Università degli Studi di Palermo Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi Dottorato di ricerca in Estetica e Teoria delle arti – XXI ciclo Settore scientifico disciplinare: M-Fil/04 Coordinatore: Prof. Luigi Russo ESPRESSIVITÀ ED EMOZIONE NELL’ESPERIENZA MUSICALE ORIENTAMENTI TEORICI NEL DIBATTITO ANALITICO Tesi di: Domenica Lentini Tutor: Ch. ma Prof.ssa Silvia Vizzardelli Co-tutor: Ch. mo Prof. Salvatore Tedesco INDICE INTRODUZIONE..................................................................................... P. 1 CAPITOLO PRIMO Prospettive di ricerca e testi seminali 1. Il rapporto musica-emozioni al centro del dibattito .................................... p. 14 2. Premesse storiche ........................................................................................ p. 23 2. 1 Arthur Schopenhauer ............................................................................ p. 26 2. 2 Eduard Hanslick .................................................................................... p. 29 2. 3 Susanne K. Langer ............................................................................... p. 34 Externality claim vs Arousal theory ............................................................ p. 39 3. CAPITOLO SECONDO Musica e forma 1. Musica assoluta: superficie o profondità? La proposta di Peter Kivy ......... p. 47 2. Per una teoria dell’espressione musicale ..................................................... p. 57 3. L’espressività musicale: una breve storia .................................................. p. 71 4. Kivy dialoga con Levinson e Davies ........................................................... p. 77 5. Formalismo e formalismo arricchito ............................................................ p. 84 6. La risposta disposizionale di Derek Matravers ............................................ p. 94 I CAPITOLO TERZO Musica, metafora e isomorfismo 1. Introduzione al dibattito sulla metafora ....................................................... p. 113 2. I testi seminali ............................................................................................. p. 115 2. 1 Il bello musicale di Hanslick ............................................................... p. 115 2. 2 Metaphor di Max Black ........................................................................ p. 119 2. 3 Che cosa significano le metafore di Donald Davidson ......................... p. 124 2. 4 Metafora come luce della luna di Nelson Goodman ............................ p. 127 3. Nick Zangwill: musica, metafora ed emozione ............................................ p. 132 4. Roger Scruton: immaginazione e metafora .................................................. p. 144 4.1 Suoni e note .......................................................................................... p. 147 4. 2 Metafora ................................................................................................ p. 153 4. 3 Metafora e similitudine ......................................................................... p. 156 4. 4 Un’appropriata trasgressione ................................................................ p. 159 4. 5 Musica e metafora ................................................................................. p. 162 5. Malcolm Budd: metafora e isomorfismo ...................................................... p. 165 6. Stephen Davies: le caratteristiche esteriori delle emozioni .......................... p. 197 7. Jerrold Levinson: isomorfismo dell’esperienza vs isomorfismo descrittivo ....... p. 214 BIBLIOGRAFIA ................................................................................................. p. 233 II Gli avversari passionali hanno fantasticato di una mia polemica contro tutto ciò che sia sentimento, mentre ogni lettore imparziale e attento non farà difficoltà a riconoscere che io protesto solo contro la falsa ingerenza dei sentimenti nella scienza, ossia io combatto contro quei visionari dell’estetica che con la pretesa di insegnare qualcosa al musicista, non fanno che interpretare i loro sogni da fumatori di oppio sonoro. Io sono completamente d’accordo con l’opinione che il valore ultimo del bello si trova all’interno dell’immediata evidenza del sentimento. Ma sono altrettanto sicuro che il richiamo al sentimento come spesso accade, non consente di ricavare leggi musicali. La musica ha un contenuto, sebbene sia musicale, in quanto scintilla del fuoco divino non inferiore alla bellezza di ogni altra arte. Ma solo negando inesorabilmente alla musica ogni altro “contenuto”, se ne salva il contenuto spirituale. Infatti non con il ricorrere a un sentimento indefinito – in cui, nel migliore dei casi, consiste il contenuto – si può attribuirle un significato spirituale, ma riconoscendo la bella e ben definita forma sonora come creazione dello spirito, compiuta su un materiale atto a essere spiritualizzato. EDUARD HANSLICK INTRODUZIONE Quando si esamina il problema della relazione tra la musica e le emozioni da un punto di vista storico, si resta inevitabilmente colpiti dal fatto che l’estetica musicale sembra avere oscillato, fin dall’antichità, fra concezioni che privilegiano l’autonomia della musica nelle sue soluzioni formali, e concezioni che invece considerano quest’arte inscindibilmente legata alle dinamiche emotive. Il più delle volte, una di queste due concezioni sembra dominare. Vi è una sorta di alternanza nel corso della storia della musica e delle teorie musicali. Talvolta esse coesistono in uno stesso periodo storico. È innegabile che quella del rapporto musica-emozioni è un’annosa questione che ha affascinato e allo stesso tempo impegnato i filosofi quasi dall’inizio della filosofia stessa. Una questione che ci interpella ancora oggi, riaffermandosi nella recente discussione degli estetologi analitici di area anglo-americana, i quali danno oramai da diverso tempo, e in particolare con una ricca fioritura negli ultimi trent’anni, un contributo teoretico di notevole importanza, colmando così anche quel vuoto che si registra purtroppo ancora nella tradizione estetologica continentale. Nell’attuale dibattito analitico, la tradizionale questione del rapporto tra musica ed emozioni riceve sempre maggiore attenzione, come testimoniano peraltro le dense conversazioni, i dialoghi intrecciati, le analisi punto-per-punto. Senza poi trascurare il fatto che numerose sono le tesi in campo e altrettanto numerose le pubblicazioni di vario genere centrate esclusivamente sulla questione. Una trattazione ricca del tema dell’espressività e del rapporto musica-vita emotiva la troviamo nelle due principali riviste di area anglo-americana, il “British Journal of Aesthetics” e il “Journal of Aesthetics and Art Criticism”. Possiamo senz’altro dire che la musica, e segnatamente il rapporto musica-emozioni, è la forma d’arte che ha più stimolato il dibattito analitico se teniamo conto della quantità ed estrema varietà dei contributi ad essa dedicati. Pensando alla fecondità di tale ricerca ma anche alla modesta attenzione che essa riceve nella nostra tradizione, il presente lavoro nasce con l’intenzione di colmare una lacuna, dando la giusta rilevanza al dibattito che negli ultimi anni è venuto sviluppandosi. Diciamo subito che l’idea, nello specifico, è quella di ricostruire, a partire da un orientamento tematico, le conversazioni, i dialoghi teorici che si stanno svolgendo, dando particolare rilievo a quei filosofi le cui singole teoriche sono paradigmatiche di 1 una certa tendenza. D’altronde entro la straordinaria moltitudine di proposte che animano la discussione, ci è parso opportuno ricercare un “criterio” orientativo, una sorta di guida rossa che consentisse di intraprendere il viaggio senza smarrirci tra i percorsi laterali che, pure, si aprono ad ogni crocicchio. Abbiamo scelto dunque innanzitutto un criterio tematico. In questo senso, per ciascun punto o problema che ci siamo impegnati a trattare, il nostro obiettivo non è stato – compito che sarebbe stato peraltro infruttuoso se non impossibile – quello di presentare l’insieme delle teorie o dei punti di vista che lo hanno affrontato, ma al contrario, di fare appello per la trattazione di ciascun tema a una sola voce, spesso più significativa rispetto al tipo di problematica in questione o significativa in relazione alla vicendevole corrispondenza creatasi tra quanti dialogano sulla medesima problematica. Abbiamo dunque preferito affrancarci da ogni pretesa, diciamo così, di “completezza”, per descrivere quelle che ci sembrano una serie di questioni importanti (musica-forma, musica-metafora, musica-isomorfismo) ed esemplificarle attraverso il riferimento ad alcuni dei numerosi autori che ne trattano (Kivy, Davies, Levinson, Matravers, Goodman, Zangwill, Scruton, Budd e Davies). Seguendo questi criteri metodologici, abbiamo così iniziato il nostro percorso di ricerca, cercando di penetrare quanto più possibile nel cuore di questa discussione, per capire quali ancora sono i problemi, gli interrogativi e dunque anche le soluzioni più significative a quella che, dicevamo, si è sempre dimostrata essere una problematica scivolosa. Un punto va chiarito: come nel passato, non è in discussione l’idea che tra la musica e le emozioni vi sia una qualche speciale relazione, dato pressoché inamovibile, ma ancora una volta tutte le complessità sono legate alla difficoltà di stabilire in che termini è possibile giustificare questa relazione, in che senso essa possa sussistere, quali le motivazioni profonde. L’attenzione, precisiamo, nell’attuale dibattito, nella maggior parte dei casi, è diretta in particolar modo alla musica assoluta, cioè alla musica strumentale senza testo, titolo o programma. È rispetto ad essa infatti, che è certamente più problematico giustificare l’idea che vi sia una relazione con le emozioni, visto che, diversamente dalle arti a vario titolo rappresentative (si pensi alla pittura figurativa, al teatro, letteratura, ecc.) la musica pura non è un’arte contenutistica che intrattiene legami evidenti con il nostro mondo rappresentativo. Dal nostro approfondimento è emerso che due sono le concezioni dominanti nel dibattito analitico. In un primo momento ha riscosso consenso soprattutto l’idea di chi, 2 in antitesi con le affermazioni scettiche di Hanslick, ritiene che è certamente sensato parlare della musica in termini espressivi, perché essa possiede le emozioni e le possiede come proprietà percettive della sua struttura. In aperta polemica con tale posizione, si è successivamente affermata invece l’idea di quanti ritengono che le proprietà emotive stiano alla musica piuttosto che come proprietà percettive, come proprietà disposizionali. Secondo tale idea, la musica è cioè espressiva delle stesse emozioni che essa normalmente desta o suscita nell’ascoltatore. Peter Kivy, che è uno dei più illustri e attivi rappresentati del dibattito, ci informa non a caso di come l’antica querelle concernente il problema del rapporto della musica con le emozioni il più delle volte, nella recente discussione, sfoci in una accesa diatriba tra queste due posizioni, rispettivamente ribattezzate come cognitivismo ed emotivismo. E come Kivy, anche Derek Matravers, si riferisce alla stessa diatriba caratterizzandola nei termini dell’opposizione tra sostenitori del requisito dell’esternalità (externality requirement) e teorici della teoria eccitazionistica (Arousal Theory). Gli stessi Kivy e Matravers sono tra i principali protagonisti di questa querelle, essendo il primo il più estremo sostenitore della tesi cognitivista e il secondo il più estremo sostenitore di una teoria eccitazionistica. Proprio Kivy e Matravers sono infatti i due veri contendenti, perché hanno radicalizzato rispettivamente le loro tesi e di conseguenza accentuato il loro dissidio teorico. Più sfumate sono invece le tesi di altri autori, visto che tra quanti si fanno sostenitori dell’idea che la musica è espressiva perché le emozioni sono una sua proprietà, si riscontra, il più delle volte, anche una parziale convergenza con una teoria eccitazionistica o Arousal Theory. Ci è parso questo nello specifico il caso di Malcolm Budd ma anche di Jerrold Levinson e Stephen Davies, i quali infatti pur muovendo da quel presupposto fondamentale, diciamo pure, cognitivista, non negano comunque il potere che la musica ha di suscitare emozioni in chi ascolta. Naturalmente, essendo il punto di partenza quello di una tesi anti-emotivista, non è ridondante precisare che questo riconoscimento non ha come conseguenza la conclusione – come invece spesso accade con gli emotivisti – che sia anche questa la ragione per cui si può spiegare la portata o capacità espressiva della musica. Sulla scorta quindi di queste premesse generali è doveroso sottolineare che