindi è vietato il matrimonio tra colui che è stato allattato e la sua
nutrice o certi suoi parenti o affini);
- vincolo di affinità (è vietato il matrimonio con la madre, la figlia, la figliastra, la sorella, al nipote, la zia paterna o
materna della propria moglie);
- differenza di religione (è vietato il matrimonio fra musulmani e idolatri come è vietato quello tra una musulmana e un
uomo appartenente alla Gente del Libro. È permesso, anche se visto con sfavore, il matrimonio tra un musulmano e la
donna libera);
- esistenza di precedente valido vincolo matrimoniale (divieto fatto solo verso la donna. Per l’uomo è da considerarsi
nullo il quinto matrimonio);
- preesistente scioglimento di altro matrimonio fra le stesse persone (è causa di ostacolo perpetuo relativo);
- triplice ripudio (è causa di ostacolo relativo a contrarre matrimonio. La donna così ripudiata non può contrarre nuovo
matrimonio con colui che l’ha ripudiata se prima non ha consumato un altro matrimonio con persona diversa);
- stato di malattia mortale (causa di ostacolo temporaneo a contrarre matrimonio perché si teme che le nozze possano
turbare l’ordine successorio);
- infermità di mente (si distingue a seconda che si tratti di uomo o donna e che si tratti di puberi o impuberi: gli impuberi
di ambo i sessi infermi di mente non possono contrarre matrimonio; per i puberi, l’uomo non deve contrarre matrimonio a
meno che non ne abbia manifesto bisogno; la donna pubere non può essere data in matrimonio dal suo walì).
CAUSE DI ANNULLABILITA’:
- vizi del consenso;
- vizi del mahr (casi in cui il mahr non ha la precisa configurazione stabilita dalla dottrina);
- apposizione al contratto di matrimonio di clausole contrarie alle finalità essenziali del negozio;
- la mancanza del walì al-nikàh;
- la sensibile disparità di condizione sociale;
- vizi che possono essere definiti redibitori (es. impotenza).
d) Momento di perfezione del contratto di matrimonio: dato il carattere consensuale del contratto di matrimonio, il
momento di perfezione del negozio sembra dover essere quello dello scambio di consensi. Parte della dottrina, però,
considerando tale scambio di consensi come un atto preliminare, per la perfezione del rapporto fa riferimento al momento
della consumazione del matrimonio. Questo elemento naturalistico viene comunque in considerazione in diritto musulmano
anche quando si ritiene che il momento di perfezione del negozio sia costituito dallo scambio dei consensi.
Per quanto riguarda il ruolo dei testimoni, occorre tenerne presente l’evoluzione: infatti, in un primo momento non erano
richiesti dato che la pubblicità dell’atto era assicurata con altri mezzi di origine preislamica (es. banchetto nuziale);
successivamente si ritenne raccomandabile la presenza dei testimoni, al solo scopo di dare pubblicità alla stipulazione del
matrimonio, ma senza che tale intervento fosse considerato come elemento necessario per la perfezione del negozio. Infine,
recentemente malikiti e shafi’iti hanno cominciato a considerare i testimoni come elementi essenziali per la validità
dell’atto.
e) Effetti del matrimonio:
- rapporti personali fra coniugi  al marito spetta il potere sulla moglie, basato sul concetto di superiorità naturale
dell’uomo sulla donna. Su di esso, inoltre, incombe l’obbligo di mantenimento della
moglie, dovendo provvederle il vitto, il vestiario e l’alloggio.
- rapporti patrimoniali fra coniugi  da questo punto di vista essi sono estranei (separazione di beni), non avendo quindi
motivo di esistere il divieto delle donazioni tra coniugi. Il matrimonio rappresenta
causa di vocazione ereditaria: infatti il coniuge superstite viene compreso nella
categoria degli eredi legittimi.
f) Risoluzione del nikàh per esercizio del khyàr al-‘ayb: data l’assimilazione del matrimonio alla compravendita, è
prevista la possibilità di rescissione del contratto utilizzando l’istituto del khiyàr al-‘ayb, che comprende diverse figure:
- annullamento del negozio per vizi occulti (l’elemento dell’anteriorità o della posteriorità di tali vizi rispetto al momento
della conclusione del matrimonio viene diversamente in rilievo a seconda che si tratti dell’uomo o della donna: la donna ha
diritto di esercitare il khiyàr al’-ayb per vizi del marito, sia anteriori che posteriori al matrimonio; l’uomo può esercitare
l’istituto in discorso solo per vizi nella donna anteriori, questo perché l’uomo dispone di molti altri mezzi per rescindere a
suo piacimento il vincolo matrimoniale);
- annullamento del negozio per inesistenza nell’oggetto del contratto delle qualità pattuite;
- risoluzione del negozio per inadempimento degli obblighi contrattuali (danno luogo a rescissione del vincolo
matrimoniale le inadempienze, da parte del marito, degli obblighi a lui derivanti dal contratto di matrimonio – es.
inadempimento dell’obbligo di mantenimento).
g) Modi di scioglimento del vincolo matrimoniale:
- Cause naturali  dopo la morte del marito, la donna libera deve osservare un periodo di vedovanza avente lo scopo di
impedire la turbatio sanguinis. Circa gli effetti sul mahr si guarda alla consumazione del
matrimonio: se è avvenuta la vedova ha diritto all’intero mahr stabilito, se non è avvenuta la
vedova ha diritto solo alla metà del dono nuziale stabilito dal contratto.
- Cause volontarie  Unilaterali: nel diritto musulmano è ammesso lo scioglimento del vincolo matrimoniale da parte del
solo marito utilizzando l’istituto del ripudio.
Bilaterali: il matrimonio può sciogliersi per mutuo consenso e si distinguono due forme. La prima
chiamata khul’, consistente nel pagamento che la moglie fa al marito di un
corrispettivo per essere liberata dal vincolo matrimoniale e produce come effetto
quello di sciogliere il vincolo matrimoniale. La seconda è un vero divorzio, sempre
denominato khul’, nel quale non vi è pagamento di alcuna somma da parte della
donna, la quale può quindi disporre liberamente di sé stessa.
Legali: sono stabilite dalla legge e sono ad esempio l’apostasia.
Ripudio  è una delle cause volontarie unilaterali di scioglimento del matrimonio. Si distingue tra:
- Ripudio Semplice: è dato una sola volta; in applicazione ai principi relativi alla capacità giuridica, per poter
dare valido ripudio l’uomo deve possedere la qualità di musulmano. Si ritengono incapaci di dare ripudio il
pazzo e chi non ha raggiunto la pubertà e non ha l’attitudine ad amministrare il proprio patrimonio. Sono
invece considerati capaci di dar ripudio l’insolvente, il prodigo e l’affetto da malattia normale, sebbene si
discuta circa gli effetti di tale atto nei confronti della posizione successoria della moglie ripudiata. Per la
manifestazione della volontà non è richiesta una forma solenne: può essere espressa o tacita. Per la validità
dell’atto è sufficiente una qualsiasi espressione, purchè si possa desumere l’intenzione del dichiarante di voler
sciogliere il vincolo matrimoniale. La volontà deve essersi formata liberamente e quindi in questo caso, trova
applicazione la materia dei vizi del consenso.
Per quanto riguarda gli effetti del ripudio, è di nuovo rilevante il fatto della consumazione del matrimonio: se
la consumazione non è avvenuta, il vincolo matrimoniale è immediatamente sciolto; se la consumazione è
avvenuta, i coniugi si separano ma il vincolo perdura per un certo periodo.
