Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali

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Questo volume, che raccoglie in saggio i contributi presentati da quattordici studiosi di economia, estetica, antropologia e diritto al convegno
promosso nel giugno 2004 presso Ca’ Foscari, a
Venezia, da EGArt (Corso di laurea in Economia
e Gestione delle Arti e delle attività culturali) e dalla SIE (Società Italiana di Estetica), rappresenta il
tentativo di disegnare contenuti e prospettive nuove per un concetto ormai strategico nelle politiche
culturali di pressoché tutti i Paesi: il concetto di
“bene culturale”. Se infatti il pensiero economico
e manageriale è oggi invitato a confrontarsi con
una idea di prodotto sottoposta a profonda revisione attraverso la rivisitazione dei concetti di
scambio, produzione, valore, ecc., altrettanto le
scienze umane – filosofia e antropologia in primo
luogo – sono oggi ispirate dalle idee della svolta
performativa e “pratica” che le ha ridefinite. Immaterialità, agire, ricezione attiva, progettazione,
arte e cultura, valore, esteticità, ecc., diventano così i motivi di una ricerca comune a discipline che
non hanno più a contenuto oggetti, ma comunità,
idee e processi.
ISBN 88-87817-13-8
€ 19
Hanno contribuito a questo Estetica e management nei beni e nelle
produzioni culturali: Paolo D’Angelo, Alberta Battisti, Elena Bonel,
Maria Luisa Ciminelli, Roberta Dreon, Giuseppe Di Giacomo,
Daniele Goldoni, Andrea Moretti, Gianfranco Mossetto, Maurizio
Rispoli, Michele Tamma, Renato Troncon, Lauso Zagato, Luca Zan.
Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
cop-renato2
Estetica
e management
nei beni e
nelle produzioni
culturali
a cura di
Daniele Goldoni
Maurizio Rispoli
Renato Troncon
IL BRENNERO
DER BRENNER
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Nuova Estetica
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Collana Nuova Estetica
Direttore Renato Troncon
“Lambendo mater in artus fingit
et in formam reducit”
(Ov. Met., XV, 380-381)
© IL BRENNERO/DER BRENNER
Bolzano/Trento/Vienna
In collaborazione con
Proprietà letteraria riservata. Riproduzione in
qualsiasi forma, intera o parziale, vietata in italiano e in qualsiasi altra lingua. I diritti sono riservati in tutto il mondo.
EGArt
Economia e Gestione delle Arti
e delle Attività Culturali,
Università Ca' Foscari, Venezia
I Edizione – Aprile 2006
ISBN 88-87817-13-8
IL BRENNERO· DER BRENNER
Editoria e promozione della cultura europea
Verlag und Förderung der europäischen Kultur
Via Cesare Battisti 25, I-39100 Bolzano
[email protected]
Direzione editoriale
Barbara Passarella
Progetto grafico
Bortolo Mariotti
Stampa:
Laser Copy Center, Milano
S.I.E.
Società Italiana d’Estetica, Palermo
Osservatorio Beni Culturali,
S.I.E. - Società Italiana d’Estetica
Osservatorio Nuova Estetica,
S.I.E. - Società Italiana d'Estetica
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Estetica
e management
nei beni e
nelle produzioni
culturali
a cura di
Daniele Goldoni
Maurizio Rispoli
Renato Troncon
IL BRENNERO
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Indice
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Daniele Goldoni
Introduzione
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Paolo D’Angelo
Dalla Legge del 1922 al Codice dei Beni Culturali:
i presupposti estetici della tutela del paesaggio
19
Alberta Battisti
Atmosfera e “beni culturali”
31
Elena Bonel
Dagli obiettivi alle politiche di gestione nelle produzioni culturali
37
Maria Luisa Ciminelli
Immagini e oggetti in antropologia: una nota a margine
sulla determinazione culturale dei nostri concetti
45
Roberta Dreon
Estetica e ricezione
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Giuseppe Di Giacomo
Arte, storia dell’arte e beni culturali
61
Daniele Goldoni
“Beni culturali”: nuovi compiti per un orientamento estetico?
79
Andrea Moretti
Una specificità dei prodotti culturali?
87
Gianfranco Mossetto
Estetica ed Economia
93
Maurizio Rispoli
Prodotti culturali: cose e attività?
101
Michele Tamma
La produzione culturale e il concetto di prodotto
107
Renato Troncon
Il ripristino degli spazi storici e la prospettiva della festa
121
Lauso Zagato
Beni culturali e/o patrimonio culturale
135
Luca Zan
Aziendalizzazione & Retorica Manageriale
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Introduzione
di Daniele Goldoni
I “beni culturali” sono al centro di una discussione molto seria, con
aspetti talvolta anche fortemente polemici. Non sorprende. L’espressione
evoca immediatamente un patrimonio artistico che in Italia è straordinario, sia per il rilievo culturale, sia per le implicazioni economiche. Le
innovazioni legislative di questi anni hanno prodotto una situazione di
transizione dai contorni non chiari, con sostenitori e consensi ma
anche forti allarmi, significativo il titolo Italia S.p.A. di un libro di
Salvatore Settis.
La questione dei beni culturali riguarda anche l’istruzione universitaria.
La nascita e l’espansione di corsi di laurea di Beni Culturali all’interno
dei tradizionali corsi di Lettere ha avuto effetti di spostamento del centro di gravità nelle relative facoltà. Questo processo si è poi intersecato
con una riforma essenzialmente più “applicata” – con maggiore o
minore convinzione – che “pensata” dai docenti universitari. La flessibilità dei corsi, promessa dal sistema dei crediti, è stata in parte ostacolata dalla rigidità delle classi. Il compito di disegnare percorsi culturali
nuovi e coerenti si è scontrato con le difficoltà di interpretare la riforma, ovviando alle rigidità con opzioni multiple; le quali però, disegnate nei percorsi brevi del triennio, hanno esposto anche a rischi di rendere poco identificabile il progetto culturale che le sostiene.
Nel complesso quello che sembra fare difetto è la capacità di ripensare
la complessa materia con criteri culturalmente coerenti e secondo un
progetto capace di affrontare gli elementi di cambiamento, senza
rinunciare alla serietà di una collaudata tradizione umanistica di
impianto storico-critico. La costellazione culturale umanistica è stata
pensata essenzialmente intorno allo studio e alla conservazione dell’an-
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tico. Questo è un ambito importantissimo e preponderante soprattutto in Italia. E fa perciò dell’Italia un luogo internazionale, nel bene e
nel male degli eccessi di turistizzazione del nostro paese. Ma accanto a
questo asse culturale (difeso assai bene da Settis) occorre pensare anche
altro. Occorre anche tener conto del fatto che i “beni culturali” non
sono solo il monumentale e l’antico: la società contemporanea consuma continuamente forme di vita sociale che diventano rapidamente
obsolete, alcune delle quali sono degne di memoria e conservazione;
brucia continuamente forme artistiche e culturali cariche di contenuti
simbolici e ne produce continuamente di nuove. Si impone, come più
ampio, il concetto di “eredità culturale”.
Anche il nostro paese è profondamente coinvolto in questi rapidi cambiamenti, che giungono da Ovest, da Est e dalle società postcoloniali,
mettendo in discussione qualche pregiudizio eurocentrico della nostra
stessa cultura umanistica. Molte forme espressive, che si offrono entro
un orizzonte cosiddetto estetico o artistico, sono in effetti attraenti
(soprattutto per chi, più giovane, è meno formato dal passato) perché
trasmettono più o meno esplicitamente, ma comunque in modo forte,
i segnali dei cambiamenti profondi in atto nei mezzi di comunicazione, ovvero di costruzione, delle relazioni sociali. È dunque compito
dell’università sia di mantenere la memoria storica, culturale ed artistico/estetica dell’antico come del passato recente, sia aiutare i giovani ad
individuare criticamente il senso di verità delle forme culturali emergenti o di recente obsolescenza.
Nei nuovi tipi di prodotti culturali, che comprendono, oltre i beni,
anche le attività, alcuni parametri tradizionali (l’autorialità, l’autenticità, l’unicità, la “falsità”) che hanno retto il pensiero sui beni culturali, fino a Brandi compreso, perdono di efficacia e pertinenza proprio
per il loro modo di essere prodotti. Pensiamo a tutto ciò che è fortemente performativo o collettivo o riprodotto. Insieme con essi, vanno
fuori uso alcuni principi estetico/filosofici che hanno retto la teoria
della conservazione e dei beni culturali nel primo Novecento e ancora
nella metà del secondo, in Italia. La filologia deve trovare orientamenti, metodi e forse anche pretese diversi, quando, in una società caratterizzata da una oralità seconda, prevalgono non la scrittura o l’“unicum”
(quadro, scultura etc.), ma la nuova trasmissione “orale” o visuale
mediante supporti analogici, digitali, radio, tv, e i “prodotti” sono
destinati ad essere consumati in tempo reale, in situazioni socialmente
e simbolicamente molto contestualizzate.
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Introduzione
L’estetica, a dire il vero, ha lavorato in questo senso da tempo: troviamo già in un vero umanista come Gadamer la critica radicale del concetto di autenticità. Ma soprattutto le filosofie che hanno focalizzato la
scrittura per riconoscerne sia la forza formante, sia la relatività di tale
forza a certi grandi periodi e ambiti geografico-culturali (Derrida,
McLuhan etc.), offrono buoni spunti di lettura dei processi radicali
artistici iniziati già alla fine degli anni ’50. Mezzo secolo fa, e non si
può dire che la successiva formula del “postmoderno” abbia aiutato a
fare chiarezza per le necessità teoriche dell’oggi! Qualche eredità di allora deve forse essere ancora ulteriormente assimilata… Ma ciò significa
solo che c’è ancora molto spazio per un pensiero estetico che sappia
interagire con l’antropologia, con il diritto, con la sociologia, con l’economia e con il management.
Era questa, infatti, l’intenzione del convegno promosso nel giugno
2004 presso Ca’ Foscari, da EGArt (Corso di laurea in Economia e
Gestione delle Arti e delle attività culturali) e dalla SIE (Società Italiana
di Estetica). EGArt è un corso di laurea misto fra beni culturali ed economia, ed è nato proprio per rispondere a una richiesta di focalizzare
una identità culturale che coniughi l’eredità umanistica con il bisogno
di pensare concretamente, entro gli strumenti della gestione e dell’organizzazione, le necessità della produzione, della valorizzazione e della
ricezione de beni, dei prodotti e delle attività culturali. È stata così una
naturale risposta alla sua vocazione invitare persone con competenze
diverse, accomunate dalla convinzione di non essere detentori di un
sapere autosufficiente, ma disposti a confrontarsi, con interventi non
accademici.
Nella raccolta di quegli interventi si è voluto mantenere quello stile. E
nella scelta di non raggruppare gli interventi per scontate affinità, ma
per ordine alfabetico, si è anche voluto sottolineare la volontà di non
suggerire gerarchie in indicazioni di lettura, ma di lasciare libera la scelta di rivolgersi a ciò che più interessi.
I contributi di un giurista sui concetti di bene culturale e di cultural
heritage, di una antropologa sui nessi fra antropologia ed estetica, e di
diversi studiosi di area economica e manageriale, si mescolano con
quelli più marcatamente estetologici, dalla teoria estetica alla storia dell’arte, dalle teorie della ricezione all’estetica del paesaggio, dell’atmosfera, della festa.
In diversi interventi di area manageriale – attenti a distinguere la
sostanza delle politiche di gestione e valorizzazione da una (non infre-
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Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
quente) “retorica manageriale” – vengono indicate prospettive che mettono in discussione anche qualche tradizionale modello di teoria economica. La definizione di prodotto culturale allarga e sfonda le maglie
del concetto tradizionale economico di prodotto, sia aprendo all’immateriale e alle “attività” (pensiamo ad esempio alle performing arts), sia
restituendo la complessità del suo “valore”. Infatti la ricezione attiva da
parte del pubblico diventa decisiva per la determinazione di un valore,
che ha implicazioni ed effetti economici in un contesto di significati
socialmente e culturalmente complessi. Si propone così un concetto
relazionale della politica di produzione e gestione e del “valore” che va
ben oltre gli usi più scontati e diffusi dei concetti di bene e di bene culturale in chiave tradizionalmente economica, di produzione in senso
“industriale”, della tradizionale logica e “retorica” strumentale del mercato. Infine: quando il prodotto è arte o cultura, non sembra che i principi dell’utilità marginale funzionano bene, poiché il “consumo” di arte
e cultura tende ad aumentarne il bisogno e la richiesta.
Si è avviata così una discussione consapevole della necessità di far reagire categorie di discipline diverse, mettendole reciprocamente alla
prova degli “oggetti” del campo tradizionalmente estraneo, una discussione consapevole della opportunità di farne oggetto di ricerca e di proposta, anche nella didattica universitaria di frontiera. Pensare all’incrocio fra arte, cultura da un lato, e produzione, ricezione, valorizzazione
dall’altro, indirizza l’estetica verso analisi molto concrete della realtà
sociale della produzione e della ricezione artistica e culturale. Tale
modo di affrontare il problema, d’altra parte, sollecita il pensiero economico e manageriale a confrontarsi con prodotti (beni e attività) che
chiedono profonde revisioni dei concetti di scambio, produzione, valore. Forse, porterà a recuperare a quel territorio che la modernità ha
chiamato “economia” anche la riflessione su quell’energia specifica, con
la sua logica diversa, eccedente, di quanto è stato detto anticamente e
modernamente “arte” e “cultura”.
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Dalla Legge del 1922
al Codice dei Beni Culturali:
i presupposti estetici
della tutela del paesaggio
di Paolo D’Angelo
1. In questo breve scritto mi propongo di analizzare, per sommi capi,
quale sia stata la concezione del paesaggio che ha fatto da base ai vari interventi legislativi a protezione del paesaggio che abbiamo avuto in Italia, dalla prima legge organica in materia, quella del 1922, fino al recentissimo Codice dei Beni Culturali la cui promulgazione è avvenuta nel
2004. In particolare, cercherò di mettere in evidenza quale sia stata l’estetica del paesaggio che è stata sottesa dalle leggi paesaggistiche.
Anche se qualche volta, specie negli ultimi decenni, siamo stati tentati
dal dimenticarlo, quella di paesaggio è infatti una nozione eminentemente estetica, ha a che fare col modo in cui percepiamo un luogo e con
la soddisfazione estetica che proviamo nel contemplarlo e nel muoverci
in esso. Quando si legifera sul paesaggio, quindi, ci si riferisce sempre
ad un’idea di ciò che il paesaggio è, di quel che il paesaggio significa per
noi. Questa idea di paesaggio influenza inevitabilmente le forme della
tutela, e influenza in misura ancora maggiore i comportamenti concreti dei cittadini nei confronti del paesaggio1.
Occorre inoltre avere presente che la nozione di paesaggio è nata come
concetto estetico, e che per lungo tempo si è visto nel paesaggio, prima
che un valore ambientale, di purezza naturale, un valore per l’appunto
estetico. Ciò è del tutto evidente se si segue il movimento di opinione
che ha portato vari paesi europei, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento, a dotarsi di una legislazione a tutela del paesaggio: in gioco
era sempre, in primo luogo, la tutela della bellezza del paesaggio e le me1 Per una più ampia illustrazione di questi argomenti, e per l’indicazione degli studi fondamentali in materia, mi permetto di rinviare al mio volume Estetica della Natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Roma-Bari, Laterza, 2001.
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Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
morie storiche e culturali che il paesaggio racchiudeva in sé. In altri paesi, per esempio nel Nord America, la protezione del territorio ha avuto
invece fin dall’inizio un marcato accento naturalistico, giusta l’ideale della wilderness lì dominante: e le differenze si vedono ancor oggi, se si prende in considerazione l’environmental Aesthetics sviluppata dai teorici d’oltreoceano negli ultimi trent’anni2.
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2. Cominciamo quindi dalla prima legge complessiva in materia di paesaggio che il nostro ordinamento si sia dato, la legge 11 Giugno 1922,
n° 778. Prima di essa, infatti, si erano avuti solo provvedimenti ad hoc,
per esempio per la salvaguardia della Pineta di Ravenna, nel 1905, o proposte di legge che si erano arenate lungo il loro iter, come quella di Rosadi nel 1910. Dopo il conflitto mondiale, fu l’allora Ministro della Pubblica Istruzione a presentare nel 1920 un disegno di legge che concluse
il suo percorso solo due anni più tardi. E qui già incontriamo un dato
significativo: quel ministro della Pubblica Istruzione era, nientemeno,
Benedetto Croce, cioè il massimo filosofo italiano dell’estetica: il quale
evidentemente avvertiva il problema culturale e civile della difesa del
paesaggio, anche se, sul piano teorico, non dette mai particolare rilievo
alla bellezza naturale.
Già nel “titolo” della legge, che suona Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico si impiega un concetto
estetico, anzi il più tradizionale dei concetti estetici, quello di bellezza,
mentre il riferimento congiunto agli immobili di interesse storico riporta
alla precedente legge 26 Giugno 1912, n° 688, che estendeva la tutela
ex lege 20 Giugno 1909 sul patrimonio artistico «alle ville, ai parchi e ai
giardini che abbiano interesse storico e artistico», e fa comprendere come la tutela del paesaggio venga vista in estensione e analogia con la salvaguardia della bellezza artistica. Il primo articolo della legge assoggettava a vincolo protettivo «le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale o
della particolare connessione con la storia civile e letteraria» e insieme
«le bellezze panoramiche».
Questa tra cose naturali belle da un lato e bellezze panoramiche dall’altro
è certamente la distinzione esteticamente centrale della legge del 1922,
così come è da considerare con la massima attenzione la sostanziale iden2
Su questo aspetto mi sia consentito rinviare al mio scritto Sul cosiddetto cognitivismo scientifico nell’estetica ambientale contemporanea, in corso di stampa in Studi in onore di Rosaria Egidi.
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Dalla Legge del 1922 al Codice dei Beni Culturali: i presupposti estetici della tutela del paesaggio
tificazione del concetto di paesaggio con quello di bellezza panoramica
che ne consegue. L’assimilazione del “paesaggio” al “panorama”, cioè alla veduta, sarà foriera di molte semplificazioni, e diventerà in futuro una
ipoteca gravosa per ogni discorso estetico sul paesaggio, perché sembrerà
ridurre il discorso sul valore estetico del paesaggio alla mera predilezione soggettiva e distaccarlo completamente dai caratteri oggettivi posseduti dal territorio.
3. La legge 29 giugno 1939, n° 1497 (una legge ancora parzialmente vigente, in quanto in parte recepita nel Codice dei Beni Culturali) all’atto
della sua formulazione si propose di «coagulare in un unico testo tutte
le esperienze precedenti, culturali e operative, riassorbendo le leggi pregresse, estendendone gli obiettivi, eliminandone alcune ambiguità»3.
Data questa impostazione, possiamo aspettarci di ritrovare la distinzione tra “bellezze naturali” e “bellezze panoramiche” e la concezione in termini vedutistici del paesaggio.
In effetti, l’art. 1 assoggettava alla legge, «a causa del loro notevole interesse pubblico»:
1) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di
singolarità geologica
2) le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, si distinguono per la loro non comune bellezza;
3) le bellezze panoramiche considerate come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico dai quali si goda lo
spettacolo di tali bellezze.
Si noti che, mentre il criterio dell’interesse pubblico è rappresentato in
tutti e quattro i casi dalla percezione di un valore estetico (cui si aggiunge
nel primo caso l’interesse scientifico), la percezione estetica del paesaggio viene ancora pensata tutta sotto la specie del pittoresco (i “quadri naturali”). Conseguentemente, lo strumento di intervento è ancora l’elenco delle bellezze naturali e panoramiche (art. 2). Tuttavia c’è motivo di
ritenere che la legge dia espressione anche a posizioni concettualmente
più avanzate rispetto all’impostazione panoramicista del problema del
paesaggio. Per esempio l’art. 5, stabilendo la facoltà per il Ministero di
G. Gambirasio, La protezione del paesaggio dalla legge n° 1497 del 1939 ai piani paesistici, in Il
Paesaggio italiano nel Novecento, Milano, Touring Club Italiano, 1994.
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predisporre piani territoriali paesistici, segna già un transito dall’idea del
paesaggio come mera veduta a quella del paesaggio come forma di un
territorio. Analogamente, nel Regolamento che seguì la Legge (Regio Decreto 3 Giugno 1940, n° 1357) è specificato (art. 9) che «nota essenziale di un complesso di cose immobili costituenti un caratteristico aspetto di valore estetico e tradizionale è la spontanea concordanza e la fusione fra l’espressione della natura e quella del lavoro umano», una precisazione che va nel senso della concezione del paesaggio come nesso inscindibile di natura e storia, e della natura antropica del paesaggio.
Gli anni dal 1940 al 1985 sono segnati da una totale assenza di interventi legislativi di ampia portata in materia di paesaggio, e ciò è tanto
più deplorevole in quanto, da un lato, si tratta degli anni della ricostruzione postbellica e soprattutto del grande sviluppo economico del nostro paese, cui corrisponde la trasformazione dell’Italia da paese ancora
largamente agricolo in paese industriale e la conseguente trasformazione, quasi sempre irreversibile, del nostro territorio; dall’altro, perché la
Costituzione aveva indicato, nell’art. 9, il valore centrale del paesaggio.
Lo aveva fatto, e questo è certamente interessante ai fini del nostro discorso, mettendo ancora una volta in parallelo le opere d’arte e il paesaggio (il testo costituzionale, prima delle recenti modifiche, suonava:
«La Repubblica […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico
della Nazione»).
Quando, negli anni Ottanta, si torna finalmente ad occuparsi di paesaggio, il quadro concettuale è profondamente mutato. Anche in Italia si è sempre più diffusa la sensibilità per le nuove tematiche ecologiche. Sono nate associazioni, gruppi, anche partiti politici che hanno
come loro fine la tutela dell’ambiente inteso come ecosistema, nel quale dunque (che di ciò si sia consapevoli o no) l’aspetto che viene accentuato è quello fisico-biologico. La conseguenza nell’ambito che ci
riguarda è degna della massima considerazione: l’interesse per la tutela della natura non è più correlato, almeno non più esclusivamente, alla “bellezza”, alla “panoramicità”, ma soprattutto al rispetto della natura, alla salvaguardia di specie animali e vegetali, alla difesa dall’inquinamento. L’“ambiente” soppianta il “paesaggio”. Ciò significa però
anche che, almeno in parte, attraverso l’interesse ecologico continua a
manifestarsi un interesse estetico per la natura. Quel che sembra accadere, quindi, è che l’interesse di tipo ecologico viene ad essere espressione anche di un rapporto estetico con la natura e il paesaggio, solo
che tale interesse è come occultato e “coperto” dall’altro. Negli stessi
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Dalla Legge del 1922 al Codice dei Beni Culturali: i presupposti estetici della tutela del paesaggio
anni assiste ad una dilatazione della nozione di urbanistica, che porta
a ricomprendere spesso il paesaggio all’interno dell’urbanistica. Ciò è
dovuto anche al fatto che l’esperienza di pianificazione si elabora appunto in materia urbanistica. Il piano paesistico diventa un derivato
di quello urbanistico e l’architetto rivendica come materia propria la
gestione del territorio e del paesaggio.
4. Il risultato di tutto ciò è che, proprio mentre sarebbe necessaria l’elaborazione di una nozione estetica del paesaggio che liberi dall’angusta
visione panoramicista e dall’identificazione del valore estetico col pittoresco, una nozione insomma che chiarisca in che modo all’idea del paesaggio come identità dei luoghi inerisca inevitabilmente la percezione
del valore estetico del paesaggio, frutto dell’interazione della storia e della natura, l’aspetto estetico del paesaggio vien sempre più spesso identificato e limitato al “panorama”, con un’inevitabile svalutazione di esso.
Una prima conseguenza di queste opinioni si può vedere nella scomparsa o nella “messa in parentesi” della nozione di paesaggio nel linguaggio dell’Amministrazione. L’Istituzione nel 1974 del Ministero dei
Beni Culturali e Ambientali può esserne una riprova: importantissima in
sé, quella decisione si connotava linguisticamente attraverso una ricomprensione (nella migliore delle ipotesi) del paesaggio nell’ambiente, nella peggiore in un sacrificio del primo a vantaggio dell’esclusiva considerazione del secondo. Occorre dire che gli stessi studiosi di estetica hanno fatto poco per evitare la semplicistica equazione paesaggio in senso
estetico = panorama, e quindi per contrastare la svalutazione del concetto di paesaggio a vantaggio del più “scientifico” concetto di ambiente. Con poche eccezioni (su tutte quella rappresentata dallo studio di
Rosario Assunto Il Paesaggio e l’estetica, la cui prima edizione è del 1973),
la riflessione filosofica in questo campo ha del tutto disertato il problema della bellezza naturale.
Quanto fin qui osservato risulta evidente se si passa a prendere in considerazione la legge 8 Agosto 1985, ormai nota come legge Galasso. Si
tratta di una legge di grande portata innovativa perché estende il concetto di tutela da cose singole o complessi di cose comunque limitati ad
intere, amplissime porzioni di territorio e perché, attraverso l’istituzione del piano paesistico regionale, afferma la necessità di un governo del
territorio che riguardi tutta la superficie nazionale.
È noto che la legge sottopone a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 29 Giugno 1939:
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a) i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare.
b) allo stesso modo, quelli contermini ai laghi, i fiumi e ai torrenti e corsi d’acqua per una profondità di m 150.
c) le montagne al di sopra dei 1600 metri nelle Alpi e dei 1200 metri
nell’Appennino.
d) i ghiacciai, i parchi, le foreste, i vulcani, le zone umide.
Come si vede, si tratta di un elenco che individua porzioni molto ampie di territorio, e sembra farlo non tanto sulla base di interessi paesaggistici quanto sulla base di necessità ambientali (protezione delle coste,
degli specchi e dei corsi d’acqua, dell’alta montagna). In realtà, credo
che sarebbe semplicistico parlare di un sacrificio del valore paesaggistico a quello ambientale in senso stretto, e questo non solo perché il privilegio accordato a certe zone (l’alta montagna) sembra venire incontro
ad un “comune sentimento della bellezza naturale”. Si tratta piuttosto
di una legge che nasce dalla confluenza di due filoni diversi: quello della protezione delle bellezze naturali, al quale esplicitamente si riallaccia,
e quello della protezione ambientale. Il fatto che la legge si diriga prevalentemente verso territori non antropizzati o scarsamente antropizzati (alta montagna, ghiacciai, zone umide) andrà spiegato non come una
rinunzia a tutelare le zone nelle quali i valori paesistici si esprimono come valori insieme storici, umani, ma con la maggiore facilità di assoggettamento ad un vincolo generale di tali territori.
L’importante è che si intenda come il valore estetico del paesaggio, concepito come identità estetica di un territorio, e quindi come carattere
permanente che contribuisce alla sua fisionomia e alla sua specificità
(non semplicemente come panorama o veduta!) non è in concorrenza
con gli altri aspetti (ecologico, fisico, geologico etc.), ma rappresenta da
un lato una componente ineliminabile dell’identificazione del paesaggio come tale, dall’altro una sorta di garanzia e di riprova della esistenza e della armonizzazione degli altri fattori del paesaggio. L’importate,
insomma, è che non si arrivi a considerare l’identità estetica di un luogo, il valore estetico del paesaggio, come un accessorio che può essere
messo da parte tutte le volte che faccia comodo farlo.
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5. Da questo punto di vista, mi pare che il nuovo Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio presenti alcuni elementi di novità che meritano di
essere sottolineati. Innanzi tutto è di grande interesse il fatto che il Co-
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Dalla Legge del 1922 al Codice dei Beni Culturali: i presupposti estetici della tutela del paesaggio
dice abbandoni ogni sovrapposizione o equivoco connubio tra i concetti di ambiente e di paesaggio, troppo spesso ritenuti interscambiabili, e
decida di parlare, in modo specifico ed univoco, di paesaggio e di valori
paesaggistici. Il paesaggio viene visto correttamente come paesaggio culturale (art. 131: i caratteri del paesaggio derivano «dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni»), ed eminentemente culturali sono i valori di cui è portatore (l’art. 138 menziona, accanto ovviamente alle caratteristiche naturali e morfologiche, quelle storiche, culturali ed estetiche). Ciò significa senza dubbio che il paesaggio non può
essere confuso con l’ambiente o con il territorio in quanto tale, essendo
sempre costitutivo del paesaggio il modo in cui esso viene percepito da
chi lo vive e lo osserva. In questo il Codice si accorda, e anzi forse esplicitamente echeggia, quanto stabilito nella European Landscape Convention firmata a Firenze il 20 Ottobre 2000, che definiva il paesaggio «an
area, as perceived by people, whose character is the result of the action and
interaction of natural and/or human factors».
Il paesaggio come bene culturale, dunque: non credo che la titolazione
esplicita del codice (Codice dei beni culturali e del paesaggio) possa fare velo in proposito, essendo chiaro che la congiunzione è esplicativa e
non oppositiva: al limite, una sorta di endiadi. Il paesaggio è bene culturale perché culturale, oltre che naturale, ne è sempre l’origine; ed è bene culturale (particolarmente, vorremmo dire, in un paese come l’Italia)
perché costituisce non lo sfondo o la cornice, ma lo spazio essenziale di
tante creazioni artistiche e assetti urbanistici.
La nozione non troppo ben fondata – anche filosoficamente – di bellezza naturale (pilastro delle leggi del 1922 e del 1939) mi pare venga
sostanzialmente abbandonata dal Codice (se non laddove esso ingloba
le disposizioni precedenti) a favore di una più corretta esplicitazione dei
valori estetico-culturali del paesaggio in termini di costituenti necessari
della identità locale. Di «risorse identitarie» parla ad esempio l’art. 138;
mentre l’art. 143, dettagliando il contenuto minimo dei piani paesaggistici, menziona il livello «di rilevanza e integrità» delle caratteristiche di
un paesaggio (al fine di creare delle classi omogenee di livelli paesaggistici: operazione probabilmente inevitabile ma certo di non facile attuazione per le tensioni che può produrre a livello locale) e discorre dei
«caratteri connotativi» delle aree tutelate.
Il rilievo che si può fare dal punto di vista della teoria del paesaggio è allora quello di una non completa consequenzialità. Infatti, se là dove il
dettato è nuovo il Codice definisce il paesaggio come risultato dell’inte-
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razione di natura e cultura e individua produttivamente la misura del
valore estetico nella contribuzione della forma paesaggistica all’identità
locale, là dove invece si limita a recepire le norme precedenti permane
l’almeno potenziale contrasto tra, per esempio, l’art. 136, che come avveniva nella legge del 39 definisce il paesaggio in termini di bellezza panoramica e pittorica e, dall’altro lato, l’individuazione delle aree tutelate tratta dalla Galasso (art. 142), dove la ratio della tutela è esclusivamente di carattere fisico-geografico-biologico.
Naturalmente il vero nodo di ogni legge sul paesaggio è quello della efficacia della tutela. Trattandosi di un aspetto squisitamente tecnico, è cosa che deve essere valutata dagli esperti, anche perché come sempre molto dipenderà dalla concreta applicazione della legge (un solo esempio:
gli Osservatori nazionali e regionali per la qualità del paesaggio riusciranno a svolgere un ruolo effettivo?). Vorrei però concludere con un’ultima considerazione, di tenore diverso da quelle fatte fin qui: la salvaguardia del paesaggio è materia così complessa e delicata che non ci si
può aspettare tutto dalla tutela di legge. La coscienza civica e la sensibilità culturale dell’intera popolazione sono coinvolte. Il terzo comma dell’art. 132 («al fine di diffondere ed accrescere la conoscenza del paesaggio le amministrazioni pubbliche intraprendono attività di formazione
e di educazione»), potrebbe rivelarsi l’esatto opposto di quella considerazione scontata e marginale che appare.
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Atmosfera e “beni culturali”
di Alberta Battisti
Introduzione
Il presente saggio si occupa di una questione centrale nel dibattito internazionale mirante a rinnovare lo statuto disciplinare dell’estetica, la
questione dell’atmosfera. Il parlarne nel contesto di questo volume ha
ragioni abbastanza evidenti ma esse andranno, nondimeno, esplicitate.
In effetti la questione dell’atmosfera, importante e di fattura perfino intuitiva, pur concernendo una priorità percettiva riguarda però assai di
meno una priorità pragmatica, e in genere è questione misconosciuta
anche da un punto di vista teorico. Inoltre, nonostante la spinta dell’estetizzazione diffusa, l’atmosfera non è ancora divenuta ciò che dovrebbe e potrebbe essere, una questione concettuale e pratica di primissimo
ordine. Pressoché unica eccezione sono gli scritti in materia del filosofo
tedesco Gernot Böhme1 – dei cui lavori ci serviremo per la breve ricostruzione offerta in queste pagine – che valgono anche come una sorta
di riparazione a favore di questo tema così sfuggente. Nella sua trattazione – tanto stratificata da richiamare molte altre considerazioni e costruzioni così strettamente intrecciate da produrre un vero turbine – l’atmosfera non è un oggetto solido, afferrabile, non è un semplice dato per1
Rinviamo, in particolare, a suoi scritti quali G. Böhme, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Darmstädter Vorlesungen, Frankfurt/M., Suhrkamp, 1985; G. Böhme, Für eine ökologische Naturästhetik, Frankfurt/M. 1989; G. Böhme, H. Böhme, Feuer, Wasser, Erde, Luft: eine
Kulturgeschichte der Elemente, München, Beck, 1996; G. Böhme, Atmosphäre. Essays zur neuen
Ästhetik., Frankfurt/M., Suhrkamp, 1995, 20032; G. Böhme, Anmutungen. Über das Atmosphärische, Ostfildern 1998; G. Böhme, Theorie des Bildes, München, Fink, 1999; G. Böhme, Aisthetik. Vorlesung über Ästhetik als allgemeine Wahrnehmungslehre, München, Fink,
2001; G. Böhme, Die Natur vor uns. Naturphilosophie in pragmatischer Hinsicht, Reutlingen,
Die Graue Edition, 2002; G. Böhme, Leibsein als Aufgabe. Leibphilosophie in pragmatischer
Hinsicht, Reutlingen, Die Graue Edition, 2003.
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cettivo ma un contesto, un profilo. Il suo statuto è tra soggetto e oggetto, tra cosa e non cosa, è un «oggetto intermedio» ovvero uno «Halbding».2 D’altronde, essa è nelle mani di progettisti e di “concepteur” di
diverso ambito, di quanti svolgono quello che Böhme dice essere la
«ästhetische Arbeit»3, il lavoro estetico di coloro che la estetica la «fanno» – dall’architetto al designer, dal restauratore all’arredatore, dall’uomo comune al professionista – e dunque, come tale, l’estetica dell’atmosfera è centrale nella prospettiva di una logica dell’analisi e dello “sviluppo” anche dei cosiddetti “beni culturali”, che più che “spazi” sono
naturalmente da comprendere in quanto “luoghi”.
Le trasformazioni nello statuto dell’estetica
La questione dell’atmosfera non si potrebbe peraltro neppure porre senza le radicali trasformazioni verificatesi nell’estetica filosofica dalla metà
del secolo scorso a oggi né senza una più forte influenza dell’antropologia filosofica. Centro delle suddette trasformazioni ne sono più sviluppi, dalla riscoperta del corpo umano alla riabilitazione della sensorialità,
dall’ampliamento esplosivo delle possibilità artistiche attraverso l’avanguardia alla rivalutazione di tutte le forme di applicazione della creatività e, infine, alla centralità acquisita dal movimento fenomenologico e
da quello antropologico-filosofico, da Ludwig Klages a Edmund Husserl, da Helmuth Plessner a Hermann Schmitz, Heinrich Barth (fratello di Karl) e molti altri ancora.4 Nel loro nocciolo concettuale questi
cambiamenti potrebbero essere indicati consistere in una “riscoperta” ovvero in un “ritorno” a ciò che secondo il suo nome l’estetica già dovrebbe essere, cioè aisthesis, dottrina della conoscenza sensibile, e dunque rinascita del progetto originale di Alexander Gottlieb Baumgarten. Questi cambiamenti si sono compiuti anzitutto sintomaticamente, in quanto era la stessa esperienza a promuovere l’attenzione verso singoli fenomeni fino ad allora lasciati ai margini dell’estetica o addirittura in qualche modo considerati antitetici a essa.5 Nuove esigenze e una nuova percezione di esigenze più o meno antiche spingono in direzione di un rin2
3
4
20
Aisthetik, op. cit., p. 61 sgg.
Atmosphäre, op. cit., pp. 24-25.
Il “debito” nei confronti dei suddetti pensatori è a vario titolo comprovabile, e si riverbera nei
concetti di co-presenza tra soggetto e oggetto, di ritmo vitale, corpo, espressione, critica ll’esistenzialismo e alla semiologia, nuova fenomenologia, ecc. Per non appesantire i rinvii bibliografici rinviamo solo alle importanti e ancora poco note opere di Hermmann Schmitz:
H. Schmitz, Der Leib. System der Philosophie II, Bonn 19822; H. Schmitz, Leib und Gefühl.
Materialien zu einer philosophischen Therapeutik, a cura di H. Gausebeck und G. Risch, Paderborn 19922; H. Schmitz, Der Leib, der Raum und die Gefühle, Ostfildern 1998.
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novamento tematico e categoriale dell’estetica. L’estetica viene richiesta
dalla stessa progressiva estetizzazione della realtà sociale e dei contesti
pubblici e privati più diversi, dal make-up al design, dall’arredo d’interni alla moda, in generale da una tendenza “kalobiotica” senza restrizioni né, in un certo senso, freni. Fino all’aspettativa, finalmente, di pervenire a una modificata relazione nei confronti della natura: aspetto di
rilevo perché, oltre l’estetica classica, è proprio quando ci si occupa dell’estetica a partire dalla questione ecologica che può divenire chiaro che
l’arte non è né il solo, né il più importante, fenomeno dell’estetica.
Il concetto di atmosfera
È sul terreno di questi nuovi impegni che matura il nuovo interesse alle atmosfere, al cui concetto Böhme dedica continuativa attenzione fin
dai propri inizi di revisione dello statuto dell’estetica, a cominciare dal
cap. 13 di Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, dai paragrafi 3 e 4 di
Für eine ökologische Naturästhetik, per continuare con tutto il cap. I di
Atmosphäre, proseguire con i capitoli III e IV di Aisthetik del 2001 e finire con l’intero Anmutungen, che si estende per un centinaio di pagine
e che è dedicato interamente alla questione dell’atmosfera.
In tutti questi scritti, nelle loro diverse parti, emerge l’idea secondo cui
il contenuto primario della sensorialità non sono le cose che si percepiscono come tali, isolatamente, ma i nessi che si percepiscono tra di loro, anzitutto, e poi in nesso a noi ma ciò sempre in quanto essi posseggano un carattere “obiettivo” anche se non “cosale”. Di cosa si tratta? Vediamolo rapidamente considerando anzitutto che il concetto di atmosfera è in quanto concetto filosofico e specialmente estetico relativamente recente e assai poco in corso, al contrario di ciò che avviene nel
linguaggio quotidiano che lo impiega – naturalmente non in senso banalmente meteorologico – nel significato di «spazio sentimentalmente
determinato», di «nuvola» o anche «aura» che una persona emana, ov5
Rappresentativi di questi rivolgimenti, indicati dallo stesso Böhme, sono alcune pubblicazioni di inizio anni ’90, quali K. Barck, P. Gente, H. Paris und S. Richter, a cura di, Aisthesis:
Wahrnehmung heute oder Perspektiven einer anderen Ästhetik, Essais, Leipzig, Reclam Verlag,
1990, e poi naturalmente i saggi di Wfg. Welsch, Ästhetisches Denken, Stuttgart, Reclam,
19933; Wfg. Welsch, Die Aktualität des Ästhetischen, München, Fink , 1993. Così come di M.
Seel, Eine Ästhetik der Natur, Frankfurt/M, Suhrkamp, 1991; M. Seel, Ästhetik des Erscheinens, München, Hanser, 2000. A queste pubblicazioni debbono essere aggiunte quelle di Arnold Berleant ovvero A. Berleant, The aesthetics of environment, Philadelphia, Temple Univ.
Press, 1992; A. Berleant, Living in the landscape: toward an aesthetics of environment, Univ.
Press of Kansas, 1996; A. Berleant, a cura di, Environment and the arts: perspectives on environmental aesthetics, Ashgate, 2002.