per chi ha voluto dimostrare la tesi che la musica è espressiva in quanto “incarna” le emozioni nella sua struttura, la questione dell’espressività si dimostra certamente più complessa e articolata, dal momento che diverse sono le questioni da dover fronteggiare. Primo fra tutti vi è il problema di come, ovvero secondo quale processo, la musica sia 3 capace di incarnare le emozioni ordinarie. In secondo luogo, occorre spiegare quale ruolo giocano queste proprietà espressive nella struttura musicale alla quale appartengono. Infine, l’ultima questione: dato che le emozioni ordinarie risiedono, in quanto proprietà espressive, nella musica, e non nell’ascoltatore, cosa significa dire che una persona è emotivamente colpita dalla musica. Come può dunque la musica ‘incarnare’ le emozioni ordinarie? Per ragioni di ordine e di chiarezza abbiamo individuato due tipi di risposta a questa domanda: una risposta “dal basso” e una risposta “dall’alto”. La risposta “dal basso” è quella secondo cui il problema espressivo è da ricondurre sul piano di una risposta immediata, a partire soprattutto dalla riabilitazione di una tesi isomorfica. L’idea è che proprio sulla soglia dei nostri decorsi percettivi si rivelino somiglianze, similarità, tra le dinamiche della musica e quelle del comportamento espressivo umano. Il senso dei decorsi percettivi è cioè una proiezione che si radica in una struttura. Le nostre percezioni, come del resto la fenomenologia ha ben mostrato, non sono delle esperienze puntuali ed isolate, ma disegnano una trama. Questa trama, fatta di ritenzioni e protensioni, rappresenta quello che qui chiamiamo ‘struttura’. Ed è proprio grazie a questa nozione che possiamo arrivare a concepire le proprietà emotive come analogicamente ancorate alla struttura musicale. L’orizzonte dell’affettività da una parte e l’insieme delle strutture percettive dall’altra non sono due dimensioni che stanno in un qualche rapporto tra loro, ma due aspetti di un’unica realtà, strutturalmente isomorfici. Secondo questa lettura, l’isomorfismo si presenta con il suo massimo di necessità, ogni qualvolta si voglia fuggire da ipotesi riduzionistiche che, ispirate all’autorità della logica scientifica tendono a riaffermare il principio secondo cui la musica non può provare emozioni né può essere triste, a meno che tali attribuzioni non si dicano poetiche o metaforiche, per la circostanza che l’esperienza (la possibilità) di sentire emozioni dentro di sé è propria solo degli esseri senzienti. Una risposta “dal basso” è quella che abbiamo facilmente riconosciuto nella cosiddetta teoria del profilo (Contour Theory) di Peter Kivy, ma anche nella tesi espressiva (Emotion-characteristics-in-appearances Theory) di Stephen Davies. Nel caso specifico, Kivy sostiene che certamente deve esservi una somiglianza tra la struttura, il profilo, il contorno della musica e le manifestazioni acustiche e visive dell’espressione emotiva umana. Kivy precisa che, nonostante l’apparenza, non si tratta di una teoria rappresentazionale, perché le emozioni non sono percepite come rappresentate, vale a 4 dire in maniera mediata, ma in modo immediato: l’analogia tra la musica e gli aspetti acustici o visivi delle emozioni umane è in altri termini subliminale, dobbiamo cioè trovarci in uno stato di inconsapevolezza rispetto all’esistenza dell’analogia stessa, non dobbiamo in alcun modo presupporla. A seguito delle obiezioni ricevute, Kivy recentemente ha anche seriamente messo in discussione la validità della teoria del profilo, seppure arrivando alla conclusione che attualmente siffatta teoria non ha, diciamo così, una degna sostituta, anzi – egli precisa – resta ancora la più attraente. Quale soluzione adottare, in ultima analisi, Kivy non ce lo dice. Si ferma solo a constatare che attualmente c’è un accordo generale sul fatto che la musica esprima le qualità emotive come qualità percettive, e che quindi la cosa migliore da fare, stabilite così le cose, è di attendere fiduciosi che nel futuro si trovi una spiegazione più convincente. Muovendosi da questa acquisita consapevolezza egli infatti ha preferito spostare l’attenzione alle altre due questioni dell’espressività, al ruolo cioè che tali qualità giocano nella struttura e nell’esperienza musicale. Come per Kivy, anche per Davies l’espressività della musica dipende prevalentemente da una somiglianza che si può cogliere percettivamente nell’immediatezza. Una somiglianza che percepiamo tra il carattere dinamico della musica e il movimento, l’andatura, il comportamento o l’atteggiamento dell’uomo. Se la musica è espressiva, non lo è perché essa possiede le emozioni, nel senso in cui un essere senziente le possiede: alla musica mancano i pensieri, le attitudini, e i desideri che sono caratteristici dell’esperienza emotiva e che contribuiscono a far sì che esse siano le emozioni che sono. Ciò che la musica invece presenta in quanto arte espressiva sono le caratteristiche esteriori delle emozioni, vale a dire: la nostra esperienza dei brani musicali e, in particolare, del movimento in musica è simile alla nostra esperienza di quelle forme di comportamento che, negli esseri umani, sfociano nelle caratteristiche esteriori delle emozioni. L’analogia risiede nella maniera in cui queste cose sono esperite, piuttosto che essere fondata su una qualche inferenza che cerchi di stabilire una relazione simbolica tra alcune componenti specifiche della musica e alcuni particolari del comportamento umano. Un’analogia che possiamo per l’appunto cogliere subito, in quanto sostiene Davies, l’emozione è immediatamente, non mediatamente, presentata nella musica. Inoltre, una risposta “dal basso” è anche quella che abbiamo potuto rintracciare nella spiegazione di Malcolm Budd e Jerrold Levinson; sebbene sia necessario precisare che nell’uno e nell’altro caso la spiegazione del problema espressivo della musica 5 non passa da un’unica e precisa soluzione, ma da una serie di categorie concettuali ugualmente adottabili (nel caso di Budd), e da una serie di requisiti (nel caso di Levinson) che un’adeguata spiegazione dell’espressività deve soddisfare. Tra queste categorie concettuali/requisiti, vi è appunto quello dell’analogia che possiamo cogliere tra la musica e il comportamento espressivo umano. Muovendosi da un’ottica possibilista, entrambi giungono poi a declinare il problema espressivo della musica a partire dal coinvolgimento immaginativo che vi è nella nostra esperienza di essa come espressiva. Significativa è in tal senso l’adesione da parte di Budd ad una tesi finzionale, e altrettanto significativa la teoria della persona di Levinson. In questo nostro tentativo di individuare delle linee esemplificative di lettura, abbiamo anche parlato di una risposta “dall’alto” che è quella di chi riporta il problema espressivo della musica ad un tipo di risposta che non è immediata come quella che si rivela in una dinamica percettiva, ma mediata dalla incidenza della nostra componente immaginativa nell’esperienza della musica. Emblematica in tal senso la prospettiva teorica di Roger Scruton, filosofo di chiara ascendenza kantiana le cui tesi non potrebbero intendersi se non entro una teoria dell’intenzionalità e dell’immaginazione. Per quanto concerne nello specifico la musica, Scruton separa il fenomeno dei suoni fisici dall’esperienza della musica; la differenza non risiede in una semplice variazione di grado e la musica non sarebbe il risultato di una sequenza organizzata di note e accordi, ma suoni e musica sono entità di genere differente che agiscono nell’ambito delle rispettive sfere d’appartenenza: i primi fanno parte del mondo fenomenico degli esseri di natura e in esso vengono ascoltati concettualmente come suoni naturali semplici, mentre la musica chiama in causa unicamente la sfera intenzionale del solo essere di natura (l’uomo) capace di relazionarsi contemporaneamente con la propria facoltà immaginativa per trascendere la sua condizione materiale del qui e ora. L’esperienza musicale è propriamente il tentativo razionale dell’uomo di evolversi da se stesso, dalla propria condizione di finitezza naturale per dislocarsi su un piano di intenzionalità immaginativa che rappresenta l’antitesi di quella relazione analogica che ogni altro essere di natura intrattiene attraverso l’apparato sensoriale con il proprio ambiente di riferimento. Questa spiegazione è la stessa che confluisce nella tesi principale di Scruton, secondo la quale la nostra esperienza della musica coinvolge un elaborato sistema di metafore – metafore di spazio, movimento e di animazione. Già nel nostro apprendimento musicale di base è in gioco un complesso sistema di metafore, il quale non è la descrizione veritiera di un qualche fatto materiale, o di qualcosa che riguardi sempli6 cemente il mondo fisico dei suoni. La metafora non può essere eliminata dalla descrizione della musica, poiché essa definisce l’oggetto intenzionale dell’esperienza musicale. Esplicitamente dichiara: «togliete di mezzo le metafore, e non potrete più descrivere l’esperienza della musica» 1 . Questa affermazione – che l’esperienza della musica è irriducibilmente metaforica – è stata rifiutata, tra gli altri, da Malcolm Budd, il quale sostiene che fino a quando non sarà stato compreso lo scopo che sta alla base della metafora, la caratterizzazione di tale esperienza come metaforica è del tutto irrilevante. Detto in altri termini, Budd afferma che ciò che si dà nell’esperienza musicale di una determinata persona, e che quindi viene colto in essa, è, in quanto irreducibilmente percettivo (anziché metaforico), impossibile da specificare senza fare riferimento all’oggetto di quell’esperienza, vale a dire, senza fare riferimento alla musica stessa. A questa critica si è aggiunta anche quella di Davies, il quale, in accordo con Budd, è dell’idea che quando la musica viene descritta come ‘triste’, la parola ‘triste’ è usata proprio nel senso in cui è normalmente riferita ai discorsi ordinari del sentimento, ovvero letteralmente. Nello specifico, egli precisa che i termini che denotano emozioni utilizzati per descrivere determinati aspetti (o modi di apparire) sia delle persone che degli oggetti naturali o delle opere d’arte, sono parassitari rispetto all’uso che di tali termini si fa per riferirsi alle emozioni che vengono vissute; essi rappresentano cioè un uso secondario. I termini che denotano emozioni descrivono per l’appunto quella apparenza acustica, quelle caratteristiche esteriori dell’emozione che sono alla base della stessa spiegazione dell’espressività nella teoria di Davies. Dialogo questo cui abbiamo dato rilevanza nell’ultimo capitolo del nostro lavoro, nel quale spesso si sfiora anche l'altra questione legata al problema del rapporto musica-emozioni, e cioè quella della natura linguistica della musica, il problema della sua semanticità. Problematica questa che il tema musica-emozioni si porta dietro come fosse la sua ombra, e che come tutta la storia stessa della musica lascia intravedere, pone sul tappeto l’ipotesi di una prossimità tra musica e linguaggio. Un’ipotesi che nell’attuale dibattito, abbiamo però potuto constatare, non trova facilmente adesioni. Non si è cioè propensi a considerare l’idea che la musica possa essere semplicemente un linguaggio tra i linguaggi. Si ripensa così alla concezione langeriana della musica come simbolo inconsumato e si riflette allo stesso modo sulla concezione simbolica goodmaniana delle arti. Nello specifico, ci si interroga su quanto ancora si possa parla1 R. Scruton, Understanding music, in “Ratio”, 25 (2), 1983, pag. 106. 