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Francesca da Rimini.
Per una rassegna del mito tra teatro e cinema
di Teresa Malara
C’è sicuramente nella Commedia un episodio che è il più emozionante di tutti:
la storia di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta.
Nei versi del V canto dell’Inferno dedicati a Paolo e Francesca vibra
un’umanità talmente profonda e viva, fatta di passione e di colpa che non è da
stupirsi che quell’episodio dopo sette secoli conservi intatta la sua capacità di
coinvolgimento sui lettori del Duemila.
La creazione dantesca di questi sventurati amanti, immortalati soprattutto
nell’Ottocento romantico, è di tale forza poetica da sollecitare l’immaginario da
parte di autori italiani e stranieri, i quali hanno dato vita a opere in ogni forma
d’espressione aggiungendo alla storia patetica e funesta dei cognati romagnoli,
innumerevoli “retroscena”. Non si può negare che l’immaginario di cui si parla
abbia prodotto un’incredibile ricchezza di parafrasi, “esercizi” poetici, nonché
tragedie e film di notevole importanza.
A partire dall’Ottocento, l’atteggiamento di letterati e artisti, nei confronti della
tragedia dei due amanti, testimonia un alto momento di partecipazione, un approccio commosso al tema, accentuato da quel clima romantico, incline a rimuovere l’aspetto peccaminoso dell’amore dei due cognati, a favore di
un’interpretazione che eleva la vicenda collocandola nella tradizione dei grandi
amori tragici.
Francesca, quindi, da semplice comparsa recitante di un dramma passionale, è
pronta a trasformarsi in consapevole eroina delle ragioni del cuore e a fare il suo
ingresso nella letteratura mondiale.
Sul versante teatrale, il primo ad accendere i riflettori sulla nuova e più caratterizzata figlia di Guido da Polenta è Silvio Pellico che nel 1815, a Milano, porta in
scena la tragedia intitolata appunto Francesca da Rimini. La fortuna di tale tragedia, arrivata alle stampe nel 1818, darà la stura a una pletora di imitatori che faranno a gara nell’aggiungere fantasiosi particolari, nell’intrecciare inedite circostanze e nel variare le “scene madri” del bacio e dell’uccisione.
La Francesca da Rimini di Pellico è stata senza dubbio, sia per il numero di
rappresentazioni sia per le frequenti ristampe del testo, uno dei maggiori successi
teatrali dell’Ottocento ed è stata rappresentata in tutta Europa grazie a due attrici
famose: Carlotta Marchionni e Adelaide Ristori.
L’opera descrive la struggente vicenda che vede protagonisti i ben noti Paolo e
Francesca, l’esempio per antonomasia d’amore romantico. Larga parte della tragedia è dedicata al tema della tentazione e alla lotta strenua contro le insidie del
peccato: in tal senso l’autore tende ad alimentare la tensione patetica del dramma.
Pellico inserisce inoltre nella tragedia un’allusione alla situazione dell’Italia, divisa in numerosi stati e sottoposta alla dominazione austriaca. Gli accenti patriottici,
usati da Paolo che vuole imbracciare la spada e versare il suo sangue «non per lo
straniero», ma per la propria patria, furono particolarmente graditi al pubblico e
contribuirono al successo della tragedia nel periodo risorgimentale.
Pellico parte dall’assioma dantesco «Amor, ch’a nullo amato amar perdona»,
ma offre della vicenda una versione in cui prevalgono i toni patetici e l’effusione
sentimentale, anche nell’epilogo tragico. La passione tutta materiale dei due amanti di Dante è risolta in un sentimentalismo ispirato ai valori di un mondo piccolo-borghese ottocentesco: si veda il richiamo all’amore coniugale, ai figli e ai
valori religiosi. La passione amorosa è più declamata che non fatta realmente intuire, e i due amanti si ripiegano su se stessi quasi compiacendosi della loro sofferenza.
Pellico ha cambiato la storia nobilitandola, soprattutto per sottrazione: niente
bacio, né adulterio. I personaggi sono tutti nobili, compreso Lanciotto. «Mentre la
rinascita shakespeariana gettava sulle scene di tutto il mondo il deforme malvagio,
affascinante Riccardo III, Pellico optava per Lanciotto nobile, diritto di carattere e
di schiena… Pellico aveva eliminato l’adulterio di Francesca e tolta la gobba a
Lanciotto, e per un certo tempo ai più è andata bene così»1. L’eroina è colpevole
di un amore empio ed è per questo punita da una morte purificatrice, ma non muore avvolta in una solitudine tragica, e ottiene il perdono del padre in una generale
conciliazione finale.