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vero come «clima» in genere e come il «carattere di una situazione comunicativa, dell’atmosfera di un dialogo».6 Questo uso, comprovabile
perlomeno dal XVIII sec., nella esperienza quotidiana è – come egli ancora osserva – ovviamente «del tutto familiare», laddove forse meno percepita è la circostanza che in realtà «la caratterizzazione di atmosfere è
assai differenziata». Ciascuno, in altri termini, «conosce le atmosfere in
ragione della stessa propria esperienza della natura, in ragione dello stesso proprio conviviale incontrarsi, in conseguenza della stessa propria
esperienza del mondo del lavoro e delle relazioni. Su un paesaggio può
aleggiare un’atmosfera cupa, in una riunione l’atmosfera può essere pesante, l’arredo di una stanza diffondere una atmosfera allegra», ecc.7
22
In effetti «non si parla solo della atmosfera buona o cattiva che avrebbe contrassegnato una conversazione politica, ma anche di una atmosfera pesante o di una atmosfera lieve, si parla anche poi di un’atmosfera serena, malinconica, oppressiva, importante, di una atmosfera
estiva, serale, autunnale, e di molte altre ancora».8 Certo si potrebbe
obiettare che questi usi quotidiani sono oggi molto più circoscritti –
molto di più che non un tempo – in conseguenza del carattere tecnico della nostra civiltà che giunge fino a modificare gli strati più profondi della percezione, cosicché primariamente non percepiremmo cose
ma forse addirittura “segnali”. «E tuttavia la capacità di percepire una
atmosfera non va mai perduta». Ciò non affiora forse alla coscienza,
ma «agisce» sulla condizione e lo stato del nostro corpo. Con ciò, osserva Böhme, continua per esempio a fare i conti anche oggi l’architettura. «Proprio l’architettura, in tutto ciò che essa fa, produce atmosfere. Essa, come è naturale, risolve problemi e produce oggetti, edifici di ogni genere. Ma l’architettura è intanto lavoro estetico, in quanto essa così produce anche spazi dotati di una determinata qualità emotiva, atmosfere. Edifici, interni, piazze, centri commerciali, aeroporti,
spazi urbani così come anche paesaggi culturali possono sollevare, opprimere, possono essere luminosi, freddi, accoglienti, festosi, sobri,
possono diffondere una atmosfera che respinge o attrae, severa o familiare. Il visitatore, o l’utente, il cliente, il paziente, vengono investiti o presi da questa atmosfera. È però l’architetto a produrla, più o meno consapevolmente. La rubrica sensoriale che egli predispone, i co6
7
8
Aisthetik, op. cit., p.51.
Für eine ökologische Naturästhetik, cit., p. 148 sgg.
Aisthetik, op. cit., p. 51.
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lori, la forma della superficie, le linee, gli arrangiamenti e le costellazioni che egli crea sono anche allo stesso tempo una fisionomia, dalla
quale promana una atmosfera».9
In realtà non è possibile definire la natura delle atmosfere senza definire la natura della percezione e senza ancorare quest’ultima, come Böhme fa, al corpo, così come non è possibile definirla senza delucidarla nel
suo statuto ontologico, ovvero come «oggetto intermedio» e non come
cosa o come proprietà, un’idea che Böhme deriva dai lavori di Hermann
Schmitz che è pure da Böhme stesso indicato come colui che ha strappato il concetto di atmosfera dalla marginalità filosofica10. In effetti la
nuova estetica di Böhme è anzitutto ciò che dice il suo nome, cioè teoria della percezione. Solo che, in essa, il concetto di percezione viene liberato dalle sue restrizioni a pura rielaborazione di informazioni, o riconoscimento di situazioni, mentre alla percezione appartiene l’«essere
presi» affettivamente attraverso il percepito, appartiene la verità delle immagini, appartiene la corporeità nel senso di «Leiblichkeit», corporeità
viva e significante. Percepire è per Böhme, in somma sintesi, il modo in
cui si è presso qualcosa non tanto attraverso un’attività di sintesi di dati, quanto «corporeamente». E l’oggetto primario della percezione sono
le atmosfere e non le cose, così come non lo sono le «sensazioni» o le
«forme» (Gestalten), o oggetti o loro costellazioni, come pensava per
l’appunto la psicologia della Gestalt. Ciò che anzitutto e immediatamente viene percepito sono atmosfere sul cui sfondo vengono distinti
attraverso sguardi e profili di varia natura oggetti, forme, colori, ecc. Di
fronte al tradizionale concetto di «sensorialità» come ricezione attiva perché sintetica, alla quale si può poi aggiungere il desiderio (piacere o dispiacere) così come ben ricordiamo aver fatto per esempio ancora Kant,
la «sensorialità» a cui pensa Böhme è «la componente affettiva, l’emozionalità, e l’immaginario. Il tema peculiare della sensorialità non sono
le cose che si percepiscono, bensì ciò che si sente, ovvero le atmosfere».
Insomma quando entro in uno spazio vengo «determinato tonalmente
ed emotivamente da questo spazio» e non solo l’atmosfera è decisiva per
la qualità della mia « condizione», ma capita anche che solo quando sono nell’atmosfera io possa identificare e percepire un certo oggetto.11
È questa idea di percezione, intesa come presenza del corpo alle cose, che
trova il proprio contrappeso in un’idea di atmosfera che non la qualifica
9
10
Atmosphäre, op. cit., p. 97.
Cfr. il paragrafo 4 di Atmosphäre, op. cit., p. 28 sgg., intitolato Begriff der Atmosphäre in
der Philosophie von Hermann Schmitz.
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semplicemente come cosa o come impressione – per esempio come una
emozione o una supposizione, una affezione – ma come uno specifico esistere e una sorta di «oggetto intermedio» tra le cose con le loro proprietà
e noi con le nostre impressioni ed emozioni. Se insomma la percezione ha
il proprio organo principale nella percezione delle atmosfere, che tutto antecede, così si deve dire che le atmosfere non sono che il modo in cui le
cose rivelano il loro senso globale al corpo, un senso che non si risolve puramente e del tutto in esso (come invece accade con impressioni o emozioni). La percezione di un’atmosfera è una percezione contestuale che è
diversa dalla percezione delle singole cose, e che riguarda non solo quello
che potremmo dire essere un qualche loro fatto, ma il loro senso o, ancora meglio, il loro orientamento oltre e non solo in nesso a noi.
Su questo punto bisogna spendere qualche parola, pur rimanendo fedeli al carattere di principio della nostra esposizione. In soccorso vengono
le conclusioni che Böhme svolge al capitolo sulle atmosfere contenuto
nel suo Aisthetik del 2001. Qui egli parla della realtà come di un’azione
che non è la presentazione di un semplice oggetto, bensì la presentazione di un oggetto più un soggetto. «Reale, nel senso di effettuale» (wirklich ) è in questo senso solo ciò che è dato in una percezione attuale e
reale di ciò che si nasconde dietro le cose in quanto esse possono stare
con noi per ciò che esse tuttavia sono in se stesse. Le atmosfere sono perciò per l’estetica la prima e la decisiva «realtà», sono la «co-presenza di
soggetto e oggetto», la loro unità, da cui «solo attraverso l’analisi si può
pervenire a differenziare l’essere». Le atmosfere sono, altrimenti dicendo e recuperando il concetto introdotto da un altro rappresentante del
dibattito internazionale, il menzionato Arnold Berleant, “ambienti”,
“ambientazioni”, “environment”.
Per chiarire ancora meglio, Böhme fa ricorso alle teorizzazioni di Josef
Albers, e alla sua famosa distinzione tra «factual act» e «actual fact». Il
grande pittore Josef Albers, che lavorò presso il Bauhaus e che più tardi
emigrò negli stati Uniti, lì anche sviluppando alcune delle sue principali teorie, notoriamente sperimentò con le superfici colorate e diede vita
a una importante teoria del colore con il titolo di Interaction of color.12
Ora, se la sua famosa serie Huldigung an das Quadrat è da vedere in prosecuzione del quadrato nero di Malewitsch, Albers in realtà con i suoi
quadri non voleva tanto rappresentare quanto inscenare un «Farbereig11
12
Atmosphäre, op. cit., p. 15 sgg.
J. Albers, Interaction of Color, New Haven and London, Yale University Press, 1963.
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nis». Per rendere comprensibile ciò egli operò la distinzione tra «factual
act» e «actual fact». Questa distinzione è molto importante perché grossomodo corrisponde alla differenza poco sopra adombrata al proposito
delle atmosfere, quella tra Realität e Wirklichkeit. Scrive Böhme che «factual act», l’eventualità fattuale, «è il colore che effettivamente si trova
sulla tela», mentre «actual fact» l’eventualità attuale, «è invece il colore
che si dà nella percezione». Quest’ultima «non si può localizzare sulla
tela in un qualche suo punto concreto, mentre è in un certo senso una
sollecitazione dello spazio percettivo nel quale lo spettatore entra quando indirizza la propria attenzione al quadro». Che tra queste due dimensioni del colore esista «una differenza fondamentale – continua
Böhme – è in un certo senso una antica massima di saggezza pittorica».
Un pittore ha sempre saputo che il colore percepito si distingue dal colore locale sul quadro. Il colore, sotto il profilo della sua azione nella percezione, per così dire «irradia» su tutto il dipinto e modifica per intero
il valore cromatico del quadro. Goethe portò all’attenzione questo stesso meccanismo allorché mostrò, nella sua Farbenlehre,13 «che in determinate circostanze si può dare una percezione di colore là dove peraltro
non si dà alcuna presenza fisica del colore stesso. L’esempio più eclatante di ciò sono le ombre colorate. Se una penna che si trova immersa in
una luce arancio getta una luce azzurra, ebbene dal punto di vista fisico
non è possibile accertare alcuna luce i cui valori corrisponderebbero ai
valori spettrali di quel colore». Analogamente, e si tratta ancora di un
esempio fornito dallo stesso Böhme, un altro artista molto noto, James
Turrel, ha portato alle estreme conseguenze la differenza tra «factual act»
e «actual fact», in quanto egli produce “dipinti” che non hanno più «oggetto». Si tratta di «complessi luminosi che galleggiano» nello spazio ovvero di «tonalità cromatiche» che investono un intero spazio, in cui si
guarda attraverso una finestra. Gli spazi di J. Turrel creano sperimentalmente situazioni percettive che ci lasciano scoprire – o riscoprire – modalità percettive che in realtà sono presenti in ogni percezione della vita quotidiana. La percezione di atmosfere, la percezione di «spazi totalmente determinati», è anche sempre la prima percezione, solo che usualmente andiamo oltre di essi per orientarci nell’«intrico di oggetti del nostro tempo e nella rete dei rinvii dei nostri segnali».14
R. Troncon, a cura di, Jh.W.v. Goethe, La teoria dei colori. Parte didattica, 1808-1810, Il Saggiatore, Milano 1979; R. Troncon, a cura di, Jh.W.v. Goethe, La storia dei colori, 1808-1810,
Luni Editore, Milano 1997, pp. 679.
14
Aisthetik, op. cit., pp. 57-58.
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Atmosfere “in pratica”
Alla esposizione dei concetti presentati è ora il momento di accompagnare la presentazione di alcuni tra gli esempi presentati da Böhme, soprattutto di quelli tra questi che guadagnano il carattere di veri e propri
case studies. Essi dimostreranno la possibilità di ancorare le azioni di progettazione in genere alla progettazione di atmosfere, ovvero di porre come ineludibile la questione delle atmosfere nei contesti analitici e progettuali più diversi, un aspetto di evidente e intuitiva importanza per la
questione dei “beni culturali” dibattuta in questo volume.
Gli esempi che si reperiscono nei lavori di Böhme sono molteplici, ma
non vi è dubbio che la parte del leone sia fatta dalla menzione dei lavori dell’arte o di speciali epoche dell’arte – non in ultimo di quella
contemporanea – e del loro ruolo nella generazione di atmosfere, piuttosto che non di oggetti della vita quotidiana, e poi, anzitutto, della
Natura. Così si comincia con le osservazioni sul giardino inglese, per
continuare con quelle sui fiori, sul colore nella pittura contemporanea, sul design museale, ecc.
Al proposito del giardino inglese, Böhme osserva come in esso la natura
venga intesa secondo “caratteri”, laddove questi sono «obiettive qualità
sensoriali – come sereno, dolcemente malinconico, serio, ecc. – che contraddistinguono paesaggi, scene naturali o singoli pezzi di natura». Tali
caratteri vengono prodotti nel giardino inglese del tutto intenzionalmente, attraverso una composizione consapevole. Un po’ come avveniva
nei parchi della tradizione dell’Oriente cinese e della elaborazione e formazione dei principi canonici della sua costruzione: «negli stessi elementi
della natura reale, con la medesima coerenza, si compongono alternandosi tutti gli opposti: il fluente e il duro, il materiale e l’aereo, il vicino e il
dispiegatesi in lontananza».15 Lo scopo di quei caratteri è, in ogni modo,
di trascinare lo spettatore e di «disporlo in corrispondenti tonalità d’umore». In questo modo – osserva anche Böhme – la teoria del giardino
paesaggistico inglese ha tematizzato ciò che era disprezzato nella estetica
borghese, ovvero “ciò che va al cuore”. In questo modo, inoltre, essa ha
anticipato una futura estetica ecologica, che secondo Böhme «avrà sistematicamente a che fare con gli uomini nei loro ambienti».16
In realtà, per capire veramente come potrebbe avere luogo, secondo Böhme, una progettazione di atmosfere e concomitantemente una loro anaS. M. Ejzenstejn, La natura non indifferente, ed. it. e introd. a cura di P. Montani, Venezia,
Marsilio, 1981, p. 318.
16
Für eine ökologische Naturästhetik, op. cit., p. 46.
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lisi, bisogna andare ai suoi esempi (sono anche i più numerosi di tutti)
sul carattere delle esposizioni museali e sul ruolo che, anche in esse, possono avere le azioni artistiche. Böhme, in effetti, sottopone ad analisi
piuttosto estesa la questione dei musei di storia naturale. Che cosa pensare di quelle realizzazioni, spesso ispirate a criteri modernistici? Böhme,
non troppo sorprendentemente, ne respinge proprio l’attualizzazione,
che considera senza mezzi termini del tutto erronea. È la spinta all’attualizzazione il loro limite più grave. Questi musei vengono in effetti
usati per motivi pedagogico-scolastici, ma «attraverso l’attualizzazione si
giunge alla distruzione di un bene culturale» che vale come monumento di una relazione uomo-natura già trascorsa, e come il documento di
una altrettanto trascorsa condizione naturale. Per questo motivo, secondo Böhme, sarebbe molto meglio, attraverso lo sviluppo di attività
artistiche in questi musei, di rendere visibile il loro particolare carattere, che al visitatore medio non potrebbe diversamente aprirsi. Visitatori non prevenuti, in particolari classi scolastiche, li prendono per veri,
come se ancora esistessero, cioè come presentazione di «effettiva natura». Meglio, come suggerisce Böhme, pervenire a qualche anche minima azione performativa e creativa: «Il minimo che si potrebbe fare in
questa situazione sarebbe di incollare teschi alle vetrine laddove si trovino specie estinte, o croci rosse, dove si tratti di varietà minacciate». Una
tale azione, osserva Böhme, sarebbe già da indicare come attività artistica e «introdurrebbe un momento riflessivo nella percezione e tematizzerebbe il tipo di presentazione» museale in questione. In generale proprio lo sviluppo di attività performative nei musei di storia naturale potrebbe predisporre il visitatore a conquistare una percezione rispetto alla propria collocazione, inducendolo anche a sviluppare una cognizione
dell’importanza del tutto speciale di questi musei».17
Meglio, in altri termini, realizzare e deporre una sorta di «traccia fresca»
all’interno dell’istituzione museale, così come accadde quando nel 1992
l’artista Franz Xaver Baier18 collocò, all’interno dello Hessisches Landesmuseum, in localizzazioni del museo appositamente scelte, un’installazione di secchi di zinco, singoli o a gruppi, riempiti di lucide mele gial17
18
Die Natur vor uns, op. cit., pp. 237-238.
Artista ma anche saggista: F. X. Baier, Der Raum. Prolegomena zu einer Architektur des gelebten Raumes, Köln 19992. Secondo le tesi principali di questa pubblicazione, non è possibile
pensare un qualsiasi fenomeno che non sia anche determinato da aspetti spaziali. Tale spazio
non è naturalmente euclideo o geometrico, e ciò permette a Baier di impiegarlo in ricerche
di grande interesse nel contesto di architettura e arti in genere.
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lo-rosse. L’effetto fu straordinario, e speciale impulso ricevette la problematizzazione dell’istituzione museale. L’aura di santità, quella mescolanza di atmosfera di culto e di esposizione tipica dei musei, viene così superata tramite oggetti banali e frugali e divenne, pertanto, percepibile. Il “noli me tangere” che circonda usualmente le opere d’arte esposte nei musei si disponeva anche intorno ai secchi di zinco pieni di mele e, in mancanza di proibizioni esplicite, i visitatori finivano con il chiedersi se quelle mele le si poteva mangiare, oscillando in questo modo
«tra un’auratizzazione del secchio di mele e il loro impiego come oggetti d’uso»19 ma, soprattutto, finivano con il vivere la natura “rappresentativa” del museo di storia naturale come Natura. Essi potevano così avvertire la distanza della relazione estetico scientifica rappresentata nella
stessa esistenza di un museo naturalistico e, nel momento in cui afferravano la mela, al contempo «protestavano» contro la musealizzazione
della natura e affermavano la coscienza che noi stessi in quanto corpi siamo natura.
Queste considerazioni sono interessanti per almeno due ragioni. La prima, perché in esse si evidenzia l’alleanza tra arti, in senso ampio, e “nuova estetica”.20 In effetti gli scritti di Böhme sembrano suggerire la possibilità che l’estetologo compia passi artistici in sintonia o alleanza con
l’artista. Si tratta di una confusione dei ruoli? O di una necessità imposta dalle arti per raggiungere comuni scopi estetici? E se è così di quali
arti si tratterebbe? In realtà, nelle sue opere Böhme rinvia spesso all’esistenza di quei “produttori di estetica” che propriamente non avrebbero
bisogno dell’estetica, perché per così dire già la fanno, laddove senza particolari distinzioni di ordine e grado si va dall’artista nel senso più tradizionale fino a chi mette in campo azioni di minore intensità estetica
(almeno nel senso tradizionale). Come Böhme osserva si può apprezzare l’arte dei preparatori, dei restauratori e degli “arrangeur”, degli allestitori di Diorama limitandosi all’apprezzamento del loro lavoro sotto il
profilo artigianale.21 Ma la si può anche apprezzare, diversamente, sotto il profilo della creazione di una natura “morta”, ovvero di una produzione estetica di ciò che è peculiare di un museo di storia naturale.
Die Natur vor uns, op. cit., pp. 243-244.
In questo contesto rinviamo anche a Z. Mahayni, a cura di, Neue Ästhetik der Kunst. Das
Atmosphärische und die Kunst, München, 2002. Nel volume si applicano alcune idee di
Böhme, in particolare la sua convinzione che l’arte moderna non può essere veramente compresa se se le sue opere vengono interpretate come meri segni o mere icone.
21
ivi, p.24.
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Atmosfera e “beni culturali”
Queste attività artistiche, continua Böhme, ci fanno osservare che lo
sguardo estetico non è uno sguardo puramente recettivo che trascorre su
un mondo di immagini, mentre in certo modo è una sorta di «sguardo
trasversale» che permette di percepire la presentazione della natura diversamente da come essa usualmente appare e viene presentata. È in
quanto trasversale che lo sguardo coglie immagini e anche avverte «impressioni» che restituiscono agli oggetti esposti nelle vetrine di una mostra il carattere di una natura vera ed esistente.22
Ma queste considerazioni sono interessanti per altre ragioni ancora, in
particolare per una seconda, di natura metodologica. Gli esempi presentati da Böhme, nello specifico le azioni artistiche che essi menzionano, sono infatti anche un’ottima indicazione di ciò che egli definisce essere uno «Eindruck», un’impressione, che produce uno «Ausdruck», una
espressione, laddove per “impressione” dobbiamo intendere la generale
azione di “imprimere” qualche cosa in un contesto e dunque di produrre
in questo modo una “espressione”, un rinnovato “output” a carico di esso. Tutti gli atti, è il senso di questa coppia di azioni, sono un’impronta
lasciata in un contesto, in complessi contestuali e, per questo, possono
farsi espressione, ovvero contribuire essenzialmente alla generazione di
un’atmosfera.
Conclusioni
Quali conclusioni trarre a proposito della questione dei “beni culturali”? Come abbiamo visto, esistono due lati della questione dell’atmosfera, strettamente collegati. Il primo è relativo alla sua esposizione, il secondo alla sua produzione. La questione delle atmosfere prende in questo senso il duplice aspetto di una descrizione e interpretazione delle cose (essenzialmente ambienti e articolazioni) sotto il profilo di quelle categorie che abbiamo visto prendere il nome di “atmosfere”, ma anche di
una teoria e pratica della loro generazione e ovviamente del loro ripristino. I capitoli dei numerosi libri e saggi di Böhme, dedicati tra gli altri alla “atmosfera del crepuscolo”, alla “luce come atmosfera”, all’atmosfera di una città”, alla “atmosfera nella musica”, all’“atmosfera degli spazi ecclesiastici”, ecc. ecc.,23 aprono alla possibilità di disegnare globalmente gli oggetti (inclusi i “beni culturali”). Questi ultimi, proprio come il colore, che bene li esemplifica, non sono semplici “fatti” bensì so22
23
Die Natur vor uns, p. 238.
Anmutungen, op. cit. p. 85 sgg.
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Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
no “actual fact” e in quanto tali corrispondono a un ambiente che certamente è “materiale” ma che è anche “virtuale” o “effettuale”, ovvero
coincide con tutti i molteplici spazi che li hanno attraversati e li attraversano. I “beni” culturali, in altri termini, “tingono” di sé l’intero spazio, e così facendo lo modificano coincidendo con esso.
Il valore euristico e pratico-progettuale del concetto di “atmosfera” e del
lavoro di Gernot Böhme, da noi brevemente ricostruito è, in questo senso, indubitabile.
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Dagli obiettivi alle politiche di gestione
nelle produzioni culturali
di Elena Bonel
È oggi in atto un vivace dibattito relativo all’introduzione di una prospettiva manageriale nella gestione delle produzioni culturali. Il presente contributo vuole proporre una riflessione in merito ai delicati
equilibri che chi gestisce le produzioni culturali si trova a dover definire tra le esigenze di gestione e quelle di valorizzazione delle risorse
culturali. La riflessione nasce nell’ambito di un progetto di ricerca incentrato sul concetto di prodotto culturale e sviluppato dal gruppo di
ricerca afferente ad EGART1. Il progetto di ricerca che stiamo sviluppando affronta il concetto di prodotto culturale per cercare di determinarne le specificità e quindi le esigenze di gestione, con lo scopo di
creare un bagaglio concettuale e una strumentazione dedicati alla specifica gestione delle produzioni culturali.
Nella prospettiva degli studi di economia aziendale cui questo contributo fa riferimento, quello di prodotto è un concetto differente da quello di bene o di risorsa. In economia aziendale il prodotto è infatti concepito in ottica relazionale, ovvero in quanto medium tra le risorse e gli
attori coinvolti nella produzione (Rispoli e Tamma 1992). Si considera
infatti il prodotto come il mezzo e al tempo stesso la risultante di un processo relazionale in cui attori diversi entrano in relazione dando a determinate risorse, valorizzate attraverso una serie di attività, un determinato valore (e con questo termine non si intende dare necessariamente
Egart, Corso di laurea specialistica e triennale in Economia e Gestione delle Arti e delle Produzioni Culturali, corso interfacoltà Economia-Lettere dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Sono parte del gruppo di ricerca: E. Bonel, M. Rispoli, M. Tamma dell’Università Ca’ Foscari;
F. Buffa e L. Frigotto dell’Università di Trento; D. Collodi, F. Crisci e A. Moretti dell’Università di Udine.
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una connotazione economica) che si connatura ai bisogni e ai fini degli
attori coinvolti nella sua produzione (Eiglier e Langeard 1987; Normann
1984, 2001; Rispoli e Tamma 1992; Håkansson e Snehota 1995; Rullani 2004; si veda anche Moretti in questo testo). Nel caso del prodotto culturale, gli attori coinvolti sono molteplici (Hirsch 1972, 2000),
come del resto in altre tipologie di produzione. In questa sede, tra i vari attori si considerano in particolare due categorie di attori: la comunità scientifica responsabile della produzione e la comunità dei riceventi, in quanto elementi di specificità delle produzioni culturali (Moretti,
in questo volume). Secondo la prospettiva relazionale alla produzione,
entrambi gli attori – comunità scientifica e comunità dei riceventi – risultano essere co-produttori del prodotto culturale, dato che ambedue
intervengono nella definizione sia del concetto di prodotto, che nella
produzione (si richiama qui la teoria della ricezione, che ben si accorda
col concetto di produzione relazionale che qui si espone) e nella valutazione ex post del prodotto stesso.
Il prodotto è quindi cosa diversa dalla risorsa, in quanto è il risultato di
un sistema di attività, di un processo, che mette in relazione le risorse
con i bisogni, i sistemi valoriali e i fini di quegli attori, quali potrebbero essere operatori culturali e fruitori, che risultano principalmente coinvolti nella produzione. Ciò significa, in ambito culturale ed in particolare in quello museale che qui viene preso ad esempio, disporre di categorie di analisi differenti per affrontare i concetti di prodotto culturale,
di bene culturale e di attori della produzione (operatori culturali, istituzioni, comunità scientifica, fruitori): il prodotto museale è così la risultante di un processo di valorizzazione di beni culturali che mette in relazione le esigenze e i fini della comunità scientifica e/o istituzionale con
quelle dei fruitori cui il prodotto è rivolto.
Si noti come, assumendo questa prospettiva, con l’attribuzione di diversi fini agli attori coinvolti nella produzione (la conservazione, l’educazione, lo svago, il turismo, la creazione di conoscenza scientifica, il
confronto critico, ecc.) mutino anche i concetti di “valore” e di valorizzazione risultanti. Gli esempi in ambito culturale sono svariati e significativi: restando in ambito museale, pubblico “di massa” e critici hanno
dato valutazioni rispettivamente ben diverse al ciclo di mostre sugli Impressionisti tenutesi negli ultimi anni presso Casa dei Carraresi a Treviso. Ancora, le esigenze di conservazione del Cenacolo di Leonardo a Milano creano condizioni di fruizione particolari che possono non coincidere con le aspettative dei visitatori.
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Dagli obiettivi alle politiche di gestione nelle produzioni culturali
La prospettiva relazionale applicata al prodotto culturale consente di
mettere a fuoco le specificità di questo tipo di produzione, evidenziando l’importanza da un lato, del ruolo della comunità scientifica, dall’altro di quello della comunità dei fruitori o riceventi (consumatori, critici, istituzioni, eccetera a seconda del pubblico cui il prodotto creato è rivolto). L’adozione di politiche di gestione del prodotto risulta così essere il trait d’union che consente di mediare tra i fini della comunità scientifica e quelli dei fruitori. La politica di prodotto può infatti essere considerata come il canovaccio di guida per la gestione dei processi di produzione, dalla progettazione all’erogazione. Attraverso l’incorporazione
nella politica di prodotto dei fini degli attori coinvolti nella produzione, è possibile creare un modello di gestione che tenga conto dei vincoli di una produzione che vede sostanzialmente una valutazione della qualità del prodotto di tipo relazionale, ricomprendente cioè tanto gli obiettivi della comunità scientifica, quanto quelli dei riceventi.
L’ottica economico-manageriale assume quindi un ruolo in termini di
gestione del processo di creazione di quel “valore” che gli attori stessi
si prefiggono di creare, e non necessariamente di un valore economico in senso stretto (si veda in merito il contributo di Tamma all’interno di questo stesso volume). La creazione di un determinato sistema
di gestione di una data produzione culturale è quindi subordinata alla definizione di quel particolare concetto di valore che nel mettere in
atto la produzione gli attori ricercano. Allo stesso tempo, il fondamentale momento del controllo della produzione, ovvero la valutazione della produzione e delle modalità di gestione di tale produzione, sono espressione della convergenza tra fini degli attori coinvolti e
obiettivi raggiunti con la produzione.
Si configura così uno spazio di specificità dei prodotti culturali che è
generato dall’interazione tra le variabili legate alle istanze della comunità scientifica, quelle legate alla comunità dei riceventi, e quelle legate ai principi di gestione delle attività di produzione. Si vuole qui
evidenziare come siano i diversi fini di ognuna di queste tre parti del
framework a configurare la specificità di una produzione culturale rispetto ad un’altra, e non l’oggetto della produzione in sé. Si può così
svincolare il concetto di politica gestionale da quello di specifico oggetto da gestire, rispettando così la distinzione tra risorsa e prodotto,
e tuttavia riconoscendo la specificità delle produzioni culturali in
quanto produzioni che attraverso una politica gestionale mediano tra
i fini di due classi di attori, quella più generica dei riceventi e quella
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specifica della comunità scientifica di riferimento (si veda il contributo di Moretti in questo stesso volume).
In ambito museale, le tematiche relative alle produzioni culturali si arricchiscono in termini di analisi per via della natura stessa delle risorse
chiave coinvolte nella produzione (Moretti 1999). I beni culturali, che
possono essere considerati il nucleo delle produzioni museali, sono infatti una delle risorse chiave attorno a cui il processo di creazione di valore viene messo in atto dai vari attori coinvolti (Normann 1984; Normann e Ramirez 1994; Moretti 1999). D’altro canto, i beni culturali
pongono alla comunità scientifica che li consideri in termini di risorse
una serie di vincoli (di legge, di conservazione, di valorizzazione, di conoscenza, ecc.) connaturati alla natura stessa dei beni culturali e che contribuiscono a configurare l’ulteriore specificità dei prodotti museali. Si
vuole qui prendere ad esempio uno di tali vincoli, quello della conservazione, per evidenziare il fatto che quello di prodotto culturale è un
concetto relazionale che non può prescindere da considerazioni relative
ai fini degli attori coinvolti nella produzione, in primis fruitori ed operatori, e che richiede quindi l’adozione di politiche decisionali e gestionali che tengano conto in modo dialettico delle esigenze di entrambi. Se
infatti i responsabili scientifici di un bene culturale devono confrontarsi, all’atto della progettazione dei prodotti, con vincoli di conservazione, ciò significa che necessariamente il raggiungimento degli obiettivi
dei fruitori in termini di esperienza di visita dovrà essere messo in relazione con tali vincoli. All’atto della progettazione dell’offerta, ciò può
portare alla creazione di prodotti differenti, a seconda di come questa
mediazione tra fini concorrenti venga risolta. Ad esempio, i responsabili del Museo degli Eremitani e della Cappella degli Scrovegni di Padova
hanno incorporato le esigenze di conservazione della Cappella dopo l’ultimo restauro (tempo di visita limitato e gruppi di visitatori ridotti) in
un concetto di prodotto allargato che prevede di integrare la breve esperienza di visita alla Cappella con una visita ad una sala multimediale dedicata al capolavoro di Giotto all’interno dell’adiacente museo degli Eremitani, nell’intento di migliorare l’esperienza dei fruitori, altrimenti limitata dalle esigenze di conservazione dell’opera. Simili problematiche
si sono poste a chi gestisce opere come il David di Michelangelo a Piazza della Signoria, il Cenacolo di Leonardo a Milano, Cappella Brancacci a Firenze, o i dipinti rupestri di Altamira in Spagna, per citare solo alcuni esempi eclatanti. Tuttavia, le soluzioni al problema della mediazione tra conservazione e fruizione sono state diverse, e hanno trovato di-
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versi equilibri tra le esigenze degli attori coinvolti, “equilibri” variamente (s)bilanciati verso la soddisfazione delle esigenze degli uni o degli altri. L’adozione di una politica di prodotto2 che incorpori in modo esplicito i fini (esigenze, obiettivi) delle parti coinvolte nella produzione consentirebbe una modalità di gestione che meglio terrebbe in considerazione la specificità delle produzioni culturali, e che consentirebbe di mettere in relazione in modo significativo e non aprioristico i risultati della
produzione con i suoi obiettivi.
Questi esempi consentono di mettere a fuoco come l’esigenza di gestione delle produzioni culturali e l’adozione di politiche di prodotto siano
un’esigenza reale, e come questa tuttavia vada affrontata con strumenti
concettuali e operativi specifici. Si ritiene che l’adozione di un concetto
relazionale della produzione contribuisca a creare categorie di analisi sufficientemente generali e tuttavia specificabili che risultano particolarmente adeguate a trattare la varietà delle produzioni culturali. La prospettiva relazionale consente infatti di enucleare di volta in volta, a seconda del tipo di produzione, quali siano le specificità e le priorità gestionali da affrontare e comporre, siano esse quelle della conservazione
e della fruizione, come negli esempi di cui sopra, o altre ancora, legate
ai tanti altri specifici ambiti delle produzioni culturali.
Bibliografia
A. Cicerchia, Il bellissimo vecchio. Argomenti per una geografia del patrimonio culturale,
Milano, Franco Angeli, 2002.
P. Du Gay, Production of Culture/Cultures of Production, London, Sage Publications,
1997.
P. Eiglier, E. Langeard, Servuction – Le marketing des services, Paris, McGraw-Hill, 1987
(trad. it. Il marketing strategico dei servizi, Milano, McGraw-Hill Libri Italia, 1988).
H. Håkansson, I. Snehota (a cura di), Developing Relationships in Business Networks,
London, Routledge, 1995.
P. M. Hirsch, Processing Fads and Fashions: an Organization-Set Analysis of Cultural Industry Systems, in “The American Journal of Sociology”, vol.77, No.4, 1972.
P. M. Hirsch, Cultural Industries Revisited, in “Organization Science”, vol.11, No. 3,
2000.
R. Normann, Service Management, Chichester, Wiley, 1984 (trad. it. La gestione strategica dei servizi, Milano, EtasLibri, 1992).
R. Normann, R. Ramirez, Designing Interactive Strategy. From Value Chain To Value
Si noti come si tratti qui di incorporare i fini degli attori della produzione all’interno della politica di prodotto, e non del prodotto stesso.
2
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Costrllation, Chichester, Wiley, 1994 (trad. it. Le strategie interattive d’impresa, Milano, Etas Libri, 1995).
R. Normann, Reframing Business. When the Map Changes the Landscape, Chichester,
Wiley, 2001 (trad. it. Ridisegnare l’impresa. Quando la mappa cambia il paesaggio,
Milano, Etas, 2002).
A. Moretti, La produzione museale, Torino, Giappichelli, 1999.
J. Pine II, J. H. Gilmore, The Experience Economy. Work is Theatre & Every Business a
Stage, Boston, Harvard Business School Press, 1999 (trad. it. Oltre il servizio. L’economia delle esperienze, Milano, Etas, 2000).
M. Rispoli, L’impresa industriale, Bologna, Il Mulino, 1984.
M. Rispoli e M. Tamma, Beni e servizi, cioè prodotti, in “Sinergie”, n.29, 1992.
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E. Rullani, Economia della conoscenza, Roma, Carrocci, 2004.
M. Tamma, Sistemi del valore e competizione nei servizi, in S. Podestà e F. Golfetto (a
cura di), La nuova Concorrenza. Contesti di interazione, strumenti di azione, approcci di analisi, Milano, Egea, 2000.
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Immagini e oggetti in antropologia:
una nota a margine sulla determinazione
culturale dei nostri concetti
di Maria Luisa Ciminelli
Quando filosofiamo siamo come selvaggi, come uomini primitivi che ascoltano il modo di esprimersi di uomini civilizzati,
lo fraintendono e traggono le più strane conseguenze dalla loro
erronea interpretazione
Una riflessione di taglio antropologico su un tema così vasto come quello proposto dal convegno Estetica e Beni Culturali non è certo cosa facile.
Già all’interno di discipline che non si confrontano con altri paradigmi o
costellazioni culturali sono evidenti le implicazioni transdisciplinari che i
referenti di tali termini presentano: filosofia, storia, economia, diritto costruiscono differentemente gli oggetti teorici di cui si occupano, e restituiscono rappresentazioni diverse perfino dei denotata comuni. L’antropologia culturale non può che aggiungere un’ulteriore dimensione allo
spessore di questa discussione: la dimensione della differenza culturale.
Come e in quale misura i nostri concetti siano comparabili con quelli
degli altri, quanto siano i loro a noi comprensibili, sono gli interrogativi classici che l’antropologia si è posta – una volta superato il primo approccio evoluzionista – in relazione ai vari contesti della vita umana. Tra
questi da sempre figura l’arte, che Edward B. Tylor nomina espressamente in quella che è convenzionalmente indicata come la prima definizione dell’oggetto disciplinare: «La cultura, o la civiltà, intesa nel suo
più ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include le
conoscenze, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi
altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo in quanto membro di una
società» (Primitive Culture, 1871). Tuttavia, è solo a distanza di oltre
mezzo secolo, con Franz Boas (Primitive Art, 1927), che si pongono le
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Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
basi per un’antropologia dell’arte non più fondata sull’analisi comparata degli stili e delle tecniche in funzione della ricostruzione di una loro
evoluzione nel tempo – un approccio basato sull’erronea assunzione che
i «primitivi» coevi fossero rimasti a vari stadi di civiltà indietro rispetto
alla società vittoriana. Se Boas indaga l’arte dei nativi americani della costa nord-occidentale ricostruendo i principi di rappresentazione spaziale che le sono propri e che ne definiscono gli stili, presta però poca attenzione ai significati che gli oggetti indagati rivestono nei contesti di
appartenenza: un’impresa che caratterizza invece la ricerca successiva, secondo varie prospettive teoriche.
Non è tuttavia intenzione di queste note riassumere la storia dell’antropologia dell’arte: questo breve richiamo alla storia dei suoi esordi intendeva solo evidenziare come anche le teorie e i concetti dell’antropologia
non siano esenti dalla determinazione culturale, certo più facile da cogliere a distanza di tempo, quando diviene differenza storica. La consapevolezza dell’etnocentrismo insito nello sguardo occidentale, una volta
acquisita nei primi decenni del Novecento, è diventata tuttavia costitutiva della conoscenza antropologica1, e si è tradotta in un’indicazione di
metodo che può essere estesa ad altre discipline.
Se infatti l’etnocentrismo non è unicamente occidentale né eliminabile
in toto, giacché deriva dall’essere inevitabilmente presi all’interno del
proprio sistema di riferimenti e di valori, un’attenzione critica va sempre rivolta alla strumentazione concettuale di ogni disciplina, la cui determinazione culturale si esprime a vari livelli.
Un buon esempio di quanto intendo evidenziare ci è offerto dai giudizi – apparentemente solo estetici – formulati sull’arte primitiva.
Com’è noto, la categoria linguistica di primitif veicola, alla fine dell’Ottocento, differenti significati: il qualificativo denota sia alcuni stili europei le cui modalità rappresentative si contrappongono tanto al canone estetico rinascimentale quanto a quello neoclassico vigente nell’arte
1
38
La citazione in exergo, nella quale Ludwig Wittgenstein (Ricerche filosofiche, § 194) esprime con
l’immagine del selvaggio lo spaesamento provato dal filosofo dinanzi all’apparente ovvietà delle espressioni del senso comune, si applica bene agli antropologi, che però sperimentano tale
spaesamento in modo duplice. Ed anzi sono presi in una sorta di doppio circolo ermeneutico,
giacché quel che apprendono nei contesti altri «risuona» con ciò che pensano, sentono, sanno
o presumono di sapere, costringendoli ad una incessante revisione – in itinere – dei presupposti teorici e della prassi di ricerca, che a sua volta incide – poiché nessuna metodologia di ricerca, come ci ha insegnato l’epistemologia del Novecento, è «obiettiva» – su quel che trovano, riscontrano, credono di conoscere o di aver conosciuto. È in questa incerta equazione, in questa
relazione di indeterminazione che consiste la ricchezza euristica dell’antropologia, e – per chi la
pratica «dal vivo» – la ricchezza dell’incontro con gli uomini di altre culture.
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Immagini e oggetti in antropologia
accademica, sia l’arte dei popoli «primitivi» il cui apprezzamento è vieppiù crescente, in particolare dopo le Esposizioni Universali di Parigi del
1878 e del 1889. Altrettanto noto è che l’art nègre – ossia l’arte primitiva, nel significato tuttora corrente – è una scoperta delle avanguardie artistiche del primo Novecento, tra i cui nomi figurano alcuni dei suoi iniziali collezionisti, e che la costruzione di quella che è ormai nota come
l’estetica «primitivista» si trasferì, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, dalla Francia agli Usa, segnatamente a New York, dove proseguì e si consolidò. È solo dopo l’apogeo di tale estetica – convenzionalmente fissato al 1984, quando il Museum of Modern Art ospita la
celebre mostra Primitivism in XXth Century Art: Affinity of the Tribal and
the Modern – che gli antropologi sembrano finalmente interessarsi ai presupposti di ordine culturale che informano la nostra percezione estetica
dell’arte primitiva.
Il discorso che fonda la legittimazione estetica dell’arte primitiva – e
in particolare dell’arte africana, che ne è stata e ne è l’epitome – si struttura infatti secondo una serie di opposizione binarie che sembrano generate dal cosiddetto Great Divide, dalla fondamentale opposizione
Noi/Loro. In estrema sintesi, le caratteristiche contrastanti del modello o dell’ideal-tipo dell’artista occidentale rispetto all’artista primitivo
sono fortemente debitrici dell’immagine speculare dell’altro da noi che
abbiamo voluto costruire: se il primo possiede un’identità individuale, crea per scopi sublimi, esprime un’estetica storicamente condizionata, il secondo possiede un’identità collettiva, tribale o etnica, e dunque è anonimo per definizione, crea per scopi rituali, esprime un’estetica atemporale, radicata nelle pulsioni primarie dell’umanità, tra eros
e thanatos. E ancora, se il primo non si lascia corrompere dal mercato,
il secondo non si lascia corrompere dall’acculturazione: l’arte primitiva non può (non deve) integrare il cambiamento culturale – motivo
per il quale, ad esempio, le più recenti creazioni realizzate dai Baga guineani, alle cui maschere Nimba Picasso è debitore, pur essendo impiegate ritualmente e rappresentando ancora oggetti «transizionali»
che connettono ordini di realtà differenti (ma sono navi e aerei, al posto di uccelli e coccodrilli)2, ricadono al di fuori degli interessi dei collezionisti di arte africana tradizionale.
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2
Cf. Romon Sarró, “The iconoclastic Meal: Destroying Objects and Eating Secrets among the
Baga of Guinea”, in P. Weibel, B. Latour, P. Galison et alii (eds.), Iconoclash: Beyond the Image Wars in Science, Religion, and Art, Cambridge (MA), MIT Press, 2002, pagg. 227-230.