7 re di linguaggio in presenza di siffatte concezioni simboliche e quanto la musica in ultimo possa avere affinità tali da poter essere ricondotta al linguaggio. Abbiamo così visto che in alcuni casi, particolarmente chiaro quello di Stephen Davies, muovendo dal rifiuto di quelle tesi che prospettano l’idea della musica come simbolica, ci si sposta sul versante di altre questioni, quali: qual è l’esatto modo di definire una metafora, e quale la sua funzione illuminante all’interno delle descrizioni emotive della musica? E a seguire come intendere tali descrizioni? Si tratta di descrizioni metaforiche o letterali? Altrettanto marcate e diversificate poi ci sono parse anche le soluzioni date sul versante dell’altra problematica, quelle cioè di come giustificare il potere meraviglioso che la musica ha di commuoverci. È questa certamente l’altra importante questione che debbono fronteggiare quanti negano una teoria eccitazionistica e difendono invece l’idea che le emozioni “musicali” siano quelle che riconosciamo nella musica, piuttosto che nella dinamica emotiva dell’ascoltatore. Interessante a tal proposito è stato per noi seguire il dibattito serrato tra Kivy, Levinson e Davies, i quali si trovano in sintonia tanto in relazione all’idea che le proprietà emotive siano proprietà percettive della musica stessa, quanto nel rifiutare perentoriamente una teoria eccitazionistica. Il maggior punto di dissenso sta invece nel fatto che mentre per Kivy la musica ci commuove emotivamente per la sua bellezza, per Davies e Levinson la musica ci colpisce emotivamente in virtù del potere che le qualità espressive hanno di suscitare in noi delle emozioni ad esse corrispondenti. In altre parole, stando alle spiegazioni proposte da Davies e Levinson, il meccanismo di stimolazione delle emozioni è attivo quando la musica è espressiva di tristezza, di felicità, o di qualcos’altro, sia o meno essa una buona musica, ovvero una musica bella. Secondo la teoria di Davies, l’espressività è infatti di per se stessa contagiosa (teoria della tendenza o del contagio), sia o meno essa incarnata in un’opera d’arte di alto livello o in qualcosa che non è affatto un’opera d’arte: l’espressività provoca direttamente le emozioni. Secondo la teoria di Levinson, tutto ciò che è necessario affinché la musica stimoli un’emozione è che vi sia un’empatia nei confronti di un personaggio musicale che immaginiamo esprime tale emozione (teoria della persona). Per Kivy invece la musica, affinché commuova, deve essere bella, ovvero musicalmente riuscita. Inoltre, una diversa concezione è anche quella che tali autori manifestano rispetto a come si debbono intendere le emozioni che la musica ha destato: per Kivy, si tratta di emozioni pure, nude e crude, emozioni che, egli precisa, avvalendosi della teoria di Brentano, hanno un oggetto, una credenza e un feeling. Mentre nel caso di Davies e Levinson le emozioni stimolate dalla musica non sono emozioni 8 vere e proprie, che hanno cioè una precisa componente cognitiva e intenzionale, ma quasi-emozioni o emozioni sbiadite. In aperta polemica con i teorici cognitivisti o teorici dell’esternalità, dunque in netta rottura con quello che ci è parso essere l’orientamento dominante nel dibattito analitico, troviamo i teorici dell’Arousal. Declinata infatti in forme certamente più singolari e sofisticate, anche nell’attuale dibattito viene a rivivere la teoria disposizionale (qui ribattezzata Arousal Theory) che tanta fortuna ha avuto da Platone fino al XVIII secolo. Da questo punto di vista, come avevamo anticipato, si ritiene che le proprietà emotive appartengono alla musica piuttosto che come proprietà percettive come proprietà disposizionali, vale a dire: la musica esprime le sue distinte emozioni per la sua predisposizione a causarle nell’ascoltatore. Uno dei più illustri rappresentanti di questa tendenza, anzi probabilmente il primo a riaffermare polemicamente un’idea di tipo disposizionale per la comprensione del problema espressivo, è Derek Matravers. Egli sostiene infatti che sebbene l’esperienza musicale causi uno stato mentale caratteristico che non è un’emozione vera e propria, dotata cioè di una componente cognitiva, bensì una sensazione, possiamo descrivere un brano musicale come triste soltanto perché esso suscita in noi quelle sensazioni che nella vita reale sono parte dell’esperienza della tristezza. Certamente anche in quest’orientamento non possiamo esimerci di evidenziare come numerose siano le varianti teoriche in gioco, ma le nostre scelte ci hanno portato infine a un approfondimento esclusivo della tesi di Matravers, soprattutto in vista, avevamo anticipato, del dibattito serrato che egli intrattiene con Kivy. Innegabile comunque è, in tal senso, la difficoltà che emerge ogni qualvolta si voglia dare, anche se approssimativamente, una classificazione delle teorie esaminate, poiché diverse sono le sfaccettature che le caratterizzano e con le quali bisogna necessariamente confrontarsi. Per questa ragione fuorviante è, dal nostro punto di vista, il tentativo di categorizzazione proposto da Jerrold Levinson nell’opera The Pleasures of Aesthetics. Si tratta infatti di un percorso espositivo all’insegna della parzialità dove infine prevale la logica strumentale di far venire fuori quegli aspetti delle varie teorie che per qualche misura non pervengono ad una spiegazione dell’espressività esaustiva rispetto all’elenco dei desiderata dallo stesso stilato. Un elenco di esigenze cui, in ultimo, solo la sua teoria sembra soddisfare pienamente. Ma Levinson non è l’unico a muoversi seguendo una logica di questo tipo. Aspetto questo il più delle volte imbarazzante ma soprattutto dicevamo fuorviante perché ciò che infine sembra affermarsi come obiettivo 9 primario non è più quello di guardare al problema in esame ma controbattere nel modo più efficace e convincente le argomentazioni altrui. Ad ogni modo, questo è dunque il quadro sintetico delle posizioni in gioco, che come si è detto animano il dibattito analitico contemporaneo intorno al problema del rapporto tra musica ed emozioni. Mi sembra opportuno anticipare ora l’ordine secondo cui tali posizioni saranno esposte e analizzate nel corso della nostra ricerca. Nel primo capitolo, abbiamo voluto dar spazio ad un’introduzione di carattere generale del dibattito, esaminando i percorsi storici che hanno favorito la rinascita di questa particolare attenzione alla questione del rapporto musica-emozioni e disegnando anche i percorsi metodologici caratteristici della ricerca analitica. Fino poi a ricostruire in un percorso rapido e sintetico le premesse storiche che sono alla base del dibattito. Nel secondo capitolo, dedicato al tema musica-forma, un’attenzione particolare è stata destinata alla concezione di Peter Kivy. L’idea è stata quella di seguire attentamente le tappe più significative della sua indagine sul problema espressivo, fino ad arrivare all’approdo al formalismo arricchito (enhanced). Nell’ambito di questo percorso interessante è anche stato per noi seguire il dialogo che Kivy intrattiene con i filosofi contemporanei Levinson e Davies, in relazione al problema di come intendere il potere della musica di commuoverci e al tipo di emozioni che la musica è in grado di destare. Il passo successivo è stato poi quello di prendere in esame la teoria di Derek Matravers, sia in vista dell’aspra polemica con Kivy sia in considerazione del fatto che egli, anticipavamo, è uno dei più illustri rappresentati dell’altra tendenza riattivatasi nel dibattito. Infine nel terzo e ultimo capitolo abbiamo rivolto una particolare attenzione al tema dell’uso delle metafore nelle descrizioni musicali e a quello ad esso connesso dell’isomorfismo. Nello specifico, dopo aver dedicato una primissima parte ai testi seminali che sono alla base della discussione, interessante è stato per noi seguire il dialogo tra coloro che, come Zangwill e Scruton, sostengono, seppure per ragioni diverse, una concezione metaforica delle descrizioni della musica in termini emotivi e coloro che invece, come Budd e Davies, vogliono riaffermare la letteralità di siffatte descrizioni. Il nostro è stato un lavoro di esposizione e di analisi, e piuttosto che schierarci da una parte o dall’altra, abbiamo preferito invece il più delle volte portarci fuori dalle nette opposizioni e dalle polemiche, spesso sterili, derivate nella maggior parte dei casi da sottili distinzioni terminologiche e da etichette di vario genere. In tal senso, impor10 tante per noi è stato soprattutto rilevare invece quelle puntuali convergenze che di volta in volta emergono sotterraneamente, malgrado cioè i tentativi di dissimularle. La più significativa di queste convergenze è quella che abbiamo intravisto nell’idea dei teorici cognitivisti, i quali, pur muovendosi da posizioni che sembrano inconciliabili, quelle cioè di una risposta “dal basso” che riporta l’isomorfismo al suo massimo di necessità e di una risposta “dall’alto” che guarda invece a dinamiche intenzionali, hanno in ultimo sempre e comunque dovuto riconoscere il ruolo dei processi immaginativi in atto nell’esperienza musicale. Dimensione quella immaginativa decisiva, come emergerà nell’ultimo capitolo del nostro lavoro, tanto nelle teorie incentrate sulla metafora, tanto in quelle che, al contrario, vi rinunciano optando per una descrizione letterale dei termini implicati, che si pone come candidato principale a rivestire una funzione trans-categoriale, capace di stabilire cioè connessioni che favoriscono il passaggio da un dominio di riferimento concettuale ad un altro. Da questo punto di vista sembrerebbe infatti che la musica crei delle forze immaginative che favoriscono e orientano le nostre possibili associazioni. Inoltre, per quanto possa sembrare un azzardo una simile ipotesi, ci è parso infine che le distanze non siano nemmeno così accentuate, come invece potrebbe rivelarsi ad un analisi superficiale, tra i teorici cognitivisti e i teorici disposizionalisti, dal momento che la spiegazione dell’espressività musicale nell’uno e nell’altro caso deve sempre fare i conti tanto con le proprietà della musica quanto con l’incidenza soggettiva di chi fa esperienza di essa. Anche per il cognitivista Kivy questo è un dato con cui dover confrontarsi, e noi crediamo che egli stesso ne sia consapevole quando afferma che in realtà nella sua concezione emozione e cognizione non si diano come separate. E come Kivy anche Matravers riteniamo non possa fare a meno di riportarsi infine a delle proprietà che la musica comunque possiede e che ci predispongono ad un’emozione. Pensando soprattutto alla più aspra controversia che vi è tra i due, e d’accordo con quanto scrive Giovanni Piana sosteniamo che: «quanto più si esaspera il tema dell’oggettività e della sintassi, quanto più si sottolinea l’essere in sé dell’opera come un essere in sé che si separa da ogni legame con il mondo, tanto più nettamente l’impostazione del problema tende ad un completo ribaltamento non appena si avanza nuovamente la pretesa dell’espressione» 2 . Sembra dunque che quando ci si occupa del problema musica-emozioni non si possa venir fuori da quell’oscillazione cui accennavamo sopra, tra concezioni della mu2 G. Piana, Filosofia della musica, Guerini e Associati, Milano 1991, pag. 271. 11 sica che difendono la sua autonomia e concezioni che la vedono vincolata inscindibilmente alla nostra esperienza. Eppure, come abbiamo voluto far emergere, tirandoci fuori dalle polemiche, dalle obiezioni e contro-obiezioni che caratterizzano la ricerca analitica, il più delle volte quelle due concezioni possono semplicemente coesistere. Anzi è proprio nel segno di questa integrazione, di questo riportare le cose ad unità che riteniamo si possa gettare adeguatamente luce sul problema del rapporto tra la musica e le emozioni. Più significativa in questo senso ci è parsa la sfida ardua intrapresa dal gruppo dei teorici cognitivisti o sostenitori dell’esternalità, i quali, certamente consapevoli del limite in seno alla concezione formalista della musica come ‘universo chiuso’, hanno voluto aprire questo stesso universo al legame negato. Altrettanto interessante per noi è stato riscontrare come entro questo stesso ordine di idee l’ipotesi isomorfica, nella maggior parte dei casi, resti ancora, dopo cioè i precedenti significativi di Pratt e Langer, l’ipotesi più accreditata. Per quanto osteggiata e malvista, ad essa si ritorna, talvolta anche carsicamente. Secondo questa lettura, la relazione specifica della musica con le emozioni è una relazione primitiva, prevalutativa. Sentire questo rapporto non è cioè una conseguenza di un atto di adesione, di apprezzamento estetico, di valutazione; non ci sentiamo coinvolti emotivamente dalla musica perché ne riconosciamo il valore estetico, si tratta piuttosto di un legame originario che può confluire nell’apprezzamento di un valore, oppure no (Kivy, Budd, Davies, Levinson). Al contrario chi nega l’ipotesi isomorfica, esemplare in questo senso la teoria di Scruton, lo fa proprio in vista della presunta coincidenza di espressività e valore estetico. Una posizione questa, noi sosteniamo, d’accordo con quanto suggerisce Silvia Vizzardelli, «che fa circuitare pericolosamente la nozione di espressività con il riconoscimento del valore estetico, al punto che anche processi almeno all’origine d’impatto immediato, come la danza, vengono subito riassorbiti in esperienze più complesse e, potremmo dire, privati già in partenza della loro natura» 3 . 3 S. Vizzardelli, Musica, in Le arti nell’estetica analitica, (a cura di) Paolo D’Angelo, Quodlibet, Macerata, pag. 100. 