- Triplice Ripudio: in questo caso la formula del talaq viene ripetuta per tre volte con l’effetto di sciogliere
immediatamente il vincolo matrimoniale e di impedire la stipulazione di un nuovo matrimonio tra le stesse
persone, se prima la donna in tal modo ripudiata non ha contratto o consumato matrimonio con una persona
diversa.
- Zihàr: consiste nella pronuncia da parte del marito di una formula con la quale egli dichiara di voler
considerare la moglie come la ‘schiena’ di una donna che gli è proibito sposare. Tale forma di ripudio è
considerata revocabile; dal momento della pronuncia di questa formula i due coniugi sono tenuti a separarsi,
ma il vincolo matrimoniale si considera ancora esistente. Su richiesta della moglie, il qadì assegna al marito
un termine entro il quale revocare lo zihàr: trascorso inutilmente tale periodo, la moglie ripudiata è tenuta ad
osservare il periodo di ritiro legale.
- Ilà: questa forma di ripudio consiste nel giuramento fatto dal marito di astenersi da ogni rapporto coniugale
con la moglie. Se tale giuramento viene fatto senza determinazione del tempo per il quale esso deve valere,
trascorsi quattro mesi dal giorno in cui fu pronunciato, la moglie può chiedere al qadì di fissare un termine al
marito entro il quale vengano reintegrati i rapporti coniugali: se questo avviene il marito è tenuto ad
un’espiazione per violazione del giuramento fatto; se questo non avviene il ripudio viene pronunciato dal qadì
e può essere revocato fino a che non sia terminato il periodo di ritiro legale della donna.
- Li’àn: questa forma di ripudio consiste nel giuramento fatto dal marito dell’infedeltà della moglie e produce
come principali effetti il disconoscimento della paternità del figlio e l’ostacolo perpetuo a contrarre nuovo
vincolo matrimoniale fra le stesse parti.
h) Natura giuridica del nikàh: il matrimonio musulmano, dato il suo carattere consensuale, viene da certa parte della
dottrina assimilato ad un contratto di compravendita, in forza anche dei molti elementi in comune:
- il richiedere come elemento essenziale per l’esistenza del patrimonio il pagamento del mahr da parte dell'uomo (come
prezzo);
- l’applicazione al matrimonio della dottrina del khiyàr al-‘ayb (come rescissione);
- l’esistenza di una forma di scioglimento consensuale (khul) nella quale la donna, per liberarsi dal vincolo matrimoniale,
paga al marito un corrispettivo (rimborso).
i) Concubinato: il matrimonio tra il padrone e la sua schiava non è ammesso, potendo essere configurato tra tali soggetti
esclusivamente un rapporto di concubinato (extragiuridico), che entra nella sfera giuridica solo se la schiava ha un figlio dal
suo padrone. In questo caso la schiava assume la figura giuridica di umm walad (= madre del figlio del padrone),
continuando ad essere schiava per tutta la vita del padrone e acquistando la libertà al momento della morte del padrone.
Wilàya (tutela e cura)
Con il nome di wilàya si fa riferimento a diverse posizioni concettuali che vanno distinte:
- si possono confondere le due diverse figure della tutela e della cura: infatti si parla di wilàya sia per coloro che sono
incapaci a causa dell’età (wilàya come tutela) sia per i pazzi e per i prodigi (wilàya per cura);
- nel concetto di wilàya viene anche ricompreso il concetto di patria potestà: al padre, infatti, è concessa la wilàya sui figli
maschi impuberi incapaci di amministrare bene il proprio patrimonio.
Wilàya sull’incapace a causa dell’età:
a) Concetto  la wilàya ha funzione protettiva simile a quella che la tutela degli impuberi aveva assunto nel diritto romano
giustinianeo. La wilàya sull’incapace a causa dell’età viene configurata come un dovere per colui al quale
essa è affidata. La dispensa dall’ufficio di walì è ammessa solo per motivi gravi, riconosciuti dal qadì.
b) Specie  i soggetti a cui può spettare la wilàya sono: il padre, la persona nominata dal padre nell’atto di ultime volontà
(= wasì). Secondo i malikiti tale soggetto può essere nominato anche dalla madre, ma solo in alcuni casi
specifici. Il wasì, a sua volta, può nominare un altro tutore nell’atto di ultime volontà; infine può spettare
anche ad una persona nominata dall’autorità.
c) Requisiti  per esercitare le funzioni di wilàya sono richiesti alcuni requisiti di carattere generale come la qualifica di
musulmano, la pubertà, la sanità di mente, l’irreprensibilità della vita dal punto di vista etico e religioso, e
l’essere in grado di esercitare adeguatamente la speciale funzione che viene affidata.
d) Contenuto  il walì è configurato come un mandatario che rappresenta l’interesse ad agire in tutti gli atti in cui tale
rappresentanza è ammessa. Il walì, dovendo provvedere alla gestione del patrimonio dell’incapace, è
tenuto a conservare e non diminuire il patrimonio, non potendo in alcun modo acquistare i beni del
soggetto rappresentato. Durante la sua gestione, comunque, il walì è sottoposto al controllo del qadì.
e) Cessazione  la wilàya cessa per morte dell’incapace di agire o del tutore, per rimozione del walì fatta dal qadì, per il
raggiungimento da parte dell’incapace di agire della pubertà e della capacità di amministrare i proprio beni
oppure per dichiarazione del walì o del qadì che il soggetto è dotato di rushad. Cessata la wilàya colui che
ne era investito deve riconsegnare il patrimonio che aveva in gestione rendendo conto dello stesso.
Successioni e atto di ultima volontà
Per il diritto musulmano la legge è l’unica causa di delazione ereditaria: non esiste il testamento. La qualità di erede è solo e
sempre necessaria, motivo per cui non sono ammesse la diseredazione e la rinuncia. L’oggetto dell’eredità, esclusivamente
di carattere patrimoniale, guarda solo al alto attivo: l’erede, non continuando la persona del defunto, non risponde dei beni
ereditari.
La successione legittima si apre su 2/3 del patrimonio, resi quindi indisponibili. Del residuo 1/3 si può disporre mediante
wasiyya o atto di ultime volontà, cioè un atto di beneficienza che non può essere omologato al testamento perché con esso
non può costituirsi nessun erede.
Vi sono due categorie di eredi legittimati:
- gli eredi ahl al-fard (= obbligati o coranici), che sono la madre, il fratello.., ai quali spetta una quota fissa indicata dal
Corano a seconda dei casi. Tale categoria è formata prevalentemente da persone di sesso femminile, elemento questo di forte
innovazione rispetto al sistema preislamico;
- gli eredi ‘asaba (nipoti, figli) ai quali spetta il residuo del patrimonio, detratte le quote fisse coraniche spettanti alla prima
categoria. Questa categoria si suddivide a sua volta in due sottocategorie e cioè: a) i parenti maschi uniti al defunto per linea
maschile; b) le donne elevate al rango di ‘asib in genere per mezzo di un parente maschio
CAPITOLO III
I diritti reali e il possesso
I due elementi del capitale (= raqaba) e del reddito (= manfa’a) sono utilizzati allo scopo di distinguere e classificare gli
istituti giuridici nella sfera dei diritti reali patrimoniali. La classificazione dei beni non presenta, comunque, grandi
differenze rispetto alla tradizione romanistica, salvo per la distinzione in beni utili e inutili, nascondibili e non nascondibili,
puri e impuri.
La proprietà è concepita come il diritto non illimitato di godere e di disporre di capitale e reddito di un bene (= mahl); tra i
modi di acquisto si annoverano:
- l’occupazione;
- la specificazione;
- la bonifica delle terre morte;
- l’accessione;
- la traditio;
- il retratto;
- per i soli malikiti anche il possesso di oggetto idoneo, basato su un titolo di buona fede e su giustificato motivo se protratto
ininterrottamente per un certo tempo.