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Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
Alla concettualizzazione della tradizione come forma culturale immobile,
inalterata nel tempo, è strettamente connessa l’idea di una autenticità originaria, che dal punto di vista antropologico rappresenta un'altra trappola
eurocentrica, peraltro innescata – come da almeno due decenni l’antropologia postmoderna ha messo in luce – dalle strategie retoriche «isolanti» e
«atemporalizzanti3» utilizzate nelle monografie etnografiche classiche.
Come già detto, l’antropologia non è infatti estranea alla costruzione,
basata sulla differenza culturale, di una radicale alterità dell’Altro: un
esempio, che solo apparentemente non pertiene al discorso estetico, concerne l’opposizione, elaborata e a lungo indagata dall’etnologia, tra società della scrittura e società dell’oralità. Le «tradizioni iconografiche fondate sull’uso della memoria rituale», di cui riferisce Carlo Severi nell’ultimo suo magistrale lavoro4, rappresentano così una regione intermedia
tra oralità e scrittura le cui implicazioni cognitive ed estetiche solo ora
cominciano ad essere studiate.
Altre e numerose sono del resto le manchevolezze da imputarsi all’antropologia nello studio della «produzione materiale» (ivi compresa quella cui
si attribuisce valore estetico) dei «primitivi»: ad un tempo sintomo e conseguenza del radicamento culturale della disciplina nel mondo occidentale, esse sono anche indice di una scarsa consapevolezza epistemica. In sintesi, l’oggetto di studio dell’antropologia dell’arte – l’arte dei popoli «primitivi» o di interesse etnologico – è stato a lungo delimitato in modo troppo etnocentrico e comunque dipendente da categorie culturali che avrebbero dovuto, esse stesse, costituire l’oggetto di un’indagine antropologica.
Così, solo da poco è riconosciuta l’esistenza di estetiche indigene – ricche di termini, concetti e valori – che, lungi dal concernere unicamente quelli che per noi sono oggetti d’arte, investono domini classici dell’antropologia come «la categorizzazione dell’ambiente naturale o la definizione delle appartenenze al gruppo sociale»5, o si esprimono in lavorazioni – ad esempio i nodi6, il cui pattern figurativo si ritrova del resto
3
4
40
5
6
Sull’allocronismo in antropologia si veda il bellissimo testo di Johannes Fabian, Time and the
Other: How Anthropology Makes its Object, New York, Columbia University Press, 1983 (trad.
it.: Il tempo e gli altri: La politica del tempo in antropologia, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2000).
Carlo Severi, Il percorso e la voce: Un’antropologia della memoria, Torino, Einaudi, 2004 (cit.
a pag. XIV, corsivo mio).
Carlo Severi, Pour une anthropologie des images: Histoire de l’art, esthétique et anthropologie, «L’Homme», vol. 165, 2003, numero monografico « Image et anthropologie » (cit. a pag. 8, trad. mia).
Cf. Suzanne Küchler, Imaging the Body Politic: The Knot in Pacific Imagination, «L’Homme»,
vol. 165, 2003, pagg. 205-222.
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Immagini e oggetti in antropologia
in oggetti celebri come i malanggan – che sarebbero prima rientrate unicamente nella categoria dell’artefatto etnografico7.
Prima di decontestualizzare immagini e oggetti da sottoporre a giudizio
estetico – operazione che si è appunto rivelata di stampo etnocentrico,
in quanto dipendente dal nostro concetto di «arte» – sarebbe stato opportuno indagare meglio i rapporti che l’immaginazione eidetica intrattiene con la più ampia sfera dei valori culturali. Esistono infatti precise «scelte culturali» su ciò che può/deve, o non può/non deve essere rappresentato: non si pensa unicamente agli iconoclasmi, ma a quanto scriveva Claude Lévi-Strauss in La voie des masques (1975), e cioè che è improduttivo interpretare una maschera in base a ciò che rappresenta, laddove – presupponendo sempre altre maschere, esistenti o anche solo possibili – essa va indagata per ciò che trasforma, ossia per ciò che sceglie di
non rappresentare. Esistono inoltre regioni intermedie tra iconoclastia e
iconofilia, in cui la realizzazione di immagini si conclude con la loro distruzione. Non si allude solo a produzioni effimere come i disegni su
sabbia dei nativi americani e australiani, o ancora i tappeti di fiori un
tempo in uso per la festa del Corpus Domini in Italia, ma a sculture la
cui realizzazione è stata commissionata ai più celebri artisti, ha occupato mesi di lavoro – come i già citati malanggan papuasi o i meno celebri nkishikishi dei Pende zairesi – e che, per adempiere alla loro funzione culturale, devono essere distrutte, direttamente o by proxy8.
Quest’ultimo punto ci offre il destro per qualche brevissima e conclusiva considerazione sulla determinazione culturale del nostro concetto di
«bene culturale», un concetto che, in questa ecumene globale, gli organismi sovranazionali (in particolare, l’Unesco) stanno imponendo al resto del mondo.
Una definizione di patrimonio culturale non può non menzionare il ruo7
8
Su tale categoria e i suoi rapporti con il “Sistema Arte-Cultura” si veda James Clifford, I frutti puri impazziscono: Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri,
1993, cap. 10 (ed. or. The Predicament of Culture. Twentieth Century Ethnography, Literature
and Art. Cambridge MA, Harvard UP, 1988) .
Sui malanggan cf. Suzanne Küchler, Malanggan: Art, Memory, and Sacrifice, Oxford, Berg,
2002; sui Pende cf. Zoe Sarah Strother, “Iconoclasm by proxy”, in P. Weibel, B. Latour, P. Galison et al (eds.), Iconoclash: Beyond the Image Wars in Science, Religion, and Art, Cambridge
(MA), MIT Press, 2002, pagg. 458-459 e, della stessa Autrice, Architecture Against the State:
The Virtues of Impermanence in the Kibulu of Eastern Pende Chiefs in Central Africa, «Journal
of the Society of Architectural Historians», vol. 63 , fasc. 3, 2004, pagg. 272-296. Si veda
anche l’esempio degli Ahauuta, dei della guerra zuñi, di cui parla Clifford (I frutti puri impazziscono, cit., p. 243, e Strade: Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pag. 263, ed. or. Routes: Travel and Translation in the Late Twentieth Century,
Cambridge MA, Harvard UP, 1997).
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lo di preservazione e salvaguardia della memoria storica che non solo gli
oggetti, ma anche i beni ambientali – e, naturalmente, i beni inoggettuali ora riconosciuti nella nozione di «patrimonio culturale immateriale» – svolgono per le identità collettive che in tali beni si riconoscono.
A tale nozione immediatamente si associa, dunque, il concetto di conservazione. Sarebbe però inappropriato estendere questo concetto a tutti gli oggetti che pure veicolano la memoria storica nei vari gruppi umani. Ad esempio, nel caso del malanggan realizzato dai nativi della Nuova Irlanda, è la sua «immagine astratta9» – ossia la possibilità di avvalersi, per il defunto che ne ha il diritto, di una particolare combinazione dei ventisette motivi iconografici che entrano nella composizione della propria rappresentazione funeraria – e non l’oggetto concreto, la scultura, ad essere oggetto preservato di memoria storica. Di più,
è la morte rituale del malanggan ad assicurare quello scambio con il
soprannaturale10, quel processo di rigenerazione11 al cui scopo è stato
creato. Gli interessi dei nativi e quelli dei collezionisti (i musei, in primo luogo) divergono così sul punto, essenziale, della funzione culturale di questo «bene».
Se il concetto di preservazione o conservazione del patrimonio culturale non è dunque universale, o almeno non può sempre essere riferito alle stesse «cose», una seconda e più radicale critica gli antropologi rivolgono ai concetti di identità e di cultura – pane per i loro denti – quali
emergono, in forma reificata ed essenzializzata, dalla comune definizione di bene culturale.
Non solo infatti l’asserita (non necessariamente autentica) continuità
con il passato12 è conditio sine qua non per la creazione e la rivendicazione di un bene culturale, ma è esattamente attraverso questo processo di attribuzione delle appartenenze che le identità collettive si
«immaginano» e si costruiscono13. «Più che luoghi o segni dove si agglutina il senso, gli oggetti del patrimonio culturale – riassume l’antropologo italiano Berardino Palumbo14 – sono operatori retorici, struCf. Brigitte Derlon, “From New Ireland to a Museum: Opposing Views of the Malanggan”,
in P. Weibel, B. Latour, P. Galison et al. (eds.), Iconoclash, cit., pag. 142.
10
Cf. S. Küchler, Malanggan…. , cit., pag. 2.
11
Cf. B. Derlon, From New Ireland to a Museum …, cit, pag. 142.
12
Si fa riferimento alla nozione di «tradizioni inventate» introdotta da Eric Hobsbawm & Terence Ranger (eds), The invention of tradition, Cambridge, Cambridge U. P., 1983 (trad.
it. L'invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987) e successivamente rielaborata in antropologia.
14
Cf. Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Revised edition, London-New York, Verso, 1991 (ed. or. 1983); Arjun Appadu9
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Immagini e oggetti in antropologia
menti per produrre senso sociale, “armi” all’interno del processo, sempre conflittuale e mai completamente compiuto, di produzione di un’identità comunitaria».
Ovvero, come scrive l’etnologo francese Jean-Loup Amselle, noto per
altre critiche distruttive e rigeneranti al tempo stesso (esattamente come per i malanggan e gli nkishikishi): «L’idée même de patrimoine culturel mondial est donc à revoir, dans la mesure où elle laisse supposer
qu’il existerait un accord entre tous les habitants de notre planète sur
la valeur à accorder à certains objets “esthétisables”. En réalité, il existe autant d’objets esthétisables qu’il existe de groups prêts à s’en réclamer. C’est la revendication culturelle qui fonde le patrimoine, non
l’inverse»15.
rai, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis-London: University of Minnesota Press, 1996 (trad. it.: Modernità in polvere: Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2001). Si veda anche Maria Luisa Ciminelli (a cura di), La negoziazione delle appartenenze. Atti del convegno «La negoziazione delle appartenenze: Arte,
identità e proprietà culturali nel terzo e nel quarto mondo», Università Ca’ Foscari di Venezia, Venezia 3 maggio 2005 (in corso di stampa).
14
Berardino Palumbo, L’Unesco e il campanile: Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia
orientale, Roma, Meltemi, 2003, pag. 375. Il recente caso dei Buddha di Bamyan dimostra
come la rivendicazione delle appartenenze passi anche attraverso l’arma dell’iconoclastia. In
questa prospettiva l’esistenza, anche internamente alle nostre società, di differenti sistemi di
giudizio estetico non risulta, com’è ovvio, solo una questione di «gusto» (cf. Pierre Bourdieu,
La distinction: Critique sociale du jugement, Paris, Ed. de Minuit, 1979; Jean Baudrillard, Le
système des objets, Paris, Gallimard, 1968 ; Arjun Appadurai, ed., The social life of things: Commodities in Cultural Perspective, Cambridge, Cambridge U. P., 1986).
15
Jean-Loup Amselle, L’art de la friche: Essai sur l’art africain contemporain, Paris, Flammarion,
2005.
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Estetica e ricezione
di Roberta Dreon
L’esperienza di fruizione delle opere d’arte o, per dirla con Jauss1, del loro godimento, è stata oggetto di considerevoli attenzioni nel corso del
Novecento. Non che nel corso dei secoli passati la filosofia o la riflessione teorica sulle arti non si fosse occupata dell’aspetto complementare a quello della produzione dei prodotti artistici, a cominciare dal discorso aristotelico sugli effetti catartici della tragedia o, ancora prima,
dalle considerazioni platoniche, seppure di marca negativa, relative alle
conseguenze insane della poesia sui giovani. Ma sicuramente lo squilibrio a favore dell’artista rispetto all’esperienza del lettore, dell’osservatore, o dell’uditore di un’opera d’arte era stato netto fino ad allora e si
era addirittura assistito a un suo decisivo rafforzamento con le dottrine
romantiche sulla genialità dell’artista creatore, cui ancora buona parte
delle avanguardie del novecento è stata ampiamente sensibile.
Tuttavia, oltre a un diverso peso dell’interesse tra produzione e ricezione artistica, si possono individuare almeno un paio di elementi per cui
si può parlare di una vera discontinuità che si è profilata su questo tema
nel corso del secolo passato – di una rottura peraltro non estranea alle
rivoluzioni ripetute e pervasive che le arti hanno subito a partire dagli
ultimi trent’anni del diciannovesimo secolo. Volendo riassumere sinteticamente questi due fattori – e introducendovi pertanto una certa dose di semplificazione – sosterrei che il primo aspetto riguarda la nozione stessa di ricezione, che dalla sua interpretazione prevalente in termini di mera assunzione passiva di ciò che proviene “da fuori”, di sempli1
Cfr. H. R. Jauss, Il piacere estetico e le esperienze fondamentali di “poiesis”, “aisthesis” e “katharsis”, in Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria. Volume I: Teoria e storia dell’esperienza estetica, Bologna, Il Mulino, 1987, pp.87-107.
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ce registrazione trasparente e di sola raccolta di dati, passa a forme di
comprensione che ne valorizzano i tratti di pratica attiva, da quello minimale della selezione percettiva, a quello della integrazione delle lacune e dell’intervento in risposta alle domande sollecitate dal testo, dal dipinto o dal brano musicale, alle condizioni che essi pongono, per non
parlare di alcuni esiti estremi, per cui in certe letture la fattura dell’opera d’arte sembra ormai completamente affidata al fruitore2. Il secondo
fattore complementare a questo e con esso palesemente interdipendente riguarda il ruolo che la ricezione assume nella determinazione di un’opera d’arte: da una funzione certo anche rilevante, ma senz’altro marginale rispetto allo statuto del prodotto artistico, accessoria o aggiuntiva
rispetto alla realizzazione dell’opera – considerata a sua volta come precedente e autonoma dal successivo processo di fruizione – la ricezione
estetica viene intesa come aspetto costitutivo dell’opera d’arte, quale elemento che contribuisce a determinare cosa essa sia in un processo sostanzialmente aperto, per cui ciò che essa è e significa non sembra potersi stabilire definitivamente.
È una questione filosofica di questo tipo – quale peso abbia la ricezione
di un’opera d’arte nel suo determinarsi come tale – che è stata al centro
delle riflessioni teoriche della cosiddetta “estetica della ricezione”, che ha
considerato questa componente dell’esperienza estetica sia nella forma
della partecipazione alla costituzione del senso di un testo da parte di interpretazioni e di un pubblico di lettori storicamente diversi, sia in quella del contributo individuale richiesto di volta in volta al singolo impegnato nell’atto del leggere per completare e inscenare quel mondo che
lo scritto traccia solo schematicamente3. Ma alcune indicazioni centrali
sulla questione vanno rintracciate nelle due radici riconosciute della stessa scuola di Costanza, quella fenomenologica e quella ermeneutica4,
nonché in alcuni contributi convergenti, sebbene di matrice differente.
A Gadamer e, prima di lui, a Heidegger, si deve una reinterpretazione
in termini ermeneutici dell’esperienza – di ogni esperienza e non solo di
2
3
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4
Mi riferisco agli esiti di certa critica letteraria americana, che sulla scorta di alcune tesi di Richard Rorty e di Jacques Derrida pervengono a una radicalizzazione appunto estrema e senz’altro eterodossa di taluni aspetti delle stesse proposte ermeneutiche e fenomenologiche.
Nel primo caso si è parlato propriamente di Rezeptionstheorie, di teoria della ricezione, riferita alle tesi di Hans Robert Jauss, mentre nel secondo, in relazione al lavoro teorico di Wolfgang Iser, si è preferità la denominazione di Wirkungstheorie, di teoria degli effetti. Si cfr. tra
gli altri, l’Introduzione all’edizione italiana, scritta da Cesare Segre, a W. Iser, L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, Bologna, Il Mulino, 1987, pp.9-22.
Cfr. H. R. Jauss, Introduzione: il rinnovamento della questione dell’esperienza estetica, in op. cit.,
pp.21-35.
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quella estetica – che costituisce piuttosto un terreno privilegiato per considerare i tratti del nostro avere ha che fare con il mondo più in generale. Entrambi infatti hanno ampiamente osteggiato una concezione meramente passiva e neutra della ricezione, della percezione, e più in generale di ogni forma di esperienza5. Al contrario si ritiene che ogni esperire sia già un comprendere, e cioè sia già una pratica attiva che contribuisce produttivamente a determinare ciò che è compreso, significativa,
anche se per lo più in forma implicita e pragmatica e già comunque
orientata da presupposti, attese, abiti i quali – lungi dal costituire un
ostacolo alla ricezione di ciò che ci è ‘dato’ – ne consentono la comprensione. A tali indicazioni palesemente ricavate da Heidegger, Gadamer aggiunge alcune articolazioni rilevanti. Tra queste, almeno un cenno mi pare debba essere fatto a quella secondo cui l’applicazione, ovvero la concretizzazione della comprensione in una determinata situazione specifica, è parte integrante del comprendere stesso. Non si tratta del
banale luogo comune per cui ogni opera – ma anche ogni istituzione e
ogni individualità – è recepita di volta in volta a partire da una certa situazione storica, secondo i criteri che essa impone, come se occorresse
declinare ogni volta “il” suo significato adattandolo ai tempi e alle mode. Piuttosto si profila l’idea che fare esperienza di un’opera, ovvero comprenderla, non significhi rintracciarne “il” significato, eventualmente secondo prospettive storiche e sociali diversificate: l’atto di comprensione
non è separato né separabile dalla sua applicazione poiché non ci sarebbe qualcosa come “il” significato dell’opera, preesistente alla comprensione – e alla sua espressione artistica o linguistica6 – ma la stessa opera
d’arte significherebbe di volta in volta nella situazione ermeneutica concreta in cui è esperita. Ciò implica, evidentemente, che il ruolo di chi
esperisce e comprende – fa esperienza comprendendo o comprende facendo esperienza – non è aggiuntivo rispetto alla determinazione dell’opera: non interviene a cose fatte, per restituire un significato già fissato, ma contribuisce attivamente a produrlo7.
Alla fenomenologia applicata al testo letterario di Roman Ingarden si
Sia nei testi di Martin Heidegger che in quelli di Hans Georg Gadamer si parla di esperienza dell’opera d’arte e non di ricezione, ovvero di Erfahrung, distinguendola polemicamente
dallo Erlebnis, tradotto generalmente con “esperienza vissuta”. Di percezione estetica – Wahrnehmung – parla Gadamer sia in Verità e metodo sia in scritti successivi, in particolare per insistere sulla sua non-differenziazione rispetto alle forme consuete di percezione del mondo.
6
Sul rapporto tra significazione ed espressione è di grande interesse in ambito fenomenologico
il lavoro di Merleau-Ponty, in particolare La prosa del mondo, Roma, Editori Riuniti, 1984.
7
Su questo punto si vedano le precisazioni nel seguito del testo.
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devono invece le prime indicazioni sul carattere costitutivamente indeterminato delle opere d’arte letteraria8, che comportano l’esigenza
di una rielaborazione radicale della nozione di ricezione e di un’ampia
rivisitazione della parte che essa gioca nella determinazione dell’opera. Come riassume efficacemente Ricoeur9, il fenomenologo pone al
centro delle sue considerazioni il carattere essenzialmente incompiuto
del testo letterario, ciò che altrove è stato indicato come ‘principio di
indeterminazione’ dell’opera. Il testo, infatti, presenta alcune lacune
che non sono meramente accidentali, ma risultano costitutive, nel senso che chi scrive non può evitare di lasciare in sospeso alcuni spazi vuoti, alcuni “luoghi di indeterminazione”, che richiedono l’interazione
del lettore per essere riempiti. La lettura si presenta dunque come una
forma attiva di ricezione che si articola su due direzioni di integrazione. Una prima forma è determinata dall’offerta di una serie di “vedute schematiche” da parte del testo, che richiedono una risposta dal lettore, il quale è chiamato a concretizzarle, determinando ciò che resta
vago o non detto. Una seconda tipologia di prassi integrativa è richiesta al lettore per costituire il mondo del testo come una totalità temporale, per raccogliere unitariamente quanto è stato già detto nel testo fino a un certo punto, completandolo con la previsione di quanto
potrà accadere in seguito. La connessione dei ricordi e delle attese appare operante a sua volta a partire dalle aspettative proprie del lettore
e dalla sua esperienza del mondo. La ricezione di un testo risulta allora consistere in una vera e propria prassi interpretativa10 che contribuisce a produrre l’opera, la quale pertanto non può essere risolta nei
termini dell’oggetto preesistente all’atto della lettura.
È chiaro tuttavia che un’affermazione di questo tipo esige una serie di
precisazioni.
Cfr. R.Ingarden, Das literarische Kunstwerk, Tubinga, Niemeyer, 1961 e R. Ingarden, A Cognition of the Literary Work of Art, Northwestern University Press, 1974. Di questa tesi alcune teorie successive costituiscono in buona parte un’articolazione o una variante, come quella dei blanks formulata da Iser, nel testo citato in precedenza.
9
Mi rifaccio all’efficace ricostruzione tracciata da Paul Ricoeur in Tempo e racconto. Volume 3:
Il tempo raccontato, Milano, Jaca Book, 1994, pp.258-259.
10
Secondo alcuni autori sarebbe più opportuno in circostanze di questo genere parlare di comprensione piuttosto che di interpretazione, per evitare una serie di fraintendimenti legati a
questa scelta lessicale, in particolare l’implicazione spesso implicita per cui parlare di interpretazione – eventualmente anche per dire che non vi è altro che interpretazione – comporta che si presupponga un significato a essa preesistente – in quel caso irrimediabilmente perduto – che comunque sarebbe da questa rielaborato. Su questo si veda il saggio di R.Shusterman Beneath Interpretation, in Pragmatist Aesthetics. Living Beauty, Rethinking Art, LanhamBoulder-New York-Oxford, Rowman & Littlefield Publishers, 2000, pp.115-135.
8
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Innanzi tutto (1) indicazioni simili sembrano travalicare l’ambito della
letteratura, per coinvolgere almeno le arti visive, e pertanto opere il cui
sviluppo temporale ha caratteristiche difformi da quelle dei testi scritti.
È Ernst Gombrich a fornire alcune osservazioni centrali in merito, in
particolare – ma non solo – nella sezione di Arte e illusione11 riservata a
“Il contributo dello spettatore”. Già la nota tesi, ridiscussa ancora recentemente12, per cui il vedere e il conoscere non sono districabili, risulta in parte13 affine a quanto sostenuto in campo ermeneutico sulla
struttura interpretativa del fare esperienza. Il vedere, infatti, viene esplicitamente accomunato alle varie forme del percepire e del comprendere, inclusa in primis la comprensione linguistica, mentre il conoscere è
inteso nel senso più lato del termine, come avere familiarità, sapersi
orientare, ma in forma per lo più implicita e non concettualmente articolata. Ma vicina alle indicazioni dei fenomenologi sulla indeterminatezza costitutiva delle opere d’arte è la tesi di Gombrich per cui, affinché le immagini figurative possano essere lette come rappresentazioni
naturalistiche, come imitazioni della realtà, è necessario che vi siano delle lacune, degli “schermi vuoti” sui quali chi vede proietta possibili integrazioni sulla base della propria consuetudine con quanto è rappresentato. La novità rispetto all’impostazione fenomenologica risiede dunque nella qualificazione dei luoghi di indeterminazione come vere e proprie condizioni dell’illusione, ovvero della resa realistica: la caratteristica di un dipinto o di un’immagine ‘naturalistica’ di apparire tale è attribuita proprio alla mancanza di alcuni elementi, la cui riproduzione contrasta con la struttura stessa della tela, in quanto supporto bidimensionale, e che richiedono pertanto un completamento da parte di chi osserva l’immagine. In altre parole, la ricezione non svolge un ruolo centrale soltanto o principalmente nella lettura dei dipinti delle avanguardie novecentesche, ma risulta costitutiva proprio nelle riproduzioni che
definiamo comunemente ‘naturalistiche’: la traduzione del movimento
della ruota dell’arcolaio nelle Filatrici di Velazquez non sarebbe stata pos11
12
13
E. H. Gombrich, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Torino, Einaudi, 1965.
Cfr. A. C.Danto, Animals as Art Historians: Reflections on the Innocent Eye, in Beyond the Brillo Box. The Visual Art in Post-historical Perspective, Berkeley-Los Angeles-London, University
of California Press, 1992, pp.1531.
Maggiore distanza si riscontra nelle tesi sui modi di integrazione delle lacune: Gombrich insiste a parlare di “proiezione” e di “proiezione guidata”, mentre l’ermeneutica resta distante
da questo tipo di lessico, che ritiene incorrere nei rischi del mentalismo. In campo fenomenologico si riscontra senz’altro una maggiore vicinanza. Iser, infatti, recupera fortemente questo tipo di terminologia e di approccio (cfr. op. cit.).
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sibile attraverso un disegno che ne avesse tratteggiato ogni singolo raggio – finendo inevitabilmente con l’immobilizzarli tutti – mentre è resa con la massima efficacia da pochi tratti di pennello che accennano a
un movimento vorticoso e quasi richiedono questo tipo di lettura da parte di chi osserva. Allo stesso modo non solo nel dipinto impressionista
di Manet che raffigura una corsa di cavalli all’ippodromo, ma già in quello ‘realistico’ di Frith con lo stesso soggetto, il pubblico numeroso non
è reso attraverso la rappresentazione di ogni singolo individuo nel dettaglio – che annullerebbe ogni effetto di una moltitudine assiepata sugli spalti – ma mediante una serie di punti colorati vicinissimi gli uni
agli altri, che l’osservatore è portato immediatamente a leggere come un
pubblico molto numeroso, in base alle sue aspettative e alla sua familiarità con la situazione rappresentata.
Ma rispetto a quanto detto – che l’esperienza dell’opera è in certo senso produttiva – occorre ribadire (2) che ciò non comporta un’ultima versione banale di una tesi grossolana per cui la determinazione del significato dell’opera spetterebbe interamente e arbitrariamente a chi legge,
guarda o ascolta. Sia in ambito fenomenologico che in campo ermeneutico si riconosce ampiamente che l’attività integrativa, comprendente e produttiva in cui consistono la lettura, la visione o l’ascolto è
una prassi guidata dal testo, dall’immagine o dal brano musicale, nel senso che essa si profila come una risposta a domande e a condizionamenti che sono posti dalle opere. Oltre a ciò si deve aggiungere che in questo tipo di approccio si tende a sottolineare che i prodotti artistici guidano il fruitore in modo per lo più implicito e ne sollecitano risposte
che non sono prodotte da atti di riflessione deliberata, ma rimangono
per lo più anch’esse tacite. Pertanto, piuttosto che della ricezione come
di un’operazione messa in atto da una coscienza soggettiva, sarebbe più
opportuno ricorrere alla categoria gadameriana del gioco, per cui l’individuo che comprende facendo esperienza è una delle parti di un gioco
che non controlla dall’esterno, ma a cui partecipa essendone coinvolto14.
Per lo stesso motivo Wolfgang Iser ha parlato degli atti di costituzione
del testo – o per meglio dire, di partecipazione alla costituzione di un
testo – nei termini husserliani delle “sintesi passive”, per rimarcare che
si parla di sintesi che avverrebbero in forma inconscia, non derivando
dalla predicazione e dai giudizi. «Esse non sono né manifeste nel testo
14
Cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1999, p.132 e segg.e H. G.Gadamer, L’attualità del bello. Arte come gioco, simbolo e festa in L’attualità del bello, Genova, Marietti, 1986.
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stampato, né prodotte soltanto dall’immaginazione del lettore, e le
proiezioni di cui esse consistono sono esse stesse di natura duale: esse
emergono dal lettore, ma sono anche guidate da segnali che le ‘proiettano’ dentro di lui».
Infine (3) la caratterizzazione dell’arte in termini di esperienza operata
da Dewey – citato peraltro tra i riferimenti rilevanti dell’estetica della ricezione dallo stesso Jauss15 – consente di fare alcune puntualizzazioni rispetto al rapporto di una simile concezione dell’arte con la sua componente oggettiva, cosale. Questi infatti introduce una distinzione tra “opera d’arte” e “prodotto artistico”: mentre la prima consiste in una situazione complessa, implicante «il modo in cui il prodotto opera con e nell’esperienza», il secondo ne indica il supporto cosale, l’esistenza esteriore e fisica. Ma l’aspetto interessante non consiste nel trasferimento dell’essenziale artistico su un livello spirituale esclusivo della materia e superiore rispetto alla sua cosalità fisica16. Si tratta piuttosto del rapporto
tra le due categorie: il prodotto artistico non è concepito come il primum, la base cosale da cui occorre innanzi tutto partire perché si producano l’opera d’arte e le eventuali esperienze della stessa, ma è inteso
come il residuo di un’esperienza, come il suo risultato usurato, prodotto dall’isolamento dell’opera «dalle condizioni umane entro le quali è
nat[a] e dalle conseguenze umane che ess[a] provoca nella concreta esperienza della vita»17. Ciò d’altra parte non significa che le componenti oggettuali o materiali dell’opera – ma dunque sono davvero primariamente
distinguibili dall’esperienza da cui sono prodotte e che comportano? –
siano irrilevanti o addirittura che si possa prescinderne. Esse costituisco
piuttosto alcune tra le condizioni operanti nell’esperienza in cui l’arte
consiste, sono parti in gioco e come tali sono imprescindibili, ma non
sono esaustive del gioco stesso che è in corso.
Alcune tra queste indicazioni18 possono dunque essere lette come tentativo di rielaborare la questione dello statuto dell’opera d’arte, del pro15
16
17
18
H. R. Jauss, Introduzione: il rinnovamento della questione dell’esperienza estetica, cit., p.30.
Per un’ultima versione di una simile concezione ‘additiva’ dell’opera d’arte si veda A. C. Danto, The Appreciation and Interpretation of Works of Art, in The Philosophical Disenfranchisement
of Art, New York-Chichester, Columbia University Press, 1986, pp.23-47.
J. Dewey, Arte come esperienza, in Arte come esperienza e altri scritti, Firenze, La Nuova Italia,
1995, p.5.
Ma naturalmente in questo breve contributo si è cercato di accennare a un certo percorso, che
non ne esclude altri. Sempre nell’alveo della fenomenologia occorrerebbe ricordare tra gli altri il lavoro di Maurice Merleau-Ponty sulla percezione; ma oltre l’ambito fenomenologicoermeneutico si devono citare i contributi originali della tradizione semiologica sulla questione (si cfr. su questo U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990).
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Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
blema di cosa essa sia o di ciò in cui essa consista, a partire dalla domanda sul ruolo di chi fa esperienza dell’opera d’arte stessa. Se posta in
questi termini però la questione dimostra di fornire risposte quanto meno anomale e destabilizzanti – per certi versi imbarazzanti – al problema di che cosa siano le opere d’arte: si tratta di processi sempre in corso di costituzione (anche se secondo gradi differenti di consolidamento
dei vari strati significativi di cui un’opera si va componendo), di esperienze aperte a chi esperisce, piuttosto che primariamente di un tipo peculiare di cose, come si diceva poco fa. A ben vedere, allora, attraverso
questo tipo di approccio la domanda sull’opera d’arte pare quasi dissolta, ovvero ne risulta sminuita la rilevanza, e la questione della ricezione,
o meglio dell’esperienza delle opere d’arte, sembra ormai matura per un
altro tipo di approccio, forse meno autoreferenziale e più fertile: quello
di pensare la ricezione, l’esperienza dell’opera, in modo diverso, come
questione di cosa ci dice o di cosa è capace di dirci un’opera d’arte sul
mondo in cui viviamo, su ciò che incontriamo in esso e sugli altri individui con cui lo condividiamo. Non è forse di questo genere il rivolgimento che si profila nel noto saggio di Heidegger sull’opera d’arte?19 In
altri termini l’accento è spostato sulla valenza fenomenologica e comunicativa della ricezione, nel senso che è l’esperienza dell’opera, di ciò che
essa può dirci che appare degno di attenzione20. In altre parole, potrebbe essere più interessante considerare che cosa l’arte dice alla filosofia –
ovvero che cosa è capace di comunicare sulle nostre esperienze del mondo, se interrogata, naturalmente, da un interlocutore filosoficamente avveduto – piuttosto che quello che la filosofia è in grado di stabilire sull’arte e dell’arte…
52
19
20
Il riferimento è naturalmente a M.Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti,
La Nuova Italia, Firenze 1997, pp.3-69.
Cfr. G.Hagberg, The Self, Speaking. Wittgenstein, Introspective Utterances, and the Arts of
Self-Representation in Revue internationale de philosophie, n. 56, 1/2002, pp. 9-47, ma anche R. Shusterman, op.cit.
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Arte, storia dell’arte e beni culturali
di Giuseppe Di Giacomo
C’è indubbiamente un nesso fra storia dell’arte e beni culturali, nesso
che si manifesta non solo nel fatto che non si può pensare una tutela dei
beni culturali senza una vera conoscenza della storia dell’arte, ma anche
nel fatto che l’impossibilità di delimitare la nozione di “beni culturali”
– dato che storicamente sempre nuovi “oggetti” rientrano in quella nozione – riflette quanto accade nella storia dell’arte. La nozione di “bene
culturale” presenta un’estensione in continua evoluzione, dal momento
che in essa non troviamo più soltanto quelle opere che un concetto di
storia dell’arte ormai obsoleto definiva come “artistiche”. Di fatto in
quella nozione rientrano tutti quei prodotti che di volta in volta vengono individuati come testimonianze della cultura di un popolo: oltre appunto ai prodotti artistici, quali dipinti o statue, anche prodotti architettonici, complessi urbanistici e naturali, e molto di ciò che il progresso tecnologico ha abbandonato perché giudicato superato.
Tutto questo è strettamente connesso con quel cambiamento della nostra percezione che Benjamin già nel 1936, nel saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ha puntualmente registrato: «Nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi modi complessivi di
esistenza delle collettività umane si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale» (p. 24). Così le forme e i modi della percezione cambiano insieme agli oggetti con i quali sono in relazione. In particolare oggi siamo entrati in un altro mondo: è il mondo in cui l’esperienza estetica tende a colorare di sé la totalità delle esperienze. Data la connessione tra la nozione di “beni culturali” e quella
di “storia dell’arte”, quale si è registrata nel passato in riferimento a
quelle opere che venivano definite artistiche sulla base di un “sistema
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delle belle arti” mai messo in questione fino al Novecento, l’ampliamento attuale della prima nozione risente evidentemente di quello della seconda. È infatti entrata in crisi un’idea di storia dell’arte come sviluppo continuo di quelli che Adorno definiva i “problemi comuni” degli artisti nelle varie epoche.
A ben vedere questo è il risultato della trasformazione che la nozione
stessa di “arte” ha subito in particolare a partire dalla seconda metà del
Novecento. Di fatto l’arte contemporanea ha affermato non soltanto
la “fine delle ideologie” ma anche la “fine della storia dell’arte” e insieme la sua propria “fine”. È quanto ha affermato recentemente per
esempio Yves Michaud (L’art à l’état gazeux, 2003), il quale prende atto di un “nuovo regime dell’arte”. Secondo Michaud infatti l’estetica
sostituisce l’arte, dal momento che le opere sono state sostituite nella
produzione artistica da dispositivi e procedure che funzionano come
opere e che producono la pura esperienza dell’arte e la purezza dell’effetto estetico. È quanto si mostra in una installazione video, che può
essere assunta come il paradigma di questo tipo di dispositivo produttore di effetti estetici. Di qui quello che Harold Rosenberg (1972) ha
definito un processo di de-estetizzazione dell’oggetto – l’arte cioè perde le sue componenti estetiche di piacere e di bellezza – che è connesso a quello di una “s-definizione dell’arte” per cui l’arte perde la possibilità stessa di una definizione. Il lavoro dell’artista, ridotto allo stato di semplici procedure, consiste in prodotti del tutto effimeri e che
si risolvono in una molteplicità di comportamenti edonistici, ai quali
invita la società del consumo e della comunicazione. Michaud parla a
questo proposito di trionfo dell’estetica e di passaggio allo stato “gassoso” che, caratteristico di numerose “azioni artistiche” senza reale consistenza, appare come lo stadio ultimo della smaterializzazione dell’oggetto: l’arte si volatilizza in vaghe esperienze estetiche, contribuendo così a una disgregazione della “Grande Arte”.
È Duchamp che con i suoi ready-mades dà inizio a un processo i cui effetti si fanno sempre più sentire nel tempo e che significano non tanto
la fine dell’arte quanto la fine del suo regime d’oggetto. La produzione
contemporanea è infatti costituita di installazioni, dispositivi, macchine per produrre effetti visivi e sonori. Questi montaggi complessi possono essere fatti di elementi tratti dall’universo quotidiano con l’aggiunta spesso di elementi tecnologici. A partire da Duchamp è la procedura di costituzione che fa le opere; con lui infatti l’arte non è più sostanziale ma procedurale, non dipendendo da un’essenza ma dalle pro-
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cedure che la definiscono. Si danno ormai ready-mades di tutto, con la
conseguenza che il mondo dell’arte non è più limitato. Il risultato è un
modo nuovo di vedere le immagini.
L’arte ha avuto, durante i secoli, il monopolio delle immagini, sia ai fini dell’istruzione religiosa che della propaganda politica ed è soltanto dal
Rinascimento in poi che l’immagine artistica acquista una sua autonomia. E tuttavia lungo il Novecento l’arte è stata costretta a ridefinire la
sua relazione con le immagini: rispetto a quando erano la sua sostanza,
ora sono diventate uno dei suoi materiali. Così, se da una parte pittori
come Klee, Giacometti e Bacon cercano, attraverso la costruzione dell’immagine, di catturare qualcosa della figura umana e del senso dell’esistenza, dall’altra la ripresa all’interno delle arti visive di immagini che
hanno invaso la nostra vita ha il significato di trasformare quelle che erano le immagini artistiche in “immagini di immagini”. È la Pop Art a offrire il primo caso di riciclaggio artistico delle immagini della cultura visiva ordinaria. Qui si confrontano, e si confondono, le immagini artistiche tradizionali e quelle della pubblicità e del cinema. Si tratta di opere prodotte in serie e non è neanche necessario che questo riciclaggio
passi attraverso il medium della pittura: l’uso delle immagini può essere direttamente fotografico, come è ormai avvenuto nella maggior parte delle pratiche artistiche contemporanee. Del resto è proprio da quando l’arte non ha più il monopolio dell’immagine – poiché ha rivali: la
fotografia, il cinema, la televisione, il video – che si pone la questione di
ciò che gli artisti fanno con le immagini e del perché le utilizzino. Resta
comunque il fatto che sempre più l’opera esplode nelle sue componenti: il materiale, il concetto, il corpo dell’artista ecc.; di conseguenza, arte concettuale, minimale, body art, land art, succedono all’espressionismo astratto, alla Pop Art, all’Op Art, ecc. Viviamo così nel tempo del
pluralismo, della diversità, della fine dei grandi “racconti”. Ora l’arte non
solo ha cambiato aspetto ma è diventata veramente un’altra cosa. Siamo
passati da un mondo nel quale continuavano a operare le categorie dell’arte tradizionale a un mondo pluralista, massificato e consumista. Per
dirla con Michaud, l’arte è passata allo stato “gassoso”.
Nel suo testo del ’36 Benjamin descrive l’opposizione tra l’opera “auratica”, che caratterizza l’arte del passato, e l’opera fondamentalmente riproducibile della nostra epoca; di qui anche l’opposizione tra il valore
di culto e il valore di esposizione, ovvero tra unicità e reiterabilità. La
conseguenza è che non c’è essenza immutabile dell’opera d’arte ma un’essenza storica, e questa dipende dalle trasformazioni sociali e dalle sco-
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perte tecniche che hanno aperto la via alla riproducibilità delle opere e
hanno portato all’affacciarsi di un pubblico di massa nonché alla trasformazione della politica in spettacolo di massa. Più in generale Benjamin, come abbiamo visto, sostiene la tesi di un cambiamento dei modi
di percezione e di un cambiamento della natura dell’opera d’arte con la
conseguenza di intravedere il darsi di forme d’arte che non sarebbero più
artistiche nel senso in cui noi le intendiamo per il passato, nelle quali
cioè non resta più il ricordo della contemplazione e del raccoglimento
che associamo all’arte nel tempo del suo culto. Nell’esperienza dell’arte
contemporanea non siamo più di fronte a opere, ma ci sentiamo in una
situazione di “distrazione”. In questo senso la “religione dell’arte per l’arte” è stata l’estremo tentativo di salvare l’aura sacralizzando le opere.
Se, come sembra indubbio, il XX secolo ha fatto vacillare l’essenzialismo e il fondazionalismo che hanno dominato a lungo la nostra tradizione filosofica, una delle conseguenze è stata quella di modificare
lo statuto del concetto di arte, trasformandolo in un concetto “vago”
e rendendo in questo modo sempre più problematica la possibilità di
una demarcazione tra ciò che fa parte degli oggetti “opere d’arte” e ciò
che rientra nella sfera degli oggetti “comuni”. Fino a un’epoca recente il riconoscere che un oggetto era un’opera d’arte implicava il riferimento a quel sistema delle “belle arti” in base al quale percepire un oggetto come un’opera d’arte voleva dire percepirlo come una poesia, un
quadro, una sinfonia ecc., associandogli inoltre il predicato della bellezza. Nella seconda metà del Novecento è stata messa in dubbio la
possibilità di definire l’arte in generale. In particolare alcuni estetici
analitici, riprendendo la nozione wittgensteiniana di “somiglianze di
famiglia”, hanno sostenuto che il concetto di “arte” è aperto e, in quanto tale, è sempre suscettibile di essere arricchito di nuovi esempi. Così, se nei periodi di innovazione accade che le realizzazioni di un artista sembrano negare ciò che fino a quel momento rientrava nel concetto di arte, tuttavia le somiglianze di famiglia, essendo estensibili, sono sempre in grado di inglobare anche le innovazioni più radicali. Di
fatto è sempre possibile scoprire che un oggetto, che fino ad ora non
era considerato un’opera d’arte, anche se interessante da un punto di
vista antropologico, sia visto come un’opera d’arte.