12 CAPITOLO PRIMO Prospettive di ricerca e testi seminali 1. Il rapporto musica-emozioni al centro del dibattito Obiettivo del nostro lavoro è quello di volgere l’attenzione al rinnovato interesse del dibattito analitico per il tema musica-emozioni. Ci soffermeremo in particolare su tre questioni specifiche fondamentali, l’espressività della musica, il ruolo delle emozioni nell’esperienza musicale e l’incidenza delle allusioni emotive nelle descrizioni musicali. Tali questioni saranno esplorate alla luce di quelle che ad oggi possiamo considerare le più significative proposte teoriche degli studiosi di area angloamericana. Poiché, tuttavia, in Italia l’attenzione per questo tema specifico dell’estetica analitica è ancora modesta 4 , riteniamo opportuno, almeno in questa prima parte, dare spazio ad una presentazione generale del dibattito, ricostruendo i percorsi che hanno favorito e, allo stesso tempo, accompagnato la nascita di una nuova attenzione per la tradizionale questione del ruolo del sentimento nella musica (sappiamo infatti che la discussione su questo tema è centrale nel pensiero musicale sin dagli albori della riflessione filosofica), ma anche e soprattutto analizzando quali sono i percorsi metodologici che definiscono e insieme strutturano l’identità della ricerca estetica analitica. Tra la seconda metà del XIX sec. e buona parte del XX, la riflessione filosofica sulla musica non occupava più una posizione significativa nemmeno nell’ambito delle filosofie orientate verso tematiche di ordine estetico. Il tributo di Susanne Langer a quest’arte intesa come simbolo presentazionale o incompiuto che possiede proprietà formali simili a quelle del feeling umano, sancisce un vero e proprio momento di svol- 4 In realtà, come riferiscono Giovanni Matteucci e Paolo D’Angelo nel fascicolo monografico di «Discipline filosofiche», Elementi di estetica analitica, in Italia, purtroppo, si registra ancora una scarsa attenzione rispetto all’intero settore della recente filosofia analitica dell’arte. Se pure, possiamo constatare che dall’uscita di quel saggio, nel 2005, ad oggi la situazione è visibilmente mutata. “Discipline filosofiche” XV 2005, Elementi di estetica analitica, a cura di Giovanni Matteucci, Quodlibet, Macerata, 2005. (Avvertenza del curatore, pag. 5, Analitici e Continentali, in estetica, pp. 7-23). A conferma di quanto detto ecco alcuni testi di riferimento: Introduzione all’estetica analitica (a cura di) Paolo D’Angelo, Laterza, Roma, 2008; Estetica e Filosofia Analitica, (a cura di Pietro Kobau, Giovanni Matteucci e Stefano Velotti), Il Mulino, Bologna, 2007; S. Chiodo, Che cosa è arte. La filosofia analitica e l’estetica, Utet Università, Torino, 2007; A. Ottobre, Sulle proprietà estetiche, in «Rivista di Estetica», XLIII, 23, 2003, pp. 84-106; A. Ottobre, L’abuso delle proprietà estetiche, in «Rivista di Estetica», XLVII, 35, 2007, pp. 293-310. S. Velotti, L’opera d’arte: una nozione classificatoria o normativa? Note su Goodman, Danto e Dickie, in «Studi di Estetica», III serie, 31, 1, 2003; S. Velotti, La scelta di Danto, in «Rivista di Estetica», III serie, 35, 2, 2007; S. Velotti, Estetica analitica: un breviario critico, Aesthetica Preprint, Palermo, 2008; S. Velotti e A. Ottobre, Le proprietà estetiche, in A. Coliva, Filosofia analitica. Temi e problemi, Carocci, Roma, 2007, pp. 307-330. P. Kobau, Ontologie analitiche dell’arte, Milano, AlboVersorio, 2005; Estetica analitica/1 (a cura di) Fernando Bollino, in «Studi di Estetica», 27, CLUEB, Bologna, 2007; Estetica analitica/2, Id., in «Studi di Estetica», 28, CLUEB, Bologna, 2007; Le arti nell’estetica analitica, (a cura di) P. D’Angelo, cit. 14 ta 5 . Interessante, a tale proposito, riportare qualche testimonianza. In quella di Peter Kivy ad esempio, uno dei più eminenti filosofi contemporanei della musica di area angloamericana, facilmente rinveniamo il segno di questo attestato riconoscimento al lavoro di Langer, la quale – egli evidenzia – con la pubblicazione nel 1941 di Philosophy in a New Key, è riuscita a rompere il silenzio in cui era caduta la riflessione filosofica sulla musica dopo la pubblicazione de Il bello musicale di Eduard Hanslick (1854). Queste le sue parole a riguardo: Per la restante parte del diciannovesimo secolo e per buona parte del ventesimo, la speculazione filosofica relativa alla musica è rimasta in ombra. L’Inghilterra ha prodotto, nel 1880, un capolavoro, The Power of Sound di Edmund Gurney, ingiustamente trascurato per via della sua prosa ampollosa e delle sue dimensioni ingombranti. Il resto è silenzio, fino a che, nel 1941 Susanne K. Langer risuscitò, da sola, la filosofia della musica nel suo libro, Philosophy in a New Key. Il fatto che tale libro avrebbe avuto un grande impatto è qualcosa di veramente notevole, dato che solo uno dei suoi dieci capitoli ha a che fare con la musica. Ma il titolo del libro, dopo tutto, faceva riferimento alla musica, e suggeriva quindi che la musica era al cuore del progetto. Ad ogni modo, è ciò che la Langer scrisse sulla musica in quel libro che ebbe profonde conseguenze, e che lo ha consegnato alla memoria 6 . In realtà, come spiega opportunamente Kivy in questa stessa citazione, in quel periodo di stasi, in Inghilterra nel 1880 fu pubblicato il capolavoro di Edmund Gurney, The Power of Sound, il quale però fu ingiustamente trascurato a causa della sua ridondante prosa e delle voluminose dimensioni. Non ottenne quindi il rimarchevole effetto sortito dall’opera di Langer. Un effetto secondo Kivy tanto sorprendente quanto più si tiene conto del fatto che solo uno dei dieci capitoli che compongono quell’opera è interamente dedicato alla musica. Ciò nonostante – egli tiene a sottolineare – esso è sufficiente a renderci testimonianza del fatto che la musica sta al centro della sua impresa. Quanto Langer ha detto della musica in quel libro ha avuto un effetto molto profondo, ed è questa la ragione per cui merita di essere ricordata. Poco più avanti aggiunge: 5 Cfr. Giovanni Piana, Intorno alla filosofia della musica di Susanne Langer, materiali di lavoro per un corso sul tema “Fenomenologia dell’espressione e filosofia della musica” tenuto nel 1986 (Università di Milano, Insegnamento di Filosofia teoretica I), pag. 2; Cfr. S. Vizzardelli, Filosofia della musica, Laterza, Roma, 2007, pag. 77. 6 Peter Kivy, New Essays on Musical Understanding, Clarendon Press, Oxford, 2001, pag. 96. Traduzione mia. D’ora in poi, dove non diversamente indicato, le traduzione sono mie. 15 Per quel che mi riguarda, il suo negare che la musica potrebbe incarnare la particolare emozione che identifichiamo senza difficoltà in essa, inficia automaticamente il suo lavoro di ricerca, ma non dirò nient’altro al riguardo, se non ribadire che la Langer ha fatto sì che la musica tornasse ad essere un significativo oggetto d’indagine per il mondo filosofico anglo-americano, e ha preservato l’intuizione di Schopenhauer secondo cui l’espressività musicale si trova nella musica e non nell’ascoltatore. Per questi motivi a lei va il mio encomio e la mia gratitudine 7 . Anche qui possiamo cogliere più manifestamente i segni di questo tributo di Kivy a Langer, nella misura in cui le riconosce esplicitamente il doppio merito di avere reintrodotto la musica nel mondo della filosofia angloamericana come privilegiato oggetto di esame e di avere saputo valorizzare la teoria schopenhaueriana della musica secondo la quale l’espressività della musica risiederebbe non più nella capacità dell’ascoltatore di coglierla, ma nella musica stessa. Non è diversa la posizione di Stephen Davies – altro esponente di primo piano nell’ambito della filosofia analitica della musica – il quale anch’egli, nell’opera Musical Meaning and Expression 8 , non ha potuto fare a meno di evidenziare la rilevante influenza del pensiero di Langer, seppur limitandola soprattutto al ruolo che essa ha svolto nell’ambito degli studi di ermeneutica. La posizione della Langer ha sempre attirato sostenitori. L’ “estetica semiotica ,” di cui la teoria di Langer è un esempio imprescindibile, ha avuto il suo apice tra il 1940 e il 1950. Questo tipo di teoria non è molto più in voga tra i filosofi analitici anglo-americani dell’arte (si veda, tuttavia, Tarasti 1987), ma il fantasma della teoria langeriana sopravvive nell’ermeneutica europea 9 . Innegabile quindi il fatto che è proprio a partire dal lavoro di Langer che il tema del rapporto musica-emozioni è diventato protagonista – con una ricca fioritura soprattutto negli ultimi trenta anni – della riflessione filosofica sulla musica in area angloamericana. Come avremo modo di verificare in un secondo tempo, tutti coloro che si sono occupati di questo tema hanno dovuto fare i conti con le sue tesi, a volte anche tentandone il superamento. Quello di Langer, di fatto, è un merito riconosciuto anche da 7 Ibidem, pag. 97. S. Davies, Musical Meaning and Expression, Cornell University Press, Ithaca, 1994. 9 Ivi, pag. 124. L’immagine di questa teoria come fantasma che sopravvive in Europa pensiamo sia massimamente esplicativa dell’importanza che essa ha avuto e, aggiungiamo, ha ancora oggi. Anticipiamo, se pure prematuramente, che tale presenza è tangibile tanto quanto il fatto che ad oggi dall’impostazione langeriana della relazione della musica con le emozioni come una relazione di tipo isomorfico quasi nessuno degli studiosi è realmente riuscito a prendere le distanze. 8 16 chi ha poi sviluppato metodi e prospettive diverse e dunque si è allontanato dalle sue tesi 10 . La musica torna così ad assumere all’interno del pensiero novecentesco un ruolo centrale, se non di primo piano, e sappiamo anche, adesso, che l’humus di questa rinnovata attenzione alla musica ed ai problemi estetici che ad essa si legano è quello dell’eredità tramandataci da Langer. Questo anche e soprattutto a dispetto di certe poetiche musicali novecentesche che hanno invece preferito dedicare la propria energia ed attenzione ai problemi della tecnica e della forma, con un non trascurabile sospetto per chiunque tentasse di indagare esteticamente o psicologicamente la portata emotiva della musica. Il segno più manifesto di questa apertura si può cogliere nell’ambito di una vastissima produzione di scritti (articoli, monografie) interamente centrati sul nostro tema. Più precisamente, partendo dal riconoscimento che tra la musica (assoluta) e le emozioni certamente deve esserci una qualche relazione, ci si interroga su questioni del tipo: 1. In che modo è possibile giustificare tale relazione? In che senso può sussistere? 2. La musica ha una propria dimensione espressiva oppure la sua portata emotiva è inevitabilmente vincolata alla nostra risposta emotiva? 3. E, se la musica incarna le emozioni nella propria struttura ci si chiede ancora: in che modo la musica può esprimere le emozioni nella varietà delle loro sfumature? 4. Qual è il ruolo delle proprietà espressive e quale il loro legame con la struttura musicale cui appartengono? 5. Che cosa significa essere profondamente commosso o impressionato dalla musica? 10 Vedi, ad esempio, L. Addis, Of Mind and Music, Cornell University Press, New York, 1999, p. IX: «Molti anni fa, quando ero studente universitario in musica e prima di intraprendere uno studio formale della filosofia, lessi il libro di Susanne Langer, Philosophy in a New Key. Allora ero già stato colpito dal potere della musica, e perciò il libro esercitò su di me un forte impatto, in quanto sembrava che contenesse una spiegazione plausibile del perché la musica è così importante per la vita di così tante persone e ha una certa importanza nella vita di pressoché ciascun individuo. […] Sto raccontando questi dettagli autobiografici non perché essi hanno qualcosa a che fare con la verità o con la plausibilità della teoria della Langer o della mia, ma per individuare da subito quello che è il singolo e principale riferimento per le riflessioni che seguono. La mia teoria è uno sviluppo e una estensione della sua, e, pur distinguendosi per alcuni dettagli e soprattutto per lo scopo e per i fondamenti, non sarebbe stata possibile senza di essa». 17 6. Come intendere la nostra risposta emotiva alla musica? 7. Inoltre, altro problema nodale: la musica assoluta in quanto arte priva di testo, titolo o programma, ha una sua profondità, può essere in qualche modo vincolata a contenuti rappresentativi determinati, oppure si tratta di un’arte esclusivamente formale? 8. La musica può essere paragonata a un sistema simbolico simile a quello della lingua? 