Per quanto riguarda i rapporti di vicinanza, è utilizzato il criterio della normalità dell’uso; in particolare il condominio è
concepito come una proprietà plurima parziale.
Per quanto riguarda i diritti reali minori, vi sono vari tipi di usufrutto ma a livello generale esso consiste nel diritto di usare
della cosa e percepirne i frutti, lasciandone inalterato il capitale: tale godimento è temporaneo e ne può essere trasmesso
l’esercizio, ma non la titolarità. Oggetto di questo istituto possono essere solo beni mobili inconsumabili.
Tra gli altri diritti reali minori, molto utilizzati sono l’enfiteusi, la servitù e la superficie con la quale viene a costituirsi una
comproprietà tra il proprietario del suolo e il titolare del diritto, a sua volta proprietario dell’edificio costruito su quella
determinata area.
Il possesso, invece, ha ad oggetto cose corporali o incorporali; il suo acquisto può essere diretto e indiretto, per mezzo di
persona libera o schiavo, ma per essere effettivo è sempre richiesta la niyya (= animus possidendi).
Fondazione pia (waqf)
Il waqf è un complesso e caratteristico istituto del diritto musulmano, sorto per soddisfare il bisogno di destinare beni ad uno
scopo pio e in realtà servito poi per soddisfare bisogni di natura diversa.
Esistono tre tipologie di questo istituto:
a) Waqf khayrì  permette di soddisfare uno scopo pio attraverso l’immobilizzazione di un bene patrimoniale. Il
costituente deve avere determinanti requisiti per poter validamente costituire un bene in waqf.
L’oggetto deve avere determinati requisiti di natura economica o religiosa e può essere strettamente
giuridico o avere natura empirica. Lo scopo pio comprende sia le disposizioni per l’adempimento dei
doveri religiosi, sia quelle a favore della carità. Infine i devolutari sono coloro ai quali spetta il
godimento del reddito del bene il cui valore capitale è immobilizzato per uno scopo pio.
b) Waqf ahlì(o famiglia)  con il quale il reddito dei beni costituiti in waqf, prima di essere destinato ad uno scopo pio,
viene assegnato a determinate categorie di persone fisiche, soprattutto appartenenti alla
famiglia del costituente. Data la funzione evidentemente elusiva delle norme successorie
di tale istituto, esso è stato ampiamente criticato in passato, ma continua a mantenere una
completa legittimità.
c) Waqf ahlì secondo Abu Yùsuf  il quale, fondatore della scuola hanafita, non ritenne necessario ai fini della costituzione
del waqf lo spoglio dell’oggetto da parte del costituente, ma stabilì che a
quest’ultimo potesse attribuirsi il reddito del bene, considerandosi come primo
beneficiario. Questo tipo di waqf, costituendo un regime economico-giuridico dei
beni nei quali si ha la disponibilità del solo reddito e non del capitale, assume il
carattere di puro atto di liberalità.
A partire dall’inizio del XXI secolo le diverse forme di waqf ahlì sono state a poco a poco rese invalide o proibite nella
maggior parte dei paesi islamici.
Caratteri comuni: - per quanto riguarda il momento della nascita, il waqf sorge per atto di volontà di colui che ha la
capacità di disporre dell’oggetto che può validamente essere costituito il waqf. Inoltre, nell’atto
costitutivo il costituente può apporre delle clausole che vanno rispettate;
- durante la sua esistenza l’istituto presenta un diverso regime dei due elementi economici fondamentali. Infatti il
capitale viene destinato ad uno scopo pio, essendo sottratto alla disponibilità giuridica dell’individuo; il
reddito, invece, viene attribuito a diverse categorie di persone che variano a seconda dei vari tipi di
waqf.
Dato che il waqf è un patrimonio legato ad uno scopo, vi è la necessità di un organo di amministrazione, rappresentato dal
nazir cioè la persona fisica che agisce per conto del waqf e che ne rappresenta l’interesse. Sul waqf viene esercitato un
potere anche da parte del qadì, che rappresenta l’organo di tutela dell’interesse del waqf.
Per quanto riguarda l’estinzione dell’istituto, si discute su cosa succeda nel caso in cui lo scopo pio venga meno: per alcuni
il regime del waqf dovrebbe cessare, mentre per altri sarebbe semplicemente necessario determinare uno scopo analogo a
quello venuto meno.
Le obbligazioni e i contratti
Nel diritto musulmano manca un concetto generale di obbligazione in senso tecnico; quindi giuristi hanafiti hanno suddiviso
le fonti delle obbligazioni in:
1) dichiarazione di volontà, unilaterale o bilaterale;
2) fatto concludente;
3) fatto illecito, cioè la violazione di un diritto altrui da cui discende l’obbligo di risarcire il danno; questo tipo di
obbligazioni derivano dai c.d. delitti civili, cioè quelle offese ai beni altrui cui la legge fa derivare conseguenze
patrimoniali. I diritti civili si suddividono in:
- furto, che consiste nell’appropriazione non violenta di un valore patrimoniale, da cui deriva l’obbligo di restituire la cosa
sottratta, il valore di questa se si tratta di un bene infungibile o un’uguale quantità di cose della stessa qualità se risulta
fungibile;
- rapina o usurpazione, che consiste in una forma di furto aggravato dalla violenza e che viene ulteriormente distinta in
rapina della cosa e rapina del godimento;
- danneggiamento, che consiste nel danno (distruzione o deterioramento) arrecato alla cosa altrui senza avere l’intenzione
di appropriarsene o di usurparne l’uso, ma solo ai fini di nuocere al proprietario della cosa. Da tale delitto deriva
l’obbligo di restituire la cosa danneggiata o, se non risulta possibile, risarcirne il valore.
La disciplina della mora nell’adempimento, non è assolutamente paragonabile all’istituto romanistico. Infatti, il principio
generale è che il moroso nulla deve oltre l’oggetto della propria obbligazione, essendo proibita qualsiasi forma di interesse.
Il debitore, al massimo, è colpevole davanti a Dio e alla propria coscienza, visto che l’inadempimento senza giusta causa
costituisce un grave peccato. Ma recentemente, alcune dottrine hanno ammesso la mora come fatto illecito.
Il contratto è concepito come un accordo di volontà. Non vi è una disciplina generale del contratto, ma sono individuabili
alcuni principi, i quali trascendono dalla mera giuridicità per ricollegarsi alla dimensione morale e religiosa, che sono:
- la forza vincolante, che si basa sulla doppia motivazione di garantire la certezza dei rapporti economici e commerciali e
quella di rispettare la parola data;
- la libertà contrattuale, che si manifesta nella possibilità di formare contratti atipici, e che trova il suo fondamento nell’idea
dell’originaria libertà concessa da Dio all’uomo;
- il principio di equità, che si manifesta nella proibizione di usura e di contratti aleatori, allo scopo di garantire l’equilibrio
del contratto e di evitare qualsiasi ingiustificato arricchimento.
I contratti nominati possono essere classificati in:
- a titolo gratuito (donazione, deposito, mandato e comodato) che si perfezionano con la reale presa di possesso del
bene da parte del contraente destinatario; a titolo oneroso (compravendita) che si perfezionano con il semplice
consenso.
- contratti che trasferiscono la proprietà da quelli che trasferiscono solo un diritto di godimento della cosa.
Tra i contratti di scambio, la compravendita assume un ruolo primario essendo caratterizzato dal solo scambio del
consenso. Alcuni tipi di compravendita sono stati elaborati dalla dottrina in modo più dettagliato: in particolare il salam è
uno dei contratti più risalenti e consiste in una vendita a consegna posticipato, in cui viene derogato il requisito
dell’esistenza dell’oggetto al momento della conclusione del contratto. Tale tipo di vendita rappresenta il mezzo per
attenuare l’eccessivo rigore di alcune disposizioni sciaraitiche ed adattare il diritto alle nuove esigenze commerciali.