È quanto ha fatto Picasso nel 1907 quando, tra le vetrine d’esposizione
del Museo Etnografico del Palazzo del Trocadero, ha scoperto capolavori dell’arte africana pari, a suo giudizio, a quelli riconosciuti dalla tradizione scultorea occidentale. È vero che la scoperta fatta da Picasso era
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possibile soltanto perché la pittura e la scultura della tradizione occidentale avevano subito trasformazioni tali da rendere visibili i valori della scultura africana, e tuttavia è indubbio che, nel corso di questo processo, ristrutturando il modo di vedere quell’arte, egli ha ristrutturato il
nostro modo di vedere l’arte in generale. L’arte del Novecento ha subito grandi trasformazioni dopo le esperienze e le intuizioni rivoluzionarie di Picasso. Nel corso di queste trasformazioni sono sorte opere che
esteriormente rassomigliano a oggetti considerati fino a quel momento
come esterni all’arte, almeno quanto le opere d’arte africana erano state
considerate esterne alle tradizioni della grande arte. Sono precisamente
questi oggetti – una ruota di bicicletta, un orinatoio, una scatola di zuppa – che hanno reso problematica la distinzione tra arte e realtà. Ora, se
è vero che la rassomiglianza della scultura africana con l’arte di Picasso
e l’ispirazione che questi trova nella prima – come dimostra per esempio Les demoiselles d’Avignon – potevano, prese insieme, costituire il fondamento della liberazione dell’arte africana, e se è vero che questo ha
giustificato il legame tra arte primitiva e arte moderna, concepiti come
formanti una totalità artistica, è anche vero che l’arte contemporanea,
pur avendoci resi esteticamente sensibili agli oggetti quotidiani, non li
ha tuttavia trasformati come tali in opere d’arte.
Il fatto è che, secondo Arthur Danto, ferma restando la distinzione tra
arte e realtà, tuttavia, se prima di Duchamp sembrava evidente che la distinzione tra le opere d’arte e gli altri oggetti fosse d’ordine percettivo,
con Duchamp e con tutti quelli che gli sono succeduti, diventa evidente che le differenze pertinenti non sono quelle visibili o che possono esserlo. Nel 1964 Danto elabora in un saggio la nozione di “mondo dell’arte”. Il saggio si apre sulla concezione platonica dell’arte in base alla
quale le opere d’arte non sarebbero che copie delle cose reali. Questa teoria, secondo Danto, era in grado di dare una base, seppure semplice, alla distinzione ontologica tra le opere d’arte e le cose fisiche. Ma nel momento in cui abbandoniamo questa teoria, per sostenere ad esempio che
le opere sono entità reali quanto le cose fisiche, è necessario disporre di
altri mezzi per distinguere tra le cose fisiche e le opere d’arte. Di qui la
tesi di Danto: «Per vedere qualcosa come arte è necessario qualche cosa
che l’occhio non può trovare – un’atmosfera di teoria estetica, una conoscenza di storia dell’arte: un mondo dell’arte». O ancora: «Ciò che fa
la differenza tra una scatola Brillo e un’opera d’arte consistente in una
scatola Brillo è una certa teoria dell’arte». Questo significa che la scatola Brillo non sarebbe potuta appartenere all’arte cinquant’anni prima.
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Tutto questo non può non portare profonde trasformazioni nella nozione stessa di “storia dell’arte”. L’idea di una storia dell’arte si basa infatti sul presupposto di una successione di pratiche, di stili, di scelte
che possono essere raggruppati sotto un obiettivo comune, in modo
tale da potervi percepire un filo conduttore. L’opera di Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori, esemplifica questa convinzione in base alla quale le arti obbediscono a uno sviluppo
nel quale le opere trovano il posto che è loro riservato. Hans Belting
ha attribuito a questa visione un ruolo di primo piano nella nascita e
nello sviluppo della nozione di “storia dell’arte”. Secondo Belting, infatti, Vasari ha scritto la storia di una “norma”, e se la storiografia si è
in seguito liberata da questo tipo di sistema normativo ne ha comunque conservato il più delle volte il modello organicista e soprattutto i
presupposti evoluzionisti, al punto che neppure le avanguardie storiche dei primi decenni del Novecento hanno sostanzialmente rovesciato la fiducia in un percorso continuo di progresso e di innovazione. È
solo con le esperienze artistiche contemporanee che viene perduta la
fiducia in una tale continuità. La Pop Art ha svolto un ruolo importante nei rivolgimenti che hanno riguardato le idee dell’arte e della storia dell’arte. Se è comunque da Duchamp a Warhol che si sono dati
tali rivolgimenti, ciò è accaduto perché in quel periodo si è resa sempre più forte la connessione tra l’arte e la vita.
Il risultato è che oggi non c’è più un’unica storia dell’arte ma molteplici modi di narrare il corso artistico. Non solo c’è una nuova attenzione da parte degli storici alla connessione tra arte e vita, ma sempre
di più il contenuto di un’opera d’arte moderna viene a essere guidato
dalla riflessione sulla storia dell’arte e spesso questo riferimento è il solo contenuto. A ben vedere infatti l’idea di una divisione di compiti
tra arte, da un lato, e la critica come discorso sull’arte dall’altro, entra
in crisi quando l’arte recente si costituisce come una sorta di “testo”,
un discorso sull’arte per proprio conto. Così la stessa opera diventa l’equivalente di un atto di interpretazione e, di conseguenza, l’artista diventa sempre più lo stesso critico. Ciò che l’arte pre-moderna aveva
conquistato in quanto rappresentazione mimetica del mondo è stato
sostituito dall’arte moderna con l’immediatezza e la presenza dell’opera attraverso la sua forma. Non a caso la forma in se stessa ha assunto tanta autorità quanto il contenuto ne aveva prima e ciò ha implicato l’autonomia della stessa forma. Ma negli ultimi decenni del Novecento questa stessa forma è entrata in crisi.
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Comunque, da quando Danto ha introdotto la nozione di un “mondo
dell’arte”, senza la quale non si poteva assegnare alcun significato a un’opera d’avanguardia, tale nozione è stata spesso reinterpretata in senso sociologico. È quanto ha mostrato Nathalie Heinich (Le triple jeu de l’art
contemporaine, 1998), parlando di una “pragmatica dell’arte contemporanea”. La sua diagnosi è che essa funzioni come un gioco con tre poli,
trasgressione, reazione, integrazione, ciascuno dei quali rimanda strutturalmente agli altri due: funzione di innovazione per i creatori, funzione di mediazione per i commentatori, funzione di adesione, o di rifiuto, per gli spettatori. Sulla base di questo “triplo gioco” non è l’artista
che designa come arte ciò che presenta ma è l’istituzione. Il lavoro dell’artista non è di dire “questo è arte” ma di farlo dire agli specialisti. Del
resto, che i tre momenti del gioco dell’arte contemporanea non permettano di pronunciarsi sul valore artistico, accresce la difficoltà di distinguere tra arte e non arte. Non a caso infatti le opere d’arte contemporanee spostano le frontiere dell’arte, mettendo alla prova la capacità
del contesto artistico di accettarne o di rifiutarne l’estensione.
Dopo i codici della rappresentazione classica e poi della figurazione, sono le stesse frontiere dell’arte in quanto tale che sono sistematicamente
messe alla prova. Con l’arte contemporanea infatti la nozione di bellezza non è più pertinente, poiché sono i canoni che definiscono la nozione stessa di “opera d’arte” a essere colpiti. Così, da una parte la creazione sfugge ai criteri che permettono di sottolineare le frontiere tra arte e
non arte, dall’altra c’è un’estensione dell’arte al di là dei limiti che le sono assegnati dal senso comune. Questo assottigliamento della frontiera
con il mondo ordinario conduce ad affermare sia che tutto è arte sia che
tutti sono artisti. Affermando che tutti sono artisti, si considera il pubblico implicato nell’opera d’arte in quanto elemento costitutivo della
creazione; affermando che tutto può essere arte, si decostruiscono le
frontiere tra l’arte e la vita con l’utilizzazione di oggetti triviali. Di qui
la volontà di trasgredire sia la pittura da cavalletto, perno della concezione classica dell’arte, sia la pittura astratta, perno del modernismo, che
aveva imposto il suo dominio negli anni cinquanta con un nuovo paradigma artistico, attraverso la “Scuola di Parigi” in Francia e l’Espressionismo astratto negli Stati Uniti.
Una generazione più tardi l’oggetto triviale e l’oggetto industriale hanno
definitivamente integrato il mondo dell’arte perdendo la loro funzionalità. Trasgredendo la tradizionale separazione dell’arte rispetto alla quotidianità, questi passaggi di frontiera tra il mondo dell’arte e quello ordi-
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nario, propri delle tendenze neo-dadaiste dell’arte contemporanea, non
hanno l’effetto di decretare la “bellezza” di questi oggetti, ma affermano
la potenza dell’arte, mostrandone la capacità di integrare anche ciò che le
è estraneo. Un’altra via nell’estensione delle frontiere dell’arte consiste non
più nel fare entrare il mondo ordinario nel mondo dell’arte, ma nello svuotare le opere del loro contenuto: è la tradizione che aveva inaugurato Maleviã con i suoi monocromi e che sarà ripresa quarant’anni più tardi dalla corrente minimalista, in particolare da Yves Klein negli anni cinquanta. La decostruzione delle componenti formali dell’opera costituisce, dopo il neo-dadaismo e il minimalismo, un’altra via di messa alla prova delle frontiere dell’arte. Questa direzione era stata inaugurata negli anni quaranta dai dripping di Pollock che continuava, sì, a fare pittura su tela, ma
gettando i colori sulla tela stesa al suolo.
Più in generale si può dire che, se per il paradigma moderno il valore artistico risiede nell’oggetto, per il paradigma contemporaneo il valore artistico risiede nell’insieme delle connessioni stabilite intorno e a partire
da un oggetto che diventa solo un’occasione, tenendo anche conto della tendenza alla smaterializzazione dell’opera. Sulla base di queste differenze la Heinich parla di tre paradigmi: quello tradizionale, imperniato
sulla figurazione, quello moderno, imperniato sull’oggetto che è l’opera stessa, e quello contemporaneo, volto alla negazione dell’oggetto artistico in varie forme, compresa la smaterializzazione dell’opera. La presenza o l’assenza dell’oggetto artistico è talmente forte che, conclude la
Heinich, c’è più differenza tra il lavoro di Beuys e quello di Matisse che
tra Matisse e Poussin.
In definitiva, il mettersi in questione dell’arte, il suo essere divenuta un
concetto “vago” e la “fine” di una storia dell’arte in senso tradizionale modificano di fatto quella nozione di “beni culturali” della quale una riflessione estetica, che tenga conto anche dei contesti storici, sociologici e antropologici connessi a quella nozione, non può non farsi carico, nella piena consapevolezza che è solo all’interno di una prospettiva culturale che si
può delineare la nozione di “patrimonio culturale” di un popolo.
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“Beni culturali”: nuovi compiti
per un orientamento estetico?
di Daniele Goldoni
Eventi che si succedono rapidamente in questi ultimi anni – la modificazione della legislazione italiana sui “beni culturali”, la previsione di una
maggiore partecipazione di soggetti privati, fondazioni, e in genere una
competenza “manageriale”, la fortuna e al moltiplicazione di corsi di laurea destinati a formare operatori in questi settori – movimentano il terreno dei beni culturali o del “patrimonio”. E suscitano discussioni e polemiche. Il campo di azione del Ministero dei Beni culturali, delle Soprintendenze si è articolato con le leggi Bassanini, che hanno operato la distinzione di competenze fra la tutela (lo Stato) e la valorizzazione e promozione (Regioni), favorendo il pluralismo dei soggetti coinvolti, ma anche equivoci e interferenze non sempre felici.1 La nuova legislazione prevede la possibilità per il ministero di agire «anche attraverso la costituzione di fondazioni aperte alla partecipazione di regioni, enti locali, fondazioni bancarie, soggetti pubblici e privati... ». Un effetto generale è che «a
essere coinvolti non sono più solo addetti ai lavori e specialisti del settore,
ma anche sociologi, economisti, esperti di gestione aziendale e di comunicazione…»2. Mario Serio, dal 1994 al 2001 direttore generale dell’Ufficio Centrale per i beni artistici, architettonici, archeologici, storici, ha dichiarato che alla direzione dei musei moderni occorrano competenze non
solo storico-artistiche, ma anche “trasversali” e così le Università devono
poter proporre, oltre agli insegnamenti specifici nell’ambito dei beni culturali, insegnamenti di economia, diritto e scienze3.
1
2
3
Silvia dell‘Orso, Altro che musei. La questione dei beni culturali in Italia, Roma-Bari, Laterza,
2002, pp. 73-74.
Ivi, p. 69.
“Il giornale dell‘arte” n. 219, 2003, p. 10.
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Questa situazione ha già avuto ricadute sulla formazione. Nelle università italiane, oltre ai corsi di laurea in “beni culturali”, si sono costituiti
corsi mirati a formare competenze di economia e gestione delle arti e dei
beni culturali. Ciò è avvenuto, tempestivamente ed esemplarmente, secondo un progetto in cui discipline umanistiche ed economiche sono
fortemente integrate, a Ca’ Foscari, con EGArt.
Questi processi portano alla necessità di riflettere sul modo in cui va
mantenuto e rinnovato il tradizionale riferimento culturale ai corsi di
lettere e di storia dell’arte. Una posizione allarmata è quella di Salvatore Settis, che ha fatto notare, a proposito dei corsi tradizionali di beni
culturali e dell’archeologia classica, che ci sono università dove si intende formare gli archeologi facendo loro studiare solo l’archeologia, ma
poco o niente, o in versione “leggera”, la letteratura greca e latina, la storia greca e romana. Così si formerebbero archeologi in grado di scavare,
ma non di capire quello che troveranno in quanto privi di una conoscenza sufficiente del contesto culturale da cui i loro reperti provengono. Infatti i beni culturali non esistono come realtà separata dalla storia,
dalla letteratura, dalle lingue: averli “isolati” rischia di legittimare profili formativi non solo insufficienti, ma dannosi.4 La temuta conseguenza sarebbe un declino della storia dell’arte, ossia di una formazione che
prepari addetti alla tutela veramente competenti.
Un’altra questione sollevata da Settis riguarda la connessione fra finanziamenti e beni culturali. Egli ha messo in dubbio l’applicazione troppo immediata all’Italia di metodi che hanno ben altre basi nella storia
culturale anglosassone, dove le fondazioni private tradizionalmente contribuiscono in grande misura al mantenimento e alla valorizzazione del
patrimoni, diversamente che in Italia. Il rischio sarebbe che si affermi
una cultura politica favorevole a una commercializzazione del patrimonio culturale italiano e a scelte politiche con esiti di svendita5.
La connessione fra beni culturali e gestione economica non è da vedere
solo nelle scelte politiche dello Stato e delle Regioni. Se pensiamo all’intreccio fra offerta di beni culturali e turismo, si vede che il fenomeno è destinato ad ingrandirsi. Chi visita i musei di una città, non si ferma solo quelle ore di visita, ma spesso qualche giorno. New York calcola 7 dollari di incasso per ogni dollaro di biglietto. Come ha suggerito il
soprintendente del polo archeologico romano, Adriano La Regina6, la
Silvia dell’Orso, cit., p. 170.
S. Settis, Italia S.P.A., Torino, Einaudi, 2002.
6
In Silvia dell’Orso, cit., p. 187.
4
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“Beni culturali”: nuovi compiti per un orientamento estetico?
redditività di un museo va calcolata sull’indotto. Quando ci si rendesse
meglio conto di questo, potrebbe accadere che gli operatori turistici e
commerciali di un territorio si accorgessero di avere interesse a consorziarsi per sovvenzionare il museo, l’area archeologica o il parco naturale
della zona.
Tutto questo è destinato ad avere influenza sul modo di fruire “esteticamente” del bene, sul modo di accostarsi all’arte e alla sua storia. Il turismo culturale modifica la relazione fra arte e territorio abitato, influendo in modo spesso ambivalente: portando nuove risorse ma anche, talvolta, contribuendo a spegnerne altre. L’inserimento dell’arte e
della cultura nell’ambito del turismo ne modifica la ricezione, con i noti rischi di appiattimento e fraintendimento. Eppure resta sempre la
speranza che la diffusione della conoscenza dell’arte lavori, per vie palesi o anche segrete, a emancipare la vita. Abbiamo categorie estetiche
adeguate ad evitare sia una condanna élitaria della fruizione diffusa, sia
una accettazione passiva di pratiche spregiudicate di sfruttamento del
patrimonio culturale?
Appartiene a questa situazione complessa e in evoluzione anche la estensione del concetto di “bene culturale”. Il Testo Unico estende la definizione di “bene culturale” anche a fotografie, audiovisivi, partiture musicali, strumenti scientifici e tecnici, e questa clausola può valere in futuro anche per altri beni individuati come testimonianze con valore di
civiltà. Il confine fra ciò che non merita e ciò che merita di essere conservato, in quanto testimonianza di civiltà a rischio di scomparsa, è mobile e destinato a spostarsi sempre più rapidamente in avanti, proporzionalmente alla velocità con cui le tecniche e gli usi sociali diventano
obsoleti. La nozione di “bene culturale”, già più estesa di quanto non sia
l’ambito di ciò che tradizionalmente costituiva l’oggetto privilegiato dell’estetica, ossia l’opera d’arte, è destinata ad allargare ulteriormente i suoi
contenuti. Per questi aspetti, essa si va avvicinando a quella di “patrimonio culturale” o di cultural heritage della Convenzione dell’UNESCO
del 2003, anche se con ritardo concettuale: il Testo Unico continua a ragionare in termini di somma di “cose” (su questo si veda il contributo
di L. Zagato). Anche questo ampliamento propone questioni alla riflessione estetica: collocare le testimonianze artistiche di civiltà nel contesto
del patrimonio culturale comporta un mutamento di prospettiva: che
cosa è “arte” – anche la “nostra” arte – da un punto di vista etnologico,
antropologico? Che cosa “estetica”? La questione dei beni culturali propone dunque nuovi compiti all’estetica. Anche in ragione dell’inseri-
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Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
mento a pieno titolo del settore M-FIL 04 (estetica) nella classe 13 dell’insegnamento universitario. Occorre probabilmente accettare la complessità dei problemi, cercando di distinguere, in un panorama che sembra mutare molto rapidamente, le spinte più recenti e contingenti, in
forme a volte discutibili, da motivi e ragioni che vengono più da lontano e impongono qualche ripensamento di fondo.
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Nella tradizione italiana la nozione di bene culturale (sotto il profilo giuridico il concetto viene precisato nella Convenzione dell’Aja del 1954
nell’ambito del diritto internazionale bellico (cfr. il contributo di L. Zagato, infra)) è largamente debitrice verso la storia dell’arte e l’estetica. Ad
esempio, lo si può accertare riguardo a concetti che hanno avuto un ruolo decisivo nella conservazione, nella tutela, nel restauro. Concetti come quello di “autenticità”. Ricordo le polemiche fra Berenson e Bianchi
Bandinelli sulla ricostruzione di Firenze nel dopoguerra, le polemiche
sulla ricostruzione dell’abbazia di Montecassino (polemiche rinnovate
di recente per la ricostruzione del teatro La Fenice a Venezia) e il ruolo
centrale che questo concetto ha nella brandiana nella Teoria del restauro, con le ricadute nella Carta Italiana del Restauro del 1972. Concetti
come quello di “bellezza panoramica”, riferito al paesaggio, la cui tutela veniva legittimata, in una legge del 1922, con un criterio estetico derivato dal modello pittorico (cfr. il contributo di P. D’Angelo). Ciò che
fa problema, è la capacità di un certo approccio “estetico” di dar ragione di un ambito effettivamente e sempre più eterogeneo: non solo dipinti o statue, ma anche edifici, interi complessi urbani – si ricordi, solo a titolo di esempio, la discussione degli anni Ottanta sui colori degli
intonaci delle facciate da restaurare, a partire dalla quale l’aspetto di molte città va cambiando – intere zone del territorio nazionale, per non parlare di “beni” di valore documentario ma non artistico o estetico come
antichi codici etc., e , come si diceva sopra, testimonianze di civiltà anche recenti, ma in via di sparizione. Fino alla prima metà del secolo, e
oltre, è sembrato che questa eterogeneità fosse dominabile da criteri di
“bellezza”, di valore “estetico” e attraverso concetti desunti dalla storia
dell’arte, grazie al presupposto di una fondamentale omogeneità culturale che possiamo identificare come “umanistica”. Umanistica: parola di
difficile definizione. Se sembra facile da comprendere nel suo uso corrente (relativamente autonomizzato dalla sua identità storica agli inizi
della modernità), ciò avviene perché la sua condivisione si è basata, più
che sulla chiarezza della definizione, sul riferimento abituale a certe di-
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scipline scolastiche e universitarie, a certe professionalità, a istituzioni
culturali di buona tradizione, infine a un certo tipo di utenza e di pubblico. Questa apparente omogeneità nasconde però un intreccio eterogeneo di concetti classici, umanistici e moderni. L’umanesimo otto-novecentesco, orientato nello stesso tempo al mantenimento della memoria della tradizione classica e ai valori antichi di eccellenza nel gusto, ma
nello stesso tempo (modernamente!) al culto dell’arte e dell’artista, ha
potuto contenere e in certa misura occultare il potenziale centrifugo di
nozioni come quelle di documento storico, di identità artistica e di valore estetico. Una riflessione sulla ragioni di questa potenzialità centrifuga non sembra inutile, poiché oggi se ne vedono gli effetti reali, che
mettono in luce la debolezza concettuale di un riferimento “umanistico” prevalentemente residuale, non più in grado di offrire argomenti forti né per contrastare orientamenti culturali e politici discutibili nel campo dei beni culturali e dell’istruzione, né per interpretare in modo produttivo mutamenti sociali e mondiali che non possono essere ignorati.
Una fedeltà a quanto di più alto la eredità concettuale “umanistica” ci
ha lasciato richiede di pensare come conservarla permettendole di vivere in un mondo cambiato.
Data la particolare rilevanza, in Italia, del patrimonio storico artistico,
la riflessione teorica e pratica di Brandi, condensata nella sua Teoria
del restauro7 e in scritti che ne hanno precisato il significato, è un luogo significativo per individuarvi alcuni elementi centrifughi del modello culturale “umanistico” moderno. Brandi, per il contesto culturale e istituzionale in cui operava, poteva pensare di mantenere in un
unico corpo dottrinale teorico e pratico due istanze, come quella “storica” e quella “estetica”, potenzialmente divergenti: infatti l’istanza storica richiede che l’opera sia conservata nella sua identità “autentica”,
senza modifiche, mentre l’istanza estetica richiede che il suo aspetto
sia restituito almeno fino al punto di renderlo esteticamente fruibile.
La salvaguardia dell’autenticità poteva essere garantita dalla riconoscibilità “a visione ravvicinata” degli interventi e da tecniche “reversibili”. Questi concetti, che sono centrali nella Teoria del restauro, e che
hanno influenzato in modo decisivo la Carta Italiana del Restauro,
portavano con sé diverse difficoltà (Brandi stesso era stato in certa misura infedele al proprio criterio di autenticità nell’approvare un re7
C. Brandi, Teoria del restauro, Torino, Einaudi, 1977.
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stauro della Pietà di Michelangelo invisibile a “visione ravvicinata”).
La tensione interna dei concetti di verità storica ed estetica suggeriva
a Brandi un ibrido come il concetto “estetico” di “patina” quale “impercettibile sordina posta alla materia”: in contrasto con le sue precedenti affermazioni sulla inscindibilità fra materia e forma, e in contrasto con l’istanza di una autenticità della fruizione estetica. Non in
contrasto, però, con un esito del pensiero estetico kantiano e romantico. Da lì Ruskin attingeva, in Le sette lampade dell’architettura, l’idea
di un sublime espresso dalle tracce del tempo sui monumenti da esso
attaccati: il sublime della lotta dell’opera umana contro la distruzione
del tempo.
L’istanza estetica, così come era concepita da Brandi, solo in parte può
coincidere con quella della autenticità. Una loro coincidenza può avvenire nel caso di opere d’arte in cui l’autore e l’esecutore sono lo stesso,
poiché l’esecuzione comporta particolarità non ripetibili: esemplarmente, nei dipinti o in sculture (l’esecuzione musicale non si conserva). Ma
già in architettura il criterio deve essere disarticolato. Per i materiali e le
tecniche di costruzione la legittimità della richiesta di autenticità diventa
meno ovvia da un punto di vista “estetico”, o può essere ripensata, p. es.,
in termini di conservazione delle tecniche e del tipo di materiali, conformemente a tradizioni costruttive dell’epoca e del luogo. Più in generale, quanto la valutazione estetica comprenda, oltre che l’aspetto originario, anche l’originalità dei materiali, è questione che varia con anche
con i criteri propri dell’ambiente cui apparteneva l’opera da conservare
o restaurare. È noto che l’architettura antica, medievale, e ancora la successiva, riusava i materiali senza porsi problemi di autenticità. E ancora,
più in generale, si osserva che sia tradizioni culturali e costruttive diverse dalla nostra (come nel caso di templi lignei buddisti giapponesi), sia
la nostra tradizione antica (ancora tramandata oggi p. es. presso la fabbrica del duomo di Vienna) conoscono il criterio opposto del continuo
rinnovo dei materiali usurati.
Ma anche riguardo alla pittura uno sguardo al passato mostra altri criteri:
la nostra pittura antica spesso ignora il criterio della autenticità autoriale.
Quanto alla reversibilità, essa, presa alla lettera, è qualcosa di irrealizzabile, sia materialmente che nella relazione della ricezione. Materialmente, il de-restauro a volte manifesta segni irreversibili. D’altra parte, non
sempre la reversibilità garantisce la non-invasività, così che i due valori
devono essere ponderati. Perciò recentemente si è proposto di sostituire il concetto di reversibilità con quello, più realistico, di “responsabi-
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lità”8. Quanto alle relazione della ricezione, la reversibilità è, a rigore,
impossibile, soprattutto quando avviene dopo molto tempo e in situazioni in cui i precedenti interventi hanno operato in modo complesso e
diffuso: essi hanno imposto a lungo un certo aspetto alla ricezione, hanno cambiato la percezione e la valutazione estetica delle opere. Sono nate così, in un certo senso, nuove “opere”. Quando si “riscopre” l’“originale”, ci si torna comunque a partire da un nuovo gusto che si è creato,
e questo ritorno è sempre una strada nuova, che vive nella sua relazione
di differenza con il gusto attuale.
La difficoltà è particolarmente evidente nel caso della musica antica, poiché i suoni non si sono conservati che solo potenzialmente negli strumenti, e in misura, a volte, ridotta dalle modificazioni prodotte dal tempo. Quando si cercano i suoni autentici della musica antica, grazie all’uso degli strumenti musicali originali e a indicazioni dei trattati d’epoca, si fanno tentativi doverosi e spesso fruttuosi di nuove dimensioni
estetiche e di nuove congetture storiche, ma il senso di questi tentativi
ha sempre come correlativo differente il gusto attuale, il quale non è
escluso che influenzi, inavvertitamente, le scelte più intenzionalmente,
filologicamente rigorose. Sembra che ciò sia vero anche nel caso della
pittura9. Se è vero che il restauro rischia sempre di essere influenzato dal
gusto corrente, è anche vero che il gusto corrente è l’ultima cosa di cui
un ambiente culturale ha consapevolezza. E questo avviene per la buona ragione che, quanto più una pratica artistica o culturale è familiare e
immediatamente “compresa”, tanto più essa è intrinsecamente connessa con una forma di vita condivisa in gran parte inconsciamente, non
“tematicamente”. Così ci accorgiamo che un restauro o una ricostruzione portano le tracce del gusto di un un’epoca solo quando noi siamo lontani da questo gusto, o perché appartiene a un’epoca passata della nostra storia, o perché appartiene a una tradizione culturale straniera. Capita ancora oggi che, visitando una mostra internazionale che riunisce
dipinti di uno stesso pittore antico provenienti da musei di diverse nazionalità, si resti perplessi e si rischi di uscirne più informati sui gusti e
criteri delle diverse scuole di restauro, che sui colori originali dei dipinti. Forse, fra qualche anno, qualcuno riterrà di vedere con chiarezza tracce di influenza della cultura, dell’arte e dell’estetica del Ventesimo secolo anche su scelte intenzionalmente ispirate al rigore filologico.
S. Della Torre, Il rispetto dell’esistente e l’irreversibilità dell’azione, in G. Biscontin, G. Driussi,
La reversibilità nel restauro, Atti del convegno di studi, Bressanone 1-4 luglio 2003, p. 15 e segg.
9
A. Conti, Restauro, Milano, Jaca Book, 1992, pp. 10-11.
8
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Se è vero che la reversibilità della percezione e del gusto è la cosa più
problematica, il recupero della verità storica delle opere d’arte, nei loro contesti di vita, non può che restare un ideale orientativo. Un ideale che va perseguito poiché caratterizza una cultura plurale e aperta alle differenze (una importante eredità del patrimonio “umanistico” ), e
deve però misurarsi con il fatto che l’istanza di riproporre l’immagine
originale, la sua fruibilità estetica al visitatore di oggi, a volte confligge duramente con quella di mantenere lo stato e i materiali originali.
Lo stesso concetto di fruibilità estetica è abbastanza ampio e polivoco
da lasciarsi intendere in modi diversi, se riferito a chi ha competenze
specifiche come può uno storico dell’arte, un musicologo, un artista o
un musicista, o invece riferito a un pubblico generico, e ancora è diverso se questo pubblico è residente o è in un contesto turistico. La
stessa nozione di “estetica” offre diverse accezioni, alle quali appartiene di fatto e con consistenza quantitativamente imponente anche quella più superficiale e diffusa di una leggera e sublimata eccitazione narcisistica del gusto. Nel varco aperto da questi conflitti sono avvenuti e
avvengono – probabilmente in misura maggiore in paesi europei diversi dall’Italia – usi discutibili, anche decisamente disinvolti, del restauro, non esenti implicazioni speculative.
Proprio per combattere gli abusi, conviene riconoscere che le istanze storico-documentaria, storico-artistica, la stessa questione dell’identità dell’opera d’arte e l’istanza estetica, possono divergere, e che ciascuna di
queste nozioni è a sua volta abitata da interne tensioni. La composizione di queste tensioni in sintesi accettabili richiede un’analisi che sciolga,
per quanto è possibile, le ambiguità concettuali; e occorre anche riconoscere che la sintesi è responsabilità civile che deve essere vagliata ogni
volta, in relazione sia alle necessità culturali più “universali”, sia alle necessità complesse di un territorio, con la consapevolezza che non esistono unità di misura date una volta per tutte.
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Sotto il profilo concettuale, la nozione di autenticità resta in condivisione fra l’istanza storico-documentaria e quella modernamente estetica. Ma il concetto “estetico” di autenticità non può servire fino in fondo neppure la storia dell’arte, perché è esso stesso storico: è debitore, alla lontana, verso l’elevazione tardo-medievale e rinascimentale dell’artigianato a livello di arte, legittimata dalle codificazioni vasariane; più modernamente è debitore verso il concetto – teorizzato da Kant – dell’originalità “geniale” dell’artista. Il concetto si motiva soprattutto nei gene-
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ri artistici in cui il segno autografo è considerato parte essenziale del contenuto estetico, come nel disegno, nella pittura e per certi aspetti nella
scultura (il caso, eminente, della musica eseguita dall’autore, resta confinato nella “fedeltà” della riproduzione o si ripropone in ogni nuova
performance). A questo concetto estetico di autenticità appartiene anche
una istanza contraria, perché essenzialmente antistorica, in quanto considera l’opera “geniale” fruibile, per la sua esemplarità, in ogni tempo,
indipendentemente dalle circostanze: non a caso Kant considera la creatività geniale secondo il modello della spontaneità extrastorica della natura. L’immaginazione creatrice sarebbe una specie di natura che comunica la modalità spontanea del proprio procedere come esempio valido anche al di là dei luoghi e dei tempi dei contesti.
Questo concetto di autenticità è stato criticato da chi ha pensato la storicità dell’arte in modo più coerente, cercandone il valore e la verità nella sua relazione con un mondo. Come ha osservato H. G. Gadamer in
Wahrheit und Methode, deve essere superata la separazione “estetica” (in
senso kantiano) del giudizio di “gusto” dal contesto in cui l’opera è stata concepita, ivi compresa la committenza e la destinazione: si pensi solo alla imponenza dell’aspetto religioso nell’arte della nostra tradizione
europea, per non parlare di altre tradizioni. Viene così ridimensionata
la differenza fra l’autentico e le riproduzioni, che sono modi della sue ricezione (sulla ricezione cfr. il contributo di R. Dreon): si pensi all’uso
romano di copiare le statue greche, o moderno di riprodurre l’antico…
Al limite, anche il “cattivo” restauro è un modo della ricezione che illumina in che modo un’opera tramandata agisce su un’epoca. La ricerca
dell’autenticità o meglio della verità dell’arte avviene entro gradi di diversi livelli di ricezione e di verità, fra i quali anche il grado minore ha
un significato che va scoperto. Occorre mantenere presente questa complessità, alla quale appartiene il fatto che nessuno può detenere la certezza di avere eliminato dalla propria prospettiva ogni presupposto10. Da
questa critica delle accezioni estetica e storico-documentaria di autenticità nasce una sensibilità storica più sottile, aperta alle differenze culturali e alla necessità di uno scambio vivo e continuo con esse, proprio al
fine di riconoscere anche la propria tradizione. Identità artistica e culturale hanno certamente bisogno dei “documenti”, ma non solo: hanno
bisogno anche di una continua attualizzazione della ricezione nel confronto sia con il passato, sia con il presente. In questo presente entrano,
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H.-G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. G. Vattimo, Milano, Fabbri, 1972, p. 114 e segg.
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oggi con forza maggiore che nel passato, anche altre etnie e la loro cultural heritage (cfr. L. Zagato e M. L. Ciminelli, infra). Dal confronto con
esse vengono a noi altri sguardi sulla nostra cultura presente e passata.
L’identità e la verità delle opere d’arte del nostro passato si misura sulla
capacità di rinnovare la vivibilità del mondo in cui ci troviamo (si veda
anche l’intervento di R. Troncon), riconoscendo la molteplicità dei vari modi di abitare.
L’esistenza di un’effettiva continuità storica della “nostra” arte già da tempo è stata messa in discussione dalle stesse pratiche artistiche. Nel secondo dopoguerra fino agli anni Settanta, da Cage a “Fluxus”, da Warhol a
Kosuth, a Manzoni, a Beuys, l’artista è divenuto il teorico della propria
azione, rifiutando di subordinarsi al critico o storico dell’arte, fino a far
coincidere, in alcuni casi, l’azione con il concetto. Ogni nuova posizione
tendeva a riscrivere la storia. Ciò ha spezzato la linea di continuità su cui,
da Vasari a Winckelmann e oltre,11 si era costruita una storia dell’“arte”:
venivano a mancare una normativa stilistica, una continuità linguisticoidiomatica, nella misura in cui il materiale, il supporto, lo spazio e il tempo dell’opera venivano ridefiniti; o meglio: si è avuta una s-definizione
dell’arte12. L’“autore” stesso, come tale, è messo in questione (penso a Cage e a quanto ne è seguito, anche in termini di performances e “improvvisazione”, piuttosto che a Barthes e al contesto strutturalista) nel momento in cui è messa in questione la relazione causale (la “creatività”) rispetto all’opera e alla sua ricezione. Ne è venuto un operare artistico che
in molti casi sceglie di essere contestuale 13, fortemente relazionale, aperto
al versante della ricezione. I passi indietro degli anni Ottanta, nella pittura, nell’architettura, nella musica, dicono forse che l’innovazione teorica non era così completa e compatta, che il “mestiere” può non essere
messo in disparte; o forse, piuttosto, che era difficile ignorare le istanze
del mercato e le aspettative tradizionali del pubblico. Sotto il profilo concettuale però questi diversi ritorni non sembrano aver portato una svolta teorica decisiva. Il concetto di postmoderno, come il libro di Lyotard
che l’ha lanciato, La condition postmoderne,14 è equivoco e rischia di reCfr. Hans Belting, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, tr. it. F. Pomarici, Torino,
Einaudi, 1990.
12
Secondo la proposta di H. Rosenberg, The de-definition of art, tr. it. La s-definizione dell’arte,
Milano, Feltrinelli, 1976.
13
Cfr. Paul Ardenne, Un art contextuel, Paris, Flammarion, 2004.
14
J-F. Lyotard, La condizione postmoderna, tr. it. di C. Formenti, Milano, Feltrinelli, 2004.
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stare, almeno nella sua ricezione prevalente e forse suo malgrado, interno a un paradigma troppo formale. La fine delle grandi filosofie della storia, dei grand récits, non ha come risultato una molteplicità di “giochi linguistici” equivalenti sullo stesso piano di relatività.
Se invece per post-moderno si intende l’uscita dal presuntamente omogeneo universo occidentale, allora le questioni cambiano. Con la emancipazione delle ex colonie, il mondo è diventato multietnico. Le presenze di “arte” orientale e africana nelle arti plastiche e nella musica occidentali, già significative all’inizio del Ventesimo secolo, nel secondo
dopoguerra hanno assunto un significato più dirompente, poiché hanno mostrato l’illusorietà dell’autonomia sia dell’arte che della civiltà occidentale. Da tempo il fenomeno è eclatante e nessuno può fingere di
non vederlo. Ciò che è in gioco non è una questione di “linguaggi”, nel
senso degli stili o delle codificazioni di cui si poteva parlare all’interno
di una “storia dell’arte”, bensì di “forme di vita”, nel senso di Wittgenstein. È noto che fuori dell’Occidente nessuna tradizione aveva una
“estetica” e un’”arte” nel senso in cui la intendiamo “noi”. Ne andava
piuttosto di rappresentazioni rituali, simboliche, di momenti di vita sociale o religiosa. Fino a quando l’estetica e il concetto di “arte” occidentali hanno incominciato a produrre “artisti” anche in queste culture. Anche in questo caso, le “nostre” categorie sono messe alla prova di
situazioni ibride, a partire dalle quali può venire uno sguardo diverso
sulla nostra stessa “estetica” e la nostra “arte”. Sarà un processo difficile e lungo, fatto di passi obbligati e tutt’altro che di opzioni relativamente equivalenti e reversibili.
La polivocità delle relazioni fra estetica, arte e storia dell’arte, di cui
abbiamo indicato qualche esempio, si può comprendere meglio se si
considera che alle origini dell’estetica moderna (ma l’estetica, letteralmente e concettualmente, è moderna) troviamo due accezioni diverse:
quella di Baumgarten (recentemente rivalutata) e quella di Kant. E che
anche nella sola sistemazione kantiana, storicamente più ricca di effetti, vivono anime diverse. C’è una teoria dell’arte che, come si è detto, prende a modello la libertà dell’immaginazione, a somiglianza con
la natura. Questa teoria mantiene un riferimento a esempi abbastanza tradizionali (p. es. alla poesia con contenuti religiosi o etici) attraverso i concetti di “idea estetica” (§ 49 della Kritik der Urteilskraft) e
di “simbolo” (§ 59), e lo coniuga con le teorie della immaginazione e
della spontaneità naturale. C’è un’estetica del “gusto” che ben si adat-
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ta ai connaisseurs visitatori di collezioni, erede di un ideale aristocratico umanistico al di sopra degli “interessi” propri delle attività lavoratrici e mercantili; ma è anche erede di un’istanza etica pubblica: il giudizio di gusto viene definito da Kant in termini potenzialmente universali (cfr. i §§ 40 e 60), capace di costituire una comunità fondata
sul gusto comune, piuttosto che sul bilanciamento del conflitto fra interessi individuali antagonisti. Accanto, c’è una estetica della natura,
sia del bello che del sublime. Nonostante anche l’estetica della natura
sia compresa sotto il “giudizio di gusto”, la cosa diventa ben diversa
nel caso del “bello naturale” o “libero” da ogni riferimento antropocentrico. Che l’arte sia frutto dell’immaginazione geniale che opera come la natura, ossia senza che l’uomo sappia rintracciarne una spiegazione, è una analogia solo negativa e una scappatoia: in effetti Kant
non risolve la contraddizione fra l’istanza che privilegia le bellezze “libere” e quella che apprezza le “idee estetiche” prodotte dal genio artistico creatore, spesso (direi sempre, per gli esempi artistici occidentali di cui Kant poteva disporre all’epoca) molto densi di contenuti antropologici. Dunque il “giudizio di gusto” ha un senso ben diverso
quando viene pensato in relazione a poesie o dipinti con riferimenti
ben riconoscibili alle vicende umane, e spesso molto connotati culturalmente, e quando si riferisce al bello “naturale” di un fiore, una conchiglia, dei colori delle piume di un uccello, ma anche a un motivo decorativo, a una “musica senza testo”, in generale a tutto ciò che piace
pur non avendo “significato “ (§ 16). Qui l’esperienza “estetica” non
è tale perché sorretta del gusto di un connaisseur. Qui l’esperienza incontra la ricezione (forse più “democratica”) della natura, grazie alla
liberazione dalla pressione delle urgenze del mondo “tecnico-pratico”
(cfr. la Einleitung alla Kritik der Urteilskraft) ma anche grazie alla liberazione dalla pressione di una morale assolutamente esigente, che inevitabilmente tormenta il singolo, lasciato solo di fronte al compito impossibile di sapere se la sua intenzione sia effettivamente e fino in fondo buona, o non nasconda qualche interesse poco onorevole. Qui il
carattere fine a se stesso, “senza scopo” eteronomo, dell’esperienza estetica, è liberatorio. Schiller lo ha visto bene quando, in Die Götter Griechenlands, chiede ancora alla poesia di liberare – per quanto è ancora
possibile – la natura dalla “legge della gravità”. E già Rousseau cercava nelle rêveries (si veda la quinta delle Rêveries15), in presenza del rit15
J-J.Rousseau, Les Rêveries du promeneur solitaire, Paris, Gallimard Folio, 1972.