9. La relazione della musica con le emozioni è una relazione di tipo causaeffetto? Ora, la possibilità di dare una descrizione adeguata di quelli che potremmo definire gli aspetti costitutivi dell’identità di questo dibattito su un tema e un’arte specifici, passa dall’individuazione dei “tratti comuni” che interessano e insieme strutturano l’intero ambito della ricerca analitica 11 . Uno di questi “tratti comuni” è rintracciabile nella tendenza a prediligere una scansione dei contenuti filosofici per problemi e soluzioni (cosa significa rappresentare un oggetto in pittura? La musica può rappresentare qualcosa? Che cosa significa per un’immagine esemplificare qualcosa? Che tipo di piacere procura l’ascolto musicale? In che senso il tempo entra nella nostra percezione della pittura? In che misura la storia della produzione di un’opera d’arte è rilevante per il suo apprezzamento?). Interessante per noi è che quasi sempre il problema tende ad essere affrontato con particolare attenzione ad una singola forma artistica (ci si interroga sull’ontologia dell’opera musicale, sulla rappresentazione nella pittura): esiste, per così dire, un’attenzione particolare per le cosiddette “estetiche speciali” 12 . Inoltre, tratto caratterizzante dell’impostazione analitica è quella che potremo chiamare la “circolarità” della discussione. Mi riferisco al fatto che ciascuno degli aderenti al dibattito realizza, quasi sempre, l’opportunità di pervenire all’individuazione di una propria chiave interpretativa o di aderire ad una determinata prospettiva, confrontandosi non solo con quelle teorie che hanno segnato la riflessione filosofica sulla mu11 Un’utile informazione a tale riguardo è quella di Paolo D’Angelo, il quale seguendo le indicazioni di Franca D’Agostini, ripropone le quattro definizioni, mediante le quali si può tentare di dare risposta alla domanda “Cos’è la filosofia analitica?”, (nella quale egli evidenzia rientra anche quella specifica sull’estetica analitica): definizione storica (riferimenti ad autori e scuole), filosofica (assunzioni fondamentali e premesse metodologiche caratterizzanti), stilistica (forma del discorso e sviluppo argomentativo), metafilosofica (concezione della filosofia e dei suoi compiti). Cfr. F. D’Agostini, Che cos’è la filosofia analitica?, in F. D’Agostini e N. Vassallo, a cura di, Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 3 sgg. 12 Per ulteriori approfondimenti cfr. Le arti nell’estetica analitica (a cura di) P. D’Angelo, cit., pag. 7-12, 49. 18 sica (tra queste, quella di Hanslick, Schopenhauer, Langer, Pratt, Meyer, Gurney, Cooke, Wittgenstein), ma anche e soprattutto creando una sorta di dialogo intrecciato, mediante il quale ognuno può rinviare costantemente alle posizioni teoriche dell’altro. Nessuno di loro, infatti, rinuncia ad un continuo e reciproco scambio; quasi come se questa conversazione si svolgesse attorno ad una tavola rotonda, nella quale le opinioni rimbalzano continuamente da un punto all’altro senza uscire mai al di fuori di essa. Gli esempi migliori a tale proposito sono quelli ricavati dall’esperienza diretta della lettura di alcuni di questi saggi, per esempio quello di Malcolm Budd, il quale nella prefazione a Music and the Emotions 13 , dopo avere introdotto il tema di questa sua opera, motiva la scelta personale di costruire l’indagine proprio a partire da un attento esame delle principali teorie del rapporto musica-emozioni, evidenziando il fatto che l’intento non è certamente quello di fornire una ricostruzione di tipo storiografico, bensì di investigare sulla possibilità o meno che esistano dinamiche relazionali tra suoni ed emozioni, per approdare così ad una personale soluzione del problema. Ne consegue la scelta di operare secondo questo particolare metodo di confronto, vale a dire: valutando attentamente e portando all’esame critico quelle teorie che a parer suo rappresentano il contributo più significativo sull’argomento, Budd tenta di creare le premesse necessarie ad un superamento di limiti e incongruenze riscontrate. L’applicazione di simile procedimento favorisce l’individuazione di due linee teoriche generali, emblematiche: nella prima colloca quel gruppo di studiosi (Hanslick, Pratt e Gurney) che ha cercato di dissolvere qualsiasi tentativo di subordinazione della musica alle emozioni, siano esse dell’ascoltatore, dell’esecutore o del compositore, mentre nella seconda prende in considerazione le teorie di coloro (Schopenhauer, Langer e Cooke) che per diverse ragioni hanno invece pensato di subordinare il valore estetico della musica alla significante relazione con i sentimenti. Da questo tipo di suddivisione resta fuori invece la teoria di Leonard Meyer, poiché – precisa Budd – si tratta di una teoria ibrida che cerca di conciliare i due opposti punti di vista, quello del “formalismo” e dell’“espressionismo”. Se in questo caso specifico, come si è evidenziato, il percorso d’indagine si struttura mediante l’unico canale dei riferimenti prelevati, molto selettivamente a dire il vero, dalla tradizione del pensiero estetico, essendo questa un’opera del 1985, cioè di un periodo in cui il dibattito cominciava a prender piede, esistono invece altri esempi 14 13 M. Budd, Music and the Emotions. The Philosophical Theories, Routledge and Kegan Paul, London, 1985, Prefazione, pp. x, xi, xii. 14 Cfr. ad esempio, Peter Kivy, New Essays on Musical Understanding, cit.; Id., Introduction to a Philosophy of Music, Oxford University Press, New York, 2002; trad. it. Filosofia della musica. 19 di opere nelle quali il riferimento alla tradizione filosofica viaggia accanto al dialogo serrato con quelli che potremmo chiamare i compagni di viaggio, con quella comunità di studiosi ed interpreti che si muove intorno allo stesso problema. È il caso anche di dire che spesso questi due piani vengono ad intersecarsi strutturando così un campo di tensione nel quale le varie posizioni gravitano, o come dicevamo poc’anzi, circolano tutte in un’area comune che è quella di questa rinnovata attenzione alla musica e alla relazione di essa con il sentimento. Riassumendo, possiamo dunque dire che l’impronta circolare del dibattito definisce un metodo e incide anche sul piano propriamente stilistico dell’argomentazione che è quello, parafrasando ancora una volta D’Angelo, nel quale forse si fa massima la tensione fra analitici e continentali, in estetica, vale a dire: il relativo chiudersi degli estetici analitici nella propria tradizione che si incrocia peraltro e coesiste con l’altra “chiusura alla storia dell’estetica”. Nella tavola rotonda attorno cui siedono questi studiosi, potremmo dire, che non tutti gli ospiti sono ben accetti. La tendenza degli analitici è infatti quella di fare cerchio non solo attorno ai problemi specifici inerenti le singole arti ma anche attorno ad una tradizione filosofica selezionata secondo criteri stabili. In questo senso, la circolarità del dibattito è quindi da noi identificata come una chiusura, che è pur vero, non sempre è del tutto ermetica. In effetti, come in parte abbiamo già evidenziato, non è difficile individuare quali sono i capisaldi teorici su cui poggia la riflessione degli analitici sul tema qui in questione, vista la ricorrenza degli stessi autori e delle stesse tesi come presupposti comuni della discussione. Potrei quindi come in uno schema così evidenziarli: — l’impostazione langeriana del rapporto musica-emozioni; — la concezione formalista di Eduard Hanslick; — la teoria schopenhaueriana della musica; — l’idea (Wittgenstein e Cooke) di una possibile analogia tra simbolismo musicale e simbolismo linguistico; — il motto di Pratt “music sounds the way the emotion feel”, alla base delle tesi isomorfiche; Questo almeno per quanto concerne strictiori sensu le premesse storiche, mentre per quello che riguarda da vicino il dibattito vivo, possiamo senz’altro individuare anche qui come in uno schema le teorie più importanti: Un’introduzione, Einaudi, Torino, 2007. Malcolm Budd, Music and the Emotions: The Philosophical Theories, cit.; Stephen Davies, Musical Meaning and Expression, cit. 20 — La teoria cognitivista (Peter Kivy); — La teoria metaforica (Nick Zangwill, Roger Scruton); — La teoria della persona (Jerrold Levinson); — La teoria della tendenza o del contagio (Stephen Davies); — La teoria sintomatica delle emozioni o modello disposizionale (Derek Matravers); — La teoria finzionale (Malcolm Budd) In realtà, sappiamo anche che negli ultimi anni la ricerca analitica sta iniziando a muoversi in una nuova direzione, cercando di colmare lo “spazio vuoto” derivato da questa secchezza di riferimenti alla tradizione, e allo stesso tempo, lo abbiamo detto, dalla circoscrizione dello spettro d’indagine alle tesi degli autori a loro prossimi. Viene meno, per così dire, sul piano argomentativo quella copiositas, quella densità che scaturisce inevitabilmente dal reperimento dei loci communes o luoghi comuni, cioè degli argomenti che l’esperienza ha accumulato relativamente a qualsivoglia soggetto di discussione. Si tratterebbe quindi, secondo l’insegnamento di Vico nella più celebre delle sue sette orazioni inaugurali, la De nostri temporis studiorum ratione, di arricchire con la topica il repertorio di argomenti 15 , per evitare che la ricerca si sclerotizzi intorno a nodi problematici ripetitivi. Crediamo quindi che, come anche in questo caso ha saputo bene evidenziare D’Angelo, il relativo chiudersi degli estetici analitici nella propria tradizione è insieme un punto di forza e un elemento di debolezza: Un punto di forza, perché il fatto che si parta da un numero limitato di autori, prossimi nel tempo e omogenei (un po’come se si passa il paragone, nei sistemi di common low vige il principio dello stare decisis), rende la discussione molto più intensa di quanto non appaia nella nostra tradizione filosofica, dove le varie tradizioni spesso si sovrappongono senza incontrarsi o, se si incontrano, non riescono a dialogare veramente. Chi segua attraverso gli anni le due maggiori riviste dell’estetica analitica, il «Journal of Aesthetics and Art Criticism» americano e il «British Journal of Aesthetics» inglese, non può non restare colpito dalla frequenza delle riprese dei medesimi temi o problemi, e dal numero di saggi che dialogano con altri saggi. Questa forza è però pronta a rovesciarsi in una debolezza. L’orientamento quasi esclusivo verso autori di lingua inglese (parlo sempre dell’estetica, questo vale meno per altra filosofia analitica) e recenti non solo fa correre continuamente il rischio di cadere nella fallacia della ignoratio elenchi (cioè nel lasciarsi sfuggire qualche soluzione o 15 Cfr. G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, Armando, Roma, 1974, pag. 25. Sappiamo che il termine topica o inventio indica la prima delle cinque parti della retorica, quella concernente, appunto, il reperimento dei topoi ovvero di tutti quegli aspetti sotto i quali è possibile considerare una questione. 21 proposta decisiva, solo perché formulata troppo tempo fa o in una lingua diversa dall’inglese) ma affida una drammatica responsabilità, diciamo così al capostipite della discussione 16 . Ogni scelta è tale, definisce e allo stesso tempo struttura sempre un campo d’azione, il prezzo da pagare è che tutto quello che in questo non rientra resta inevitabilmente ai margini, e forse è anche naturale le cose stiano così; è pur sempre vero però che questo riconoscimento non dovrebbe nemmeno esimerci dal ponderare responsabilmente e accuratamente i pro e contro della scelta operata poiché è solo muovendosi da tale consapevolezza che il cammino di ogni ricerca, di qualsiasi tipo essa sia, può crescere, migliorarsi e arricchirsi. È in questo che riconosciamo meglio anche il segno distintivo di ogni possibile percorso di ricerca. Di questa nostra invece vogliamo ripercorrere i momenti più significativi, se pur anche noi operando delle scelte nel ventaglio molto ampio delle innumerevoli posizioni e spaziando nella complessità delle sottili sfumature di certe proposte teoriche, soprattutto di quelle che rappresentano il maggiore contributo all’argomento. Ma di questo renderemo conto più avanti con maggiore precisione. Per ora ci preme sottolineare, prima di concludere questa panoramica introduttiva, che un altro dei compiti fondamentali che speriamo di portare a termine in questa ricerca è quello di combattere contro il pregiudizio negativo che oramai da tempo si registra in Italia nei confronti della ricerca analitica 17 . C’è chi ci aiuta in questo. È stata appena edita da Einaudi la traduzione italiana del testo di Peter Kivy, Introduction to a Philosophy of Music 18 . È una goccia d’acqua nel deserto, ne pioveranno forse di nuove. Noi ce lo auguriamo, figurandoci nel pensiero che anche questo lavoro sul problema del rapporto musica-emozioni possa servire a riscattare l’estetica analitica dalla dimensione marginale in cui è stata relegata fino a non molto tempo fa. Ancora una volta, come ha saputo sottolineare D’Angelo, nel saggio al quale abbiamo più volte fatto riferimento in questo primo paragrafo, Analitici e continentali, in estetica, e come vogliamo sottolineare anche noi: Benedetto Croce diceva dei metodi della critica letteraria che sono tutti buoni quando sono buoni. La stessa cosa si potrebbe ripetere a 16 P. D’Angelo, Analitici e Continentali, in estetica, cit., pp. 20-21. Le ragioni di questa scarsa fortuna dell’estetica analitica presso di noi sono diverse. Anche in questo caso preferiamo rinviare al breve, ma denso saggio di introduzione di Paolo D’Angelo, il quale fornisce tutta una serie di valide indicazioni a tale proposito. 