Vi sono poi alcuni contratti caratterizzati da clausole particolari circa il prezzo di vendita.
Contratto commutativo del solo reddito è la locazione che a sua volta si distingue in locatio conductio rei, locatio conductio
operarum e locatio conductio operis.
Sono contratti misti di cessione del capitale e del reddito la società contrattuale, che in realtà è quasi del tutto scomparsa ed
è stata sostituita da altri tipi di società commerciali di regolamentazione statuale sulla base di modelli europei-continentali.
Anche il mutuo rientra nella categoria dei contratti a titolo gratuito, avendo per causa la volontà di beneficiare il mutuario
senza alcun vantaggio per chi dà il mutuo: il mutuario non può restituire più di quanto ricevuto e il creditore non può
esigerlo, poiché in questo caso otterrebbe un lucro ingiustificato, che è contrario alla legge.
Elementi essenziali comuni a tutti i tipi di contratto sono:
-
le parti contraenti, alle quali si richiede la capacità contrattuale, distinguendo però tra capacità necessaria a dare validità al
contratto (discernimento) e capacità necessaria a dargli forza obbligatoria;
la prestazione, che deve essere esistente, possibile, determinata o determinabile, intorno alla quale è avvenuto l’accordo delle
parti;
il consenso, che si estrinseca in due elementi: a) manifestazione esterna, cioè il fatto concreto con il quale si riveste la volontà
delle parti contraenti, la cui forma risulta generalmente libera; b) l’intenzione di contrarre effetti giuridici, elemento
maggiormente rilevante;
la causa, secondo Santillana si presume sempre e, qualora sia espressa, si presume valida fino a prova contraria. Essa deve
essere conforme alla shari’a, quindi un contratto valido può essere annullato per illiceità della causa.
CAPITOLO IV
I reati e le pene
La distinzione dei reati (= ginàyàt) è basata sulle sanzioni che sono:
a) il taglione, con il quale sono puniti l’omicidio e le lesioni personali, sia volontari e ingiusti, sia quasi volontari, sia
colposi. Quando non si può o non si vuole applicare il taglione si utilizza la composizione o prezzo del sangue, la cui
misura varia in basa al caso che tiene conto dello status libertatis, del sesso e della condizione sociale della vittima.
b) le pene edittali fissate dal Corano (= hadd), che sono riconducibili alla pena capitale, all’amputazione di uno o più
membra, alla fustigazione e al bando, e riguardano 5 tipi di reati:
- la fornicazione e la calunnia di fornicazione, cioè delitti direttamente o indirettamente riguardanti la sfera sessuale e
che si distinguono in fornicazione semplice e adulterio;
- il brigantaggio e il furto rientrano nella categoria dei delitti contro il patrimonio;
- il consumo di bevande inebrianti, che rientra tra i reati di natura politico-religiosa insieme alla ribellione e all’apostasia
dall’islam.
c) le pene rimesse alla discrezionalità del giudice, tra le quali rientrano i reati di rapina violenta senza l’uso di armi di una
cosa o del suo godimento, la falsificazione di documenti, il furto di cose per un valore inferiore ad un minimo legale,
l’alterazione di pesi e misure. Tali pene possono essere sia limitative della libertà personale, sia semplicemente infamanti,
sia patrimoniali, sia corporali.
Il giudice nel diritto musulmano
Origine del qadì: con l’affermarsi dell’islam, all’arbitro scelto dalle parti viene a sostituirsi la figura del qadì cioè ‘colui
che giudica’. Egli ha giurisdizione esclusiva sui musulmani, mentre sui non musulmani esercita le sue funzioni solo in
alcune materie, dal momento che essi sono in genere soggetti a tribunali ecclesiastici propri (= rabbini). Poiché la prima
organizzazione bizantina e la prima islamica presentano alcune somiglianze, è stata avanzata l’ipotesi di un’influenza della
prima sulla seconda. Qualunque sia il grado di autenticità delle fonti pervenute, i qadì hanno svolto un ruolo di primaria
importanza nella formazione del diritto musulmano classico: il personale discernimento e il ricorso alla prassi
consuetudinaria furono alla base del sistema delle sentenze dei giudici nel periodo arcaico. In epoca omayyde, nonostante la
materia giuridica non fosse totalmente islamizzata, la carica di qadì poteva ormai considerarsi come un’istituzione islamica.
Il qadì aveva la funzione di impartire l’istruzione religiosa e nel farlo si adoperava per l’edificazione spirituale della
comunità, contribuendo a trasformare in diritto musulmano positivo la prassi popolare e amministrativa del periodo
precedente.
Natura dell’ufficio: il califfo, che è capo della umma e titolare di tutti i poteri giuridicamente necessari per
l’amministrazione e rappresentando il vertice del potere giudiziario, ha il potere di nominare i qadì. L’atto di nomina è di
natura contrattuale e consiste in un’offerta e in un’accettazione in presenza di almeno due testimoni. Il califfo, comunque,
conserva il potere di rimuovere il qadì dall’incarico e questo porta a chiedersi se il qadì sia un semplice mandatario del
califfo o un suo delegato.
La giustizia è sempre stata amministrata dal qadì in quanto giudice monocratico, al massimo gli è concesso di ricorrere a
giuristi qualificati per ottenere dei consigli, i quali emettevano un responso legale (= fatwà) di carattere generale. In
particolare nell’occidente musulmano, questa pratica era stata eretta a sistema: quindi presso ogni qadì esisteva un consiglio
di giuristi con funzione consultiva.
Nella giustizia musulmana, non esistono gradi di giurisdizione, infatti il qadì statuisce sovranamente; il principio di
collegialità è applicato solo, ma non sempre, nella giustizia straordinaria del ricorso alla giustizia del principe, la quale è
destinata a correggere le malversazioni e le ingiustizie dei funzionari dell’amministrazione centrale e provinciale.
Competenza del qadì: risulta teoricamente illimitata, riguardando non solo giurisdizioni penali e civili ma anche funzioni
amministrative (es. amministrazione delle moschee). Ma in materia penale la sua competenza era estremamente ridotta:
infatti applicando la sharì’à egli poteva conoscere solo i delitti, per la cui repressione agiva in concorrenza con la shurta,
cioè l’organismo incaricato di mantenere l’ordine pubblico.
La giurisdizione extra ordinem
La giurisdizione della ‘riparazione degli abusi’ o mazàlim si affiancò a quella dei qadì sotto i califfi abbasidi. In principio i
mazàlim rappresentavano la semplice facoltà, spettante al sovrano, di esercitare la suprema giustizia. Successivamente
acquistarono competenza specifica sui casi per i quali la giurisdizione del qadì appariva insufficiente, intervenendo per
proteggere i deboli contro gli eccessi di potere da parte dello Stato e dei suoi funzionari.
Per quanto conforme alla sharì’à, tale forma di giustizia era piuttosto discrezionale, non ritrovandosene traccia nelle opere di
fiqh. Tuttavia, nell’opinione pubblica islamica, il buon califfo doveva dedicare all’esercizio del mazàlim molto del suo
tempo.
Contemporaneamente all’istituzione dei tribunale di mazàlim, si organizzò la hisma, con cui si intende il dovere di ogni
musulmano di operare per l’affermazione del bene e per combattere la diffusione del male. Con lo sviluppo di tale
giurisdizione, al muhtasib spettò una generale funzione di controllo della moralità.