Francesca sbarcherà anche oltreoceano, e nel 1853 è rappresentata per la prima
volta a New York da G. H. Boker. Francesca da Rimini (1853) di George Henry
Boker viene considerato come uno dei grandi drammi dell’ultimo secolo2. Arthur
Hobson Quinn nel 1923, definì quest’opera come il più grande dramma in lingua
inglese dei primi tre quarti del diciannovesimo secolo, e nel 1927 lo definì come
la migliore creazione tra i primi lavori teatrali del secolo3. Nel 1927, Edward
Sculley Bradley definisce Francesca da Rimini la più grande tragedia americana e
una delle più grandi tragedie poetiche in lingua americana4. Nel 1940 Bradley
scriveva ancora: «È difficile pensare a un’altra tragedia romantica del diciannovesimo secolo, che unisce il potere della poesia alla qualità che mantiene un’opera
drammatica viva nel tempo»5.
Notevolmente influenzato da Boccaccio, Boker mette in risalto la deformità di
Gianciotto e la predilezione della società americana per le apparenze e l’opulenza.
Il buffone di corte, Pepe, per il suo senso di superiorità e sussiego morale ha, con
Gianciotto e Paolo, un ruolo importante in una tragedia in cui Francesca non è più
la prima donna. Inoltre, la trama si differenzia dalla tradizionale, in particolare per
il finale: Gianciotto dopo l’uccisione dei due amanti si pugnala.
1
L. Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella Commedia di Dante, Il Mulino, Bologna 2007, p. 141.
2
Per approfondimenti: P. D. Voelker, Geoge Henry Boker’s Francesca da Rimini: An interpretation and evaluation, articolo in «Educational Theatre Journal», vol. 24, n. 4, 1972, pp. 383-395.
3
Q. A. Hobson, George Henry Boker-Playwright and Patriot, in «Scribner's Magazine», 71, n. 6
(June 1923), pp. 701-715.
4
E. S. Bradley, George Henry Boker, poet and patriot, B. Blom, New York 1972.
5
E. S. Bradley, Glaucus & Other Plays by George Henry Boker, Princeton University Press, 1940.
In una lettera riportata in Montrose J. Moses Representative Plays by American
Dramatists (1921), il 3 marzo 1853 Boker scrive al suo redattore Stoddard:
Riderai per quello che sto per dirti ma devi sapere che il titolo di questo mio lavoro è Francesca da Rimini. Di certo conosci la storia, tutti la conoscono, ma né tu né altri siete a conoscenza
del modo in cui ho rielaborato questa vicenda, tratta dalla Divina Commedia di Dante. Sono sicuro
che quest’opera sarà un grande successo.
La tragedia in cinque atti, fu poi rappresentata al Broadway Theatre di New
York, il 26 settembre 1855, e l’attore E. L. Davenport interpretò il ruolo di Gianciotto. Il famoso critico teatrale Winter in una sua recensione del dramma dichiarò
che, nel ruolo di Gianciotto, Davenport fu statico, poco fantasioso, melodrammatico e che la rappresentazione fu noiosa; la Francesca da Rimini messa in scena
nel 1855 fu, insomma, un vero fallimento.
In seguito, però, la tragedia fu portata in scena al teatro Heaverly, di Chicago, il
14 Settembre 1882, con Otis Skinner nel ruolo di Paolo, Marie Wainright nei panni di Francesca e con Lowrance Barrett nel ruolo di Gianciotto, quest’ultimo ebbe
il merito di ravvivare la storia creando situazioni d’effetto, più interessanti, mentre
vennero omessi dettagli vicini al testo scritto da Dante. Secondo Winter il personaggio di Gianciotto fu questa volta moderato, brillante, con un ruolo che cresceva in potere e in forza secondo le circostanze e il conflitto di passioni. Questa volta la rappresentazione trovò un grande consenso tra il pubblico e la critica.