18 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit. In realtà, per completezza d’informazione, è anche giusto precisare che esistono traduzioni di altri saggi di filosofi angloamericani, dei quali solo alcuni riguardano specificamente la musica. 17 22 proposito dei metodi filosofici. Per chi è interessato a discutere problemi, non ad attaccare etichette a questo o quel pensatore, le diatribe sulle appartenenze, le scuole o gli orientamenti non possono che apparire oziose, quello che conta essendo quanto ognuno, dal proprio punto di vista, può apportare alla chiarificazione del punto di cui si discute. Se è in giuoco un problema identificabile, diventa subito manifestamente assurdo non prendere in considerazione quello che molti altri hanno fatto per risolverlo19 . E la filosofia della musica molto ci aiuta in questo cammino, se è vero quanto Giovanni Piana ha affermato nel suo breve saggio Intorno alla filosofia della musica di Susanne Langer: Ad una filosofia della musica noi chiederemmo ciò che chiediamo alla filosofia in genere: che aguzzi la nostra capacità di distinguere; che attiri la nostra attenzione su questo e quello, che ci fornisca strumenti svariati e criteri, guide ed orientamenti per discutere problemi che sorgono sul terreno, e soprattutto che sappia insegnarci la complessità e ci fornisca alcune tracce per penetrarla20 . 2. Premesse storiche Ricostruiremo ora le premesse storiche del dibattito, tenendo conto del fatto che gli autori di cui ci occuperemo sono autori complessi che in nessun modo abbiamo intenzione di affrontare, per così dire di petto, poiché scopo di questo primo capitolo è quello di portare in chiaro solo i centri di interesse per il dibattito analitico. Nostro compito sarà quello quindi di enucleare soltanto quanto della loro riflessione interessa specificatamente il problema qui affrontato, la relazione tra la musica e le emozioni, creando così un apparato teorico funzionale a quello che sarà il lavoro successivo. Lavoro mediante il quale, mettendo insieme i pezzi, perverremo ad una visione d’insieme. Quello che intendo dire è che, una volta compiuto questo primo passo a ritroso, più facilmente potremo avvicinarci, ad esempio, alla concezione metaforica di Zangwill, vedere in che modo egli riprende la tesi hanslickiana, oppure capire quali differenze in19 20 P. D’Angelo, Analitici e continentali, in estetica, cit., pag. 23. G. Piana, Intorno alla filosofia della musica di Susanne Langer, cit., pag. 14. 23 tercorrono, se differenze poi realmente sussistono, tra il formalismo arricchito (enhanced) di Peter Kivy e il formalismo, ancora una volta, di Hanslick. Si potrà inoltre far emergere la straordinaria variabilità dei modi di intendere il sentimento, talora concepito come tonalità emotiva di fondo (pensiamo alla nozione langeriana di feeling, nell’accezione più ampia di qualsiasi cosa possa essere sentito), o, ancora prima, come sentimento in abstracto (Schopenhauer), e alla opposta concezione hanslickiana del sentimento sempre determinato dal contesto d’esperienza. Nozione, quella del sentimento, sulla quale inevitabilmente si gioca la partita per gli estetici analitici, ma anche per noi che tenteremo di orientarci, chiarendo le diverse prospettive teoriche, sia di quelle che guardano al sentimento come prodotto di un’esperienza particolare, la quale definisce l’intenzionalità del sentimento stesso, e negano quindi alla musica la capacità di rinviare ad un simile contesto (presupposto sul quale, possiamo sin da ora anticipare, si basa la cosiddetta teoria metaforica delle emozioni), sia di quelle che, spostando l’oggetto intenzionale dal piano della vita a quello del suono, ritengono si possa parlare di un vero e proprio sentimento della musica (la tesi in questo caso è quella alla base della cosiddetta teoria cognitivista). Tenteremo, inoltre, di esplorare quelle teorie che ci offrono una concezione anemica dell’emozione musicale, la teoria della persona e la teoria del contagio, senza trascurare il riferimento alla tesi più osteggiata, quasi fosse l’unico nemico da combattere, la cosiddetta teoria sintomatica delle emozioni o modello disposizionale. Dalle tracce di questa parziale ed estremamente selettiva ricostruzione storiografica delle tesi di Schopenhauer, Hanslick e Langer, risaliremo quindi alle posizioni teoriche degli autori che qui ci interessano, che sono poi gli stessi, come avevamo già preannunciato, le cui teorie costituiscono il più significativo contributo all’indagine sul tema musica-emozioni in area angloamericana. È su queste proposte teoriche, siamo certi oramai, che s’innesta la discussione degli estetici analitici. Dalla nostra panoramica storica resteranno fuori, ma solo temporaneamente, altre tesi di autori – come Pratt, Gurney, Cooke, Meyer e Wittgenstein – che occupano anch’essi un ruolo significativo nell’ambito di questa indagine. Faremo quindi con una rapida, ma intensa incursione, un percorso a ritroso all’interno di quelle teorie che per diverse ragioni sono state elette da alcuni degli aderenti al dibattito come le più rappresentative della riflessione filosofica sul rapporto tra musica ed emozioni, a partire dal diciannovesimo secolo: periodo nel quale, sappiamo, affonda le radici se non tutta, almeno una buona parte, della discussione degli estetici 24 analitici su questa specifica problematica. A tale proposito, non ci sembra nemmeno scontato segnalare il fatto che la loro decisione di operare destinando una maggiore attenzione a quel periodo storico in particolare, non è una decisione di per sé casuale, bensì essa ci appare motivata e parallelamente guidata dal fatto che quello fu il momento in cui si realizzò per la prima volta una significativa e decisiva svolta rispetto al tradizionale modo di intendere l’espressività musicale 21 . Ad essere felicemente archiviato, secondo Kivy, è proprio il modello disposizionale, che a partire dalla filosofia platonica, attraverso la camerata fiorentina nel XVI secolo, giunge ai nostri giorni con la cosiddetta “arousal theory of emotions”. La ‘convinzione’ che supporta tali teorie è che la musica è triste o felice perché ha il potere di suscitare tali emozioni nell’ascoltatore. A tale proposito, lo stesso Kivy, sostiene che la teoria schopenhaueriana delle emozioni musicali è la prima delle due rivoluzioni che il diciannovesimo secolo produsse. La seconda avvenne nel 1854, nella forma di un libricino del musicista e critico musicale viennese Eduard Hanslick 22 . A queste due rivoluzioni, seguì un altro punto di rottura cui abbiamo già accennato. L’artefice questa volta fu Susanne Katherina Langer, la quale riuscì ad interrompere con la pubblicazione nel 1942 di Philosophy in a New Key, il silenzio che si determinò dopo l’uscita del trattato di Hanslick, favorendo così una vera e propria rinascita degli studi filosofici sulla musica. Una rinascita che continua ancora oggi. Interpelliamo ancora una volta Kivy, il quale così dispiega questi passaggi nell’itinerario di “una breve storia”, a partire dalla quale ripercorre, talvolta praticando voli pindarici, i risultati più significativi conseguiti dalla storia dell’estetica musicale sul tema musicaemozione 23 . Queste le sue parole a riguardo: Più o meno sessanta sterili anni nella filosofia della musica, almeno nel mondo anglofono, separano la maggiore opera di Gurney da quello che è considerato l’evento inaugurale, anche se un po’ prematuro, della vera e propria rinascita delle discussioni filosofiche su queste questioni negli Stati Uniti e in Inghilterra, rinascita che continua mentre sto scrivendo. Fu nel 1942 che Susanne K. Langer (1895-1985) pubblicò la Philosophy in a New Key, un’opera che doveva avere una 21 Cfr. P. Kivy, New Essays on Musical Understanding, cit., pp. 92-97; Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pp. 19-38. 22 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pag. 28. 23 Il riferimento è al secondo capitolo dell’opera Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pp. 19-38. Avvertiamo che la scelta di ricorrere, per la spiegazione di alcuni passaggi (soprattutto in questa fase, che è una fase, teniamo a precisare, preliminare del lavoro), alle tesi di un autore particolare, è dettata semplicemente dalla semplificazione che l’attuazione di questo procedimento può favorire. Attuabile, nella misura in cui, come avevamo precedentemente annunciato, uno dei presupposti accomunanti la discussione degli estetologi analitici è quello di ricorrere frequentemente agli stessi autori e alle stesse tesi. 25 profonda ripercussione sul pensiero musicale e che ricordò ai filosofi dell’arte che la musica aveva fortemente bisogno della loro attenzione. In particolare la Langer ridiede slancio al dibattito sulla relazione tra la musica e le emozioni. Nonostante il suo titolo «musicale», Philosophy in a New Key non è un libro di filosofia della musica; infatti, soltanto uno dei suoi capitoli, On significance in Music, è un diretto contributo a questo tema. Tuttavia, ciò che la Langer sostiene qui a proposito del problema del significato della musica, che ella crede sia in potenza un simbolo emotivo, toccò una corda ricettiva, dopo quasi cent’anni di scetticismo, particolarmente fra quei teorici e filosofi della musica che stavano forse cominciando a diventare anch’essi un po’ scettici riguardo allo scetticismo emotivo di Hanslick, e stavano cercando una via d’uscita 24 . Prima di passare dunque al dibattito vivo degli estetici analitici, mi soffermerei sulle premesse storiche che hanno sorretto e animato la discussione, isolando per ora solo i nodi teorici che mi paiono più presenti in quel dibattito. 2. 1 ARTHUR SCHOPENHAUER «L’arte, nodo cruciale in cui per Arthur Schopenhauer (1788-1860) si annodano fino a confondersi il momento estetico, l’istanza etica e l’afflato mistico, è la prima via della liberazione dall’illusione e dal dolore. Come desiderio sempre insoddisfatto la vita è pena e lo stesso piacere non vi costituisce che un momento negativo, una pausa nel soffrire ininterrotto. Superato in maniera definitiva solo con l’ascetica estinzione della volontà, il dolore cosmico (Weltschmerz) può essere almeno momentaneamente mitigato dall’azione, insieme rivelatrice e catartica, delle arti»25 . Per iniziare, ci siamo serviti di questa citazione – tratta dall’Estetica musicale di Giovanni Guanti – poiché riteniamo che in essa si trovino, rapidamente condensate, le premesse fondanti la teoria dell’arte di Schopenhauer, al cuore della quale troviamo gerarchicamente collocata, in primo piano, la musica: Dopo avere fin qui considerato, in quella forma generale che è adeguata al nostro punto di vista, tutte le arti belle, a cominciare dall’architettura, il cui fine in quanto tale è di rendere chiara 24 25 Ivi, pp. 34, 35. G. Guanti, Estetica musicale, La Nuova Italia, Firenze, 1999, pag. 324. 26 l’oggettivazione della volontà nel grado più basso delle sua visibilità, dove essa appare come cupo premere della massa, automatico e privo di conoscenza e tuttavia rivela già un’interna divisione e lotta, ossia tra la gravità e la solidità; - per chiudere poi la nostra trattazione con la tragedia, che, nel più alto grado di oggettivazione della volontà, ci mette davanti agli occhi, con terribile grandezza e chiarezza, appunto quel suo dissidio con se stessa; - troviamo che un’arte bella è rimasta tuttavia, e doveva rimanere, esclusa dalla nostra trattazione, in quanto nell’ordine sistematico della nostra esposizione nessun luogo era ad esso adatto: è la musica. Essa se ne sta affatto isolata da tutte le altre. In essa noi non riconosciamo l’imitazione, la riproduzione di una qualche idea degli esseri del mondo; tuttavia essa è un’arte così grande e straordinaria e magnifica, agisce così potentemente sull’intimo dell’uomo, viene qui così completamente e così profondamente da lui compresa, come una lingua universalissima la cui chiarezza sorpassa finanche quella dello stesso mondo intuitivo […] 26 . Tra le arti, nella considerazione di Schopenhauer, la musica è certamente la forma più alta: la ragione di questo privilegio accordato alla musica è la relazione di essa con il principio metafisico, con la “cosa in sé” creatrice dell’universo, la Volontà noumenica. Dal suo punto di vista, infatti, la musica è immagine della Volontà, anzi, oggettivazione diretta della Volontà noumenica. Il mondo che ad essa appartiene è quello delle Idee e non quello fenomenico della realtà sensibile cui sono vincolate invece le altre arti. Essa è libera dal mondo greve della materia sensibile, non è riflesso di esso, né imitazione. Le altre arti oggettivano la volontà quindi solo mediatamente, per mezzo delle idee, mentre la musica gode di un rapporto immediato con l’essenza, la Volontà pura, vive al di là del mondo fenomenico, anzi lo ignora e potrebbe in certo modo sussistere anche se il mondo non fosse affatto: ciò che non si può dire delle altre arti; La musica è cioè una oggettivazione e immagine di tutta la volontà, tanto immediata quanto lo è il mondo stesso, anzi quanto lo sono le idee, la cui manifestazione moltiplicata costituisce il mondo delle cose particolari. La musica non è dunque affatto, come le altre arti, immagine delle idee, bensì immagine della volontà stessa, di cui anche le idee sono l’oggettità. Perciò appunto l’azione della musica è tanto più potente e penetrante di quella delle altre arti: queste, infatti, parlano solo dell’ombra, quella invece dell’essenza 27 . Ecco perché Schopenhauer pensa all’arte dei suoni come ad un’arte che agisce potentemente sull’intimo dell’uomo e che intrattiene quindi un rapporto più intenso con 26 27 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bompiani, Milano, 2006, pp. 509, 511. Ivi, pag. 513. 