Il processo islamico
I principi fondamentali del processo sono:
- l’impulso processuale spettante al giudice, sempre in diretto contatto con le parti processuali;
- l’uguaglianza delle parti processuali;
- lo scarso formalismo, la pubblicità, la prevalente oralità, la rapidità del giudizio;
- il carattere meramente strumentale delle non numerose norme processuali.
Il giudizio inizia o d’ufficio con l’azione attraverso la quale il qadì persegue l’esercizio di alcuni diritti, oppure tramite atto
di citazione da parte di un privato, trasmesso alla controparte a cura del giudice.
L’attore e il convenuto devono comparire in giudizio personalmente o, se permesso, mediante un loro rappresentante detto
wakìl.
Previo tentativo di conciliazione da parte del giudice, vengono escusse le prove cioè la confessione o la testimonianza, il cui
onere spetta all’attore. Il giudice, nel caso in cui sia chiaro il risultato delle prove, deve pronunciare la sentenza che è senza
motivazione, la quale può essere orale o scritta. Tale sentenza è inappellabile, ma può essere soggetta a revisione da parte
del giudice che l’ha emanata, non acquistando mai autorità di cosa giudicata.
Questo sistema è quasi completamente cambiato nel corso del XX sec, data l’introduzione di meccanismi di appello, di
sistemi collegiali, di codici di procedura e di leggi sui principi generali del processo regolanti anche la materia delle prove.
CAPITOLO V
La ricezione dei modelli giuridici occidentali
La scienza giuridica è stata quasi esclusivamente rappresentata dai fuqaha, i quali hanno conferito solo sporadicamente
qualificazione giuridica alle norme e ai principi della siyàsa (= politica). Quindi il diritto musulmano è in senso stretto
esclusivamente il fiqh, confessionale, personale, extrastatuale e apparentemente immutabile. Tali caratteri sono quelli che
appaiono maggiormente mutati: infatti, il diritto in quasi la totalità dei paesi islamici contemporanei, si presenta come un
diritto statuale, territoriale e solo in alcuni casi confessionale.
A partire dal XIX sec. la ricezione dei modelli giuridici occidentali ha suscitato processi di modificazione che hanno
attribuito irreversibile prevalenza alla produzione normativa statuale.
Il declino della siyàsa ottomana comincia nel XVII sec. quando il considerevole aumento di potere dei qadì e il parallelo
indebolimento del potere centrale, permise un generale recupero delle norme sciaraitiche. Nel XIX sec., la pressione
occidentale e il recupero del potere ottomano ebbero come conseguenza il rifiorire della siyàsa a discapito della sharì’à
Il periodo nel quale ha inizio la trasformazione è quello delle Tanzìmàt: periodo di riforme benefiche, con il quale si mise in
moto un irreversibile processo di subordinazione della norma sciaraitica a quella statale. Tale processo si è attuato mediante
l’utilizzo di strumenti diversi: come la condensazione di norme sciaraitiche, il rinvio formale al diritto musulmano,
l’utilizzazione del fiqh come materiale di costruzione per la norma statale e infine l’estensione della norma statale a tutti i
cittadini, senza distinzione di confessione.
Nel periodo della Tanzìmàt sorsero moti di autonomia e di indipendenza che per affermare i propri ideali utilizzarono
concetti appartenenti alla tradizione islamica classica, svuotandoli del loro valore originale. Tra gli altri venne modificato il
concetto di umma: accanto al concetto universale, infatti, venne formulato il concetto di umma nazione. L’elemento
universale dell’islam è entrato in rapporto con un elemento etnico, senza che questo suoni come contraddizione.
Prendendo le mosse delle Tanzìmàt, è possibile fissare alcuni momenti dell’iter di trasformazione profonda che il diritto ha
subito nel mondo islamico in circa un secolo e mezzo:
a) Impero Ottomano ed Egitto: tale distinzione ha motivo di essere anche se l’Egitto fino al 1914 ha fatto formalmente
parte dell’Impero Ottomano;
b) Maghreb tra la fine del XIX sec e la Seconda Guerra Mondiale: questo periodo, corrispondente a quello coloniale, è
caratterizzato in modo diverso in ciascun paese:
- in Tunisia si assiste ad un fenomeno di ricezione formale dei modelli occidentali e soprattutto di quello francese;
- in Marocco vengono sostanzialmente esportati i codici tunisini, almeno fino alla sua indipendenza dalla Francia;
- in Algeria, fallita una codificazione di tipo tunisino, viene estesa la legislazione francese metropolitana;
- in Libia, dopo la conquista italiana, vengono estesi i codici italiani;
c) Stati Arabi sorti dallo smembramento dell’Impero Ottomano fino alla Seconda Guerra Mondiale: dopo un primo
periodo caratterizzato dalla persistenza del modello Ottomano, questi paesi vedono accentuata la statualità del diritto. In
alcuni paesi i nuovi codici che sostituiscono quelli ottomani rivelano qualche influenza di statute law inglese, mentre in
altri risulta prevalente il modello francese;
d) Iran: si assiste al primo caso di impiego norme sciaraitiche relative ad istituti familiari e successori per la costruzione di
norme statuali. L’attività legislativa iraniana, presenta un carattere provvisorio perché le leggi restano in vigore solo se
dopo un periodo di prova non viene riscontrata difformità con lo spirito sciaraitico;
e) Mashreq dopo la Seconda Guerra Mondiale: il codice civile egiziano viene recepito quasi alla lettere oppure molto
imitato;
f) Maghreb indipendente:
- l’Algeria recepisce il codice civile egiziano;
- la Tunisia in pochi anni emana una nuova codificazione con esplicita abolizione del diritto islamico;
- il Marocco conserva parte della legislazione del protettorato, segue in maniera meno radicale la Tunisia e condensa in
un codice del diritto personale anche il diritto musulmano malikita;
- la Libia, entra a far parte dell’area egiziana, ed emana alcune leggi speciali penali che costituiscono una condensazione
del diritto musulmano malikita;
g) Penisola Araba: ha cominciato per ultima il cammino verso l’ammodernamento delle strutture e della normazione
statale. In particolare:
- l’Arabia Saudita è il paese dove il diritto musulmano è rimasto prevalente e solo di recente sono state emanate leggi
commerciali di tipo occidentale, ma ancora non utilizza un codice penale moderno;
- lo Yemen del Sud e lo Yemen del Nord attualmente sono unificati e hanno recentemente provveduto a nuove
legislazioni di matrice socialista ed egiziana;
- il Kuwayt e gli Emirati del Golfo hanno recentemente cominciato ad attuare una politica legislativa che li ha fatti
rientrare quasi totalmente nell’area egiziana, con il correttivo dell’adozione di modelli di tipo iracheno.
L’Impero Ottomano e il periodo delle Tanzìmàt
Il periodo delle Tanzìmàt inizia formalmente nel 1839, subito dopo la morte di Mahmùd II, con la promulgazione del khatt-i
shrìf con il quale per la prima volta si riconoscono le libertà individuali. Due anni dopo un altro rescritto sancisce
l’uguaglianza di tutti i sudditi dell’Impero Ottomano davanti alla legge, qualunque sia la loro religione. Tale riconoscimento
viene confermato nel 1856 con dal khatt-i hamayun che per la prima volta distingue la confessione religiosa dalla
cittadinanza. Tutti i sudditi dell’Impero si vedono riconosciuta la piena capacità giuridica, senza distinzione di classe o di
religione.
Il fatto rivoluzionario delle Tanzìmàt è l’adozione di codici, modellati su quelli francesi: il sistema di diritto civile trova la
sua fonte nel codice civile, che è il codice delle classi fondiarie e quindi disciplinava il diritto di proprietà; il sistema di
diritto commerciale, invece, trova la sua fonte nel codice di commercio, che costituiva il codice della nuova classe sociale,
della borghesia mercantile e imprenditoriale ed era fondato sulla disciplina dei contratti.