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mico frangersi delle onde sulla riva, di fronte all’intrico variegato e meravigliosamente multiforme della vegetazione, una uscita “estatica”
dalle preoccupazioni imposte dalla società (preoccupazioni morali e
tecnico-pratiche, avrebbe detto Kant) per aprirsi a un’esistenza “bastante a se stessa”, nella natura, come potrebbe essere per “Dio” stesso. La rêverie rousseauiana è già una esperienza della natura nella bellezza, al di là di ogni “significato” e “scopo”. Essa rivela che nell’istanza “estetica” della natura c’è un fondamentale bisogno moderno di liberare la propria relazione con il mondo dalla pressione del calcolo e
di imperativi morali che esigono quasi l’impossibile.
Ciò potrebbe essere letto anche come una fuga dalla realtà. O, al contrario, come la consapevolezza che appartiene all’istanza estetica di accettare che apparteniamo a un mondo naturale, di riconoscersi come
parte di esso: si offre così un accesso al superamento della dimensione
antropocentrica. Queste due accezioni sono entrambe presenti nelle
ambivalenze dell’”immaginazione” kantiana, piuttosto che nella rêverie rousseauiana, che inclina più decisamente al reale. Voci filosofiche
e artistiche hanno accentuato ora l’uno, ora l’altro aspetto della dimensione “estetica”. Il primo, nell’interpretazione dell’estetica come
indifferenza alla scelta (Kierkegaard), nell’art pour l’art, nell’impegno
formale estremo nelle invenzioni “linguistiche” del Novecento, più recentemente in molto dell’interesse per il “virtuale”. Oggi l’estetizzazione della vita ordinaria, che produce una specie di “arte allo stato
gassoso”16 diffusa negli oggetti, nelle cose di uso comune, nella pubblicità, nella propaganda politica e spesso anche nella cosiddetta informazione di una vera “società dello spettacolo”, usa l’istanza liberatoria
come esca per ottenere effetti immediati e sostanzialmente conservatori grazie alla scelta di forme idiomatiche, codificate come piacevoli,
capaci di suscitare desiderio, strappare consenso apparentemente spontaneo a modi di vita sostanzialmente costrittivi. Il secondo aspetto invece intende l’arte come mezzo di liberazione come risveglio. Vi appartengono le posizioni di Schopenhauer, Nietzsche, Wittgenstein,
Benjanim, Adorno, Heidegger, Kafka, Beckett, Duchamp, Giacometti, il Nouveau Realisme, l’informel, l’“arte povera”, l’environmental art
etc.: l’arte va oltre il “gusto”. E anche oltre l’estetica: Duchamp parlava di carattere “anestetico” dell’arte.
Secondo Arthur Danto, una linea di continuità porterebbe poi da Du16
Cfr. Y. Michaud, L’art à l’état gazeux, Essai sur le triomphe de l’esthétique, Paris, Stock, 2003.
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champ fino a Warhol (Beyond the Brillo box17). Ma forse l’interpretazione che Danto dà di Duchamp e di Warhol non è del tutto giusta. In effetti assomiglia piuttosto alla tesi di Kosuth nel testo Art after Philosophy.18 I ready-mades di Duchamp non sono mai puri oggetti di uso comune, senza qualità specificamente artistiche. Spesso sono aidée da parole (la famosa Fontana ha una scritta: “Mutt”) o sono funzionali a un
contesto: sembra che la ruota di bicicletta dovesse girare dolcemente all’ingresso dell’atelier per vacillare alla periferia della visione, come un
fuoco nel focolare19; altri ready-mades si comprendono solo in giochi di
parole legati a vari contesti. Neppure sono oggetti di uso comune i Brillo box di Warhol: non sono un prodotto industriale, scatole di cartone,
ma un manufatto di Warhol, di compensato. Tuttavia resta vero che tanto Duchamp quanto Warhol producono oggetti “artistici” che stanno al
di fuori di un giudizio “estetico” di gusto. Ed escono altrettanto dall’idea “estetica” dell’opera come creazione esemplare e geniale. L’opera non
è più una cosa interamente prodotta dall’artista. E il pezzo esposto, ancora unico in Duchamp – ma riproducibile: si pensi al paradosso duchampiano di fare delle copie di ready-mades, miniaturizzarle per esporle, per venderle, per tenerle nei musei – in Warhol dichiara di perdere la
propria unicità.
Da qui anche il gioco economicamente fruttuoso (la Factory sembra il
solo esempio decisamente in attivo, fra i molti tentati dagli artisti del
secondo Novecento)20 e concettualmente rischioso di Warhol con il
mercato. Un gioco che si è proposto inevitabilmente, e non solo per
ragioni di sopravvivenza degli artisti. Poiché la “democratizzazione”
dell’arte, attraverso la messa in disparte dei criteri del “gusto” e dell’eccellenza del mestiere, deve fare i conti con i mezzi con cui la democrazia stessa – o ciò che si presenta come tale – vive. Così molti artisti hanno scelto di giocare con il mercato, il suo funzionamento, tentando di non esserne esclusi e però di non lasciarsi dominare da criteri eteronomi. Vi sono i giochi “doppi”, come l’uso della censura a scopo di valorizzazione, e “tripli”, in cui le istituzioni pubbliche committenti si avvalgono dello scandalo e dei giudizi negativi del pubblico per
rendersi visibili e rilanciare se stesse e l’artista, il quale si avvale a sua
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A. Danto, Beyond the Brillo Box: The Visual Arts in Post-Historical Perspective, New York, Farra Straus Giroux, 1992.
J. Kosuth, L’arte dopo la filosofia, tr. it. G. Guercio, Ancona-Milano, Costa&Nolan, 2000.
M. Duchamp, Conversation with George Heard Hamilton, “Audio Arts”, vol. 2, n. 4, 1975.
Cfr. Paul Ardenne, Un art contextuel, op.cit, p. 223.
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volta del gioco. Giochi che lasciano molto in forse il bilancio finale
sulla effettiva autonomia degli artisti21.
Il mondo dell’arte risente di queste incidenze anche in Italia, oggi ben
più fortemente che in Francia, dove una tradizione di sostegno statale
tende a garantire ancora – non si sa per quanto tempo – una certa autonomia dell’arte. Ciò non è senza influenza sul clima culturale complessivo in cui avvengono le decisioni, da parte di privati, fondazioni e
istituzioni pubbliche, riguardo alla promozione e al finanziamento della cultura artistica, soprattutto nel contemporaneo. Ma anche il patrimonio storico non è un’isola. L’uso crescente del patrimonio artistico da
parte di enti privati e istituzioni pubbliche per rendersi politicamente
visibili, oltre che per ottenere risorse economiche, produce diffusione
della conoscenza, ma anche trasformazioni ambientali non sempre esenti da aspetti negativi. Se per molto tempo, in Italia, è sembrato possibile avere un corpo dottrinale unitario sulla questione dei beni culturali,
credo che ciò sia dipeso non tanto dalla coerenza interna delle categorie
estetiche e non-estetiche implicate – coerenza di cui occorre dubitare,
come ho tentato di dire sopra – quanto dalla esistenza di una certa continuità culturale di tipo “umanistico” statuale che si è concretizzata in
un sistema, criticabile e unilaterale ma di tutto rispetto, di istruzione
universitario, in stretta connessione con le sovrintendenze. Un sistema
che nel dopoguerra ha trovato forze politiche, anche di schieramenti opposti ma di formazione culturale storicamente simile, decise a conservarlo, e più tardi – nel tempo di un certo declino culturale della classe
politica? – disposte ad assecondare l’inerzia autoriproduttiva di quelle
istituzioni. Più recentemente, con decisioni non esenti dal sospetto di
qualche improvvisazione, si sono scoperti nuovi orizzonti nella questione dei beni culturali, nell’università. L’avanzata di modelli neoliberisti
statunitensi nella gestione-valorizzazione delle arti e dei beni culturali
anche in paesi che, come la Francia e, con mezzi più modesti, l’Italia,
hanno tradizionalmente affidato alle istituzioni pubbliche questi compiti, sono un effetto indiretto della generale avanzata del neoliberismo,
accentuata dopo il crollo del sistema sovietico. Un effetto con aspetti positivi e altri discutibili, come è stato detto. Ragionamenti analoghi si potrebbero fare sull’orizzonte culturale in cui si lascia comprendere l’at21
Cfr. Patrick Barrer, Le double jeu du marché de l’art contemporain. Censurer pour mieux vendre,
Paris, Favre, 2004; Nathalie Heinich, Le triple jeu de l’art contemporain, Paris, Les Editions de
Minuit, 1998.
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tuale riforma universitaria (ma qual è, esattamente, questo orizzonte?).
Ma le ragioni dell’invecchiamento del tradizionale modello umanistico
non sono solo queste. Ci sono anche ragioni di segno molto diverso. La
crisi del modello “umanistico” statuale moderno occidentale è anche un
effetto della fine dell’eurocentrismo, del colonialismo e del vecchio sistema delle classi sociali: molto dell’ “umanismo” europeo, della sua politica del gusto, si reggeva su questi sistema classista ed élitario. Per questo aspetto, la posta in gioco nel cambiamento è la possibilità di avere
una “identità” non più fondata solo sulla difesa del proprio patrimonio
storico, monoculturale, ma capace di vivere di una dialogicità in cui si
possa riconoscere la propria “eredità” nella relazione con le altre. Con
l’avvertenza decisiva che ogni coscienza critica ha bisogno, per svilupparsi e non perdersi in un relativismo indifferente, di mantenere vivi i
segni e i documenti delle tradizioni da cui eredita e da cui si emancipa:
occorre pensare i patrimoni culturali non come cumuli di cose (Zagato),
ma fuori da una logica tradizionalmente mussale e nel contesto dei bisogni profondi della società.
Ciò non comporta affatto una deresponsabilizzazione dello stato e delle istituzioni pubbliche. Al contario. La palpabile aggressività e disinvoltura di alcune politiche culturali “neoliberiste” trova un terreno facile là dove l’istanza umanistica trova risposte concettualmente deboli. È
possibile e necessario ripensare un nuovo compito umanistico per le istituzioni pubbliche. Se una motivazione profonda dell’estetica (moderna)
nasce dall’istanza di liberazione da un modello di vita (altrettanto moderno e contemporaneo) improntato principalmente al calcolo degli effetti e del tempo della vita, se questa istanza si fa ancora sentire nelle arti, pure se in modi molto diversi da quelli dei secoli XVIII e XIX, si può
fare l’ipotesi che qui ci sia ancora una nostra necessità, da far valere ancora nel confronto sia con il nostro passato, sia con altre culture. L’esperienza dell’arte, della cultura, come quella dell’insegnamento e della
trasmissione dell’eredità culturale, mette sempre di fronte al fenomeno
straordinario di un impiego di energia che non si consuma nell’effetto
felice, anzi ritorna aumentata in chi si è speso, per unirsi a chi ha ricevuto in una sintesi che è più della semplice somma. Questo è un tratto
inestinguibile delle pratiche umanistiche.
Da questa prospettiva, la necessità di fare i conti con le risorse acquista
un senso nuovo. Come mettono bene in rilievo i diversi contributi qui
presenti di studiosi di area economica e manageriale, vanno combattuti
gli equivoci di una pretesa efficienza riducendo le spese (L. Zan), di una
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“Beni culturali”: nuovi compiti per un orientamento estetico?
applicazione di concetti economici al campo estetico senza rendersi conto che la valorizzazione nel campo artistico segue criteri diversi da quelli
dell’utilità marginale (G. Mossetto). Concetti quali quelli di “prodotto
culturale” e di “gestione” non rinviano a una separazione di compiti e di
ambiti, come se ci fosse, da un lato, una somma di oggetti da conservare/valorizzare, dall’altro una semplice contabilizzazione economica: il
concetto di “prodotto” è relazionale, ne fa parte essenziale il momento
della ricezione (M. Rispoli, A. Moretti, M. Tamma, E. Bonel). Pertanto
la determinazione dei prodotti culturali richiede strategie e misurazioni
irriducibili a un semplice calcolo quantitativo, ma che dipendono invece da una interpretazione responsabile di chi siano i destinatari – il “pubblico”, gli abitanti, i cittadini – e di quali risultati culturali si vogliano ottenere. Emergono nozioni di valore e di valorizzazione che si caricano, a
loro volta, delle energie proprie dell’arte e della cultura.
È significativo che questo incontro fra estetica e management nasca a
Venezia. Una città che è già un difficilissimo terreno di prova. Essa mostra tutti i danni procurati da una gestione complessiva – privata più che
pubblica, ma che propone responsabilità gravi al potere politico – di un
patrimonio culturale che produce una ricchezza indubbia, ma impoverisce la maggior parte degli abitanti, favorendo la crescita del costo delle abitazioni e i prezzi in generale, e forzando la fruizione del patrimonio stesso entro circuiti rivolti essenzialmente al turismo, a parziale detrimento di una buona vita culturale ed artistica del luogo abitato. Il caso di Venezia è solo esemplare di quanto va accadendo e può accadere al
resto del paese.
L’importanza di trovare strumenti adeguati di elaborazione e risposte al
pericolo che un patrimonio culturale impoverisca complessivamente il
paese cui appartiene è evidente. Ma ne va anche dell’istruzione superiore nel suo complesso, verso cui oggi si richiede una gestione più “manageriale”: troppi equivoci si nascondono sotto questa espressione, per l’ovvio quanto fuorviante riferimento ai tradizionali modelli industriali. È
chiaro invece che il reperimento, la gestione e la valorizzazione delle risorse economiche nell’istruzione universitaria deve misurarsi con i caratteri propri della “valorizzazione” della eredità umanistica.
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Una specificità dei prodotti culturali?
di Andrea Moretti
Il presente contributo si caratterizza per essere un risultato di un lavoro
di ricerca iniziato una decina di anni fa, e rinnovatosi recentemente con
la costituzione di un gruppo di ricerca interuniversitario1.
Il lavoro di ricerca ha come oggetto l’individuazione, la descrizione e
l’interpretazione delle specificità presenti nei prodotti culturali una volta che si adotti il punto di vista manageriale2.
Perché ci si è posti tale oggetto di ricerca? La risposta è rintracciabile all’interno della prospettiva economico-manageriale che caratterizza il gruppo di ricerca. In tale ambito disciplinare è presente una spiccata sensibilità di ricerca relativa alla distinzione tra carattere culturale e/o artistico
delle produzioni e dei prodotti. Non è una distinzione nominalistica, ma
fa riferimento ad un elemento fondante le analisi economico-manageriali: la distinzione tra processo produttivo e prodotto (Rispoli 1984).
L’aggettivazione culturale dei processi produttivi e dei prodotti implica
l’identificazione della declinazione di significato (la specificità) di tali fenomeno manageriali.
In altri contesti di ricerca tale declinazione è facilmente definibile in relazione all’individuazione delle unità di analisi. Facendo un esempio nel
campo della produzione turistica, le unità di analisi che permettono l’at1
2
Basatosi sulle persone che sviluppano l’attività formativa, in ambito economico-manageriale,
presso l’Egart: E. Bonel, M. Rispoli, M. Tamma dell’Università Ca’ Foscari; F. Boffa e L. Frigotto dell’Università di Trento; D. Collodi, F. Crisci e A. Moretti dell’Università di Udine.
Sotto questa denotazione si ricomprende l’intero insieme di prodotti che possano presentare
aspetti esclusivamente artistici, esclusivamente culturali o entrambi gli aspetti. Non è oggetto del presente contributo discutere i confini interni a tale definizione vista la numerosità di
posizioni presenti nella letteratura, rimandando a quanto indicato da Rispoli (2004) nella presente pubblicazione.
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tivazione della ricerca manageriale sono il viaggio ed il turista (Rispoli e
Tamma 1995). In presenza di una definizione condivisa di cos’è un viaggio e di un turista è possibile sviluppare il processo analitico in modo articolato e significativo.
In ambito culturale il significante della denotazione artistico-culturale
non è ad oggi (e forse non lo sarà mai) completamente definito, così come evidenziato in letteratura.
Secondo la prospettiva analitica introdotta tale impedimento potrebbe
determinare un blocco evolutivo nella ricerca relativa agli elementi specifici di tali tipi di produzioni e di prodotti.
Si ritiene che tale impedimento sia superabile e sia possibile articolare
un’analisi degli aspetti di specificità di tali produzioni in base a tre motivazioni: due di natura generale ed una precipuamente connessa allo
schema di analisi che si propone nel seguito.
80
La prima motivazione a superare il vincolo individuato è connessa alla
natura stessa delle discipline economico-manageriali. Comprendere la
natura dei prodotti è parte costitutiva delle metodologie di ricerca della management science. Il prodotto, in tale prospettiva, è la reificazione
di scelte, di processi, di azioni, di aspettative e di obiettivi di individui,
di collettività e di organizzazioni che attraverso il prodotto interagiscono. Data tale centralità, nella ricerca, partendo dalle caratteristiche del
prodotto è possibile arrivare a identificare e descrivere i legami che connettono i soggetti che interagiscono nei processi produttivi e comprenderne le motivazioni, inoltre descrivere i tempi, le fasi e le condizioni
che permettono la realizzazione del prodotto stesso.
Una seconda spinta, che determina la volontà, del gruppo di ricerca, di
andare innanzi nella comprensione delle specificità dei prodotti culturali, deriva dalla rilevazione di un processo diffusosi in tutti le industrie.
Sempre più i prodotti offerti dalle aziende, operanti in qualsiasi settore
dell’economia, vengono connotati, da parte dell’offerta o della domanda, di contenuti culturali e/o artistici. Tale connotazione sviluppa un processo di significazione che determina un nuovo senso del prodotto e un
suo superiore valore. Ad esempio capi di abbigliamento che permettono
l’identificazione con un gruppo di protesta o con una classe sociale; prodotti artigianali che comunicano l’appartenenza ad una comunità, ecc.
Non a caso Pine e Gilmore (1999) evidenziano tale diffusività di accezione indicando come qualsiasi produzione sia analizzabile come uno
spettacolo ed il prodotto come un’esperienza.
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Una specificità dei prodotti culturali?
Comprendere la natura dei prodotti culturali è quindi una pre-condizione per poter disporre di una strumentazione analitica che permetta
di identificare i livelli di specificità presenti in tale tipologia di prodotti
rispetto a quelli, appartenenti ad altre industrie, che si possono connotare come culturali (ma non lo sono per uno o più fattori). Solo disponendo di tale strumentazione analitica sarà possibile scongiurare il rischio, attualmente presente, di “culturalizzazione” di tutti i prodotti e
di tutte le produzioni.
La terza motivazione, che spinge a continuare nel processo analitico e di
fertilizzazione incrociata dei saperi, fa riferimento allo schema interpretativo che si propone di seguito. Si ritiene che le categorie logiche che si
utilizzano per identificare le specificità dei prodotti culturali siano sufficientemente “robuste” per accogliere definizioni di arte e di cultura variamente costituitesi e sviluppatesi o che si presenteranno in futuro.
La ricerca delle specificità dei prodotti culturali è partita dal confronto
tra due definizioni che cercavano di distinguere il prodotto museale dal
prodotto culturale (Moretti 1999).
Con prodotto museale si intendeva «un’esperienza cognitiva di beni culturali, guidata da una proposta di senso, resa possibile in determinate
condizioni e servizi di accessibilità».
Per prodotto culturale, in senso lato, si intendeva, «un’esperienza cognitiva, guidata da una proposta di senso, resa possibile in determinate
condizioni e servizi di accessibilità, in una comunità di riferimento».
Il livello di specificità della prima definizione è connessa alla dizione di
“beni culturali” con ciò intendendo fare riferimento a quanto presente
all’interno della legislazione italiana. In prospettiva manageriale tale definizione permette di identificare i prodotti museali cercando come base analitica i beni culturali, definiti come tali dalla legge, enumerando e
descrivendo tutti i prodotti che hanno tali beni culturali come componente; al di là di chi sia il soggetto che organizza ed offre il prodotto.
È un percorso parallelo a quello visto in precedenza per la produzione
turistica. Data un’unità di analisi condivisa (i beni culturali) si può sviluppare la ricerca. Da quanto presente nella recente letteratura in materia di beni culturali, la stessa definizione di beni culturali è non completamente condivisa per cui la base di specificità individuata per identificare i beni museali inizia ad essere posta in discussione.
Ciò che si evidenzia è come, nel caso dei prodotti culturali, la definizione precedentemente proposta abbia capacità di specificazione anco-
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ra inferiori. Una definizione come quella di prodotto culturale presentata potrebbe adattarsi, infatti, a tutte le tipologie di prodotto.
Tutti i prodotti sono esperienze cognitiva perché vengono vissuti (esperiti) da soggetti che, durante il processo di consumo, vivono esperienze
con tutto il loro essere umano, civile, sociale, economico e culturale.
Sono esperienze guidate da una proposta di senso rappresentata da quanto realizzato dal sistema di offerta. Facendo un parallelo è possibile evidenziare quanto sia “guidata” la proposta di utilità e di “senso” delle quelle automobili sempre più grandi e assetate, con quattro ruote motrici e
numerosi posti a sedere denominate SUV in un contesto urbano, economico e sociale caratterizzato da spazi sempre più angusti, costo dei
carburanti in crescita, diffusione dell’asfalto fino nei luoghi più remoti,
famiglie sempre più piccole.
Le proposte di senso vengono rese possibili nelle più svariate condizioni e servizi di accessibilità: dal vero e in via remota, acquistando o solo
fruendo dell’utilità di un prodotto, ecc.
La comunità di riferimento del consumo è sempre più connotata socialmente e culturalmente (le classi, le tribù, i gruppi, le comunità, reali o virtuali). La natura di comunità può derivare da necessità e condizioni di vita3.
Posti di fronte alla ridotta capacità di specificazione delle definizioni precedentemente evidenziate, si è percorso un sentiero di ricerca che cercasse di escludere il finalismo delle organizzazioni coinvolte nei processi produttivi all’interno della definizione.
Attraverso un processo di sottrazione, ricostruzione e ricomposizione
dell’oggetto sottoposto a definizione.
Il gruppo di ricerca è giunto ad identificare, ad un primo livello di schematizzazione, uno spazio di possibile definizione di cos’è la categoria logica di prodotto culturale. Tale spazio è tridimensionale ed ha natura descrittivo-interpretativa.
Della definizione iniziale di prodotto culturale rimane in essere la condizione di base dell’esistenza del fruitore. Vi è prodotto artistico-culturale se c’è un fruitore, se c’è un’esperienza. In caso contrario non si rile82
3
Ad esempio la comunità virtuale di www.parentplace.org rappresenta un esempio di fenomeno sociale frutto di una necessità da parte di neo-genitori lontani dalla famiglia di origine di
ottenere un supporto informativo, di giudizi, di scambi relativi all’esperienza di essere padre,
madre, coppia.
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Una specificità dei prodotti culturali?
va un prodotto ma solo una serie di processi produttivi che possono permettere esperienze ai soggetti costitutivi il sistema di offerta del prodotto ma che non incontrano un fruitore finale.
Prima di descrivere la natura degli assi si ritiene utile dare alcuni cenni
delle caratteristiche generali dello schema, indicatori del processo di sviluppo analitico in atto.
È stato individuato uno spazio dialettico di definizione del prodotto artistico-culturale nel quale il valore delle singole variabili può variare da
0 (zero) al valore massimo rilevato/rilevabile/accettato dalla comunità di
riferimento.
In secondo luogo, è uno spazio di definizione che, si presume, possa permettere la mappatura del grado di specificità artistico-culturale presenti in tutte le categorie di prodotto.
Inoltre è uno schema interpretativo che può essere adattato alle situazioni contestuali di analisi di singoli prodotti culturali4.
Infine è uno strumento interpretativo che può permettere la descrizione della dinamica evoluzione di un prodotto culturale contestuale
nel tempo.
Le tre variabili descrittive dello spazio sono:
– la ricezione (fruizione);
– il contenuto scientifico;
– il contenuto manageriale.
Per “ricezione” di intenda identificare il modo con cui i soggetti della
domanda, i fruitori, percepiscono il prodotto. Senza la loro presenza non
vi è esperienza ma, in aggiunta a ciò, se i soggetti della domanda non
considerano l’esperienza vissuta come un’esperienza culturale, essa non
lo diviene5.
Da punto di vista della management science, tale categoria è facilmente
gestibile, sia teoricamente che operativamente. Infatti, è oramai ampiamente conosciuta e condivisa nelle scienze economico-manageriali
una prospettiva relazionale di analisi della produzione di valore (Eiglier
e Langeard 1987; Håkansson e Snehota 1995, Normann 1984, 2001;
Rullani 2004).
Con “contenuto scientifico” dei prodotti culturali si vuole indicare (miCome? Si cambia di caso in caso il significato della variabile contenuto scientifico a cui si fa riferimento (da antropologia a arte visiva; da danza a musica) e si modificano unità e strumenti
di misura.
5
Ciò, in termini concettuali, anche in presenza di un’offerta che abbia organizzato il tutto per
offrire un prodotto culturale.
4
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surare) l’entità (intensità) del contenuto dell’elemento “artistico-culturale” specifico così come definito dalla comunità scientifica in oggetto (ad
esempio antropologi, storici dell’arte, archeologi, musicologi, musicisti).
Tale contenuto scientifico può avere natura autoreferenziale oppure essere frutto di una legittimazione esterna. È di natura autoreferenziale
quando il livello di contenuto culturale è dato dagli appartenenti ad
una comunità per gli altri appartenenti alla stessa comunità. Ad esempio un concerto di musica da camera rivolto ad un pubblico di esperti concertisti, da parte di un’istituzione musicale affermata che ospita
riconosciuti musicisti.
Vi è invece legittimazione dall’esterno quando vi è un riconoscimento,
da parte dei rappresentati della comunità di riferimento esterna, al soggetto proponente il prodotto, del valore artistico-culturale dal prodotto
stesso. Ad esempio, in campo museologico, l’organizzazione di una mostra, da parte di un soggetto che in precedenza non ha dimostrato “competenze” specifiche in quel campo, passa attraverso la “critica” come processo di verifica del carattere culturale dell’evento6.
Infine, il “contenuto manageriale” del prodotto artistico-culturale fa riferimento all’insieme di attività che si ascrivono all’organizzazione e alla gestione di tutto ciò che rende disponibile il contenuto scientifico alla domanda. Tale componente manageriale si caratterizza per la sua natura di insieme di procedure e processi deliberati. La varia intensità di
tale contenuto fa riferimento alla differente presenza di processi di scelte e di meccanismi operativi che permettono, all’organizzazione offerente il prodotto, la realizzazione di quanto preordinato in modo deliberato e non come conseguenze di un “fortuito caso” o della “capacità
inventiva” dei singoli.
Per terminare, ma certo non per concludere la discussione sul tema, si
ritiene necessario evidenziare come lo spazio di definizione individuato
in prospettiva economico-manageriale si apra necessariamente alle altre
discipline interessate alle organizzazioni culturali. La natura specifica dei
singoli assi dello spazio, le modalità di misurazione, di significazione, di
determinazione degli stessi assi possono essere il terreno operativo in cui,
l’auspicato incontro e scambio tra ricercatori di varie discipline, possa
realizzare proficuamente.
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6
In questo caso numerosissimi sono gli esempi di critiche, da parte della comunità dei museologi, relative al grado di intensità culturale presente in specifici allestimenti museografici. Si
vedano le critiche presenti, ad esempio sul “Giornale dell’Arte”, relative agli allestimenti della Tate Modern e del Science Museum di Londra.
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Una specificità dei prodotti culturali?
Bibliografia
P. Eiglier, E. Langeard, Servuction – Le marketing des services, Paris, McGraw-Hill, 1987 (trad.
it. Il marketing strategico dei servizi, Milano, McGraw-Hill Libri Italia, 1988).
H. Håkansson, I. Snehota (eds.), Developing Relationships in Business Networks, London, Routledge, 1995.
R. Normann, Service Management, Chichester, Wiley, 1984 (trad. it., La gestione strategica dei
servizi, Milano, EtasLibri, 1992).
R. Normann, Reframing Business. When the Map Changes the Landscape, Chichester, Wiley, 2001
(trad. it., Ridisegnare l’impresa. Quando la mappa cambia il paesaggio, Milano, Etas, 2002).
A. Moretti, La produzione museale, Torino, Giappichelli, 1999.
B.J. Pine II, J.H. Gilmore, The Experience Economy. Work is Theatre & Every Business a Stage,
Boston, Harvard Business School Press, 1999 (trad. it., Oltre il servizio. L’economia delle esperienze, Milano, Etas, 2000).
M. Rispoli, L’impresa industriale, Bologna, Il Mulino, 1984.
M. Rispoli, M. Tamma, Risposte strategiche alla complessità: le forme di offerta dei prodotti alberghieri, Torino, Giappichelli, 1995.
E. Rullani, Economia della conoscenza, Roma, Carocci, 2004.
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Estetica ed economia
di Gianfranco Mossetto
1. Il confronto-incontro fra economia ed estetica, o meglio, tra analisi
economica ed estetica, emerge oggi come un prodotto storico più o meno consapevole della evoluzione delle caratteristiche dei consumi, nonché delle scelte tra lavoro e consumo/ tempo libero degli individui.
L’elemento estetico, o la qualificazione “estetica”, si sono sovrapposti prima e sostituiti poi, agli attributi consueti di funzionalità che motivano
il consumo.
Il wildiano “datemi il superfluo che farò a meno del necessario” – che è
espressione di una ennesima evoluzione elitaria/ estetizzante dei consumi “fin de Siècle” – si trasforma, fordianamente, nel corso del Novecento, in un comandamento edonista assoluto su cui si fonda la costante crescita straordinaria del prodotto dei paesi industrializzati.
L’elemento estetico non è più un lusso, né una “stravaganza” che si autogiustifica, ma diviene una necessità che trova le sue radici nel rapporto di causa-effetto di lungo periodo, tra creazione di sempre nuovi consumi e crescita esponenziale dei redditi.
Trattare così la qualificazione estetica dei consumi significa superare,
traducendolo in termini estetici, il ragionamento tradizionale dell’economista “à la Robbins” in base al quale un incremento di consumo
(nel suo esempio, di arsenico) è un incremento di consumo indipendentemente dalla sua causa (e, cioè, che sia destinato a curare le rose
dai pidocchi o ad avvelenare il proprio vicino).
Nell’esempio, l’atto di consumo deve infatti essere valutato indipendentemente dai suoi connotati etici. Ciò, tuttavia, limita il livello di
analisi del fenomeno “consumo”, poiché la decisione tra consumare e
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Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
non consumare è in tal caso solo una parte di un albero decisionale più
complesso che comprende:
1.1 comprarlo per avvelenare il vicino
1 comprare arsenico
1.1 comprarlo per curare i pidocchi delle rose
2 non comprare arsenico
La stessa cosa si potrebbe dire, sul lato estetico, nel celebre esempio di
Amarthia Sen su:
1.1 comprare un vestito giallo
1 comprare un vestito
1.1 comprare un vestito rosso
2 non comprare un vestito
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in cui, come nel caso precedente, si evidenzia come la qualificazione ultra-economica (sia essa etica od estetica) della scelta, aggiunge, come
spiega Sen, un grado di libertà al processo decisorio (le alternative sono
tre anziché due).
Dal punto di vista estetico una scelta in più può addirittura essere la ragione del consumo in sé e per sé.
Si pensi allo sciopero dei consumatori delle economie pianificate, per un
buon esempio. Di fronte ad una scelta “o tutto o niente” (ad esempio,
o un vestito giallo o niente), può darsi che la rigidità della domanda obblighi i consumatori (che hanno estrema necessità di vestirsi) a comprare
tutti comunque un vestito nel solo colore disponibile. Ma non appena
la domanda si fa più elastica (al di sopra della soglia di consumo di sopravvivenza), è molto probabile (come è avvenuto) che i consumatori
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Estetica ed economia
scelgano di non consumare poiché non hanno alternative estetiche di
consumo. Quindi l’alternativa estetica non solo non va ignorata (come
fa Robbins con quella etica), ma va considerata come condizione “sine
qua non” dell’incremento di consumo.
L’analisi estetica – sia essa analisi del giudizio o del carattere estetico – è
indispensabile per chiarire la decisione di consumo che è oggetto dell’analisi economica.
2. Una simile conclusione porta con sé alcune conseguenze economiche
rilevanti, prima tra le quali la dis-funzionalizzazione del processo di evoluzione dei gusti.
Attraverso un oramai lungo (e datato) dibattito, gli economisti si sono
divisi tra coloro che ritengono che i gusti dei consumatori si evolvano
sulla base della evoluzione della funzionalità dei prodotti consumati (e
quindi che siano “endogeni” allo sviluppo tecnologico) e coloro che ritengono i gusti “esogeni” e cioè un dato o una variabile indipendente.
Se si considera che l’incremento dei consumi possa essere arginato dalla
moltiplicazione delle alternative estetiche, e non necessariamente di quelle funzionali, ecco che la possibilità di gusti esogeni rispetto al processo
evolutivo economico diventa reale. Le scelte estetiche, infatti, non sono finalizzate a soddisfare la domanda di crescenti funzionalità. Beethoven non
sceglie di comporre utilizzando il pianoforte anziché l’arpeggione come
aveva fatto Mozart, perché il pianoforte gli consente più alternative sonore, ma perché il pianoforte, pur consentendo meno alternative, ne produce di maggiormente consone alla necessità espressiva romantica dell’autore. In altre parole, il gusto del consumatore cambia prima della funzionalità dell’oggetto del consumo, ed indipendentemente da essa.
Indagare sulle ragioni di cambiamento del gusto non è più compito
esclusivo dell’analisi economica ma richiede l’intervento dell’estetica.
3. Da questo punto in poi, inoltre, la stessa analisi economica richiede
di essere “storicizzata”, a meno di non ridursi a indagine puntuale di segmenti di scelta o di processo (produttivo, di consumo, ecc.), avulsi da
un contesto di condizioni generali che diventa, invece, sempre più significativo.
Come faccio a comprendere il cambiamento di gusto del mercato dei
dipinti inglesi della metà Ottocento (che si sposta repentinamente da
pompiers a primitivi) se limito l’analisi ai singoli giudizi dei critici o ai
singoli comportamenti dei mercanti o dei collezionisti?
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Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
Il fatto che un acquirente, che fino a ieri ha comprato quadri di genere
inglesi, oggi inizi ad acquistare primitivi italiani non vuol dire altro rispetto al dato di consumo in sé, almenochè non si indaghi sulle ragioni
e/ o sulle origini estetiche del mutamento (la rinascita e lo sviluppo dell’ideale pre-rinascimentale e rinascimentale di uomo a nutrimento della crescita dell’utopia solidarista-laborista pre-raffaelita). Il consumo
muta poiché muta la variabile culturale che lo condiziona o, meglio, lo
causa, e questo mutamento è solo percepibile attraverso un confronto
storico dei fenomeni di consumo in sé.
4. L’inserimento dell’analisi estetica a fondamento delle scelte di consumo introduce, infine, un elemento meta-economico negli schemi dell’economista che va al di là della stessa modificazione della natura della
variabile “consumo” da dipendente a “indipendente” a seguito della disfunzionalizzazione dei consumi.
La meta-teoria che sta alla base della teoria economica è fondata su assiomi utilitaristici del tipo:
utile P dannoso (l’utile è preferito al dannoso)
o anche:
meglio P peggio (il meglio è preferito al peggio)
che non sono confrontabili con assiomi meta-teorici del genere:
bello P brutto (il bello è preferito al brutto)
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così come il Giudizio su ciò che è bello o è brutto è sradicato dalla logica della Ragion Pratica kantiana. Non vi è alcun collegamento tra la
legge dell’utilità marginale decrescente (o crescente) al crescere (o decrescere) della quantità/ qualità di un bene – tipica della sfera economica – e il Puro Giudizio che governa/ costringe la creatività artistica.
Indipendentemente dall’approccio al giudizio o al processo estetico prescelto, in generale, la differenza profonda tra scelta economica e scelta
estetica sta nell’assenza di nesso tra azione e scopo dell’azione della seconda. Così, kantianamente, “l’atto creativo è una finalità senza scopo”,
e di qui in avanti, l’arte diviene sempre di più un concetto de-concettualizzato, una s-definizione di se stessa, un’arte “non arte”, un linguaggio (e quindi una struttura) de-strutturati. Un economista direbbe un’u-
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Estetica ed economia
tilità in-utile. Il che naturalmente, per un economista, è concetto assai
complesso da maneggiare a meno di non traslare le proprie analisi su basi meta-teoriche del tutto nuove.
5. Quelle fin qui elencate non sono che alcune delle sfide che gli economisti dovrebbero affrontare per sviluppare la propria capacità di analizzare non solo i fenomeni evolutivi odierni dei consumi ma anche quelli di sempre, di produzione (creatività) e interpretazione/ consumo del
settore artistico/ culturale.
Ciò non potrà che avvenire molto lentamente (come lento è stato l’ingresso dell’etica negli schemi dell’analisi economica) e, comunque con
un forte contributo di interdisciplinarietà.
Per questo anche la cultura della filosofia estetica e della storia e critica
delle arti dovrà rendersi disponibile ad un confronto che è appena marginalmente cominciato.
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Prodotti culturali: cose e attività?
di Maurizio Rispoli
Un evento recente, al quale ho partecipato da spettatore, mi consente
di introdurre i temi oggetto del mio intervento a partire da un dato
empirico.
Qualche tempo fa ho assistito alla presentazione e alla discussione del
primo rapporto di una ricerca dal titolo “La produzione culturale a Venezia. Gli eventi, i produttori, i fruitori” sostenuta dalla Fondazione di
Venezia. I contenuti della presentazione, ma anche alcuni interventi di
addetti ai lavori, hanno confermato la mia convinzione che vi siano ancora non pochi elementi di ambiguità e indeterminatezza nell’affrontare i temi e i problemi attinenti alla produzione culturale in generale e
nel contesto veneziano in particolare.
Vi è un primo aspetto della ricerca citata che, anche a fini di tipo generale e con riferimento a contesti diversi, è utile definire con maggiore chiarezza. Nella ricerca, i cui risultati sono stati raccolti nel Quaderno n. 26
della Fondazione, ci si riferisce genericamente a eventi culturali, contenuti in un insieme che porta a contarne 1500 con riferimento all’anno 2003.
Questo dato fa sorgere subito un interrogativo: si tratta veramente e in
ogni caso di eventi definibili come culturali? L’illustrazione della ricerca
portava a sviluppare non pochi dubbi, ma una risposta accettabile alla domanda che abbiamo appena formulato dipende, ovviamente, dal significato che intendiamo attribuire all’aggettivo “culturale”.
È ragionevole ritenere che tutti possono concordare sull’affermazione
che, ad esempio, anche un evento sportivo o una conferenza su aspetti tecnici della produzione industriale sono definibili culturali in quanto espressione del livello evolutivo dell’organizzazione sociale e produttiva di un Paese, ma è questo ciò che si voleva cogliere con la ri-
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cerca alla quale ci si è riferiti? Per prima cosa, dovremmo domandarci
se potrebbe essere di qualche ausilio, per capire meglio i fenomeni, il
sostituire l’aggettivo culturale con l’aggettivo artistico, come sottoinsieme certamente meno ampio ma più omogeneo. Forse potremmo abbandonare e scartare dall’analisi tutto ciò che il senso comune e la conoscenza specifica non considerano espressione artistica. Già, “ma qui
è l’intoppo”, in quanto a questo punto, si aprirebbe immediatamente
una nuova discussione volta a chiarire il discrimine fra ciò che è artistico e ciò che non lo è.
A questo proposito, al fine di eliminare qualunque deriva del mio intervento verso problemi lessicali e contenutistici specifici, chiarisco subito che, nel proseguo mi terrò lontano dall’affrontare un tema così complesso e insidioso, rispetto al quale mi sento inadeguato. Conseguentemente utilizzerò il termine culturale nel significato che gli viene correntemente attribuito nel lessico italiano oggi, cioè: «pertinente al complesso delle cognizioni, delle tradizioni (linguistiche, filosofiche, scientifiche, letterarie, artistiche), dei procedimenti tecnici, dei comportamenti, trasmessi e usati sistematicamente e caratteristici di un particolare gruppo sociale di individui (nazione, popolo)».
Vi è un secondo aspetto nella ricerca citata che va chiarito, tenendo conto di una validità e quindi di una utilità di tipo generale: prendendo in
considerazione gli obbiettivi della ricerca stessa, è stato giusto fermare
l’attenzione sui soli eventi o sarebbe risultato più opportuno prendere
in considerazione anche i singoli manufatti (architetture, sculture, pitture, oggetti vari), che costituiscono il patrimonio artistico e culturale
di una località e che svolgono un indubbio e spesso potente ruolo di attrattori verso i turisti del segmento culturale; in definitiva, si doveva focalizzare l’attenzione solo su elementi temporanei o anche su elementi
permanenti? Dipende ovviamente dagli obbiettivi dell’analisi.