27 la profonda interiorità del nostro essere. Raggiunge rapidamente la nostra anima con il linguaggio universale del sentimento, esprimendo non «questa o quella gioia particolare e determinata, questo o quell’affanno o dolore o terrore o giubilo o allegria o tranquillità d’animo; bensì la gioia, l’affanno, il dolore, il terrore, il giubilo, l’allegria, la tranquillità di spirito stessi, per così dire in abstracto, ciò che in essi è essenziale, senz’alcun accessorio, e dunque anche senza i relativi motivi» 28 . Essa evoca quindi il dolore senza il dolore, la gioia senza la gioia, la malinconia senza la malinconia, vale a dire: può universalmente inglobare il mondo della vita senza dover però essere sintomo di affezioni particolari. Questo è il carattere tanto eccezionale che alla musica Schopenhauer riconosce, quello di vincere la determinatezza dei sentimenti umani esprimendo solo la quintessenza della vita e dei suoi eventi. Viene così a determinarsi in questa prospettiva una diversa concezione del sentimento della musica. Tale sentimento non è più quello dell’ascoltatore competente, ma è quello universale e indeterminato della musica: il sentimento come tonalità emotiva (Fühlen) piuttosto che un sentimento determinato (Gefühl). Da questo punto di vista si capisce quindi come la teoria schopenhaueriana rappresenti un momento significativo di svolta rispetto alla tradizionale concezione dell’espressività musicale, la stessa che inaugurata da Platone è sopravvissuta pressoché invariata fino alla fine del XVIII secolo. Una concezione cosiddetta sintomatica delle emozioni musicali, vale a dire: la musica è triste, felice, malinconica perché capace di suscitare tali sentimenti nell’ascoltatore. Questo non è più vero nella prospettiva schopenhaueriana, è vero invece che l’espressività della musica appartiene ad essa stessa, in essa soltanto si localizza e non nelle singole affezioni suscitate dall’ascolto di una melodia, qualunque essa sia. È giusto anche sottolineare che localizzando così l’espressività della musica nella musica stessa, Schopenhauer non sta negando l’impatto emotivo della musica sull’ascoltatore, semplicemente vuole precisare che non è in quell’impatto che possiamo rinvenire l’autentica essenza del sentimento della musica quale dinamica tensiva di un sentimento in abstracto. Di fatto, come recentemente ha saputo bene evidenziare Silvia Vizzardelli nella sua Filosofia della musica: La musica [nella considerazione di Schopenhauer] non ci racconta una storia, non è espressione della vita e dei suoi eventi, non svela motivi, ma fa risuonare un mondo di spiriti invisibile e dinamicamente mosso; non rivela la motivazione determinata del sentimento, la 28 Ivi, pag. 521. 28 sua storia, la sua particolare occasione, piuttosto riveste di carne ed ossa un’invisibile dinamica 29 . Fissiamo per ora l’attenzione su questi due aspetti della riflessione schopenhaueriana sulla musica, perché è proprio intorno a questi nodi tematici che si svilupperà il dibattito analitico: - L’espressività della musica non è una qualità che emerge nell’ascolto, ma è una proprietà della musica stessa; - l’emozione musicale non gode di alcuna determinatezza o contestualità, non si ancora ad alcuna esperienza determinata, perché è piuttosto un’archetipica dimensione tensiva, l’anima del desiderio, un sentimento in abstracto appunto. Su questi punti torneremo più di una volta quando si tratterà di rintracciare la loro presenza nel dibattito vivo dell’estetica analitica. 2.2 EDUARD HANSLICK Fino a oggi il modo in cui è stata considerata l’estetica musicale si è basato su un grosso equivoco; cioè essa non cerca di conoscere cosa sia il bello nella musica [Musik], ma fa una descrizione dei sentimenti che questa suscita in noi. Queste ricerche corrispondono in tutto al punto di vista di quegli antichi sistemi estetici che consideravano il bello solo in relazione alle sensazioni [Empfindungen] che esso risveglia e che, come è noto, tenevano a battesimo anche la filosofia del bello figli della sensazione (αίσθησις). L’applicazione di queste estetiche, in sé e per sé non filosofiche, alla più eterea delle arti le attribuisce senza dubbio un qualcosa di sentimentale che, se rallegra le anime belle, offre pochi chiarimenti a colui che desidera apprendere. Chi cerca di sapere qualcosa sull’essenza della musica desidera uscire dall’oscuro dominio del sentimento e non esservi continuamente rimandato, come accade con la maggior parte dei manuali. L’impulso verso una conoscenza il più possibile oggettiva delle cose, che nella nostra epoca muove tutti i campi del sapere, deve toccare necessariamente anche l’indagine sul bello. Questa potrà seguirlo soltanto se abbandona un metodo che parte dal sentimento soggettivo per ritornare di nuovo al sentimento, dopo una poetica passeggiata lungo tutta la periferia dell’oggetto. Se non vuol divenire affatto illusoria, l’indagine sul bello dovrà avvicinarsi al metodo delle scienze naturali quel tanto da provare a sciogliere le cose stesse in carne e os29 S. Vizzardelli, Filosofia della musica, cit., pag. 31. 29 sa e di ricercare che cosa vi sia in esse di permanente e oggettivo, prescindendo dalle mille diverse e mutevoli impressioni 30 . Sostenuto da una formazione nella quale confluiscono istanze filosofiche di diversa provenienza, Hanslick realizza, con la pubblicazione nel 1854 de Il bello musicale, la necessità di opporsi alla diffusa concezione romantica della musica come “linguaggio dei sentimenti”. Idea antica, ma caricata di accenti particolari in quel periodo storico e imperante nella concezione wagneriana della musica. A questa necessità egli lega contemporaneamente quella di riportare in vita un metodo d’indagine attraverso il quale far valere un’analisi il più possibile oggettiva dell’arte dei suoni. Un’indagine è tale, nella considerazione di Hanslick, se riesce a distanziarsi dalle contaminazioni a cui essa è esposta se assoggettata alle mutevoli impressioni dello spirito umano. Pur consapevole, Hanslick, che certamente quello è il punto di partenza di ogni attività umana, la quale da quello spirito si diparte, si svolge, e vi ritorna. Assunzione, quest’ultima, nella quale rinveniamo il crocevia di certe complessità che ancora si registrano rispetto ad alcuni ambiti teorici della riflessione hanslickiana sulla musica, evidentemente pregnanti, ma ancora insoluti, vale a dire: come meglio potremo evidenziare più avanti, diverse sono le occasioni in cui gli studiosi angloamericani interrogano la cosiddetta tesi formalista di Hanslick, secondo la quale la musica, nuda e cruda, esibisce – se un contenuto la musica deve esibire – solo «forme sonore in movimento». Tesi, questa, che pur non lasciando spazio, almeno apparentemente, a fraintendimenti di alcun genere, si rivela spesso contraddittoria e pressoché paradossale quando – come alcuni di questi autori fanno notare (tra questi Kivy, Budd, etc.) – accade che Hanslick per “descrivere” la musica, per “indicarci” la musica, per “spiegarcela”, così come per “informarci” del fatto che ad essa non appartengono i nostri stati d’animo, qualunque essi siano, si trova a doverlo fare in termini emotivi. Ecco la ragione per cui Kivy, ad esempio, lo definisce ‘emotivista’ malgrè lui. Se questo accade, osserva infatti Kivy, è perché evidentemente c’è qualcosa nella musica che solo questi termini possono letteralmente descrivere, e perché le proprietà emotive della musica non possono essere negate: «non possono non essere sentite, e Hanslick ha l’orecchio per sentirle» 31 . Prima di Kivy, anche Budd, si è soffermato – nel secondo capitolo di Music and the Emotions dedicato interamente al problema del radicale ripudio delle emozioni da 30 31 E. Hanslick, Il bello musicale, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2001, pag. 37. P. Kivy, New Essays on Musical Understanding, cit., pag. 43. 30 parte di Hanslick – ad evidenziare con un’analisi piuttosto dettagliata e minuziosa i limiti riscontrati in seno a questa concezione. Non vi è dubbio alcuno infatti, possiamo qui anticipare, che per questi ed altri autori che potremmo definire, diciamo pure, post-formalisti, la concezione hanslickiana può preservarsi integralmente per quanto concerne, diciamo così, la salvaguardia dell’autonomia formale della musica, deve invece emanciparsi dalla negazione che questa impostazione formale porta con sé, vale a dire dall’esclusione delle potenzialità espressive della musica. Al centro dell’attenzione e della discussione degli studiosi angloamericani troviamo quindi le due tesi da cui prende le mosse la ricerca di Hanslick, vale a dire: a) tesi negativa, nella quale si afferma che la musica non deve “esibire sentimenti”; b) tesi positiva, mediante la quale invece si stabilisce che «la bellezza di un brano è specificamente musicale, essa cioè è insita nei suoni senza relazione con una cerchia di pensieri esterni alla musica» 32 . La teoria hanslickiana è certamente una di quelle teorie che ha tentato di liberare la musica da ogni implicazione possibile con i sentimenti. Di fatto, Hanslick partendo dal presupposto che l’ascolto musicale non deve essere necessariamente influente sui sentimenti, poiché «l’effetto della musica sul sentimento non possiede né la necessità, né l’esclusività, né la costanza che un fenomeno dovrebbe presentare per poter costituire la base di un principio estetico» 33 , arriva anche a spiegare il fatto che nemmeno l’espressione dei sentimenti è in potere della musica. Alla base di questa ulteriore e quanto mai perentoria affermazione troviamo la concezione hanslickiana del sentimento. Una concezione, possiamo già anticipare, diametralmente opposta a quella di Schopenhauer, in quanto non può accogliere l’idea di una necessaria astrazione del sentire. Prospettiva che si ribalta nella considerazione di Hanslick, secondo il quale ciò che ‘intenziona’ un sentimento è sempre un’esperienza particolare: I sentimenti non esistono isolati nell’anima, pronti per poter essere estratti attraverso un’arte alla quale sarebbe negata l’esibizione delle altre attività spirituali. Al contrario, essi dipendono da presupposti fisiologici e patologici, sono condizionati da rappresentazioni, giudizi, ossia da tutto l’insieme del pensiero intellettuale e razionale, a cui si contrappone volentieri il sentimento. Cos’è dunque che del sentimento in generale fa un sentimento determinato? Il desiderio, la speranza, 32 33 E. Hanslick, Il bello musicale, cit., pag. 34 Ivi, pag. 42. 