Nell’Impero Ottomano, però, la codificazione segue solo apparentemente la duplicazione codicistica, dal momento che il
codice di commercio viene svuotato della sua parte più caratteristica, cioè quella attinente alla materia delle obbligazioni e
dei contratti. Per regolare tali ambiti, allora, viene operata una condensazione di norme di fiqh hanafita e cioè la nota
Magalla, il cui artefice fu lo storico e giurista Ahmad Gevdet Pascià che si dedicò alla sua stesura nel periodo 1869-1876.
La promulgazione nel 1917 della legge ottomana della famiglia segna un’ulteriore svolta nel processo di laicizzazione del
diritto musulmano: infatti, con tale legge il legislatore musulmano ha condensato in una legge formale dello Stato le
principali disposizioni del diritto di famiglia musulmano. Tale legge non è solo un passo avanti nel campo della
statalizzazione del diritto musulmano, perché rappresenta anche un primo contributo al superamento del principio della
personalità e della confessionalità del diritto. Questa legge, tuttavia, ebbe vita breve dopo lo smembramento dell’Impero
Ottomano, rimanendo in vigore solo per i musulmani in Siria, Libano e Palestina.
Prime codificazioni dopo la caduta dell’Impero Ottomano
Il periodo compreso tra la caduta dell’Impero Ottomano, avvenuta al termine della Prima Guerra Mondiale, e la Seconda
Guerra Mondiale è caratterizzato da una spinta verso la laicizzazione del diritto. Le riforme non sono sempre organiche, ma
ciascuno degli stati si dota di una costituzione che accentua e precisa la statualità e la territorialità del diritto. Il diritto
islamico subisce, in questo modo, un’accentuata subordinazione all’ordinamento statale.
In Egitto, dopo la Prima GM, in materia familiare vengono promulgate norme di natura eclettica, aventi lo scopo di tutelare
l’interesse pubblico senza basarsi su un rito specifico. La Convenzione di Montreaux del 1937 rappresenta l’ultimo passo
verso la laicizzazione del diritto prevedendo l’abolizione dei tribunali misti.
Nel Mashreq le potenze mandatarie hanno lasciato profonde impronte, in particolare:
- in Iraq il codice penale ottomano venne sostituito con il Codice penale di Baghdad (1918), il quale ha subito negli
anni numerosi emendamenti, venendo sostituito solo nel 1969 emanando un nuovo codice di procedura penale;
- in Palestina il consiglio del 1922 ribadì l’applicazione delle leggi ottomane vigenti in Palestina, sancendo
l’applicazione delle leggi scritte britanniche;
- in Transgiordania come in Iraq l’influenza britannica fu piuttosto debole;
- in Iran, nel 1907 a seguito dell’adozione della Costituzione furono istituiti 4 tribunali statali, i quali però si
attenevano alla sharì’à non esistendo norme specifiche che avrebbero dovuto applicare. A partire dal 1910,
volendosi redigere codici sul modello europeo, venne costituita una commissione per la giustizia e un comitato di
esperti presieduto da Pierny. Dal momento che i tribunali incontravano diverse difficoltà, si ebbe un parziale ritorno
ai tribunali sciaraitici e all’arbitrato. Nel 1924 vennero approntati progetti per un codice di commercio e per un
codice penale ‘sperimentali’, entrati in vigore poi nel 1926. Tra il 1928 e il 1930 vennero emanate una serie di leggi
per correggere eventuali imperfezioni della prima promulgazione definitiva. Nel 1936 il processo di statalizzazione
-
dell’ordinamento giuridico era completato con la riforma dell’ordinamento giudiziario. All’Iran spetta il primato di
aver codificato il diritto di famiglia e di averlo inserito nel codice civile.
in Libano si ha avuto una maggiore attività legislativa. In particolare nel 1934 venne emanato il codice delle
obbligazioni e dei contratti, che abrogava espressamente tutte le norme contenute nella Magalla non conformi alle
sue disposizioni.
Produzione legislativa dopo la Seconda Guerra Mondiale
Il periodo successivo alla II GM è caratterizzato da un’intensa attività di codificazione, sia nei settori regolati da norme dello
stato sia in quelli ancora disciplinati dal diritto musulmano. In sostanza il processo di subordinazione del diritto musulmano
al diritto statale può dirsi compiuto in quasi tutto il dar al-islam. Nel settore già statalizzato si precisano alcune tendenze:
- accentuazione della sintesi delle concezioni giuridiche islamiche e occidentali;
- accentuazione dell’eclettismo delle fonti;
- adozione di leggi uniformi;
- adozione del codice civile egiziano, divenuto nel giro di pochi anni un archetipo.
Per quanto riguarda le fonti formali i codici civili prendono in considerazione il diritto scritto statale, il fiqh, la
consuetudine, il diritto naturale e le regole di equità. Tali fonti, indicate all’art. 1 di ciascun codice, sono disposte secondo
ordini differenti: infatti, il codice civile egiziano e quello iracheno collocano le consuetudini al secondo posto dopo il diritto
statale, invece i codici algerino, libico e siriano invertono tale ordine e collocano al secondo posto i principi della sharì’à e
solo successivamente la consuetudine.
Il problema delle fonti è trattato anche dagli articoli seguenti del codice iracheno. Infatti, l’art. 2 detta che non si debba
ricorre all’igtihàd nel caso in cui vi sia un testo nass, cioè un’esplicita disposizione. L’art. 3 detta che ciò che è contrario alla
legge, non può essere esteso per analogia; ed infine l’art. 5 dette che le norme cambiano con il tempo. Ne deriva un sistema
complesso, dal quale risulta evidente come sia difficile mettere insieme criteri di origine eurocontinentale e criteri di origine
islamica.
Due sono le riforme legislative rilevanti successive alla II GM:
- unificazione del sistema giudiziario, cominciata dall’Egitto nel 1956, che ha portato all’abolizione dei tribunali sciaraitici e
dei tribunali delle altre confessioni. Secondo alcuni il diritto sostanziale risulterebbe gravemente minacciato da tale
riforma, più di quanto non lo fosse stato dall’adozione dei codici; secondo altri la soppressione della giustizia sciaraitica
non comporterebbe una riduzione nell’applicazione del diritto musulmano sostanziale, dal momento che i tribunali statali
devono comunque applicare le norme sciaraitiche;
–
riforma del diritto di famiglia, alcuni stati tra cui la Giordania, la Siria, la Tunisia, il Marocco, l’Iraq e lo Yemen
hanno dato una codificazione a tale materia; invece l’Egitto non ha operato un’unificazione delle norme, ma procede con
modificazioni parziali forse perché sente che l’unificazione significherebbe abrogazione formale della sharì’à. Ad oggi, le
principali modificazioni riguardano: a) la limitazione del matrimonio poligamico, in particolare viene riconosciuto alla
donna che non consente alle seconde nozze del marito il diritto di chiedere al tribunale lo scioglimento del matrimonio; b)
riconoscimento della patria potestà materna da esercitarsi con il marito nei confronti dei figli minori; c) predisposizione di
un sistema successorio basato su norme di diritto musulmano, ma non vincolato ad una determinata scuola giuridica.
–
CAPITOLO VI
L’acculturazione giuridica nel diritto musulmano
L’acculturazione giuridica consiste in una profonda trasformazione della società nella quale si innestano nuove concezioni
giuridiche in quei settori del diritto islamico dove il potere riusciva a sottrarre ambiti di applicazione alla sharì’à.