Infine è emerso un terzo aspetto che viene affrontato nella ricerca citata, ma può essere esteso a qualunque contesto ove si produca un incontro fra elementi culturali (temporanei o permanenti) e potenziali fruitori, e che è stato oggetto di discussione in alcuni interventi di esperti
durante la presentazione. Nella città di Venezia si realizza in generale solo un’attività di consumo della cultura (la cosiddetta “Venezia vetrina”)
oppure si produce cultura? Si tratta di una domanda antica, che si trascina da tempo in questa città, ma che può essere estesa a molte altre
realtà urbane e metropolitane.
Per tentare una risposta, si deve innanzitutto prendere in considerazio-
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ne il rapporto fra produttore e utilizzatore, che non è quello classico fra
attori dell’offerta e attori della domanda che si incontrano sul mitico libero mercato, essendo spesso separati e lontani. Bisogna essere consapevoli che qualunque evento culturale, ma anche qualunque oggetto (bene culturale), certamente in misura diversa ma in modo insopprimibile, per potersi realizzare, implica il processo di ricezione e di fruizione.
Si realizza cioè la compartecipazione al processo produttivo di coloro che
producono e di coloro che consumano, secondo il ben noto schema applicato da tempo allo studio della produzione di servizi, che ha portato,
fra l’altro, a coniare e utilizzare il termine prosumer, cioè produttore+consumatore, [Toffler 1980; Normann 1984] e il termine servuction, cioè
servizi+produzione [Eiglier e Langeard 1987].
Puntando ora verso il nucleo del mio intervento, mi sembra utile osservare e sottolineare il fatto che coloro che si sono occupati di produzione culturale hanno di solito utilizzato la locuzione “beni culturali” per comprendervi tutto, salvo poi rendersi conto che la produzione culturale non si realizza soltanto con l’aggiungere beni ad altri
beni, sempre culturali, e proponendoli alla fruizione dei potenziali soggetti interessati, ma anche offrendo, a vari segmenti della domanda di
cultura e impiego del tempo libero, prodotti che presentano alcuni caratteri ritenuti tipici della produzione di servizi. Intendo riferirmi soprattutto all’immaterialità e alla congiunzione spazio-tempo della produzione e del consumo.
Sono ben note, e comunque comprensibili intuitivamente, le conseguenze strategico-decisionali delle caratteristiche appena ricordate e, in
particolare l’importanza del contenuto di conoscenza e di informazione, da un lato, e di relazione dall’altro. Su quest’ultimo aspetto si rifletta sulle necessità della partecipazione dell’utilizzatore del prodotto al
processo produttivo con conseguenze sulla variabilità e varietà degli output nelle industrie di servizi [Tamma 2000, 573]. Entrambe le conseguenze indicate si accompagnano sempre e determinano spesso il successo o l’insuccesso delle singole attività produttive oggetto di analisi.
A proposito dell’offerta di prodotti culturali immateriali, può essere di
una certa utilità citare una distinzione che, già diversi anni or sono, è
sembrata necessaria a uno studioso del diritto dell’economia come Sabino Cassese e che ci porta direttamente all’interno del problema di una
corretta rappresentazione, anche lessicale, della natura e degli esiti dei
processi di produzione culturale. Come forse alcuni ricordano, la distinzione al tempo proposta è stata fra bene culturale “cosa”, cioè ad
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esempio un dipinto, un sito archeologico, un monumento, un edificio,
un oggetto di uso corrente ma di particolare valore artistico (oreficeria,
maiolica, ecc.) e bene culturale “attività”, cioè, ad esempio, spettacoli
teatrali, musicali, cinematografici, cioè quelli che vengono generalmente definiti eventi. [Cassese, 1976]. Nel caso della produzione musicale,
ad esempio, il bene culturale “cosa” non è, ovviamente, il teatro o la sala da concerti, né il pianoforte a coda installato, ma il patrimonio bibliografico, discografico, che è oggetto di schedatura, inventariazione,
catalogazione, conservazione, fruizione da parte di studiosi e di consumatori particolari, mentre il bene culturale “attività” è, ad esempio, il
singolo concerto, cioè un evento unico e, “per definizione”, irripetibile.
Esempi di questo tipo, che contrappongono beni “cose” a beni “attività”
possono essere proposti per ogni tipo di produzione culturale e artistica
in particolare. A noi sembra che la distinzione possa rientrare nel concetto di prodotto quale esito di qualunque processo produttivo industriale o artigianale, compreso quello artistico, e dunque presentarsi con
dei caratteri che si possono disporre in un continuum ove, ad un estremo vi sono i puri beni (cose) e all’altro i puri servizi (attività). La realtà
del mondo della produzione ci ha mostrato che si tratta solo di configurazioni estreme, ideal-tipiche, dal momento che in ogni bene si trova
una componente di servizio e in ogni servizio un bene di supporto o di
riferimento [Rispoli e Tamma 1992].
Nel caso della produzione culturale si può fruire sia dei beni-patrimonio sia delle attività-eventi, mentre in altre produzioni e tipicamente in
gran parte di quelle manifatturiere le strutture patrimoniali e le attrezzature produttive delle aziende non sono oggetto di fruizione; esse sono
infatti generalmente celate all’utilizzatore finale. Sembra che ci si trovi
di fronte un elemento di distinzione, di diversità, ma in realtà anche la
produzione culturale può avvalersi e si avvale di fasi produttive nascoste
e non fruibili dall’utilizzatore finale, come accade ad esempio nelle produzioni discografica cinematografica o in quella libraria per le quali specifiche attrezzature di produzione vengono impiegate per ottenere i prodotti che entrano in contatto diretto con il fruitore.
A questo punto dobbiamo domandarci se sia lecito considerare un concerto o una mostra temporanea, beni-attività secondo la terminologia
proposta da Cassese, in altre parole, una categoria logica nella quale rientrano anche, ad esempio, un servizio alberghiero, finanziario, di trasporto, distributivo commerciale? Hanno veramente questi ultimi prodotti la medesima natura degli eventi culturali? Per ragioni di simmetria
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e di migliore comprensione dell’oggetto della nostra analisi, dobbiamo
chiederci altresì se possiamo accostare, sul piano logico e con intenti classificatori, un bene culturale “cosa”, come un teatro, una sala da concerti, un manufatto artistico di qualunque natura (un dipinto, una scultura) a un bene, prodotto in un’impresa manifatturiera, come potrebbe essere una lamiera di alluminio, un’autovettura o un paio di scarpe.
Per prima cosa, al fine di reggere il confronto e l’assimilazione fra i beni esemplificati, dobbiamo non fare rientrare nella medesima possibile
categoria il prodotto “lamiera di alluminio” per la semplice ma sufficiente ragione che di esso non fruisce consapevolmente e direttamente
l’utilizzatore finale, come invece avviene per gli altri due prodotti manifatturieri e per i beni culturali. Fra questi ultimi due gruppi di prodotti potremmo, da un lato, annullare alcune differenze in quanto ciascuno di questi prodotti può essere considerato come medium di relazione fra economie di produzione ed economie di consumo.
Dall’altro, non si può negare che vi siano tuttavia delle differenze fra i
due gruppi di prodotti; c’è da ritenere infatti che, nella presente pur breve analisi, un elemento discriminante fra prodotti culturali, siano essi
cose oppure attività, e altri tipi di prodotto, vada cercato nel concetto di
ricezione che viene considerato come processo necessario e imprescindibile per la costituzione di un’opera d’arte o comunque culturale. La
teoria della ricezione non può essere applicata che al fruitore (consumatore o utilizzatore finale) del prodotto culturale, sia esso bene-cosa
oppure bene-attività, nella terminologia di Cassese.
Conseguenza di quanto appena affermato è che per i beni che stiamo
analizzando (culturali) non ha senso riferirci anche alla categoria, peraltro importante negli altri tipi di prodotti, dei beni e dei servizi destinati alla produzione, cioè ad altre organizzazioni produttive (ad esempio,
la lamiera di alluminio di cui sopra, un bullone d’acciaio, una valvola,
un’anodizzazione, una verniciatura) come contrapposti a quelli destinati al consumo (un’autovettura, un frigorifero, una torta, un’ospitalità alberghiera, un’assicurazione, un trasporto).
Se tuttavia prendiamo nuovamente in considerazione il concetto di ricezione allora dobbiamo anche sostenere che nel caso dei beni culturali-attività ci si trova di fronte a prodotti che assomigliano molto ai prodotti “servizi destinati al consumo” che, come si è già sottolineato, si ottengono e si fruiscono in una situazione di co-produzione fra consumatore finale e produttore del servizio (come si è già riportato essi si confondono nel termine prosumer), come avviene, ad esempio, nell’ospita-
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lità alberghiera, nella ristorazione, nel trasporto e in generale nei servizi
di sportello (prodotti bancari, assicurativi).
Va ancora osservato, tuttavia, che la ricezione del fruitore come momento necessario per discutere di prodotto culturale si applica non solo ai beni-attività, che abbiamo visto detengono caratteri comuni con
quei prodotti che generalmente chiamiamo servizi, ma anche ai benicose la cui vita si accende proprio con la fase di ricezione. In effetti, ad
esempio, il mosaico del giudizio universale della cattedrale di Torcello
diventa prodotto culturale solo con la ricezione; se non fosse visto e guardato da alcuno e se si perdesse via via la cognizione della sua esistenza
non lo sarebbe affatto.
A questo punto della mia esposizione, qualcuno potrebbe chiedersi legittimamente di quale utilità sia discutere della natura dei prodotti culturali così come stiamo tentando di fare. La risposta sta nella considerazione che il nostro obbiettivo, cioè degli studiosi della mia area scientifica, non dichiarato, ma costante e implicito nella cultura economicomanageriale, è quello di comprendere il comportamento delle organizzazioni, che sono costituite di cose (attrezzatura per la produzione) ma
soprattutto di persone. È metodologicamente necessario descrivere e
spiegare tale comportamento a partire da una approfondita e corretta
identificazione del prodotto che esse ottengono, prodotto inteso come
output di un processo al quale partecipano solitamente più attori, e adottare, nei limiti del possibile, cioè evitando forzature poco sostenibili,
schemi di ragionamento, modelli interpretativi da tempo sviluppati e
collaudati nel campo della produzione industriale.
Si è passati, storicamente, da un accumulo di analisi riguardanti i prodotti manifatturieri, figli della rivoluzione industriale e del fordismo,
all’estensione dei modelli di ragionamento e di analisi ai prodotti che
sono stati denominati servizi, contrapposti ai beni. Si è verificato che
tra beni e servizi vi sono molte analogie nel mondo della produzione
e tuttavia permangono delle specificità e quindi delle diversità non trascurabili per chi voglia occuparsi dei modelli di comportamento degli
attori cha stanno dalla parte della domanda o da quella dell’offerta di
tali prodotti.
Sembra emergere ora l’esigenza di estendere e applicare alcuni schemi,
da tempo collaudati per analizzare il tradizionale mondo della produzione di beni e di servizi, a due categorie particolari di prodotto: i beni
culturali-cose e i beni culturali-attività. Se sussistono, quali sono le specificità che non ci consentono di considerare questi due tipi di prodot-
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ti come appartenenti al medesimo insieme? Daremo una risposta organizzata, non adesso, ma tra non molto; intanto accontentiamoci di giustificare la ricerca delle specificità di ogni tipo di prodotto e assumiamo
quindi un atteggiamento positivo verso l’individuazione delle differenze («per comprendere la realtà, la si divida in quante più parti sia possibile» affermava Cartesio), seppure accompagnati dal desiderio di trovare più gli elementi di unione che quelli di divisione, e ciò al fine di rendere più potenti i metodi di analisi e gli schemi di comprensione dei fenomeni che vogliamo studiare.
Bibliografia
S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in “L’amministrazione dello Stato”, Milano,
Giuffrè, 1976.
P. Eiglier e E. Langeard, Servuction: Le Marketing des Services, Paris, McGraw-Hill, 1987.
R. Normann, La gestione strategica dei servizi, Milano, Etas Libri, 1985.
M. Rispoli e M. Tamma, Beni e servizi, cioè prodotti, in “Sinergie”, n. 3, 1992.
M. Tamma, La produzione di servizi, in G. Volpato (a cura di) La gestione di impresa, Padova,
Cedam, 2000.
A. Toffler, The Third Wave, New York, Collins, 1980.
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La produzione culturale
e il concetto di prodotto
di Michele Tamma
La riflessione e il dibattito attorno al concetto di prodotto con riferimento al mondo della produzione culturale pongono più di qualche
problema, particolarmente in relazione al dialogo e alla reciproca comprensione fra studiosi e operatori specializzati in aree scientifiche diverse. Dal punto di vista degli studi di matrice economico-aziendale
in cui questo breve contributo si colloca, l’identificazione efficace
dell’“oggetto” di produzione-fruizione (qui inteso non in senso fisico
ma come categoria logica) costituisce tuttavia un irrinunciabile punto di partenza. È infatti a partire da questa categoria logica che poi possono essere rintracciati le risorse e gli attori (di domanda e di offerta)
protagonisti, le caratteristiche dei processi di produzione e fruizione,
le forme organizzative, l’assetto e la dinamica dell’ambiente competitivo, ecc., ovvero può essere condotto l’approfondimento dei molteplici temi di gestione strategica e operativa. In altre parole, si rende necessario “un punto di ancoraggio” che consenta di mettere a fuoco il
campo di interesse, che nella fattispecie risulta difficile da delimitare
e sicuramente articolato.
Sulla scorta dell’evoluzione di un dibattito che dura oramai da molti
anni sul significato di beni, consumo, industria culturali, ma anche
della realtà fattuale, con produzione culturale può identificarsi un
campo assai vasto, terreno di convergenza e d’incrocio di discipline,
ma anche di attività, numerose e diverse. Da un lato, rilevano aspetti
e questioni che sono colti e approfonditi – con differenti approcci,
chiavi di lettura, linguaggi – da studi di matrice storica, letteraria, filosofica, sociologica, economica, manageriale. Dall’altro, possono essere potenzialmente comprese in questo campo, adottando una visio-
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ne ampia, attività assai differenti che afferiscono, per fare in modo sbrigativo solo degli esempi, al mondo dell’arte, della produzione cinematografica, dell’editoria, della produzione discografica, della organizzazione di eventi, fino ad arrivare a comprendere espressioni delle
più diverse forme, veicolate attraverso media differenti, cui può essere assegnata una particolare valenza culturale.
In sintesi si può registrare come si sia creata un’area di sovrapposizione,
talvolta di convergenza-integrazione, tra ambiti di interesse di studio,
ma anche di interesse operativo, che riguardano:
a) l’arte e le performing arts;
b) il mondo dei media;
c) l’industria del tempo libero;
d) l’industria dei viaggi e del turismo;
e) le produzioni (anche manifatturiere) in cui risultano prevalenti gli elementi estetici e simbolici dei prodotti.
La ricerca di discernere potrebbe indurre a concentrare immediatamente l’attenzione sul significato che si sceglie di attribuire al concetto di
cultura, e quindi all’aggettivo “culturale” posto accanto a “produzione”.
Ma, come ampiamente noto, più che una via per giungere a disporre di
un elemento dirimente una tale riflessione si dimostra invece un’efficace strada per introdurre due aspetti molto significativi ai quali qui si accenna solo brevemente.
Il primo attiene alla nascita e allo sviluppo nel tempo della “cultura di
massa” e del concetto di “industria culturale” (Eugeni 2001; Hirsch
1972; 2000), fenomeno a cui accostare l’evoluzione del rapporto con ciò
che per differenza, se non addirittura per contrapposizione, viene definita “alta cultura”. In tale dialettica si considerano anche una concezione umanistica e una antropologica di cultura (Klamer 2000; Cicerchia
2002).
Il secondo attiene ad un sempre più intenso “ruolo” della cultura (conoscenza, esperienza, significati simbolici, estetici, ecc.) nel determinare il valore dei prodotti (anche manifatturieri) sia dal punto di vista della domanda che dell’offerta, come riconosciuto sia da economisti che da
aziendalisti (fra i molti contributi: Du Gay 1997, Pine e Gilmore 1999).
In queste brevi note, mentre si rinuncia ad entrare nel dibattito sul significato di “culturale”, non facile e che richiederebbe ben altro spazio,
si vuole invece proporre qualche riflessione sul concetto di “prodotto”,
in particolare se esso, in quanto categoria logica, risulti adeguato a cogliere l’“oggetto” di produzione-fruizione che interessa il vasto ambito
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La produzione culturale e il concetto di prodotto
della produzione culturale, soprattutto se intesa in senso ampio come
sopra richiamato. Del resto i termini di prodotto e di produzione appaiono in qualche modo connessi con l’adozione del concetto stesso di
industria con riferimento alla cultura.
Alcune definizioni, scelte tra le molte disponibili nella letteratura economica e manageriale, possono consentire di porre in evidenza la ricchezza di termini, significati, valori, adottati e comunicati con riferimento alla descrizione e all’interpretazione degli oggetti delle diverse
produzioni culturali (il plurale aiuta a rendere ragione dei differenti campi di interesse e punti di vista alla base dei contributi citati).
Con riferimento al bene culturale inteso come opera d’arte si definisce tale un «contenuto artistico unico, non riproducibile, che si innesta su un supporto durevole (o almeno conservabile) e di un valore monetario che fluttua nel tempo secondo criteri non esclusivamente oggettivi» (Besana 2003, 71). Una definizione che porta invece l’attenzione sul passaggio, anche normativo, da cose “d’antichità e arte” a “beni culturali”, identifica «un bene materiale di interesse storico, artistico, archeologico o ogni altro bene che costituisca “testimonianza di civiltà”» (Cicerchia 2002, 16). Con riferimento più diretto all’approfondimento del concetto di industria culturale, si definiscono prodotti culturali i «“nonmaterial” goods directed at a public of consumers, for whom they generally (in modo prevalente) serve an aesthetic or expressive, rather than a clearly utilitarian function» (Hirsch
1972, 641; 2000, 356), o anche «tutte quelle forme di discorso grafico-verbale, visivo, audiovisivo, multimediale che vengono prodotte,
diffuse e fruite grazie agli apparati istituzionali e tecnologici della società industriale e postindustriale» (Eugeni 2001, 17). Infine in termini manageriali si propone la definizione, sviluppata nell’ambito di
uno studio sulla produzione museale, di Moretti (1999, 14), secondo
la quale «il prodotto culturale in generale è identificabile come esperienza cognitiva guidata da una proposta di senso, resa possibile da determinate condizioni e servizi di accessibilità all’interno di una comunità di riferimento».
Nell’insieme ci si trova dunque di fronte ad un “oggetto” che può avere, per utilizzare termini non del tutto precisi ma per intendersi, carattere materiale o immateriale, di unicità-irripetibilità versus riproducibilità, un contenuto eminentemente artistico o commerciale, essere di proprietà pubblica o privata, testimonianza del passato o del presente, frutto di un singolo attore o di un network di attori, ottenuto con modalità
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“artigianali” o con processi di produzione “industriali”, ecc. In tal senso, è facile rendersi conto della varietà anche riferendosi a qualche semplice esempio e alle caratteristiche “specifiche” che, da diversi punti di
vista e utilizzando diversi linguaggi specialistici, è possibile attribuire: un
quadro (definibile un bene materiale-culturale, in taluni casi un’opera
d’arte unanimemente riconosciuta a cui non è possibile attribuire un
prezzo di mercato in senso proprio); un cd-rom (un prodotto, frutto di
un processo di produzione industriale, riproducibile a costi molto bassi, il cui valore si fonda sul “contenuto” immateriale-culturale cui funge
da supporto); uno spettacolo teatrale (considerabile un evento “unico”,
ovvero non esattamente ripetibile e quindi non-conservabile); una mostra (che offre una determinata esperienza di lettura ed interpretazione
di opere d’arte e quindi un prodotto immateriale -un “servizio” – costruito su beni-risorse culturali che produce-diffonde a sua volta cultura per un pubblico vasto e ristretto…) un monumento (testimonianza
del passato e parte del patrimonio culturale di un territorio, fruibile da
residenti e turisti), un vaso di vetro di Venini (un bene, un prodotto,
materiale, ottenuto con processi di produzione artigianale) ecc.
Nonostante l’evidente eterogeneità, tutte queste fattispecie possono essere colte e interpretate con la categoria logica di “prodotto”. Non si suggerisce la mera adozione di una “retorica del mercato” e del suo linguaggio strumentale (Klamer 2001) quale chiave di descrizione-interpretazione elettiva, né tantomeno una lettura “industrialista” nel senso
tradizionale del termine. Più limitatamente, e utilmente, si propone di
adottare il concetto di prodotto quando la prospettiva di analisi, decisione, intervento, è quella della gestione strategica e operativa, e ciò qualunque sia l’organizzazione (l’attore) di riferimento (pubblica, privata,
mista; profit, non profit). In tale prospettiva assume rilievo il “processo
di creazione di valore”, ovvero un processo, costituito di un insieme di
attività hard e soft, fondato su risorse materiali e immateriali, al quale
partecipa più di un attore, tra i quali necessariamente l’utilizzatore (Tamma 2000). Nelle diverse situazioni la partecipazione alla creazione di valore da parte degli attori (si insiste, compreso l’utilizzatore), può assumere intensità, forme, modalità tecniche/tecnologiche, differenti. In
questo processo il prodotto (di qualsiasi fattispecie) rappresenta il “medium di relazione tra gli attori” (Rispoli e Tamma 1992), ciò che consente di connettere i loro fini-obiettivi, risorse e attività. Elemento costitutivo del concetto di prodotto non è dunque il “contenuto” ma il
“ruolo” che esso svolge.
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La produzione culturale e il concetto di prodotto
Alcune osservazioni. Certamente con “prodotto” viene inteso un “oggetto” (in senso logico) che ha un rilievo da un punto di vista economico: condizione necessaria è la presenza di almeno due attori che impiegano risorse. Non sono invece necessari il requisito della materialità e l’esistenza di uno scambio “oneroso” di mercato, mentre deve essere presente il fine della soddisfazione di un bisogno (è evidente in
questo caso, come rilevino sia situazioni in cui vi è una clientela che
paga un prezzo, sia situazioni in cui vi è un pubblico che non corrisponde direttamente la controprestazione). La partecipazione dell’utilizzatore al processo (del consumatore, se si adotta tale terminologia)
implica un ruolo attivo nella creazione del valore che soddisfa il suo
bisogno. Ciò è determinante, in generale ma in particolare nella produzioni di cui trattiamo, per rendere ragione della percezione (ricezione) da parte di un “pubblico” quale elemento, da un lato, costituivo del prodotto stesso, dall’altro, determinante per il valore attribuitogli. Di più, in una lettura che mette al centro le relazioni non solo
viene ribadita la partecipazione di una “domanda” nella determinazione del valore ma ne viene sottolineata la partecipazione alla produzione (co-produzione). Vi sono quindi delle differenze, forse sottili ma
non di poco conto, rispetto agli usi più scontati e diffusi del concetto
di bene e di bene culturale in chiave economica. L’esistenza e il valore
del prodotto (bene se materiale) si hanno solo in un determinato contesto di relazione; al di fuori di esso si ha un valore solo potenziale, colto forse meglio dal concetto di risorsa. Così “un oggetto”, materiale o
immateriale che sia, opera d’arte in senso stretto o meno, culturale e/o
commerciale, creato e valorizzato (valorizzato se già esistente) assume
la veste di specifico prodotto con un altrettanto specifico valore economico solo in quanto lo si sia collocato in un framework in cui sono
determinati (anche solo in via ipotetica, progettuale) gli attori, i significati, i bisogni (com’è ovvio intesi in una accezione ampia) cui corrispondono l’uso e/o l’esperienza offerte.
Il quadro interpretativo proposto, che pone decisamente in rilievo il
ruolo delle relazioni, della conoscenza, dell’informazione (riassunte nel
concetto di immaterialità), poggia su una oramai vasta e consolidata
letteratura economica, manageriale in particolare. In questo percorso
si registra anche il cambiamento del significato di produzione industriale. Una chiara sintesi venne fornita da Rullani già all’inizio degli
anni ’90 (1992, 9): in passato con il termine produzione ci si è prevalentemente riferiti al concetto di trasformazione fisica, ovvero un pro-
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cesso attraverso cui «risorse materiali (macchine, risorse naturali, energia manipolatrice del lavoro) si convertono in beni materiali (prodotti finiti)», ma produrre non significa soltanto impiegare «l’energia meccanica del lavoro o delle macchine per manipolare beni fisici, ma anche creare significati, comunicazioni, relazioni, selezioni appropriate,
attraverso l’intelligenza creativa, la conoscenza e l’organizzazione».
In conclusione si può ritenere sulla scorta di quanto argomentato, che,
all’interno del discorso sulla gestione strategica e operativa delle molte e
diverse organizzazioni impegnate nel campo della cultura, i concetti di
prodotto, produzione, industria culturali, sebbene tutt’altro che neutrali
per i significati che possono evocare nel dibattito, costituiscano categorie, se intese secondo gli sviluppi più attuali, adeguate ed efficaci.
Bibliografia
A. Besana, L’arte in chiave economica. Letture e approfondimenti di economia della cultura e dell’arte, Milano, LED – Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, 2003.
A. Cicerchia, Il bellissimo vecchio. Argomenti per una geografia del patrimonio culturale, Milano,
Franco Angeli, 2002.
P. du Gay, Production of Culture/Cultures of Production, London, Sage Publications, 1997.
R. Eugeni , Introduzione. L’analisi del prodotto culturale: oggetti, approcci, nodi, in (a cura di) F.
Colombo e R. Eugeni, Il prodotto culturale. Teorie, tecniche di analisi, case histories, Roma, Carocci editore, 2001.
P. M. Hirsch, Processing Fads and Fashions: an Organization-Set Analysis of Cultural Industry
Systems, in “The American Journal of Sociology”, vol.77, No.4, 1972.
P. M. Hirsch, Cultural Industries Revisited, in “Organization Science”, vol.11, No.3, 2000.
A. Klamer , Social, cultural and economic values of cultural goods, in Vijayendra Rao and Michael
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A. Moretti, La produzione museale, Torino, Giappichelli Editore, 1999.
J. Pine II, J. Gilmore, The experience economy: work is a theatre and every business is a stage, Boston, Boston Harvard Business School Press, 1999.
M. Rispoli e M. Tamma, Beni e servizi, cioè prodotti, in “Sinergie”, n.29 (1992).
E. Rullani, Economia delle risorse immateriali: una introduzione, in “Sinergie”, n.29 (1992).
M. Tamma, Sistemi del valore e competizione nei servizi, in (a cura di) S. Podestà e F. Golfetto,
La nuova Concorrenza. Contesti di interazione, strumenti di azione, approcci di analisi, Milano,
Egea, 2000.
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Il ripristino degli spazi storici
e la prospettiva della festa
di Renato Troncon
1 . Premessa
In questo articolo cerco di presentare una prospettiva che trova collocazione negli sforzi compiuti internazionalmente in direzione della “estetica in pratica” o anche della “estetica come ricerca”. Se in un breve saggio
di qualche tempo fa1 ho tentato di mostrare il ruolo che in essa potrebbe
avere l’idea e la pratica della festa e dei festival, con lo sguardo indirizzato, in particolare, al cultural planning e quindi soprattutto al design di comunità, cerco ora, anche riprendendo alcuni spunti contenuti in quello
scritto, di effettuare un nesso un poco più complesso, quello tra festa e
progettazione del “bene culturale”. Perché questo tentativo possa essere in
qualche modo apprezzato vorrei anzitutto presentare un’idea di “bene culturale” come “ambientazione”, per farvi poi seguire un’idea di “ricerca estetica” da intendersi anzitutto come “interpretazione” e “progettazione” delle “ambientazioni” concludendo infine con la presentazione dell’idea di
festa come nucleo - alquanto originale - e dell’una e dell’altra.
2. Il ”bene culturale” come “ambientazione”
Cominciamo dal primo dei punti menzionati, dall’idea di “bene culturale”. Per quest’idea – che pur varrebbe una ricostruzione storica –
vorremmo attirare l’attenzione anzitutto sul suo contenuto paradossale, inerente allo stesso uso dell’ aggettivo che contiene e relativa alla
circostanza che non appena qualche cosa viene determinata teorica1
Aesthetics in Practice and Cultural Planning: The Perspective of 'Festiveness', in Journeys of Expression III: Tourism & Festivals as a Transnational Practice, "Review of Tourism Research",
Electronic Resources for Tourism Professionals, Texas A&M University, Vol. 2, Issue 3, giugno 2004, pp. 111-135.
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mente o praticamente come “culturale” essa perde proprio ciò che intende preservare, il carattere “culturale”. Non è nulla di poco noto e
di per sé nulla di obbligatoriamente negativo, ma nella natura critica
di questo predicato è contenuto un problema centrale che va sinteticamente fissato. Si tratta del fatto che “considerare” o “praticare” come “culturali” le opere della attività umana ovvero le attività umane
stesse significa assegnare loro un carattere secondario che non può
coincidere del tutto con il loro carattere primario che, così, diviene
sfuggente. È il paradosso delle mummie faraoniche e dell’arte funeraria, che dovevano risplendere nel buio dei sepolcri e non nella luce dello sguardo delle migliaia e forse milioni di visitatori, è il paradosso delle pale d’altare nelle sale dei musei, delle statue che passano da una ampia piazza a una più angusta sala, degli arredi di una dimora che migrano verso destinazioni altre, degli abiti e delle armi di un condottiero che terminano in una vetrina, ma è anche il paradosso di un edificio che nasce residenza e finisce come sede di istituzione pubblica, e
così via. Ovvero, in altri contesti, è il paradosso di una “cerimonia del
tè” che prende piede attraverso seminari e centri tra città di provincia
e capitali, tra Mosca e New York, o di una foggia che viene innestata
in tradizioni e gusti diversi, di una preparazione culinaria che viene
contaminata con un’altra, ecc. O, anche, è il “paradosso” di oggetti di
uso vario che transitano dall’uso quotidiano di famiglia o di comunità
alla perpetuazione affettuosa della memoria in quanto oggetti personali, di famiglia.
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Nella distanza che quell’aggettivo – “culturale” – significa si ha espressa la circostanza che alla vicenda degli oggetti “culturali” appartiene
che nuovi, altri e più o meno diversi profili si imprimono su quelli originari i quali, per conseguenza, non possono che distanziarsi nell’interpretazione. In questo modo, tipicamente, ciò che è individuato come “culturale” si presenta come un intero fatto di parti mancanti o assenti. Assente o mancante è la sua costituzione originaria, che pure viene presupposta, con lo specifico paradosso per il quale proprio quest’assenza o mancanza diviene rilevante per la sua costituzione. Un’assenza che non viene necessariamente percepita come un deficit. È la
presupposizione di una caratteristica assente e pressoché inattingibile
– come sarebbe quella di immagini consegnate al buio di un viaggio
nella morte e però trasportate ai quattro angoli del mondo nel museum
business, ecc. – a essere l’elemento di attrattiva, costitutivo ancorché
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solo presupposto, che spinge migliaia di persone a recarsi in visita a
monumenti e luoghi che né comprendono né potranno mai comprendere secondo la sua natura originaria.
E’ soprattutto in ragione di questa struttura del “bene culturale” che
appare appropriato definirlo come una “ambientazione”. Cosa sono le
“ambientazioni”? Jakob von Uexküll2 aveva esemplificato l’idea di ambiente dicendo che tale è l’insieme di una casa più il profumo delle rose che vi entrano dal suo giardino. Ma, completando il suo pensiero,
potremmo dire che l’ambiente di una casa è anche l’ancora più vasto
insieme che a vario titolo ne fa parte, dalle attese e immaginazioni alle pratiche e consuetudini che ne hanno fatto e ne fanno un certo specifico contenuto, in una riunione di aspetti molteplici ed eterogenei
che - per restare all’immagine del giardino - si presentano peraltro pressoché sempre come se esso fosse incolto, o trasformato, per lo più in
una forma “altra” che non l’originaria (e quindi destinato a vivere attraverso una memoria, una traccia, una supposizione, una proiezione,
un’interpretazione o rievocazione più o meno riuscita, ecc.).
Le considerazioni teoriche di questo specifico profilo degli oggetti in
quanto oggetti “culturali” non sono moltissime. Tra le concezioni teoriche più interessanti troveremmo quelle di derivazione filosofico-antropologica,3 a partire da quelle del citato Jakob von Uexküll (18641944) o da quelle contenute nell’impianto teorico di J. Dewey, anche
se in generale è proprio la tematizzazione della componente temporale, dell’assenza o della anticipazione delle parti, a essere trattata carentemente, come si evince con particolare evidenza nei testi di sociologia della cultura, con l’eccezione forse di quelli di S. Greenblatt
e di altri insediati sul terreno dei cultural studies.4 Pochi, in altri termini, hanno voluto tematizzare in che senso un oggetto culturale sia
2
3
4
J. von Uexküll, Umwelt und Innenwelt der Tiere, Berlin, J. Springer, 1909; Theoretische Biologie, Berlin, J. Springer, 1920, 19282; Bedeutungslehre, Leipzig, Verlag von J. A. Barth, 1940.
Vorremmo qui rinviare al nostro Helmuth Plessner il suo contributo alla filosofia dell’espressione, in M. Russo, A. Borsari, Helmuth Plessner. Corporeità, natura e storia nell’antropologia filosofica, Atti del Convegno internazionale di studi in Salerno, 27 e 28 novembre 2000, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006, pp. 135-152
Mi permetto di rinviare al mio Il “Nuovo storicismo” di Stephen Greenblatt come estetica culturale, in R. Salizzoni, Cultural Studies, Estetica e scienze umane, Atti dell’omonimo Convegno
internazionale tenuto presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Torino, Italia, organizzato da Dipartimento di Filosofia dell’Università di Torino e Società italiana di Estetica, Sabato 2 marzo 2002, Torino, Trauben, 2003, pp. 53-72.
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“forma”, intendendo con ciò non qualche cosa che si costituisce solo
attraverso il “pieno” del presente e del dato, bensì anche qualche cosa che si costituisce attraverso il vuoto delle “assenze”, dei “dati futuri”, del “passato” e degli “eterogenei” in generale. Un’eccezione alle
menzionate reticenze teoriche è certamente rappresentata dalla rappresentazione “tetradica” che McLuhan ha dato dei media, una rappresentazione che secondo noi vale per tutti gli oggetti culturali. In
essa, i “media” sono dei confini che proprio in quanto tali collegano
parti presenti a parti assenti,5 ovvero sono dei dispositivi che, proprio
come un organismo, organizzano il loro ambiente assemblando parti che non sono tutte date (si pensi alla problematica esemplificata
dalle cause finali). Tutti i media e le tecnologie possedevano, secondo McLuhan, una struttura fondamentalmente sintattica, e la sua ricerca al Centre for Culture and Technology di Toronto produsse l’idea
che si trattava per la precisione di una struttura tetradica tale che esse (a) intensificano qualcosa in una cultura, mentre, allo stesso tempo (b) rendono obsoleto qualcos’altro. Esse inoltre (c) richiamano una
fase o un fattore a lungo accantonato e (d) subiscono una modifica o
capovolgimento se spinte oltre i limiti della loro potenzialità. Il risultato è una metafora quadripartita, la tetrade appunto. Nel “glossario tetradico” che chiude il volume, con oltre una quarantina di rapide analisi per l’appunto “tetradiche” di altrettanti mezzi tecnologici e
non, si legge per questo, a proposito del “computer”, che esso (a) accelera i calcoli sequenziali logici fino alla velocità della luce (b) riduce o scavalca i processi meccanici e la logica umana in tutte le operazioni sequenziali (c) accentua la filosofia del “i numeri sono tutto”, e
riduce il numerare a calcolo per mezzo del toccare un corpo (d) passa dal simultaneo al sequenziale, accentua il peso dello spazio acustico rispetto a quello visivo per produrre il riconoscimento simultaneo
della forma. È una vera e propria “analisi” del valore di “ambientazione” del computer, ovvero della azione di ridisegno che esso opera
attraverso riprese e redistribuzioni, esclusioni e inclusioni, trasformazioni e intensificazioni o attenuazioni e che lo qualificano pienamente come una sorta di “organismo” che organizza il proprio ambiente.
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5
M. McLuhan, B. R. Powers, The global village: transformations in world life and media in the
21st century, New York, Oxford University Press, 1989, trad. it. Il villaggio globale: 21. secolo:
trasformazioni nella vita e nei media, Milano Sugarco, 1994.
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3. “Ricerca estetica”, prototipi, sguardo trasversale
Questo profilo dell’oggetto culturale ne esalta con tutta evidenza, e fin
dalla sua struttura, la componente “estetica”. I profili degli oggetti “culturali” – “beni” inclusi – si danno come complessi costituiti di parti presenti e di parti assenti e però considerate come presenti, secondo un carattere tipico dell’orizzonte dell’esteticità e secondo il tipico carattere di
“irrealtà” dei loro oggetti e, di più ancora e di nuovo in omaggio a un’altra tipica manifestazione dell’esteticità, questa azione di sintesi lungi dall’essere puramente “passiva” e puramente intellettuale ha invece caratteri attivi ed è in stretto nesso a molteplici azioni di focalizzazione, che
possono peraltro essere più o meno consapevoli.
È ora particolarmente interessante osservare che questa circostanza sembra assecondare la crescente attenzione che, nel panorama internazionale, si accorda a un rinnovato profilo dell’esteticità come “laboratorio”
e “sperimentazione”, o anche al ruolo di un cosiddetto “ricercatore estetico”.6 Perché il contenuto di questo interesse possa essere inteso andranno svolte almeno le seguenti tre considerazioni, tutte assai strettamente collegate tra loro. La prima è relativa al “carattere” dell’azione
“sperimentale” che si desidera esteticamente compiere, e consiste nell’osservare che, quali che siano gli strumenti della possibile esplorazione
e sperimentazione a quali che siano le ambientazioni di applicazione,7 è
indispensabile che essi siano all’altezza del loro compito, ovvero che siano metodi complessi adeguati e in qualche modo affini agli oggetti (le
ambientazioni) - pure complessi - ai quali essi si applicano. Questi strumenti devono poter corrispondere all’invito fatto da Goethe al proprio
metodo qualitativo nello studio del colore, essere cioè capaci di inglobare nello studio dell’oggetto la prospettiva del soggetto su di esso così
come su ciò che il colore è obiettivamente, culturalmente, esteticamente, ecc.8 In particolare, poi, gli strumenti che si impiegano devono essere adatti al carattere di “irrealtà”, di cui dicevamo, dell’oggetto culturale. Non è infatti possibile che, per così dire, sia un daltonico a dirigere
6
7
8
Il concetto di “ricercatore estetico” assomiglia ma è da noi inteso in senso più ampio che non
il concetto di “ästhetischer Arbeiter” proposto da G. Böhme. Su questo punto rinviamo al
saggio di A. Battisti in questo volume.
E sono veramente molti, dai beni culturali alle organizzazioni umane, dalle manifestazioni
culturali e naturali maggiori a quelle minori, dalla vita quotidiana a quella pubblica, dai luoghi alle lingue, agli oggetti, ai manufatti, agli spazi, i luoghi, ecc.
R. Troncon, a cura di, Jh.W.v. Goethe, La teoria dei colori. Parte didattica, 1808-1810, Il Saggiatore, Milano 1979; R. Troncon, a cura di, Jh.W.v. Goethe, La storia dei colori, 1808-1810,
Luni Editore, Milano 1997.
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il traffico, né che, fuor di metafora, gli oggetti “culturali” siano indagati con strumenti percettivi ed espositivi che non sono all’altezza del profilo immateriale e irreale che a essi compete. La seconda considerazione
è relativa alla tipologia dell’azione “sperimentale”. Se non vi è dubbio
che le sue “tecniche” non sono esclusivamente quelle della “grande arte”, non vi è però altrettanto dubbio che, secondo un orizzonte che potrebbe essere contenuto in quello della performance e delle sue diverse
forme, esse stanno almeno secondo il genere nei dintorni dell’artisticità.
La grande arte e le sue forme non vengono per nulla escluse, ma vengono inserite in un contesto il cui contenuto non sono solo i tradizionali
media artistici ma anche quelli, più semplici e naturali, rappresentati da
azioni e comportamenti nel senso più lato.9 La terza e ultima considerazione è invece relativa al “prodotto” dell’azione “sperimentale”, e consiste nell’osservare che la “sperimentazione estetica” non è genericamente
una performance, ma lo è specificamente, e ciò perché essa introduce negli oggetti ai quali si applica non qualcosa di diverso e alieno, di eccentrico, di trascendente, ma piuttosto prototipi, sperimentazioni, riformulazioni, variazioni, stress, alterazioni, risarcimenti, memorie – secondo una lista incompleta che può continuare a lungo – degli oggetti, cosicché essa non produce una trascendenza dell’oggetto ma una sua rinnovata immanenza. In questo senso vale per l’azione “sperimentale” ciò
che qualcuno ha voluto riferire come tipico della fotografia: essa non ritrae ma attraverso di essa, piuttosto, noi guardiamo e riusciamo a vedere le cose, cosicché è attraverso la performance estetica che le cose divengono ciò che sono o divengono propriamente visibili.