De Sanctis interviene a sua volta sul finire del secolo per rendere conto di tale
fortuna e tra le sue argomentazioni propone un confronto tra Beatrice, individuata
come costruzione artificiale e fredda, vivente in una dimensione reale e divina, e
Francesca, definita individuo dominato dai contrasti umani. Ecco quindi trasformata la sventurata figlia di Guida da Polenta in eroina dell’amore romantico, prima di una lunga fila di figure femminili come Ofelia o Giulietta.
Non quindi intangibili astrazioni ideali, ma figure letterarie della realtà, dei
conflitti e delle passioni terrene.
Insistendo sulla sua natura delicata, De Sanctis nel saggio Francesca da Rimini
la rivela con le seguenti parole: «la donna che nella fiacchezza e miseria della lotta serba inviolate le qualità essenziali dell’essere femminile, la purità, la verecondia, la gentilezza de’ sentimenti, poniamo anche colpevole, questa donna sentiamo
che fa parte di noi, della comune natura e desta il più alto interesse e cava lacrime
dall’occhio dell’uomo e lo fa cadere come corpo morto». Le riflessioni critiche di
De Sanctis nascono però in anni che assistono già al tramonto dell’amore romantico e che insieme all’insorgere della sessualità, non più elusa o velata, vedono
apparire all’orizzonte dell’immaginario erotico la figura della donna seduttrice,
inquietante e allarmante idolo. Anche Francesca sarà investita dalle nuove pulsioni: la penna di D’Annunzio, nel 1901, la fissa in caratteri decisi e volitivi. I tremori, i rossori, le lacrime, gli sfioramenti immaginati da Pellico tra Paolo e Francesca
davanti al fatidico libro di Lancillotto e Ginevra, ambientati tra l’altro in un casto
giardino e non più nella compromettente stanza dell’eroina, lasciano il campo a
uno scoperto gioco di seduzione erotica nel quale è la donna la vera regista; e alla
fine «quando le due bocche si disgiungono, Francesca vacilla sul letto e si abbandona sui guanciali», come preciserà infatti D’Annunzio. Si può asserire quindi che
Francesca abbia subìto, a partire dall’aprirsi dell’Ottocento fino agli inizi del secolo successivo, due significative mutazioni: vitale espressione della natura femminile e simbolo eccelso dell’amore romantico nella prima metà dell’Ottocento,
consapevole incarnazione della pulsione sensuale e del lato oscuro della sessualità
maschile verso la fine dell’Ottocento.
La Francesca da Rimini messa in scena nel 1901 con la Duse protagonista e la
regia dello stesso D’Annunzio, rappresentò un audace tentativo di rimettere la tragedia in versi, e insieme di introdurre nel testo drammatico una cura di regia allora sconosciuta in Italia, fino a inserirvi elementi di musica, canto e danza. Il successo di critica e pubblico fu alquanto contrastato.
La tragedia si ispira all’eroina dantesca, ma la narrazione deriva dal Boccaccio
elaborandone però la vicenda, collocata nel 1282. L’azione drammatica, portata
avanti per cinque atti, è rappresentata episodicamente nelle sue fasi culminanti e
vede, sin dall’inizio, sorgere la passione colpevole, e delinearsi l’impossibilità di
vincerla per la forza dell’istinto: il che porterà alla rivelazione e alla catastrofe.
Creazione tutta dannunziana è Malatestino, fratello di Paolo e di Gianciotto. Innamorato anche lui di Francesca, tenta inutilmente di piegarla al suo amore. Perfido e vendicatore, irritato perché Francesca resiste ai suoi rozzi tentativi di seduzione, insinua il sospetto nell’animo di Gianciotto, ordisce con lui l’inganno per
sorprenderli, fingendo la partenza per Pesaro. L’epilogo inevitabile è la loro uccisione da parte del marito tradito.
È un «poema di sangue e di lussuria», come l’autore stesso definì la tragedia,
«nella cui tela densa d’erudizione letterario-storico, gli elementi psicologici si alternano a quelli dell’azione esteriore, creando visioni pervase da un soffio lirico o
travolte dall’impeto tragico»6; la stessa Francesca, in alcune parti della tragedia,
appare diversa.