La legge islamica ha sempre dovuto confrontarsi con una realtà basata per buona parte sulle norme emanate dai governanti e
sulla consuetudine.
L’elemento che caratterizza in maggior misura l’acculturazione giuridica nell’islam sta nel rifiuto che la scienza giuridica
tradizionale ha sempre mostrato nei confronti della norma autoritativa alla quale ha negato la qualità giuridica.
Il mondo arabo-islamico è stato ed è oggetto di influenza del sistema europeo continentale o romanista e solo
marginalmente del sistema di common law.
Nel processo di acculturazione, possono quindi essere individuati 3 modelli di codificazione:
a) Modello Ottomano  caratterizzato dall’interazione tra il modello normativo francese in materia di diritto commerciale
terrestre e marittimo e una condensazione di norme di diritto musulmano di scuola hanafita in
materia di obbligazioni e contratti. Ha avuto un’ampia diffusione ed è sopravvissuto allo
smembramento dell’Impero Ottomano. Tale modello si diffuse, oltre che nei territori arabi che
facevano parte dell’Impero, anche in Tunisia, nel Marocco, in Algeria. Tre sono i testi legislativi
emanati nel periodo delle Tanzìmàt: 1) codice di commercio (1850) che reperisce i libri I e III
del codice di commercio francese, consapevole delle lacune di questo codice il governo
ottomano istituisce una commissione per redigere un progetto che fosse appendice e integrazione
di quello in vigore; 2) codice di commercio marittimo (1863) è il più fortunato dai codici, viene
recepito dall’Egitto e nel suo testo originario è ancora in vigore in Iraq, anche se alcune
convenzioni marittime internazionali ne hanno tacitamente abrogato alcune parti; 3) la Magalla
(1869-1876) è denominato anche Code Civil Ottoman, composto da 16 libri e la sua
occidentalizzazione sta solo nella suddivisione in articoli mentre il contenuto rimane legato alla
tradizione musulmana.
b) Modello Egiziano  a differenza di quello ottomano, riproduce la duplicazione napoleonica delle fonti del diritto privato
che realizza in due distinti codici: 1) codice civile misto e nazionale egiziano, copre un ambito
più ristretto del modello si ispira, restando esclusa tutta la materia del diritto di famiglia e di
quello successorio. Tuttavia, nel successivo sviluppo, il modello egiziano mostra una notevole
capacità di espansione divenendo un vero e proprio codice civile arabo e il modello normativo di
più ampia diffusione nel mondo arabo. I due codici civili egiziani dipendono dal code civil
francese, di cui sono copia compediata. Accanto ad un’imitazione, a volte quasi alla lettera
consistente nell’agglomerazione in un unico articolo quelli che erano più articoli, i redattori si
sono rifatti anche al diritto italiano e belga. Un buon numero di norma rimane comunque basato
sul diritto musulmano. 2) codice di commercio egiziano, recepisce solo in parte il sistema
predisposto dal codice napoleonico, in particolare gli artt. 2 e 3 contengono l’elencazione degli
atti di commercio, svincolati da ogni riferimento alla competenza della giurisdizione
commerciale come era nel codice napoleonico. Il codice di commercio marittimo sia misto sia
nazionale, recepiscono alla lettera il codice di commercio marittimo ottomano.
c) Modello Maghrebino  è il più recente, nasce in Tunisia, è un sistema mono codice, incentrato su un codice delle
obbligazioni e dei contratti (1907). Nella sua diffusione in Marocco, tale codice subisce notevoli
modificazioni. Tale modello ha una morfologia peculiare e rappresenta un modello unico
nell’intera gamma dei codici dei paesi arabi; ad esso va aggiunta una legge speciale del 1885
relativa alla registrazione della proprietà fondiaria, legge che nel 1912 viene recepita anche dal
Marocco. Il solo codice tunisino delle obbligazioni e dei contratti è detto in arabo Magalla,
perché il legislatore tunisino voleva dare l’impressione all’opinione pubblica che non si trattasse
di un’opera di legislazione statale, ma di una condensazione di norme di diritto musulmano. Il
codice è composto da 2479 artt e si presenta con un impianto di tipo romanistico, ma con molte
norme estratte da fonti musulmane malikite e hanafite. Venne criticato, da parte dei giuristi e
pratici francesi perché considerato troppo lontano dal code civil francese. Le materie
commerciali rimaste fuori, finirono per cadere sotto la diretta giurisdizione dei tribunali francesi
e solo con la conquista dell’indipendenza la Tunisia provvederà ad una nuova codificazione del
0diritto commerciale, terrestre e marittimo.
La variante marocchina è il risultato di un’affrettata opera della commissione ad hoc che
modifica profondamente il modello maghrebino-tunisino: il sistema marocchino da sistema
mono codice si trasforma in un sistema a 3 codici, quello delle obbligazioni e dei contratti, quello
commerciale e quello di commercio marittimo.
Sviluppo e tramonto del modello Ottomano
Dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano al termine della I GM, alcuni stati del Mashreq diventano stati nazionali, tra di essi
la Siria, il Libano, la Transgiordania e la Palestina. In questi stati, nel periodo tra le due guerre, alla legislazione ottomana si
sostituisce un’attività legislativa nazionale caratterizzata dall’influenza della potenza mandataria.
Le riforme sono graduali e per lungo tempo in questi stati è in vigore la Magalla, cioè la condensazione di diritto
musulmano, prima di diventare paesi di codificazione moderna. Infatti, successivamente, Siria Iraq e Giordania opteranno
per il modello egiziano, solo il Libano conserverà la morfologia del sistema ottomano sostituendo alla Magalla il codice
delle obbligazioni e dei contratti. Tale codice è all’epoca uno dei testi normativi più aggiornati e moderni, in quanto in esso
era confluita tutta l’esperienza della civilistica italiana e francese.
Nel 1942 viene promulgano il codice di commercio libanese, piuttosto eclettico perché soggetto ad influenze portoghesi,
spagnole, rumene ed italiane. Tale codice è stato poi recepito in Siria, in Giordania, parzialmente in Tunisia e Algeria, in
Kuwayt, nel Qatar e nello Yemen del Nord.
Nel 1947 venne promulgato il codice di commercio marittimo libanese, per la cui redazione sono stati necessari alcuni anni
in quanto il comitato legislativo ha dovuto risolvere due problemi fondamentali: prima di tutto, doveva decidere se redigere
un codice moderno e completo oppure accontentarsi di una raccolta di testi semplici. Il comitato optò per la prima soluzione
e in questo modo il codice di commercio marittimo libanese diventerà un modello imitato o recepito alla lettera. L’altro
problema era relativo alle fonti da prendere come modello e si optò per il codice di commercio marittimo marocchino, la
legge francese sulla responsabilità dell’armatore e del capitano e varie Convenzioni di Bruxelles in materia di navigazione.
Sviluppo e diffusione del modello egiziano
L’evoluzione del modello egiziano è basata su un nuovo codice civile che sostituisce due codici ottocenteschi e che entrò in
vigore nel 1949. Tale impresa è legata all’opera di ‘Abd al-Razzàq al-Sanhùrì, maggior civilista arabo. Il modello da lui
elaborato di codice civile nelle due varianti fondamentali ha continuato a circolare anche dopo la sua morte.