Esiste in effetti la possibilità di atteggiarsi in due diverse maniere nei
confronti degli oggetti e di ciò che essi sono (ovvero fanno). Nel primo
dei casi è possibile attuare un comportamento che per così dire li accetta e semplicemente li asseconda, e che li considera tendenzialmente “conclusi”, mentre nel secondo si dà un comportamento che li considera
“aperti” e per questo mette in atto una gamma di azioni varia, dalla loro cura alla loro sfida, dalla loro preservazione alla loro variazione, ecc.
Non ho qui modo di sviluppare granché questo spunto – che riprende
le considerazioni appena fatte sull’oggetto culturale e il suo carattere
112
9
Utile a inquadrare la questione possono essere F. Matzner, Public Art , A Reader , Ostfildern,
Hatje Cantz Verlag, 2004; A. Neill and A. Ridley, a cura di, Arguing about Art: Contemporary
Philosophical Debates, McGraw-Hill, 1995; J. Hoffmann, J. Jonas, Perform, London, Thames
& Hudson, 2005.
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“estetico” – però è evidente che una cosa è scegliere il bottone più adatto a una giacca, mentre è già altra cosa esporla in una vetrina o addirittura come se si trattasse di una scultura oppure, in genere, sperimentarla e verificarla attraverso azioni di varia natura che nel loro insieme – e
questo è il momento “sperimentale” e “conoscitivo” – valgono come sue
azioni di studio. Una cosa è indossarla per quello che la giacca per così
dire “vorrebbe” o si “aspetta” da noi e “prevede” per noi, un’altra è saggiarne le possibilità e ”re-inventarla”. Una cosa è, ancora per così dire,
farsene guidare e accettarla per quello che è, un’altra è variarla aggiungendo o levando, decontestualizzando o ricontestualizzando, apponendo modifiche fino a esporla curando l’illuminazione dell’ambiente in cui
si trova su degli scaffali, operando attraverso un qualsiasi mezzo che attiri l’attenzione sulla polarità tra quello che quel capo di abbigliamento
è (atteggiamenti della cura) ovvero le faccia fare altro da ciò che fa usualmente (poetiche di estraniazione, di alterità rispetto a se stessa). E considerazioni analoghe possono essere svolte per tutti gli oggetti “culturali” che si possano individuare, dagli edifici agli spazi, agli ambienti tanto del micro quanto del medio e del macrocosmo.
Ciò che la “ricerca estetica” dunque fa non è di ritrarre, ma di ri-produrre e quindi per così dire di aggiungere la produzione al prodotto con
lo scopo di comprendere meglio quest’ultimo. Il “trattamento estetico”
(che usualmente e nella prospettiva classica prenderebbe il nome della
cosiddetta “opera d’arte”) è un trattamento che, in un’erronea ma assai
diffusa vulgata, si ritiene che produca una semplice versione del proprio
tema, ma senza crearne un profilo aggiuntivo ovvero un suo “prototipo”, una sua versione. In realtà, proprio il carattere” giocoso” dei comportamenti e dei trattamenti estetici (dirò però tra pochissimo che a mio
modo di vedere è piuttosto un carattere “festoso”) dice che essi non si
giustappongono alle cose di cui si occupano (come un quadro di paesaggio che se ne starebbe sul cavalletto davanti al paesaggio ritratto), ma
che invece per così dire entrano dentro l’oggetto stesso e lo ridisegnano
(come un abito che fa il monaco).
4. L’idea di festa
Queste posizioni relative alla natura della “ricerca “estetica” credo siano del massimo interesse per prospettare una responsabilità verso l’“ambientazione” di tutte le azioni indirizzate ai “beni culturali”, e ciò in ragione dell’azione prospettica che esse esercitano praticamente e non so-
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lo teoricamente. Le molte e varie azioni che si indirizzano a un “bene
culturale” sono in questo senso tanto nel bene quanto nel male, e analogamente a quanto teorizzato circa il sapere implicito nel contesto della ricerca scientifica da M. Polany,10 delle azioni che svolgono una rilevante funzione ausiliaria, sussidiaria a conseguenti focalizzazioni. Così, per esempio, quando nel contesto di una azione di recupero o di ripristino si lavora sui materiali di costruzione di un edificio, quando si
lavora sugli intonaci che ne coprono la muratura, non si fa tanto e solo della filologia o della preservazione e della interpretazione, mentre si
dà luogo a delle vere e proprie azioni di creazione e ri-creazione di
un’ambientazione agendo sulle sue stratificazioni e la sua intera “filiera”. È su questo sfondo che la prospettiva di un’integrazione del significato e della pratica della festa e della festosità nella “ricerca estetica”
può diventare interessante. Qui si tratterà però, come vedremo, di considerare la festa non come comportamento circoscritto e storicizzato –
festa come causa efficiente della produzione di… feste – appartenente
a una determinata cultura o religione o profilo storico, come fenomeno positivo, ma come uno “stile” dell’azione umana, uno stile “ambientale” votato alla generazione di ambienti intrecciati a molti altri e
che molti altri attraversano.
Allo scopo di questa considerazione chiediamoci, anzitutto, cosa è una festa, e riassumiamone poi gli indici principali.11 Scontato un interesse prevalentemente tipologico alle diverse manifestazioni della festa, più che alle forze che esse sono in grado di mobilitare e alle prospettive che esse sono in grado di aprire nel “design di una ambientazione”, nei saggi principali e più solidi in materia,12 di matrice antropologica o di storia delle religioni, le dimensioni e i profili di una festa sono quanto di più interessante e importante. In questi studi la festa riceve una quantità di importanti determinazioni. Essa è definita come un’azione che una comunità
compie, in forma pubblica o privata, con lo scopo di rendere più o meno
istituzionale ma comunque organizzata (regolata) l’espressione di un debito, un ringraziamento, una memoria, un valore, una credenza, ecc. Una
10
114
11
12
M. Polany, Conoscere ed essere, 1969, trad. it. Roma, Armando Editore, 1988.
Riprendo qui più sinteticamente quanto ho esposto nel mio citato The Perspective of 'Festiveness'.
K. Kerény, Die Religion der Griechen und Römer, 1963; o ancora di K. Kerény, Wesen des Festes,
in “Paideuma”, 1 (1938/ 1940), pp. 59-74; W. Ward Fowleer, Roman festivals of the period of the
Republic, London 1908; G. Vaccai, Le feste di Roma antica, Torino 1927; G. Lieberg, Die Bedeutung des Festes bei Horaz, in Synusia, Festgabe für W. Schadewaldt, 1965, pp. 403-427.
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festa, inoltre, è sempre delimitata rispetto al tempo e allo spazio profani,
così che la festa occupa sempre in maniera specifica e distintiva un proprio tempo e un proprio spazio che sono contemporaneamente e dentro
e fuori il quotidiano. Questa alterità può essere maggiore o minore, e può
prescrivere comportamenti conformi ai partecipanti alla festa. Nelle feste
hanno peraltro luogo una quantità di eventi quali sacrifici e banchetti, lotte e competizioni, ludi, danza, musica e canto, travestimenti e ornamentazioni, ma trovano anche posto allestimenti di varia ampiezza e natura
che possono prevedere una quota maggiore o minore di arti nel senso usuale. Le feste sono anche, assai spesso, in relazione a un’occasione mitica o
storica (fondazioni di comunità, vittorie, incoronazioni, assunzioni di cariche, ecc.) che viene peraltro caratteristicamente interpretata a sua volta
in nesso a un dono (grazia, donazione) o comunque come un accadimento
che non può essere interpretato come dovuto soltanto a noi stessi. Nella
tipica struttura circolare della festa chi ha ottenuto un dono nuovamente
lo riceve nella cornice della festa, di nuovo rende grazie al donatore e di
nuovo lo celebra. In contropartita egli offre un qualche sacrificio, spesso
in rappresentazione di un intero gruppo di cui si dimostra così la disponibilità al sacrificio e alla dedizione.
Tutti questi aspetti sono ricchi di fermento e di suggestione, oltre che
“filologicamente” coretti, ma, anche in conseguenza dell’impostazione
delle discipline che li hanno saputi evidenziare, non si emancipano dall’idea di festa come fenomeno che appartiene a un determinato passato
o a una determinata cultura e religione, e dunque piuttosto come fenomeno relativo. Questa relatività non viene essenzialmente superata (anche in questo caso nonostante le apparenze anche assai apprezzabilmente
contrarie), neppure negli studi filosofici di matrice etica ed ermeneutica che sono stati compiuti da grandissimi studiosi di lingua tedesca come Romano Guardini, Josef Pieper, Hans Georg Gadamer, Helmut
Kuhn, Odo Marquard, e neppure in quelli del francese Roger Caillois.
Ciò è evidenziato abbastanza bene proprio dagli studi del più autorevole di essi in materia di festa, quello Josef Pieper (1904-1997), tomista
tedesco molto noto anche nel mondo anglosassone.13 Certo non ci per13
Josef Pieper è stato autore di numerosi e fortunatissimi lavori su festa e ozio, tra i quali Musse und Kult, München, Kösel, 1948, 19959; Zustimmung zur Welt. Eine Theorie des Festes, München 1963 (19642); Beschreibung eines indischen Festes, in: “Hochland”, 56 (1964), pp. 333344, che vale anche come resoconto dei suoi viaggi in Oriente alla ricerca delle sue tradizioni di festività.
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metteremmo mai di criticare o in qualche modo diminuire un’autorità
quale la sua, l’autorità di un uomo la cui notorietà è altissima anche interculturalmente se consideriamo che a Tokyo, nel non lontanissimo
1987, su iniziativa di Y. Matsuda, gli è stato dedicato un simposio intitolato On “Yutori”- Symposium on J.P.’s philosophy of leisure. Josef Pieper
ha più che ragione ed è più che nel senso da noi auspicato quando ci insegna che la radice della festa è nell’otium e nella contemplazione, e che
festeggiare è una sorta di conoscere. Scrive testualmente Pieper nel suo
citato Zustimmung zur Welt, dell’anno 1963, che «un giorno di festa non
è un giorno di astensione dal lavoro», ma molto di più dal momento che
«celebrare una festa ha lo stesso significato che “divenire visibile (beschaulich)” e quindi senz’altro incontrare così le realtà più alte sulle quali poggia l’esistenza umana», e aggiunge che una festa «non è manifestazione di ricchezza, di denaro, ma di ricchezza esistenziale». «La festa –
continua Pieper – vive di una affermazione, e una festa diviene tale solo quando l’uomo conferma la bontà dell’essere attraverso la risposta della gioia. L’uomo, attraverso la celebrazione della festa, supera i confini
dell’esistenza temporale e locale».
Tutto questo è assolutamente centrale ma se vogliamo, e comunque in
un senso che credo non sarebbe dispiaciuto a Pieper, qualcosa manca a
questo profilo della festa, che le appartiene essenzialmente, vale a dire la
sua dimensione estetica, le idee cioè concernenti la possibilità di mettere la festa “in pratica”. Le osservazioni di Pieper e degli altri succitati autori procurano molti adepti alla causa della festa ma non prevedono la
menzione di strategie adeguate a riattualizzare il suo carattere “generativo” – cosmogonico – atte a ristabilire la sua capacità di “disegnare” un
ambiente che sia il “nostro” ambiente. Fa parte - se così vogliamo dire del carattere relativamente “tragico” di questo e di altri studi la loro incapacità di far seguire alle diagnosi una terapia, scontato il carattere altrimenti infausto delle prognosi.
116
Lasciamo in secondo piano le ragioni per le quali il carattere generativo
della festa sarebbe rimasto tutto sommato escluso dall’orizzonte. Le ragioni sono importanti, e ineriscono agli accadimenti che Jean-Jacques
Rousseau (1712-1778) con veemenza condanna nella sua famosa Lettre
à d’Alembert sur les spectacle, del 1758, ovvero alla circostanza per la quale il centro della scena dell’estetica a partire dal Settecento europeo sarebbe stato occupato dal teatro, dalla dissimulazione, dalla spettacola-
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rizzazione, dalla vanità e più in genere – così potemmo proseguire - dall’enfasi sul gioco, sull’immaginazione, sul romanzesco ma anche sulla
cosiddetta funzione pedagogica dell’arte, sul culto di una sensibilità senza limiti, sull’idea dell’arte come regno (separato) della libertà, ecc. Tutte circostanze che – come rileva Rousseau – potrebbero prendere il sopravvento (ed è quello che peraltro è accaduto) sulla festosità come capacità e legittimità di aprire un mondo, una capacità che è però proprio
il carattere che ci interessa e che consideriamo complementare alla suddetta svolta in direzione della “ricerca estetica”.
In realtà, se proponiamo l’idea della festa e in genere la prospettiva della festosità come momento della ricerca estetica è perché riteniamo che
questa prospettiva sia organica a quella offerta da una piuttosto vasta
gamma di strumenti e pratiche artistiche che possono venire impiegate
con lo scopo - e qui la terminologia è piuttosto ampia - di “testare”,
“saggiare”, “rigenerare” l’oggetto dell’ “analisi” (sintesi). La festa è uno
strumento di indagine estetica, solo che essa rimpiazza qualitativamente la contemplazione, sostituendola con la “azione”. In essa il palcoscenico è offerto ed è tenuto dall’oggetto stesso.
5. Festa, “sperimentazione” estetica e “carattere” dei luoghi
Siamo arrivati alla conclusione del nostro contributo. La possibilità di
applicare la prospettiva della festosità agli spazi storici crediamo possa
essere già intravista con una buona evidenza nel nesso delle considerazioni che hanno appena preceduto. In particolare, la “ricerca estetica”
intesa come “messa in opera dell’esteticità” potrebbe ottenere un fortissimo impulso dalla prospettiva della festosità. La festa non è infatti un
evento come un altro mentre è una “direzione”, una sintassi, un metadiscorso. Essa non è composta di singoli fatti specifici, quanto di atteggiamenti e per così dire di un tono generale che ne determinano il carattere. Così come una cultura gastronomica è più uno “stile” di preparazione che non una somma di semplici ingredienti, altrettanto una festa non è fatta semplicemente di musica e pubblico, celebrazioni, riti,
ecc. Allo scopo di rendere evidente questo carattere “metadiscorsivo” e
allo scopo di renderne possibile l’“applicazione” come strumento della
“ricerca estetica” vorremmo riassumere perciò gli indici della “festosità”
di una festa come segue, rispetto ai seguenti aspetti:
– capacità di riconoscere, anche cognitivamente, i debiti e i doni ricevuti da qualche cosa (che cosa ci donano le cose che ci circondano?);
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– espressione ttiva di gratitudine e generosità (la festa è sempre visibile riconoscimento dei debiti e visibile risarcimento degli stessi);
– facilità nell’istituzione di relazioni e nessi (tutto in una festa è poroso);
– inclusività (la festa amalgama i propri partecipanti e i propri oggetti);
– partecipazione di tutti a tutto (la festa ammette tutti sul podio);
– eccezionalità nell’istituzione di relazioni (la festa è meravigliosa);
– non stop creativity (la festa è un continuum della creatività);
– non pianificazione e/ o imprevedibilità degli accadimenti (la festa è
sorprendente);
– decostruzione delle gerarchie (la festa è sottilmente anarchica);
– re-simbolizzazione dei luoghi e delle cose (la festa trasfigura e riutilizza cose e spazi);
– straordinarietà del quotidiano (la festa è capace di elevare il quotidiano e il domestico fino allo straordinario);
– quotidianità dello straordinario (la festa è capace di portare eventi
straordinari nel quotidiano);
– travalicamento degli spazi e dei tempi (la festa sa collegare gli antipodi del mondo);
– ritualizzazione (la festa volentieri fissa e cristallizza i comportamenti);
– sviluppo di una narrazione (la festa ambienta sempre storie anche attraverso ripetizioni, citazioni, contaminazioni, ecc.);
– creazione di scenografie e di focalizzazioni (la festa inscena e richiama l’attenzione su determinati atti ed eventi);
– nesso alle potenze della vita (la festa è sempre in collegamento con
chi possiede le chiavi dell’esistenza e di più ancora).
118
Questi indici - suscettibili di miglioramento - mettono a disposizione
un concetto di festa che non designa tanto contenuti e forme specifiche
le quali, più di altre, sarebbero rappresentative di ciò che una festa è. Essi designano invece una capacità relazionale assai peculiare che è pure non in ultimo e con tutta evidenza - assai più intensa e “metafisica”, assai più collegata alle dimensioni cardinali degli eventi di quanto non sia
quella comunemente realizzata dal gioco. Il “senso” della festa non è consegnato a questo o quel comportamento, mentre ci appare piuttosto assai affine a quell’atteggiamento tipicamente antropologico che già abbiamo menzionato e che consiste nel creare nuovo senso “stressando”,
“metamorfosando” o comunque in vario modo “trattando” e “arric-
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Il ripristino degli spazi storici e la prospettiva della festa
chendo” o “riposizionando” le vie attraverso le quali un certo ambiente
produce tipicamente se stesso. La festosità appare essere, negli indici
elencati, una presa in incarico del tutto speciale delle ambientazioni, un
incarico che riverbera un aspetto rilevante della stessa vitalità umana e
che, lontano dall’essere semplice attività ricreativa di individui e gruppi, sembra capace di generare e rigenerare “nessi”, “prospettive”, “contenuti”, “alleanze” di un qualsiasi contesto.
Non vi è dubbio che per certi aspetti, ed esattamente come si aspettava
Rousseau, ciò equivalga a mettere la festa in panni civili, e non vi è dubbio che, al contempo, ciò significhi aprire il capitolo della reale applicabilità di quanto stiamo scrivendo, una possibilità alla quale crediamo ma che
- lo dobbiamo ammettere - non è ancora ovvia. In realtà, questa capacità
della festa si potrebbe collocare felicemente rispetto al “carattere” di un
luogo e di una “ambientazione” in genere. 14 Non vi è per esempio dubbio che interventi di recupero o ripristino, di riqualificazione e varia destinazione d’uso a carico di edifici, monumenti, spazi, ecc., se devono certamente essere sorretti da una adeguata cultura storica, filologica, architettonica, tecnologica, stilistica, ecc., non possono fondarsi esclusivamente su di esse. Nessuna di queste competenze può bastare a trattare ambientazioni complesse come gli spazi “storici”, e i “beni culturali” in genere e la loro stratificazione, se esse non sono innervate da una competenza relativa alla “vitalità” che è specificamente e certamente incorporata in quegli spazi e in quei beni. Vi deve essere l’intuizione che qualche cosa di peculiare è diventato realtà, che una forma di vita si è realizzata “in”
e “attraverso” materiali e spazi, ecc., e che in questo modo non siamo semplici spettatori ma vera parte in causa di edifici e luoghi. Vi deve essere
l’intuizione che i luoghi posseggono un “carattere”, che possono essere dimensioni dell’operosità, della rilassatezza, della domesticità, signorilità,
quotidianità, sacralità, divertimento, e molto altro ancora, e che in genere posseggono una peculiare e specifica “vitalità” quale parte rilevante della loro ambientazione oltre la dimensione puramente materiale.
Ebbene, noi pensiamo che l’applicazione degli indici della festa che abbiamo elaborato, e in genere una sorta di “percezione festosa” di “spazi”
e “tempi” ma anche di “azione festosa” che li investa possa svolgere un
14
Questa idea del “carattere” di un luogo è assai simile all’idea di atmosfera proposta da G.
Böhme. Per questo si veda il saggio di A. Battisti in questo volume.
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ruolo fondamentale nell’evidenziazione e nello stesso recupero dei “caratteri” che sostanziano la specifica vitalità di una qualsiasi ambientazione. Un’applicazione del profilo ciclico della festa potrebbe per esempio facilitare l’evidenziazione della peculiare temporalità e spazialità di
molti ambienti e di molti loro aspetti (attraverso l’osservazione di identità, permanenze, consuetudini, ripetizioni, e così via). Un’applicazione
della prospettiva del “risarcimento” o “ringraziamento” per il dono ricevuto potrebbe aiutare a individuare il gradiente di “gratitudine” che un
luogo evidenzia o del quale si potrebbe ritenere abbia bisogno per poter
restare in identità con se stesso e la propria vicenda. Un’applicazione della prospettiva della “porosità” potrebbe dare informazioni circa la capacità di accoglienza di una ambientazione, mentre la prospettiva della
creatività potrebbe dire quanta libertà può essere veramente attribuita a
un qualsiasi oggetto, e così via.
Ci rimane molto da dire ma, scontato il carattere ancora esplorativo e
non esclusivo delle considerazioni che abbiamo proposto, ci sembra che
l’esercizio concreto di atti che abbiamo appena indicato come generosi,
inventivi, riparatori, di cura, ecc., sia il terreno più autentico sul quale
la nostra storia e la storia di quei “beni” si possono incontrare, sciogliendo il problema dell’interpretazione della loro identità e profondità
come se questo fosse anche un problema della nostra esistenza: solo così il “bene culturale” può vivere perché sopravvive in una presenza che è
tanto sua quanto nostra.
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Beni culturali
e/o patrimonio culturale
di Lauso Zagato
I) La nozione di bene culturale: sua derivazione internazionalistica
1. Dalla Convenzione dell’Aja del 1954 ai successivi strumenti pattizi ed agli ordinamenti nazionali. 2. La nozione di bene culturale nella Convenzione dell’Aja.
II) Beni culturali e patrimonio culturale
3. La nozione di patrimonio culturale dei popoli: chiarimenti introduttivi. 4. Cultural Property v. Cultural Heritage? 5. Una approccio
teorico convincente. 6. Il rapporto tra nozione di bene culturale e di
patrimonio culturale nello sviluppo della prassi pattizia internazionale. 7. I più recenti sviluppi: in particolare la Convenzione per la
salvaguardia del patrimonio culturale intangibile del 2003. 8. Significative acquisizioni conseguite recentemente da taluni ordinamenti nazionali. 9. Cenni (preoccupati) sul nuovo Codice dei Beni culturali e del Paesaggio italiano.
I) La nozione di bene culturale: sua derivazione internazionalistica
1. Il primo testo giuridico ufficiale in cui compare l’espressione “beni
culturali” è la Convenzione dell’Aja del 1954 sulla tutela dei beni culturali nei conflitti armati1. Prima di discutere le definizioni fornite dal
Preambolo e dall’art. 1 della Convenzione, è opportuno riflettere sul significato e sulle implicazioni di tale constatazione.
1
In A. Malintoppi (a cura di), La protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, Giuffré, Milano, 1966, pp. 1-54. Tutte le Convenzioni e le Raccomandazioni adottate sotto l’egida dell’UNESCO sono rintracciabili al sito http://www.unesco.org/general/eng/legal/index.shtml, cui si rinvia quando non diversamente precisato.
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Sul piano dell’ordinamento giuridico internazionale quanto detto significa che non sussistono dubbi circa la primogenitura, per quanto attiene al profilo storico-elaborativo della nozione, del diritto internazionale bellico rispetto al diritto internazionale di pace. Nell’impossibilità di
approfondire, ci limitiamo a richiamare due momenti forti dell’elaborazione operata dai teorici del diritto di guerra del XVII secolo: da un
lato, in una delle sue opere più note (De Jure Belli, terzo volume) Alberico Gentili dedica un capitolo, il VI, al problema della tutela delle opere d’arte nei conflitti armati, giungendo peraltro a concludere con addolorato realismo che per il diritto internazionale «victos ornamentis
spoliari licet»; dall’altro lato, in un passo di straordinaria sensibilità moderna, il meno noto Giustino Gentile, alla fine di quel secolo, sostiene
(Dissertatio de eo quod in bello licet) la necessità di non distruggere i beni culturali per salvaguardare l'interesse delle generazioni future al mantenimento del patrimonio culturale degli antenati. Soprattutto, parlando di «ornamenta urbium, statuae inquam, picturae, aedes, templa, porticus, et similia», Giustino Gentile muove verso una definizione di bene culturale riscattata dall’appiattimento sulle «cose d’interesse religioso culturale e artistico» e sugli edifici dedicati «ai culti, alla carità ed all’istruzione, alle arti e alle scienze», di cui ancora alle Convenzioni dell'Aia relative alla guerra terrestre e navale del periodo 1899-1907, fornendoci al contrario una definizione sorprendentemente vicina a quella contenuta nel testo della Convenzione dell’Aja del 1954.
La primogenitura del testo pattizio in esame in relazione alla definizione di bene culturale non è peraltro relativa, ma al contrario assoluta. Si
intende dire con ciò che la nozione di bene culturale coniata dalla Convenzione del 1954 non si limita a sostituire quelle fino a quel momento in uso a livello internazionale, ma si impone del pari ai singoli ordinamenti nazionali, per essere utilizzata nel quadro delle rispettive discipline di diritto interno, di civil law come di common law. È quanto risulta confermato dalla migliore dottrina, nazionale come straniera; decisiva a quest’ultimo proposito l’autorevole opinione di chi, analizzando la Convenzione, constata che «Article I represents the first legal usage, in a binding legal context, of the term “cultural property” in the English language»2.
Per l’Italia, depongono nel senso qui indicato i lavori della Commis2
Così (p. 33) R. O’Keefe, The Meaning of ‘Cultural property’ under the 1954 Hague Convention,
in NILR, 1999, pp. 26-56.
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sione Franceschini culminati nella Relazione del 1967 e nella successiva inaugurazione del Ministero dei beni culturali ed ambientali. Per
la dottrina, si richiama la condivisibile valutazione secondo la quale
l’adozione della nuova terminologia, sorta in ambito internazionale,
ha consentito al legislatore nazionale «il definitivo abbandono della
concezione estetizzante che è alla base delle due fondamentali leggi
del 1939»3 ( trattasi rispettivamente della legge 1 giugno 1939 n. 1089
per la “Tutela delle cose di interesse artistico e storico”, c.d. legge Bottai, e della legge 29 giugno 1939 n. 1497 sulla “Protezione delle bellezze naturali”).
Quanto ai due Codici dei beni culturali succedutisi repentinamente dopo un immobilismo di 60 anni, e precisamente il D.lgs. 29 ottobre 1999
n. 490 contenente il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di
beni culturali e ambientali, sostituito il 27 gennaio di quest’anno dal Codice dei beni culturali e del paesaggio,4 si avrà modo di soffermarsi brevemente in conclusione sulla nozione di bene culturale contenuta in particolare nel secondo di questi.
Al di fuori dell’ambito di cultura giuridica occidentale l’omogeneità
peraltro è di facciata. In particolare gli ordinamenti degli Stati mediorientali (Paesi arabi e Israele) presentano sì nelle rispettive traduzioni
della Convenzione del ’54 espressioni corrispondenti a “bene culturale”. Rifiutano peraltro di fare altrettanto nella legislazione interna, giudicando troppo “occidentale” – spiegherò in seguito perché – tale nozione, e utilizzando in sua vece l’espressione “antichità”. In particolare la Legge egiziana per la protezione delle antichità del 1983 considera (art. 1) antichità tutti i beni mobili e immobili prodotti da civiltà
diverse, che costituiscono una creazione artistica, scientifica, letteraria
o religiosa dell’era preistorica o storica, purché abbiano più di 100 anni e siano testimonianza delle civiltà che hanno abitato l’Egitto o abbiano con esso un legame storico. In termini convergenti si esprimono le legislazioni siriana, giordana, libanese, irachena (prima della de3
4
T. Alibrandi, Beni culturali I) Beni culturali ed ambientali, in Enc. Giur., XX, 1999, pp. 1-4.
In senso conforme: T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali ed ambientali, Milano, 2001, p. 26;
F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, 2002, pp. 35-36; A. PAPA,
Commento all’art. 1, in A. Papa e altri ( a cura di), Testo unico sui beni culturali. Commentario
al d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490, Milano, 2000, p.4.
D.lgs. n. 42 (Gazz. Uff. n. 45 del 24 febbraio 2004 – Suppl. Ord. n. 28), emanato alla stregua della Legge n. 137 del 6 luglio 2002 (in Gazz.Uff. 158 del 8 luglio 2002) recante Delega
per la riforma dell’organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio nonché di Enti
pubblici, ed in particolare del suo art. 10 (delega per il riassetto e la codificazione in materia
di beni culturali ed ambientali, spettacolo, sport, proprietà letteraria e diritto d’autore).
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bellatio di tale Stato ad opera di una coalizione militare di vari Stati
costituitasi ad hoc); solo alcune varianti, non decisive ai fini che qui rilevano, presenta dal canto suo la normativa israeliana.
La nozione di antichità, giova segnalare, è senz’altro adatta per i beni archeologici, che certo costituiscono la parte più significativa del patrimonio culturale di quei Paesi, ma non risulta idonea ad esprimere la
complessità delle relazioni codificate, sempre più a stento del resto5, nell’espressione beni culturali. Vedremo più avanti come alcuni ordinamenti nordafricani abbiano invece di recente saputo operare innovazioni giuridiche di grande interesse nella materia6.
2. È giunto il momento di esaminare più a fondo la nozione di bene culturale. Ciò non potrà che avvenire alla stregua di un’analisi, in primo
luogo, della definizione contenuta nel Preambolo e nell’art. 1 della Convenzione del 1954.
Il Preambolo, dopo aver rilevato come i beni culturali abbiano sofferto
gravi danni durante la seconda guerra mondiale, esprime, ai considerando 2 e 3, la convinzione delle Parti contraenti che «i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo tali beni appartengano, costituiscono un
danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, perché ogni popolo
contribuisce alla cultura mondiale» (corsivo aggiunto) e, rispettivamente, che la «conservazione del patrimonio culturale presenta una grande
importanza per tutti i popoli del mondo» ed è necessario assicurarne la
protezione internazionale. L'art. 1, dal canto suo, fa rientrare nella nozione di bene culturale dapprima, alla lettera a), i beni mobili o immobili, di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli, tra i
quali in primis «monumenti architettonici, di arte o di storia, religiosi o
laici». La dettagliata elencazione prosegue con: «le località archeologiche; i complessi di costruzioni che, nel loro insieme, offrono un interesse storico o artistico; le opere d'arte; i manoscritti, i libri, ed altri oggetti d'interesse artistico, storico o archeologico; nonché le collezioni
scientifiche e le collezioni importanti di libri o di archivi o di riproduzione dei beni sopra definiti».
Alla lettera b), vengono in rilievo gli edifici «la cui destinazione principale ed effettiva è di conservare o di esporre i beni culturali mobili defi124
5
6
V. oltre, parr. 3 ss.
Per una panoramica: F. Mucci, The Legal Protection of Cultural Heritage: A Comparative Analysis of Some Mediterranean National Legislations in the Light of the Relevant International Conventions, in Com.Int., 2003, pp. 287-300.
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niti al capoverso a)»: quindi musei, grandi biblioteche, depositi di archivi, ma anche rifugi destinati a raccogliere e salvaguardare i beni di cui
alla lettera a) in caso di conflitto armato. Infine la lettera c) ricomprende nella nozione di bene culturale quei «centri comprendenti un numero considerevole di beni culturali quali definiti alle lettere a) e b)», e definiti a loro volta centri monumentali.
Particolare interesse riveste, tra gli esempi fatti in relazione ai beni della
categoria a), la nozione di monumento: nella logica di detta disposizione, essa si riferisce a costruzioni e strutture che abbiano valore (architettonico etc.) di per se stesse, indipendentemente da ciò che contengono. Si tratta di una nozione non necessariamente coincidente con quella di cui alle singole normative nazionali, dal momento che si prende in
considerazione la natura di tali oggetti, non il loro status giuridico negli
ordinamenti interni.
Peraltro, l'eco della definizione contenuta all'art. 1 della Convenzione
dell’Aja negli ordinamenti interni (anche di Paesi che non hanno ratificato la Convenzione) e l’utilizzo del termine Monumenti nello stesso significato anche in altri strumenti giuridici elaborati dall’UNESCO nonché nell’art. IV dell'Allegato 8 al General Framework Agreement for Peace in Bosnia and Herzegovina (Accordo di Dayton)7, che prevede la creazione di una Commissione per la preservazione dei Monumenti Nazionali, intendendosi come Monumenti Nazionali i beni ufficialmente designati come dotati di importanza culturale, storica, religiosa o etnica,
hanno consolidato notevolmente la nozione di Monumento nel senso di
cui alla Convenzione dell’Aja.
II) Beni culturali e patrimonio culturale
3. Non c'è unanimità in dottrina circa il significato da attribuire all'espressione «di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli» di cui all'art. 1 lett. a) della Convenzione dell’Aja del 1954. Orbene,
da un'attenta lettura dei considerando 2 e 3 del Preambolo, risulta chiaramente doversi intendere per patrimonio culturale dell'intera umanità
la somma materiale dei rispettivi patrimoni culturali propri dei diversi
Paesi. Anche successive Raccomandazioni dell'UNESCO chiariscono
poi che, con l'espressione in esame, l'art. 1 lett. a) della Convenzione la7
In International Legal Materials, 1996, pp. 141 ss.
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scia ad ogni singolo Stato l’individuazione di quali siano detti beni. L'
interpretazione opposta, e restrittiva, dell'art. 1 della Convenzione, secondo cui la stessa protezione generale conferita dalla Convenzione riguarderebbe opere uniche, di straordinario e particolare valore, pur godendo di autorevoli padrini8, e pur essendo tuttora dotata di qualche seguito in dottrina, va scartata. Del resto, la prassi di pochissimi Stati nel
tempo si è ispirata a tale interpretazione: Polonia, SFRY (finchè è durata) e, con maggior convinzione, Spagna.
La differenza tra le due interpretazioni, anche e soprattutto sotto il risvolto delle conseguenze pratiche, è profonda: una cosa è infatti considerare la protezione generale di cui alla Convenzione dell’Aja del 1954
come applicabile a centinaia di migliaia (quanto meno) di beni culturali; altra cosa è voler raccordare detta protezione generale con quella, giocoforza elitaria in quanto rispondente a finalità diverse, offerta dagli artt.
8 ss. della Convenzione sulla salvaguardia del patrimonio mondiale culturale e naturale di Parigi del 28 novembre 1972, e che governa la costruzione delle due Liste stabilite dall’art. 11: la Lista del Patrimonio mondiale e la Lista del Patrimonio mondiale in pericolo. D’altro canto, anche
la Convenzione del 1972, non diversamente da quella dell’Aja del 1974,
impone agli Stati parte (art. 3) di definire e delimitare, quindi (art. 4)
di «assicurare l’identificazione, la tutela, la conservazione, la valorizzazione e la trasmissione alle future generazioni» del patrimonio culturale
e naturale di cui rispettivamente agli artt. 1 e 2, riferendosi con ciò all’interezza dei beni culturali e naturali identificati dalle autorità di detto Stato, e non solo a quei pochi destinati alle due Liste menzionate.
Ma vi è di più. L'interpretazione sottoposta a critica ha una valenza inevitabilmente egemonica: egemonia consistente nella rilevanza attribuita al gusto personale degli operatori giuridico-culturali che dovrebbero
operare la cernita. Tra gli autori che seguono l’interpretazione restrittiva qui criticata impazza poi una variante del.. giuoco della torre, nella
fattispecie dei beni culturali da salvare e da buttare. Pare opportuno allora risparmiare al lettore una aneddottica a volte disarmante; non si può
invece non denunciare l’inevitabile avvento, ove prevalesse l’interpretazione qui criticata, di una sorta di larvato imperialismo da parte delle culture attualmente prevalenti sulla scena mondiale. Trattasi esattamente,
del resto, di quel peccato originale che, ove non adeguatamente corret8
Per tutti S. Nahlik, Protection of Cultural Property, in UNESCO, International Dimensions of
Humanitarian Law, Ginevra, 1988, pp. 203 ss.
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to, rischia oggi di travolgere i pur notevoli successi ottenuti, grazie all’efficace strumento costituito dalle due Liste, dalla stessa Convenzione
sulla salvaguardia del patrimonio culturale e naturale del 1972.
Ecco quindi una prima, parziale conclusione: il patrimonio culturale dei
popoli è la somma dei patrimoni culturali dei singoli Paesi. Se ne evincono due conseguenze:
– tocca agli Stati stabilire quali sono i loro beni culturali (alternative apparentemente più democratiche si trasformano sempre in imperialismo culturale);
– la nozione di protezione dei beni culturali è omnicomprensiva, e non copre solamente quei beni culturali cui l’ordinamento giuridico attribuisce uno speciale valore; fanno eccezione alcune soluzioni ad hoc, cioè speciali, quali le due citate (Lista del Patrimonio mondiale e Lista del Patrimonio mondiale in pericolo) e la protezione speciale (o rafforzata) prevista della Convenzione dell’Aja del 1954 (dal suo secondo Protocollo).
4. Operato questo chiarimento, l’attenzione si deve spostare sul nesso
tra le due espressioni beni culturali (cultural property) e patrimonio culturale (cultural heritage), che si è visto risultare compresenti nelle disposizioni citate. Sull’intrecccio/antinomia tra le espressioni giuridiche in
esame si sono sviluppate nei decenni successivi alla Convenzione del
1954 intense polemiche che hanno messo a confronto le sedi deputate
all’elaborazione della politica culturale internazionale.
Va richiamata in particolare la contrapposizione, la cui origine risale al periodo immediatamente successivo alla decolonizzazione, tra preteso carattere universalistico delle Convenzioni dell'Aja del 1954 e di Parigi del 1972
e preteso carattere protezionistico, causato dall'onda montante del nazionalismo culturale cavalcata soprattutto dai Paesi in via di sviluppo, della
Convenzione UNESCO del 1970 sulle misure da adottare per interdire ed
impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei
beni culturali; caratterizzata, quest’ultima, a parere di parte della dottrina9,
dall'enfasi posta sulla nozione di patrimonio culturale nazionale.
La polemica non si è mai completamente sopita, le ragioni terzomondiste presentandosi spesso intrecciate con la polemica politica antiliberista in ambito culturale: resta che da un lato vi è chi10 ancora di recente osserva come la materia risulti poco adatta ad essere imprigionata in
9
10
V. J. Merryman, Two Ways of Thinking About Cultural Property, in AJIL, 1986, pp. 831-855.
J. Blake, On Defining the Cultural Heritage, in ICLQ, 2000, p. 65.
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una nozione giuridica tanto ideologicamente e geo-spazialmente identificabile quale quella di property, e coerentemente propone l’abolizione
dell’espressione cultural property e la sua sostituzione con quella, giudicata più corretta e non scalfita dai vizi d’origine della prima, di cultural
heritage. Dall’altro lato vi è chi11 tuttora oppone la concezione universale o cosmopolita dell’idea di cultura che sta alla base delle Convenzioni del ’54 e del ’72, alla concezione romantica, secondo cui il concetto di cultura «consiste nel fondo comune di lingua, religione, credenze, tradizioni e miti che legano un’etnia, un popolo...», aggiungendo che tale visione nazionale-etnica starebbe alla base degli strumenti relativi al recupero dei beni illecitamente importati. La dottrina da ultimo richiamata presenta il pregio di consentirci una verifica sul come la
polemica abbia conosciuto e stia tuttora conoscendo una dislocazione:
dal terreno della proprietà e delle relative schermaglie ideologiche a quello della restituzione dei beni culturali mobili. In questo modo al richiamo forte della nozione di patrimonio culturale si salderebbe la denuncia di quell’ulteriore «fattore di rischio per il patrimonio culturale» provocato da un processo di liberalizzazione degli scambi internazionali che
porta inevitabilmente con sé «l’istanza liberistica dell’eliminazione dell’intervento statale nella disciplina del commercio delle cose d’arte».
Sotto altro profilo merita di essere segnalato quell’orientamento dottrinale che12 affronta con decisione, ma senza illusioni, il problema degli
effetti della globalizzazione sulla tutela internazionale delle opere d’arte, esprimendo il timore che il fragile modello universalistico espresso
dalla Convenzione del 1972 stia franando di fronte ad un modello alternativo «in which the notion of a common good fades behind a utilitarian concept of world heritage that assimilates it to a commercial product and hands it, thus normalized, over to instant consumption».
5. Una lettura approfondita delle caratteristiche della nozione di patrimonio culturale, rispetto a quella di bene culturale è stata piuttosto formulata alcuni anni fa13.
F. Francioni, Principi e criteri ispiratori per la protezione internazionale del patrimonio culturale, in F. Francioni, A. Del Vecchio e P. De Cateerini (a cura di), Protezione internazionale del
patrimonio culturale: interessi nazionali e difesa del patrimonio nazionale della cultura (Atti del
Convegno svoltosi a Roma, 8-9 maggio 1998), Milano, 2000, pp. 11-19.
12
J. Musitelli, World Heritage, between Universalism and Globalization, in IJCP, 2001, p. 331.
13
L. Prott, Problems of Private International Law for the Protection of the Cultural Heritage, in
Rec.deCours, 1989, pp. 224-226; v. anche L. Prott, R. O’Keefe, “Cultural Heritage”' or “Cultural Property”?, in IJCP, 1992, pp. 207-220.
11
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Nella nozione di patrimonio culturale, definito a grandi linee come il
complesso di «those things and traditions which express the way of life and thought of a particular society», rientrano così, secondo la dottrina in esame, oltre ai beni culturali costituiti da cose materiali mobili ed immobili, ed ai siti aventi particolari significati (laghi e montagne, oppure rocce, oppure alberi, nelle diverse culture) anche «the ideas
on which new skills, techniques and knowledge are built», siano tali
idee protette o meno dai diritti di proprietà intellettuale; a queste si
aggiungono schemi di comportamento tradizionale, cerimonie accompagnate o meno da canti, danze e parole, strumenti musicali e coreografie sacrali, la storia orale incastonata in miti e saghe, etc., nonché, da ultimo, il complesso di informazioni culturali filtrate attraverso la tradizione che permettono di tenere in vita questo contesto e di
utilizzarlo per futuri sviluppi .