Sulla scena l’autore inserisce una serie di episodi di colore che ricostruiscono
una presumibile ambientazione medievale con abbondanti particolari di arredo, di
costume, di linguaggio. L’interesse si concentra sulle atmosfere, e sugli aspetti
scenografici. La Francesca da Rimini inaugura, così, un nuovo capitolo di teatro
in versi, nel gusto del medioevo archeologico, dionisiaco e parnassiano, sebbene
non ebbe grandi accoglienze quando venne messa in scena al Costanzi di Roma
nel 1901.
Di tutte le storie raccontate da Dante nella sua opera nessuna ha avuto un tale
impatto sulle arti rappresentative moderne come la storia di Francesca da Rimini.
I particolari della vicenda si riassumono in una giovane donna, Francesca, un matrimonio sfortunato con Gianciotto, una relazione appassionata e adultera con il
fratello più giovane di suo marito, Paolo. La scoperta, la vendetta, l’assassinio,
tutti questi elementi costituiscono un modello ideale per rielaborare un racconto. È
misterioso come la storia di Francesca sia riuscita a ispirare sia l’immaginazione
6
A. Benegiano, Amor cortese nella vicenda di Paolo e Francesca, «Convivio», 10, 2002.
teatrale del diciannovesimo secolo che l’immaginazione cinematografica del ventesimo. Si stima che il diciannovesimo secolo vide la produzione solo in Europa di
sessanta drammi tratti dal tema di Francesca7. Questo divulgarsi di opere drammatiche sulla falsariga di Francesca da Rimini non era limitato all’Europa. Negli Stati Uniti vari scrittori americani svilupparono il tema di Francesca. Similmente, la
storia di Francesca è stata un prodotto dell’industria cinematografica dai suoi inizi
fino a oggi; infatti, tra tutte le storie di Dante proprio a questa è stata data una versione originale e rielaborata di rilievo.
Nel periodo del cinema muto predominava la versione originale. La prima versione cinematografica di Francesca fu fatta dalla Company of America nel 1907.
Influenzato in modo rilevante dal dramma di Boker e intitolato prima Francesca
da Rimini e poi The two Brothers, il film fu diretto da William V. Ranous e ha una
durata di circa dieci minuti. Questa versione americana fu seguita da versioni italiane nel 1908 (diretto da Mario Morais), 1910 (diretto da Ugo Falena), 1914 (anonimo), 1917 (Amor che a nullo amato, diretto da Eduardo D’Accursio), 1919
(La bocca mi baciò tutto tremante, diretto da Ubaldo Maria Del Colle) e 1922 (diretto da Mario Volpe). Inoltre, la storia di Francesca si presentò come parte di una
più grande distribuzione di film che avevano a che fare con l’opera e la vita di
Dante. I due migliori esempi sono Inferno, del 1911, una produzione Milano Film
(diretto da Adolfo Padovan) che contiene un segmento che ha a che fare con gli
elementi presenti nella storia di Francesca e con il film di Domenico Gaido Dante
nella vita dei tempi, una biografia di Dante; la trama secondaria di questo film è
un ovvio rifacimento del racconto dell’amore fatale di Paolo e Francesca, con
l’aggiunta di alcuni elementi della storia di Piccarda Donati, personaggio di cui
tratta Dante nel Paradiso. ……….
Il primo lungometraggio della storia di Francesca è anche l’ultimo dell’era del
film muto, è il film di D. W. Griffith The Drums of Love (1928)8, un curioso film
che ambienta la storia di Francesca nel Sud America del diciottesimo secolo, temendo un insuccesso di pubblico Griffith girò nuovamente la scena finale.
Nell’era del film sonoro si prosegue invece con versioni cinematografiche originali. Due classici esempi sono il film di Raffaello Matarazzo del 1949, Paolo e
Francesca fino all’altro dal titolo identico del 1971, diretto da Gianni Vernuccio.
7
Principale fonte di riferimento per questo paragrafo: A. A. Iannucci, Francesca, the movie, saggio tratto da «Dante, rivista internazionale di studi su Dante Alighieri», I, 2004.
8
Per un’analisi dettagliata di questo film vedi A. A. Iannucci, Dante and Hollywood, in Dante,
Cinema and Television, a cura di A. A. Iannucci, University of Toronto Press Incorporeted, 2004,
pp. 3-20.
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