I codici civili dei paesi arabi possono raggrupparsi in due famiglie:
- egiziana in senso stretto (codici civili egiziano, siriano, libico, somalo e algerino)
- variante irachena del codice egiziano (codice civile iracheno, libro delle obbligazioni e dei contratti del Kuwayt, quello del
Qatar, codice del commercio dello Yemen del Nord, codice civile giordano)
Il codice civile egiziano contiene anche alcuni espressi rinvii al diritto musulmano: ad esempio nel campo delle successioni
si fa rinvio alla regolamentazione sciaraitica; ancora, in materia di atto di ultime volontà il codice stabilisce che essa è
regolata dal diritto musulmano e da leggi specifiche; infine, un’importante influsso del diritto musulmano è presente in
materia di retratto, che consiste in una facoltà di priorità nei riguardi di un soggetto posposto concessa a certi soggetti attivi
nei confronti di un soggetto passivo o venditore in ordine a un rapporto giuridico già completo, cioè una vendita mobiliare.
Soggetti attivi sono: a) il nudo proprietario in caso di vendita; b) il condomino in caso di vendita parziale dell’immobile
indiviso ad una terza persona; c) l’usufruttuario; d) il nudo proprietario; e) il proprietario vicino.
Sono quindi individuabile nel codice quattro diverse masse di norme: una costituita dalle norme contenti espressi rinvii al
diritto musulmano, una nella quale si notano influssi del diritto musulmano, una che presenta parallelismi tra diritto
musulmano sistema romanista, e infine una che è in netto contrasto con il diritto musulmano.
L’influsso egiziano si è indirizzato principalmente verso alcuni paesi e cioè:
- la Siria, dopo l’indipendenza dalla Francia, scelse di adottare il modello egiziano influenzando non solo il codice civile ma
anche il diritto di famiglia. Anche la Siria mantiene la divisione della regolamentazione del commercio in due separati
codici: terrestre e marittimo. L’arcaicità dei testi egiziani suggerì l’adozione dei testi libanesi, i più moderni tra quelli dei
paesi arabi;
- l’Iran subì l’influenza del diritto anglo-indiano, che però si inserì in un ordinamento che si muoveva in direzione dei
sistemi di civil law grazie alla precedente esperienza ottomana. Il codice civile iracheno entrò in vigore nel 1953 e consta di
1383 artt; rappresenta una variante del modello egiziano;
- la Libia indipendente si orientò verso il modello egiziano, anche se per circa un decennio era rimasta in vigore la
legislazione coloniale italiana. Il codice civile libico è il più vicino al modello egiziano, del quale ripete la struttura in un
titolo preliminare, e in due parti, ciascuna suddivisa in due libri. Anche alcuni articoli sono la traduzione in arabo di articoli
del vigente codice civile italiano; e lo stesso vale per il codice di commercio. Questo stato ha subito delle profonde
modificazioni dopo il rovesciamento del regime monarchico e con l’avvento del potere del colonnello Muàmmar alGheddàfi. La prima fase del regime, detta ‘nasseriana’, è caratterizzata dal suo anticolonialismo e dalla sua reazione
all’acculturazione affermando alcuni principi islamici, sia nel capo del diritto privato sia in quello pubblico. In particolare
nel diritto privato si è avuta l’abrogazione di tutte le disposizioni del codice civile che prevedessero interessi e l’abrogazione
degli altri contratti aleatori. La seconda fase è caratterizzata dalla pubblicazione del Libro Verde, caratterizzata da un
atteggiamento radicale e non integralista. La rivoluzione del ’69 ha comportato la completa scomparsa del settore privato
dell’economia, l’iniziativa economica spetta esclusivamente allo Stato e alle imprese autogestite. Una riforma organica
prevedeva la sostituzione di tutti i codici in vigore con un unico codice civile: questo progetto è stato redatto anteriormente,
ma contiene aggiunte ed emendamenti successivi al 1979 ed è stato sottoposto al vaglio di una commissione ristretta di
giuristi nel 1983.
- l’Algeria, successivamente alla sua indipendenza avvenuta nel 1962, ha scelto di seguire il modello egiziano, recependone
il codice civile che consta di 1003 articoli, ripartiti come il modello egiziano in un titolo preliminare e in due parti ciascuna
comprendente due libri. In sede di approvazione del testo, la parte derivata dalla Magalla tunisina è del tutto decaduta; tale
codice non ammette interessi e limita i contratti aleatori.
- la Giordania ha ottenuto il suo codice civile, in seguito ha un iter molto travagliato, in quanto si riteneva che i codici civili
arabi siano troppo occidentalizzati. Il codice civile giordano venne promulgato nel 1976 e consta di 1449 articoli. Il codice
di commercio, invece, è la riproduzione della recensione siriana del codice di commercio libanese, come quello del
commercio marittimo deriva dall’omologo codice siriano.
Sviluppo del modello maghrebino
Una volta conseguita l’indipendenza, la Tunisia si trovò davanti al problema della pluralità degli ordinamenti giuridici e il
suo scopo è stato quello dell’unificazione dell’ordinamento giudiziario che avvenne nel giro di un anno. Allo stesso tempo si
diede inizio alla redazione di una serie di nuovi codici: in particolare il codice di commercio venne emanato nel 1959 ed è
molto influenzato dal modello francese. Il codice di commercio marittimo, promulgato nel 1962, riunisce in un corpo
organico la legislazione marittima che in precedenza era incompleta e frammentaria. Infine, il codice dei diritti reali,
emanato nel 1965, consta di 405 articoli divisi in due libri: il primo dedicato ai diritti reali in genere, il secondo agli
immobili registrati e alla procedura di registrazione. Tale codice ha subito numerosi emendamenti nel corso degli anni, ma è
rimasto in vigore mantenendo in vita centinaia di disposizioni che ormai non hanno più ragion d’essere e non sono più
applicate. Sono state istituite diverse commissioni da parte del Ministero della Giustizia per tentare di riformare tale codice,
ma nessuno progetto è andato a buon fine.
La penisola araba: una nuova area emergente
La penisola araba ha cominciato per ultima a darsi delle riforme. Tale regione, per ragioni storiche e politiche, viene
suddivisa in diverse aree:
- Arabia Saudiana, è quella in cui più di tutte è rimasta l’influenza del diritto musulmano. Sono, comunque, state create
delle Corti ammnistrative speciali in materia di commercio e di controversie bancarie e finanziarie deputate a giudicare in
base ad un vecchio Regolamento di Commercio e di specifici regolamenti denominati nizàm basati su modelli occidentali o
riproducenti norme uniformi.
- Yemen del Sud, fino alla sua unificazione con lo Yemen del Nord nel 1990, ha mantenuto in parte le disposizioni di
modello anglo-indiano, via via sostituite da modelli normativi di tipo egiziano, ma con tendenza al superamento del modello
borghese per seguire le scelte socialiste che il paese perseguiva.
- Omàn, ha iniziato dopo il 1970 il cammino delle riforme e ha emanato solo alcune leggi in materia di commercio. La
codificazione per ragioni varie è ancora lontana.
- Kuwayt ed Emirati del Golfo, dal 1960 è hanno attuato una politica legislativa che li ha fatti rientrare quasi per intero
nell’area egiziana, adottando di modello di tipo iracheno. Il Kuwayt ha completato l’opera di codificazione del diritto
privato ed ha emanato anche un codice dello statuto personale. Nel 1980 è stato emanato il codice di commercio marittimo
che rappresenta un aggiornamento del codice di commercio marittimo libanese.
- Bahrayn, conserva in vigore una Legge del Contratto, modellata su quella indiana della fine del secolo scorso, ha
conservato maggiori influenze della passata presenza britannica. Recentemente si è avvicinata ai modelli di tipo egizianoromanista iniziando dalla legge delle società commerciali.
- Unione degli Emirati Arabi, nel 1984 ha emanato una codificazione civile organica in materia di obbligazioni e contratti
che ricalca la variante irachena del modello egiziano.
- Emirato del Qatar, ha iniziato dal 1960 la sua attività legislativa moderno, emanando un codice delle materie civili e
commerciali che riproduce il codice di commercio del Kuwayt.