Di fronte ad una simile ampiezza della nozione di patrimonio culturale,
quella di bene culturale appare per converso estremamente limitata, comprendendo solo le prime due (beni materiali mobili ed immobili) delle
cinque categorie individuate. Conseguente allora la proposta di eliminazione tout court della meno capiente delle due nozioni a favore di quella di patrimonio culturale. La teoria in esame ha il merito di affrontare
finalmente in termini non limitativi o di sterile contrapposizione il rapporto tra le nozioni di bene culturale e di patrimonio culturale, riuscendo da un lato a misurarsi adeguatamente con le realtà drammatiche e
più disperanti dell'ultimo decennio, dall’altro lato anche ad aprire improvvisi squarci di grande momento sui possibili orizzonti evolutivi culturali attingibili dal genere umano.
Resta peraltro che la teoria in esame, per risultare utilizzabile nel concreto, abbisogna di una correzione, che consenta di non cancellare ogni
residua funzionalità della nozione di beni culturali.
Viene opportuno al riguardo un esempio attinente ai beni culturali mobili sottratti da territori occupati nel corso di conflitti armati: si converrà
che il problema delle restituzioni dei beni culturali reciprocamente sottratti dalle forze in campo nel corso della seconda guerra mondiale in
Europa potrebbe solo a prezzo di grandi forzature ed ambiguità essere
ricondotto alla nozione di patrimonio culturale nell’accezione da ultimo
proposta, rappresentativa quindi di «a particular view of life» e in grado
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di testimoniare «the history and validity of that view». Si pensi ai beni
culturali ubicati in Germania, altri ovviamente da quelli a loro volta trafugati in vari Paesi europei dai tedeschi occupanti solo pochi anni o mesi prima, e di cui si è appropriata l’Armata Rossa al termine della seconda
guerra mondiale: il tesoro di Priamo, le collezioni degli impressionisti
francesi di proprietà dei musei tedeschi. Solo con uno sforzo d’immaginazione tali beni potrebbero essere fatti rientrare nella nozione di patrimonio culturale del popolo tedesco14.
Appare insomma degna di condivisione l’ipotesi che la nozione di bene
culturale afferisce a solo una parte di ciò che va sotto il nome di patrimonio culturale; si tratta peraltro di un rapporto di complementarietà,
di species a genus, tale da far salva comunque la specificità del sottogruppo
beni culturali. In nessun caso si deve invece parlare di mera sovrapponibilità/sostituibilità tra le due nozioni.
130
6. Operato questo excursus, è ora il caso di tornare ad esaminare i testi
convenzionali onde verificare il concreto atteggiarsi del rapporto tra le
nozioni di beni culturali e, rispettivamente, di patrimonio culturale.
Nella Convenzione dell’Aja del 1954 per patrimonio culturale si intende in realtà niente altro che la somma dei beni culturali mobili ed
immobili considerati significativi per motivi di interesse storico, artistico o culturale. È quanto dire che in detto sistema tale nozione
spartisce con quella di bene culturale il limite della fisicità dell'oggetto di riferimento, prescindendo completamente da quelle valenze e da
quelli elementi (folklore, danza, abilità, informazioni,etc..) che la
hanno arricchito in seguito. In altri termini, nella Convenzione del
'54 e negli strumenti UNESCO immediatamente successivi (a partire dalla più volte citata Convenzione sulla salvaguardia del patrimonio mondiale cultrale e naturale del 1972) siamo ancora di fronte ad
una sostanziale fungibilità tra le due nozioni di patrimonio culturale e
di bene culturale.
Esistono sparute eccezioni: nel Preambolo della Convenzione del 19 novembre 1968, relativa alla salvaguardia dei beni culturali messi a repentaglio dalla realizzazione di opere pubbliche o private, l’accezione di patrimonio culturale risulta assai più ampia, intendendosi con essa «the product and witness of the different traditions and the spiritual achieve14
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the Second World War, in EJIL, 1996, p. 86
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ments of the past». Sul piano regionale, nella Convenzione culturale europea del 195515 troviamo, all’art. 1, l’affermazione secondo la quale
«Each Contracting Party shall take appropriate measures to safeguard
and to encourage the development of its national contribution to the
common cultural heritage of Europe».
Una puntuale conferma della sovrapponibilità delle nozioni di bene culturale e di patrimonio culturale negli strumenti pattizi dell’epoca si ottinee del resto prendendo in esame i due Protocolli aggiuntivi del 1977
alle Convenzioni di Ginevra del 194916: proprio il riferimento in termini disgiuntivi negli articoli 53 (del I Protocollo) e 16 (del II Protocollo) al «cultural or spiritual heritage of peoples» costituisce evidente
indicazione del limite di fisicità che contraddistingue, ancora in tali atti, la nozione di patrimonio culturale.
Né il quadro appare diverso ove si sposti l’attenzione sugli strumenti elaborati nello stesso periodo da altri organismi internazionali, quale il
Consiglio d'Europa. È ben vero infatti che sia la Convenzione europea
sulla protezione del patrimonio archeologico del 1969 che la Convenzione sulla protezione del patrimonio architettonico europeo del 1985
fanno ricorso al termine patrimonio culturale, ma siamo ancora evidentemente, ratione materiae, in un ambito di fungibilità con la nozione di
bene culturale di cui alla Convenzione dell’Aja del 1954.
7. Piuttosto, il riferimento conclusivo al Consiglio d’Europa non è casuale: sarà infatti proprio tale organizzazione, negli anni ’90, a misurarsi per prima, stimolata dai drammatici sviluppi della situazione politica nei Balcani e dalle loro immediate conseguenze nella nostra materia, con una definizione ampia della nozione di patrimonio culturale. Ciò avverrà in occasione della Conferenza di Helsinki, attraverso
in particolare i documenti preparatori delle delegazioni finlandese, svedese e ceca; quest’ultima indica puntualmente la necessità un «enlargement of the concept of cultural heritage to cultural aspects or cultural resources of the environment and of society – listed and unlisted,
known and unknown, material and immaterial».
Ancora una volta, è giocoforza prender atto di come i più significativi
passaggi nell’evoluzione dell’apparato concettuale che presiede, nella
131
Le Convenzioni elaborate dal Consiglio d’Europa sono consultabili in rete al sito http://conventions.coe.int, cui si rinvia in assenza di differenti indicazioni.
16
Gli strumenti di diritto umanitario sono consultabili online al sito www.icrc.org.
15
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prassi di Stati e di organizzazioni internazionali, all’elabrazione normativa nella materia in esame non risultino legati ad un quadro di approfondimento di un sistema di relazioni internazionali pacifiche, quanto scanditi dal ripresentarsi della dimensione del conflitto armato; riemergente quest’ultimo, dopo la caduta del muro di Berlino, sulla base
del nazionalismo etno-culturale.
È in questo drammatico quadro17 che va meglio apprezzato, allora, il
vero e proprio tour de force operato dall’UNESCO per arrivare in tempi estremamente ravvicinati al varo della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile, firmata a Parigi il 17 ottobre 2003. Dopo avere completato con la Convenzione del 2001 sul
patrimonio culturale subacque il quadro normativo di tutela dei tangibles, l’UNESCO prende l’iniziativa per giungere ad una disciplina
giuridica internazionale del patrimonio intangibile che, sommandosi
agli strumenti pattizi in vigore, consenta infine una ampiezza di tutela, in pace e in guerra, non dissimile da quella elaborata dalla dottrina indicata.
Per patrimonio culturale intangibile, specifica l’art. 2 della Convenzione del 2003, si intendono «the practices, representations, expression,
knowledge, skills – as well as the instruments, objects, artefacts and cultural spaces associated therewith – that communities, groups and, in some cases, individuals recognize as part of their cultural heritage».
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8. L’incalzante produzione normativa pattizia in materia di protezione dei beniculturali/patrimonio culturale, spinta a sua volta dagli sviluppi politici in vaste aree del pianeta, porrà problemi non indifferenti
di adeguamento agli ordinamenti nazionali di molti Stati. Qui ci si
può limitare a sottolineare come taluni ordinamenti giuridici abbiano
saputo anticipare la linea di tendenza materializzatasi da ultimo con la
Convenzione del 2003: ci si riferisce in particolare all’Algeria e (parzialmente) alla Tunisia, alla preesistente ed a lungo isolata normativa
portoghese.
Tali ordinamenti estendono la nozione di patrimonio culturale fino a
comprendere non solo i c.d. beni/attività, come cinema e teatro, coreografia, ma anche l’attività culinaria, e poi miti, leggende, ma anche giochi tradizionali. E se la legge portoghese del 1985 pretende che comun17
Non approfondibile oltre in questa sede. Sia concesso rinviare, per una trattazione più sistematica, al mio La protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato dopo il secondo Protocollo alla Convenzione dell’Aja del 1954, di prossima pubblicazione.
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que si tratti di beni di importanza rilevante per la sopravvivenza ed il
mantenimento nel tempo dell’identità culturale portoghese, creando così un limite inferiore di soglia, la nuova legge algerina del 1998 giunge,
prima assoluta, quanto meno nel quadro geopolitico euro-africano18, a
ricomprendere nella nozione di patrimonio culturale «i prodotti degli
eventi tradizionali e dell’applicazione della creatività individuale e collettiva che abbiano avuto espressione fin da tempi immemorabili ai nostri giorni».
9. Non si può allora non rilevare come il recente Testo Unico dei beni
culturali e paesaggistici, varato dal governo italiano nel gennaio del
2004, appaia, quantomeno sotto il profilo qui preso in esame, in pesante
controtendenza.
Il nuovo testo stabilisce infatti all’art. 2 che il patrimonio culturale della nazione è costituito dalla somma dei beni culturali e dai beni paesaggistici. Per beni culturali si intendono (art. 10 par. 1) «le cose immobili e mobili .. che presentano interesse artistico, storico, archeologico e
etnoantropologico»; il successivo par. 2 e l’art. 11 dettano poi una ampia lista di tali «cose». È pur vero che la Convenzione del 2003 per la
salvaguardia del patrimonio culturale intangibile non è in vigore, e che
anzi i tempi per quel deposito del trentesimo strumento di ratifica previsto a tal fine dall’art. 34 appaiono presumibilmente lunghi. Neppure
la Convenzione del 2001 sulla tutela del patrimonio culturale subacqueo
è peraltro, allo stato, in vigore; ciò non ha impedito al legislatore italiano di operare, all’art. 94, un preciso quanto opportuno richiamo a tale
ultimo testo pattizio. L’impressione è invece quella di una radicale estraneità tra la Convenzione Unesco del novembre 2003 ed il Codice dei
beni culturali e paesaggistici italiano di soli due mesi più vecchio, estraneità che ad un approfondimento di analisi si disvelerebbe probabilmente quale irriducibilità densa di connotazioni ideologiche.
Resta che l’emanazione di un nuovo Codice fondato sulla scommessa
della mancata entrata in vigore a livello internazionale del più recente
strumento pattizio a carattere universale, in una materia già sottoposta
di recente, nell’ordinamento giuridico nazionale italiano, a rielaborazione normativa, costituisce operazione politico-culturale sulla cui saggezza deve essere lecito manifestare consistenti dubbi.
18
Non è possibile in questa sede soffermarsi sull’originale esperienza australiana, a partire dall’Aboriginal and Torres Strait Islander Heritage Protection Act del 1984.
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Bibliografia
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L. Zagato, La protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato dopo il secondo Protocollo alla Convenzione dell’Aja del 1954 (di prossima pubblicazione).
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Aziendalizzazione
& Retorica Manageriale
di Luca Zan
Per un approccio tollerante
Ringrazio gli organizzatori di questo incontro che mi dà la possibilità
di ritornare a Venezia, città cui sono legato da vincoli affettivi profondi sia a livello personale (i miei genitori erano di Murano, così come
lo sono tutti i miei parenti) che professionali (ho insegnato a Ca’ Foscari per 12 anni). Ma oltre questo, parlare a Venezia di rapporto tra
management e arte mi fa piacere anche per aspetti legati al secondo interesse di ricerca che perseguo – oltre al management delle organizzazioni artistiche – vale a dire la storia del management, che qui in Venezia ha importanti antecedenti che riprenderò più oltre.
Il titolo della mia relazione vuole essere autoironico, seguendo una radicale critica agli abusi (e spesso mis-usi) della retorica manageriale nel
campo dell’arte riscontrabile negli ultimi 15-20 anni, a partire dal concetto stesso di aziendalizzazione (e “managerializzazione”) e azienda.
Lo stesso modo in cui noi aziendalisti usiamo questo concetto cardine
nella nostra impalcatura concettuale (ad esempio quando parliamo di
“azienda museo”) è segno di scarsa attenzione alle dinamiche di conoscenza inter (o trans) disciplinare, se non vero e proprio atteggiamento
di arroganza disciplinare, quasi che tutti i nostri interlocutori dovessero
e potessero comprendere i risvolti di un linguaggio assolutamente antiintuitivo. In realtà – può essere interessante e ironico al tempo stesso per
chi vive la questione da altri punti di osservazione disciplinare – il concetto di “azienda” è il precipitato teorico di una (o più) impostazioni teoriche, portatore dunque di una densità di significati che difficilmente
possono essere trasmessi se non tra gli adepti. Si può infatti dimostrare
che spesso gli economisti fanno fatica a comprendere cosa intendiamo
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con questo concetto, e quale particolare prospettiva questo tenda ad evocare; i giuristi lo usano ma con una trasposizione di significati che ci richiedono spesso di sottolineare ai nostri studenti che il termine è usato
per concetti assolutamente diversi, quasi una sorta di fastidiosa coincidenza nominalistica. Gli umanisti, se mi è concessa questa generalizzazione, sembrano più che altro colpiti dalla aggressività che accompagna
i connessi movimenti in termini di sociologia delle professioni.
A voler essere sinceri, in realtà lo stesso concetto di azienda è controverso anche tra gli aziendalisti: il che non deve stupire posto il carattere di
concetto riassuntivo di impalcature teoriche potenzialmente in concorrenza tra loro che si possono riscontrare nella storia delle pensiero aziendale italiano. Sta di fatto che il concetto di azienda ha senso assolutamente diverso per Zappa, Giannessi, Onida per non dire di altri autori
che meno si riconoscono in una particolare tradizione “aziendalista”:
tanto per fare un nome importante qui a Venezia, basti pensare a Saraceno (per tutti cfr. Ardemani 1968).
“Last but not least”, il concetto di azienda è di difficile comprensione
all’estero, come si accorge qualsiasi studioso che incominci a frequentare la comunità internazionale, solitamente impiegando un paio di anni
per rendersi conto che vantare una presunta intraducibilità di un termine centrale (o di una teoria?) è scarsamente produttivo, suggerendo
alla fine di utilizzare termini più facilmente comprensibili, seppure più
ambigui e non totalmente espressivi di quella tradizione (come ad esempio i termini di organizzazione economica, o organizzazione vista negli
aspetti economici, o unità economica, o entità, che in inglese si traduce e si capisce bene come entity, anche nei risvolti più tecnici).
Insomma, spesso la retorica manageriale e aziendale finge di disporre di
termini e concetti molto più indiscussi e auto-evidenti di quello che in
realtà non sia, e, anzi, in una sorta di tentativo di autolegittimazione e
oggettivizzazione tende a sfuggire la propria ineliminabile natura di retorica. Il che può fare danni in generale, ma certamente è atteggiamento pericoloso in un campo – come quello delle organizzazioni non profit in generale, e dell’arte in particolare – in cui diversi discorsi professionali sono destinati a convivere, e in cui piuttosto che uno scontro tra
atteggiamenti disciplinari chiusi può essere molto più interessante percorre un’altra via: quella del confronto interdisciplinare, cercando di individuare e rendere più espliciti alcuni dei limiti e contraddizioni interne a diverse tradizioni di studio.
Su due limiti in particolare mi soffermo, riprendendo quanto scritto in
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modo più esteso in altra sede (Zan 2004a): la relazione tra efficacia e efficienza, e il problema della relazione tra obiettivi e risorse.
Efficacia-e-efficienza
Una delle espressioni più ricorrenti nelle impostazioni manageriali (in
generale o quando applicate all’arte) è il riferimento alle condizioni di
“efficienza-e-efficacia”: è difficile trovare un libro di testo o articolo che
non vi faccia riferimento. I due termini sono usati sempre insieme, una
medesima stringa di testo, quasi si trattasse di un concetto unico. Il che
riflette una pericolosa situazione di zona di ombra teorica, in cui termini percepiti come cruciali nell’azione manageriale e organizzativa restano assolutamente opachi.
Lo studio delle organizzazioni artistiche da questo punto di vista può risultare molto utile, evidenziando l’intrinseca conflittualità tra due poli
potenzialmente antitetici: dove l’efficienza (intesa come rapporto tra
output e input) configge con l’efficacia (il grado di soddisfazione rispetto
a determinati obiettivi sostantivi), anzi, più radicalmente, potenzialmente uccide l’arte. Ad esempio, se si ha in mente il macchinario scenografico usato per la rappresentazione della Aida a Bologna nell’anno
delle celebrazioni verdiane certamente si può pensare al costo di una tale struttura, e a come fossero ipotizzabili situazioni più semplici e economiche, al limite “minimaliste”. Su questa strada di risparmio non c’è
fine però: ironicamente si rinuncia progressivamente a scelte estetiche
complesse, e al limite si arriva alla one-man-band, esempio massimo di
efficienza, in cui non ci sono tempi o muscoli inattivi.
Ironia a parte, lo studio delle organizzazioni artistiche dimostra come sia
possibile aumentare l’efficienza spesso a diretto detrimento dell’efficacia. Anzi, la stessa efficacia è concetto multidimensionale, coinvolgendo anche in questo caso potenziali conflitti tra discorsi diversi, come ad
esempio l’efficacia curatoriale (rispetto ai valori professionali della conservazione e delle ricerca) e l’efficacia “di mercato”, rispetto al visitatore
(con impostazioni di orientamento al consumatore e alla comunicazione), spesso banalizzati in termini di valorizzazione versus fruizione.
L’atteggiamento “modesto”, non arrogante, di cui dicevo sopra ha quindi alcuni risultati interessanti:
– evidenzia una zona d’ombra nelle impostazioni dominanti di management, e suggerisce una maggiore cautela in generale nell’uso di termini non compresi nella loro antiteticità, come efficienza / e / efficacia;
– più in generale, accorgersi che nel definire – prima ancora che misu-
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rare – le performance di organizzazioni “performing” (dal cui linguaggio abbiamo preso a prestito lo stesso termine) ci si trovi in una
situazione di questa difficoltà e indeterminatezza, evidenzia un bel
corto circuito che non è solo semantico;
– più pragmaticamente, evidenzia un problema centrale in tutto il dibattito sull’economia e management delle organizzazioni artistiche, vale a dire il problema di individuare in ogni situazione specifica un trade-off percorribile tra efficienza, efficacia in senso estetico-curatoriale
(o di altra natura a secondo del tipo di organizzazione: musicale, scientifica ecc.) e efficacia rispetto al consumatore.
Trade-off sulla cui individuazione andrebbero indirizzati strumenti e attenzione, piuttosto che perdersi in esercizi di altro genere. In termini di
“utilità sciale” il problema è capire come il management (come tradizione e corpo di studi) possa contribuire a governare processi simili.
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Obiettivi e risorse
Sul tema degli obiettivi – e la loro rilevanza all’interno del processi manageriali – si può evidenziare uno dei più pericolosi paradossi degli abusi (ma in questo caso si deve parlare veramente di mis-usi, di usi scorretti e inconsistenti al loro interno) della retorica manageriale quando
applicata al mondo dell’arte.
Una cosa paradossale è che si può riscontrare una rottura del binomio
obiettivi-risorse, e nel dilagare di esperienze di controllo di gestione nella pubblica amministrazione italiana l’enfasi (fino all’ossessione) sugli
obiettivi viene a negare rilevanza la problema delle risorse, a volte in modo addirittura esplicito (come in un gran comune del nord, in cui al Settore Cultura si chiedeva di raggiungere gli stessi obiettivi pur in presenza di riduzione delle risorse). In questo modo continua il vizio storico
della pubblica amministrazione nostrana, quello che in gergo si definisce come “le nozze coi fichi secchi”, in cui ci si litiga magari e ci si dilunga nella definizione di policies, a cui poi però non si danno risorse, e
sulle quali non è perciò possibile invocare alcuna responsabilizzazione
(elemento che caratterizza il discorso manageriale in sè). Il che è perfettamente coerente con una certa concezione della politica, ma nulla ha a
che fare col management, nel cui nome si argomenta. Si tratta di una situazione bizzarra, una sorta di mistificazione collettiva, in cui il “management” viene evocato non per indurre processi di trasparenza e responsabilizzazione, ma per legittimare una (crescente?) intrusione della
politica nell’arte, spesso con il risultato anche di appesantire la stessa
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macchina amministrativa, aumentando la burocrazia (ben lo sanno gli
operatori di musei pubblici, oberati di richieste di carte sulla gestione
che poi a loro non servono per come sono concepite).
E qui ritorna il “discorso sul maneggio” presso Venezia con riferimento
a una serie di relazioni sulla situazione dell’Arsenale e dei problemi riscontrati a partire dal 1580 (per esigenze di sintesi mi sia concesso di citarmi addosso un’ultima volta, anche per i riferimenti archivistici: Zan
2004b). Nel corso di oltre cinquant’anni si attiva un’operazione complessa dal punto di vista cognitivo di traslazione dell’obiettivo militare
e a un tempo dato (avere la riserva di 100 galere sottili e 12 grosse) in
condizioni di risorse necessarie in logica di flusso. Ci si accorge alla fine, e si prende atto, che l’obiettivo non è realistico: semplicemente non
si può raggiungere per le scarse disponibilità di risorse. E allora, suggerisce Molin nel 1633, conviene ridurlo: se ha senso parlare di obiettivo
questo deve essere congruo rispetto alle risorse. Il binomio obiettivi risorse non può essere spezzato, pena la negazione stessa del “discorso sul
maneggio”.
Certo da un punto di vista deontologico, a fronte della situazione di mistificazione collettiva ovvero di “falso managerialismo” che si può spesso riscontrare nel dibattito corrente, e che potenzialmente può causare
enormi danni, lo studioso di management non può nascondere una situazione di profondo imbarazzo.
Bibliografia
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2004, pp. 145-175.
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Biografie brevi degli autori
Paolo D’Angelo ([email protected]) è professore ordinario di Estetica presso l’Università di
Roma Tre. È vicepresidente della Società Italiana di Estetica (S.I.E.) dalla fondazione di quest’ultima nel 2001. E’ membro del comitato direttivo della “Rivista di estetica”. Ha preso parte
a convegni internazionali a Berlino, Fiecht, Merida (Venezuela), Parigi, Ljubliana, Szeged (Ungheria) e ha tenuto conferenze presso le Università di Paris I La Sorbonne e presso lo Studium
Generale di Mainz. In Italia ha tenuto conferenze presso le Università di Palermo, Cagliari, Università della Calabria, Torino, Napoli, Pisa, Udine, Pescara, Firenze. Le sue principali aree di interesse sono l’estetica ambientale, la filosofia tedesca, la filosofia italiana contemporanea, l’estetica delle arti visive. Tra le sue pubblicazioni più recenti vanno menzionate L’estetica italiana del
Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1997; L’estetica del Romanticismo, Bologna, Il Mulino, 1997; Introduzione a I. Kant, Critica del Giudizio, Roma-Bari, Laterza, 1997; Dizionario di Estetica (insieme a G. Carchia), Roma-Bari, Laterza, 1999; G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, Roma-Bari, Laterza, 2000; Estetica della Natura , Roma-Bari, Laterza, 2001; L’estetica della Scultura dal Settecento ad oggi, in L. Russo, a c. di, Estetica della Scultura, Palermo, Aesthetica, 2003; Estetismo, Bologna, Il Mulino, 2003; Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp, Macerata, Quodlibet, 2005.
Alberta Battisti ([email protected]) è libera professionista e si occupa di estetica e di
progettazione dell’insegnamento delle lingue come L2. I suoi interessi vanno alla filosofia del
simbolo, delle arti applicate e del design, nonché alle politiche culturali delle lingue di minoranza storica. Tra le sue pubblicazioni più recenti vi sono Be a traveller, not a tourist. Non fare il
turista vieni in Trentino! Reisender, nicht nur Tourist, (con R. Troncon), Bolzano, Il Brennero/Der
Brenner, 1999; Il viaggiatore immobile, in La filosofia free lance, “Tellus. Rivista italiana di Geofilosofia”, Anno XI, 2001; Celebrating Minorities. Ladini, Cimbri e Mòcheni del Trentino (con B.
Passarella), fotografia di G. Lotti, presentazione Ph. Daverio, Bolzano, Il Brennero-Der Brenner, 2005; nel 1996 ha anche curato il volume Andrea Pozzo. Atti del Convegno Internazionale
“Andrea Pozzo e il suo Tempo” (ed. ted. Andrea Pozzo und seine Zeit), QM Edizioni di Trento e
Luni Editrice Milano.
Elena Bonel ([email protected]) è ricercatore presso l’Università di Trento e docente di marketing
e di organizzazione delle produzioni culturali presso l’Università di Venezia. Sempre a Venezia
ha conseguito il PhD in Economia Aziendale. Svolge attività di ricerca e formazione nel campo
della gestione delle aziende culturali e della strategia e marketing d’impresa. Da anni è attiva nella consulenza aziendale all’estero e in Italia prima presso “The Boston Consulting Group”, e poi
come professionista.
Maria Luisa Ciminelli ([email protected]) dottore di ricerca in Antropologia, Etnologia e Tradizioni Popolari, dal 1989 svolge la sua ricerca etnografica tra i Bamanan (Bambara) del Mali.
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Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
Ha insegnato presso le Università di Roma “Tor Vergata”, Firenze, e, dal 2001, presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia. Tra le sue pubblicazioni Follia del sapere e saperi della follia: percorsi etnopsichiatrici tra i Bamanan del Mali, Milano, 1998, vincitore del “Premio Paolo Toschi per
un’opera nel campo degli studi etnoantropologici" (Fondazione di Noopolis, 1998) e, con Vittorio Lanternari, Medicina, magia, religione, valori. Volume II: Dall'antropologia all'etnopsichiatria, Napoli, 1998. È in stampa il volume La negoziazione delle appartenenze. Arte, identità e proprietà culturale nel terzo e quarto mondo, Milano, 2006, che raccoglie gli atti dell’omonimo convegno (Venezia, 3 maggio 2005).
Roberta Dreon ([email protected]) è dottore di ricerca in filosofia e attualmente è assegnista di
ricerca presso il Dipartimento di filosofia e di teoria delle scienze di Venezia, impegnata al progetto Ermeneutica, fenomenologia, pragmatismo: dall'ontologia all'estetica. Si è occupata del pensiero di Heidegger, su cui ha pubblicato un volume dal titolo Esperienza e tempo. La condizione
temporale tra ermeneutica e ontologia nel pensiero di Martin Heidegger. Da alcuni anni è docente
a contratto di Teoria e storia della ricezione artistica e della valorizzazione culturale presso l'Università Ca' Foscari di Venezia.
Giuseppe Di Giacomo ([email protected]) è professore ordinario di Estetica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Tra le sue pubblicazioni: Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, Pratiche, Parma 1989; Estetica e
letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1999; Icona e arte
astratta. La questione dell’immagine tra presentazione e rappresentazione, Aesthetica Preprint, Palermo, 1999; Introduzione a Paul Klee, Laterza, Roma-Bari, 2003. E’ coordinatore dell’Osservatorio Storia dell’Arte presso la S.I.E.
Daniele Goldoni ([email protected]) è professore associato di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Ca' Foscari di Venezia. Tra le sue pubblicazioni recenti vi sono
studi su Hegel e il linguaggio: Il riflesso dell'assoluto, Guerini, Milano 1992; Hegel e il linguaggio: quale alterità, in Hegel contemporaneo, Guerini, Milano 2003; sulla musica e la filosofia contemporanea nell’ermeneutica filosofica e in Adorno: Il filologo e la Musa, in Tra Venezia Milano e Trieste. A Tito Perlini, Il Poligrafo, Padova, 2003; Adorno (e Heidegger): linguaggio e musica, in Adorno e Heidegger, Donzelli, Roma 2005; Oltre la comunicazione, in La
comunicazione, Donzelli, Roma, 2003. Ha organizzato la mostra di arte contemporanea “Spazi, ambienti, metamorfosi” (“Magazzino del ferro”, Venezia ottobre-novembre 2004) e i convegni-concerti “L’interprete creativo” (Venezia, ottobre 2004) e, in collaborazione con La
Biennale Musica, “Progettare e comporre: confini e differenze” (Venezia, San Samuele, 24-25
settembre 2005). Attualmente presiede il triennio del Corso di laurea in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali di Ca’ Foscari, ed è coordinatore dell’Osservatorio Beni Culturali presso la S.I.E.
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Andrea Moretti ([email protected]) è professore associato di Economia e Gestione delle Imprese
e Marketing relazionale presso l’Università degli Studi di Udine. Studioso delle problematiche
manageriali delle organizzazioni museali e teatrali opera come docente all’interno del Corso di
Laurea in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali dell’Università Ca’ Foscari
di Venezia ove insegna Produzione e Gestione delle Attività Culturali (business planning). Ha
curato numerosi contributi sul tema del management delle organizzazioni artistico-culturali, tra
cui recentemente La produzione mussale, Torino, Giappichelli, 1999; Strategie e Marketing delle
Organizzazioni Artistico Culturali, Milano, Franco Angeli, 2001; Evoluzione manageriale delle
Organizzazioni Artistico-Culturali, con R. Grandinetti, Milano, Franco Angeli, 2005.
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Biografie brevi degli autori
Gianfranco Mossetto ([email protected]) è professionista e studioso di finanza, è stato amministratore di numerose società private ed enti dell'amministrazione pubblica. Nell’amministrazione pubblica è stato consulente di diversi Ministeri tra i quali Ambiente, Telecomunicazioni,
Bilancio e per le Partecipazioni Statali e per le Regioni, oltre che di varie Regioni ed Enti Locali. E’ stato anche Assessore alla Cultura della città di Venezia dal 1993 al 1997. Dal 1984 è professore di Finanza Pubblica alla Facoltà di Economia dell'Università di Ca’ Foscari di Venezia,
presso la quale, dal 1993, ha ricoperto la prima cattedra italiana di Economia della Cultura. Inoltre, svolge la propria attività come Presidente del Centro Internazionale per l’Economia dell’Arte, ICARE, unico centro universitario italiano di ricerca in questo campo, da lui creato nel
1991. Ha collaborato anche con diverse testate e periodici italiani, incluso Il Sole-24 Ore, La Repubblica, Il Gazzettino. Pubblicazioni recenti: The Economics of Copying and Counterfeiting (con
M. Vecco, 2004); Economics of Art Auctions (con M. Vecco, 2002); Museo contro museo. Le strategie, gli strumenti, i risultati (con P.A. Valentino, 2001); L’economia del patrimonio monumentale (con M. Vecco, 2001).
Maurizio Rispoli ([email protected]) è professore ordinario di Strategie di Impresa presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Attualmente è coordinatore del collegio dei docenti del corso
di laurea specialistica “Economia e gestione delle arti e delle attività culturali” (dal settembre
2003), dal 1981 al 1987 è stato preside della Facoltà di Economia e Commercio della stessa Università, dall’avvio nel 1981 al 1988 è stato coordinatore del Dottorato di Ricerca in Economia
Aziendale, indi dal 1988 al 1994 direttore del Dipartimento di Economia e Direzione Aziendale, e dal 12 febbraio 1997 al 30 aprile 2003 rettore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Autore di un centinaio di pubblicazioni, si occupa di analisi della concorrenza, strategic management, teoria del prodotto, economia e management delle organizzazioni culturali. Tra i suoi più
recenti lavori si trovano Il governo dell'università tra missione e strategia, “Sinergie”, n. 48, Verona, Ed. CEMIS, 1999; Tour operator e impresa alberghiera: una relazione necessaria , “Economia
e Diritto del Terziario”, n. 3, Milano, Franco Angeli, 1999; Prodotti turistici evoluti. Casi ed esperienze in Italia, Torino, Giappichelli, 2001; La ricerca: aspetti di metodo e principali risultati , in
M. Rispoli (a cura di ), Prodotti turistici evoluti. Casi ed esperienze in Italia, Torino, Giappichelli, 2001; (insieme a M. Tamma), A. Roper, Management in tourism Businesses, (paper presentato ed inserito nei proceedings dell'EURAM Founding Conference), IESE, Barcelona, April 2122, 2001; (insieme a A. Stocchetti) F. Di Cesare, Material production in the municipality of Venice , in Musu I., (ed), Sustainable Venice:Suggestions for the future, Dordrecht, Ed. Kluwer Academic Publishers, 2001; Riforma vicina alla prova abbandoni , “Il sole 24 ore nord est”, 26 lunedì 9 luglio, 2001; Integrazione e cooperazione fra imprese alberghiere e imprese tour operator , in
“Le pagine di risposte turismo”, 1, 2001; Sviluppo dell’impresa e analisi strategica, Bologna, Il
Mulino, 2002; Economia e marketing del turismo: lo scenario di riferimento, in “Economia e
Marketing del tempo libero”, R. Rescinti (a cura di), Milano, Franco Angeli, 2002.
Michele Tamma ([email protected]) è professore associato di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, Dipartimento di Economia e Direzione Aziendale, dove svolge attività di ricerca e di didattica nei campi della Strategia d’Impresa, della Gestione
nella produzione di servizi, del Management delle imprese e dei Sistemi turistici. Tra le sue pubblicazioni recenti: Sistemi del valore e competizione nei servizi, in S. Podestà, E. Valdani, F. Golfetto (a cura di), La nuova concorrenza, Milano, Egea, 2000; Prodotti e sistemi , in M. Rispoli (a
cura di), Prodotti turistici evoluti: casi ed esperienze in Italia, Torino, Giappichelli, 2001; Il caso
Venezia d'inverno , in M. Rispoli ( a cura di), Prodotti turistici evoluti. Casi ed esperienze in Italia, Torino, Giappichelli, 2001; (insieme a M. Rispoli e A. Roper,), Management in tourism Businesses, (paper presentato ed inserito nei proceedings dell'EURAM Founding Conference, IESE, Barcelona, April 21-22, 2001); Destination management: gestire prodotti e sistemi locali di of-
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Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
ferta, in M. Franch ( a cura di ), Destination Management. Governare il turismo fra locale e globale, Torino, Giappichelli, 2002; Strategie e reti, in M. Rispoli, Sviluppo dell'impresa e analisi strategica, Bologna, Il Mulino, 2002; I sistemi turistici locali: punto di arrivo o di partenza?, in “Le
pagine di Risposte Turismo”, Venezia Vol. 2, 2003.
Renato Troncon ([email protected]) è professore associato di Estetica presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. I suoi interessi vanno all’antropologia filosofica, la
teoria dei colori, le politiche culturali e i temi della “nuova estetica”. Tra le sue pubblicazioni recenti: Be a traveller, not a tourist. Non fare il turista vieni in Trentino! Reisender, nicht nur Tourist, (con A. Battisti), Bolzano, Il Brennero/Der Brenner, 1999; Estetica applicata: nuova prospettiva in filosofia dell’arte?, in L. Russo (a cura di), La nuova estetica italiana, Palermo 2001; La filosofia in pratica, in “Tellus: Rivista italiana di geofilosofia”, Sondrio, 2001; Estetica applicata.
Idee per una riedificazione della Ragione estetica, Bolzano, Il Brennero-Der Brenner, 2002; L’erotologia di Ludwig Klages, in AA.VV., I filosofi e l'amore, in “Humanitas”, Brescia, Morcelliana,
2003 (4); Il “Nuovo storicismo” di Stephen Greenblatt come estetica culturale, in R. Salizzoni, Cultural Studies, Estetica e scienze umane, Torino, Trauben, 2003; Aesthetics in Practice and Cultural
Planning: The Perspective of “Festiveness”, in Journeys of Expression III: Tourism & Festivals as a
Transnational Practice, “Review of Tourism Research”, Texas A&M University, Vol. 2, Issue 3,
giugno 2004; Italian Copyright, (insieme a B. Passarella), fotografia di G. Lotti, Presentazione
di Ph. Daverio, Bolzano, Il Brennero-Der Brenner, 2004; Jagdgründe Jean-Noel Schramm Fotografien. Chasses gardées Jean-Noel Schramm Photographies, Kaufbeuren, 2004; Politiche culturali
e politiche di rinascita linguistica per le comunità di minoranza storica, in Lingua madre, madre
terra, Trento, 2005; La filosofia dell’espressione di Helmuth Plessner, in M. Russo, A. Borsari, Helmuth Plessner. Corporeità, natura e storia nell’antropologia filosofica, Rubettino, 2006. È coordinatore dell’Osservatorio Nuova Estetica presso la S.I.E.
Lauso Zagato ([email protected]) è professore associato di Diritto internazionale e Diritto
dell’Unione europea nell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Tiene inoltre un corso di Diritto europeo ed internazionale dei beni culturali presso il Corso di laurea specialistica in Economia e
gestione delle arti (EGART) della stessa Università. Si è occupato in particolare di problemi
legati ai profili internazionali e comunitari della protezione della proprietà intellettuale e delle
normative antidumping ed antisovvenzioni, delle politiche di concorrenza e di ricerca e sviluppo, allargando poi la ricerca al diritto umanitario, in particolare alla tutela dei beni culturali nei
conflitti armati, e alla tutela del patrimonio culturale intangibile e delle identità culturali delle
minoranze e dei popoli indigeni. Nel campo del diritto comunitario ha approfondito, negli ultimi anni, i temi dell’allargamento della UE, e quelli della evoluzione del quadro normativo relativo a migrazioni e asilo. Tra i suoi lavori recenti: La politica di ricerca della Comunità europea,
Padova, Cedam, 1993; Il contratto comunitario di licenza di know-how, Milano, Giuffrè, 1996;
Cultura e innovazione nel rapporto tra ordinamenti, Milano, Giuffrè, 2000, (in collaborazione
con L. Picchio Forlati). Ha inoltre curato il volume collettaneo Verso una disciplina comune europea del diritto d’asilo, Padova, Cedam, (in corso di pubblicazione). A partire dal 1995 ha iniziato una stabile cooperazione con i programmi di assistenza legislativa nell’Europa dell’est e nei
Balcani occidentali, svolgendo compiti di esperto sia nella riforma dell’ordinamento giuridico
dell’Albania, sia nell’ambito dei programmi della Unione europea PHARE e CARDS in Romania e in Kosovo.
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Luca Zan ([email protected]) è professore ordinario presso la Facoltà di Economia dell’Università di Bologna nonché coordinatore della laurea specialistica GIOCA (Gestione e Innovazione delle Organizzazioni Culturali e Artistiche) dell’Università di Bologna, e collabora con il
Master in Arts Administration della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, dove insegna il
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Biografie brevi degli autori
corso di “Managerial Rhetoric and Arts Organizations”. I suoi interessi di ricerca riguardano la
storia della ragioneria e del management (con speciale riguardo a contesti pre-industriali, e in
particolare l’Arsenale di Venezia a fine ‘500); i processi di cambiamento strategico; la diffusione del discorso economico e manageriale alle organizzazioni non profit in generale; il management delle organizzazioni culturali, con enfasi alla ricerca sul campo. Principali pubblicazioni
recenti: Il “discorso del maneggio”. Pratiche gestionali e contabili all’arsenale di venezia, 1580-1643,
Bologna, Il Mulino, 2006 (co-autori S. Zambon e F. Rossi); Managerial rhetoric and arts organizations, Palgrave-Macmillan, 2006; Economia dei musei e retorica del management, Milano,
Electa, 2003; (a cura di), Conservazione e innovazione nei musei italiani, Milano, Etas, 1999.
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Finito di stampare nel mese di aprile 2006
presso Laser Copy Center, Milano
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Questo volume, che raccoglie in saggio i contributi presentati da quattordici studiosi di economia, estetica, antropologia e diritto al convegno
promosso nel giugno 2004 presso Ca’ Foscari, a
Venezia, da EGArt (Corso di laurea in Economia
e Gestione delle Arti e delle attività culturali) e dalla SIE (Società Italiana di Estetica), rappresenta il
tentativo di disegnare contenuti e prospettive nuove per un concetto ormai strategico nelle politiche
culturali di pressoché tutti i Paesi: il concetto di
“bene culturale”. Se infatti il pensiero economico
e manageriale è oggi invitato a confrontarsi con
una idea di prodotto sottoposta a profonda revisione attraverso la rivisitazione dei concetti di
scambio, produzione, valore, ecc., altrettanto le
scienze umane – filosofia e antropologia in primo
luogo – sono oggi ispirate dalle idee della svolta
performativa e “pratica” che le ha ridefinite. Immaterialità, agire, ricezione attiva, progettazione,
arte e cultura, valore, esteticità, ecc., diventano così i motivi di una ricerca comune a discipline che
non hanno più a contenuto oggetti, ma comunità,
idee e processi.
ISBN 88-87817-13-8
€ 19
Hanno contribuito a questo Estetica e management nei beni e nelle
produzioni culturali: Paolo D’Angelo, Alberta Battisti, Elena Bonel,
Maria Luisa Ciminelli, Roberta Dreon, Giuseppe Di Giacomo,
Daniele Goldoni, Andrea Moretti, Gianfranco Mossetto, Maurizio
Rispoli, Michele Tamma, Renato Troncon, Lauso Zagato, Luca Zan.
Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali
cop-renato2
Estetica
e management
nei beni e
nelle produzioni
culturali
a cura di
Daniele Goldoni
Maurizio Rispoli
Renato Troncon
IL BRENNERO
DER BRENNER
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