31 o l’amore? O forse la semplice intensità o debolezza, o l’ondeggiare di un movimento interiore? No di certo. L’intensità può essere uguale in sentimenti diversi, ma può anche essere diversa nello stesso sentimento in individui e in epoche diverse. Solo in base a una certa quantità di rappresentazioni e giudizi – che nel momento di una forte commozione forse sono inconsci – il nostro stato d’animo può concentrarsi in quel determinato sentimento. Il sentimento della speranza è inseparabile dalla rappresentazione di uno stato futuro più felice rispetto a quello presente. La malinconia confronta una felicità passata con il presente. Queste sono rappresentazioni determinate, concetti: senza di essi, senza questo apparato concettuale l’affettività presente non si può chiamare “speranza” o “malinconia”, è tale apparato concettuale che la determina. Se si astrae da esso rimane un vago moto dell’animo o tutt’al più la sensazione di un generico benessere o malessere […] Un sentimento determinato (una passione, un’affezione) non esiste come tale senza un reale contenuto storico, il quale può essere esposto soltanto mediante concetti» 34 . È chiaro quindi che per Hanslick l’esibizione di un determinato sentimento o affezione non è assolutamente in potere della musica, poiché i sentimenti, egli sostiene, sono introdotti esclusivamente dal nostro cuore: «questa può sussurrare, infuriare, mormorare; ma l’amore o la collera sono introdotti solo dal nostro cuore» 35 . La musica non ha il potere di raccontare un’esperienza determinata, di esibire sentimenti ancorati ad un particolare contesto d’esperienza, e poiché il sentimento è sempre determinato per Hanslick, allora dovrà dirsi che la musica non ha il potere di esibire emozioni. Che cosa resta allora alla musica nella dimensione in cui Hanslick l’ha pensata, privandola completamente del sentimento? Restano la serie di suoni, di forme sonore che hanno contenuto solo in se stesse. Il contenuto di un brano musicale, spiega Hanslick, non è altro se non le forme sonore udite, perché i suoni non solo sono ciò con cui la musica si esprime, ma anche sono l’unica cosa espressa. La presenza di una certa affinità delle strutture musicali a certi moduli dell’esperienza non deve perciò indurci a pensare erroneamente ai medesimi moduli come possibile contenuto della musica 36 . Non solo. Hanslick ha anche chiarito che se si vuole decidere in merito al problema se la musica possiede un suo proprio carattere, quali siano la sua natura e le sue proprietà, e quali i suoi limiti e le sue tendenze, non si può prendere in considerazione altra musica che quella strumentale, perché solo la musica strumentale è simpliciter musica. Esibire brani vocali o pezzi d’opera a riprova che tale connessione esiste è perfettamente inutile, 34 E. Hanslick, Il bello musicale, cit., pag. 46 Ibidem. 36 Come vedremo meglio in seguito questo è invece il nucleo teorico centrale su cui poggia la tesi della metafora estetica di Nick Zangwill. 35 32 perché nella musica vocale o operistica è impossibile tracciare una distinzione così comoda tra gli effetti della musica e quelli delle parole, e “una definizione esatta della parte che essi hanno nella produzione del tutto diventa impossibile”. Ciò che la musica strumentale non può fare, non deve essere considerato possibile per la musica in quanto tale; infatti essa soltanto è musica pura e assoluta. Se si intende prediligere, per valore o effetto, la musica vocale o quella strumentale – procedimento in cui domina per lo più una dilettantesca ristrettezze di idee – si dovrà sempre ammettere che il concetto di “musica” non si adatta del tutto a un brano musicale composto sulle parole di un testo. In una composizione musicale l’efficacia dei suoni non è mai puntualmente separabile da quella delle parole, dell’azione e dello scenario, da poter valutare esattamente la portata delle singole arti. Dobbiamo rifiutare anche pezzi con determinati titoli o programmi quando si tratta del “contenuto” della musica. L’unione con la poesia allarga il potere della musica, ma non i suoi limiti» 37 . A partire da queste premesse Hanslick realizza l’obiettivo finale, quello esposto nella tesi positiva, nella quale si afferma che l’autentico valore estetico della musica è un “bello specificamente musicale”, vale a dire: un bello che senza dipendere e senza abbisognare di alcun contenuto esteriore, consiste unicamente nei suoni e nella loro artistica connessione. Le ingegnose combinazioni di suoni belli, il loro concordare e opporsi, il loro sfuggirsi e raggiungersi, il loro crescere e morire, questo è ciò che in libere forme si presenta all’intuizione del nostro spirito e che piace come bello 38 . Ecco dunque i perni della riflessione hanslickiana che dovremo portarci dietro per comprendere le principali articolazione del dibattito analitico: - Il sentimento è sempre ancorato a esperienze determinate, non esiste una gioia in astratto, esiste solo una gioia che intenziona una particolare situazione d’esperienza; - la musica, in quanto è essenzialmente musica pura, strumentale, o assoluta se vogliamo utilizzare un’espressione di Dahlhaus, non può vincolarsi a contenuti rappresentativi determinati; - da ciò discende che la musica non può esprimere o esibire sentimenti. 37 38 Ivi, pag. 52. Ivi, pag. 63. 33 2. 3 SUSANNE K. LANGER Sappiamo già quanta e quale importanza abbia avuto la concezione langeriana della musica. Facevamo notare infatti come sia stato proprio a partire dalla sua attenzione alla tematica musicale, che si è venuta a determinare nel dibattito analitico una nuova tensione teorica intorno al tema del rapporto musica-emozioni. Langer è certamente artefice di questa apertura e di questo cambiamento di scena, grazie ai quali i riflettori si accendono nuovamente sulla musica. Tutti gli studiosi angloamericani, qualcuno direttamente qualcun altro implicitamente, sono concordi nel riconoscerle questo merito, anche quando, come dicevamo in apertura, le loro convinzioni non hanno saputo trovare convergenza nella teoria della musica di Langer quale simbolo presentazionale o inconsumato. Teoria questa che senz’altro fagocita al suo interno, per riflesso, l’intera teoria langeriana dell’arte. La significatività dell’arte, spiega infatti Langer, si può esemplificare al meglio nella significatività distintiva della musica, sebbene questo non equivalga a dire che la musica sia l’arte più alta, più espressiva o più universale, o a voler comunque aprirsi a frettolose generalizzazioni. In Feeling and Form così scrive a tale proposito 39 : Nel libro cui il presente volume fa seguito c’è un capitolo intitolato “On Significance in Music” [Sulla significanza nella musica]. La teoria della significanza ivi elaborata è una teoria particolare che non aspira ad altra applicazione oltre quella che ne è data nel suo ambito originario, cioè appunto la musica. Tuttavia, più si riflette sulla significanza dell’arte in generale, e più la musica sembra fornire indizi […] Il giusto modo di costruire una teoria generale è, per generalizzazione, partire da una teoria particolare; e io ritengo che l’analisi della significanza data in Philosophy in a New Key sia passibile di una siffatta generalizzazione, e capace di fornire una teoria della significanza valida per l’intero Parnaso 40 . Al centro di questa teoria troviamo la nozione chiave di simbolo, sulla quale si struttura l’intero edificio della filosofia dell’arte di Langer. È questo infatti il piano su cui poggia la giustificazione teorica del riconoscimento di un simbolismo diverso da quello proprio della lingua, il cosiddetto simbolismo presentazionale: il simbolismo della fantasia, del mito, del rito, dei sogni, dell’arte e di tutte quelle sfere dell’umana 39 A tale proposito, vogliamo evidenziare, che alcuni studiosi hanno manifestato un certo scetticismo rispetto alla possibilità intravista da Langer, di estendere la riflessione sulle altre arti, traendo così una teoria generale dalle osservazioni su un’arte particolare. 40 S. K. Langer, Feeling and Form: A theory of Art, New York, Scribner’s Sons, 1953; Sentimento e forma, trad. it. a cura di Lia Fomigari, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 40-41. 34 esperienza che non possono essere adeguatamente simboleggiate dalle regole sintattiche e grammaticali proprie del simbolismo discorsivo. Il progetto langeriano è un progetto ampio e complesso 41 , nel quale confluiscono e convivono istanze filosofiche di diversa provenienza, tra queste: vi è innanzitutto il riferimento, se pur polemico, al neoempirismo, ma anche l’avvicinamento, già dalla metà degli anni Trenta, al trascendentalismo neokantiano di Ernst Cassirer, alla psicologia della Gestalt ed all’impostazione pragmatista di William James, la cui rilevante influenza si manifesta soprattutto a proposito della nozione di “feeling”. La nozione di simbolo è quella nella quale si riflette maggiormente la coesistenza di questi diversi indirizzi teorici, ma anche la volontà di Langer di operarne una revisione. Tale revisione si esplica nell’ambito di quella ricerca intrapresa da Langer in Philosophy in a New Key 42 (1942) e proseguita in Feeling and Form (1953). Nello specifico, nella prima opera Langer riesce a reperire la nuova chiave della teoria simbolica di cui si avvarrà in un secondo momento per affrontare l’altra importante questione del rapporto dell’arte con il sentimento. Vediamo ora quindi in che modo si struttura questo percorso di ricerca di Langer e quali sono gli esiti conseguiti, soprattutto per quanto concerne da vicino la teoria della musica. Il primo passo in questa direzione è quello che si realizza sul fronte del confronto e della polemica con i filosofi neopositivisti, i quali, secondo Langer, hanno limitato l’estensione del campo semantico a quello meramente linguistico, sostenendo che (1) il linguaggio è il solo mezzo di articolare il pensiero e che (2) ogni cosa che non sia pensiero dicibile è sentimento 43 . In realtà, dietro questa considerazione dei neopositivisti (il riferimento è, in particolare, alla teoria di Russell e Carnap, ma anche al Wittgenstein del Tractatus LogicoPhilosophicus) si cela, o per meglio dire, Langer vede celarsi un’angusta considerazio41 Come bene evidenzia Lucia Demartis, nel saggio L’estetica simbolica di Susanne Katherina Langer, si tratta di un progetto articolato nel quale si può cogliere come «l’attenzione per il simbolismo e la strutturazione formale dell’esperienza, iniziata secondo una prospettiva logico-simbolica (A Logical Analysis of Meaning, 1926; The Practise of Philosophy, 1930; An introduction to Symbolic Logic, 1937) e proseguita nell’esame di quegli aspetti dell’esperienza che da questa restano esclusi (Philosophy in a New Key: A study in the Symbolism of Reason, Rite, and Art, 1942; Feeling and Form, 1953; Problems of Art, 1957; Reflections on Art, 1958; Philosophical Sketches, 1962) giunge in Mind a interrogare la radice della simbolizzazione secondo un percorso antropologico e filogenetico che coglie nella funzione simbolizzatrice ciò che caratterizza la relazione propriamente umana con la realtà. In Mind l’analisi del simbolismo viene inverata e portata a compimento attraverso il superamento della distinzione tra simbolicità discorsiva e presentazionale, al fine di indagare l’ambito comune ad ogni produzione umana: l’articolazione formale dell’esperienza vissuta». L. Demartis, L’estetica simbolica di Susanne Katherina Langer, Aesthetica Preprint, Palermo, 2004, pag. 8. 42 S. K. Langer, Philosophy in a New Key: A study in the Symbolism of Reason, Rite, and Art, Harward University Press, Cambridge, Mass. 1942; Filosofia in una nuova chiave, trad. it. di G. Pettenati, Armando, Roma, 1972. 43 Ivi, pp. 122-123. 35 ne della razionalità umana, che risulta così essere relegata nei ristretti meandri della simbolicità discorsiva. Intenzione di Langer è quella quindi di riscattarla, sottraendola ai confini attribuitigli e restituendola agli ambiti ineffabili che sfuggono a quel tipo di forma simbolica (quella della lingua, per l’appunto), ma non si negano alla forma simbolica presentazionale. Esistono differenti sistemi simbolici quindi, ai quali Langer riconosce la possibilità di articolare la ricchezza e la complessità dell’umano sentire44 . Si tratta di un’ipotesi, questa, che Langer ha formulato combinando i risultati conseguiti da Cassirer e dagli psicologi della Gestalt. Le conclusioni cui è pervenuta a seguito di questa sintesi possono essere così semplificati: a) La significazione avviene mediante simboli; b) L’attribuzione di significati precede la sfera della concettualizzazione logico-discorsiva. Sono questi gli assunti, peraltro, mediante i quali si è presentata a Langer l’opportunità di provvedere: c) All’estensione della nozione di “simbolo”; d) Alla revisione della nozione di “astrazione”. L’attività di trasformazione simbolica è per Langer un’attività naturale e caratteristica dell’uomo, che precede l’ambito della simbolizzazione discorsiva, in quanto il primo processo di organizzazione simbolica della realtà è quello che si realizza sul piano della nostra esperienza percettiva. In altri termini, ancor prima del pensiero esiste la nostra costituzione fisiologica pura e semplice, e la nostra esperienza più puramente sensoriale, dice Langer, è già un processo di formulazione, là dove i nostri occhi, le nostre orecchie, in una parola i nostri organi di senso, sono il primo accesso al mondo: Già la nostra esperienza più puramente sensoriale è un processo di formulazione: il mondo che in realtà colpisce i nostri sensi non è un mondo di “cose”, circa le quali siamo invitati a scoprire fatti non appena si sia codificato il necessario linguaggio logico che permetta di farlo; il mondo della pura sensazione è così complesso, così fluido e pieno, che la pura sensibilità agli stimoli andrebbe incontro solo a ciò che W. James ha chiamato con una frase caratteristica, “una florida e rumorosa confusione”. Da essa i nostri organi di senso debbono sele44 Anche in questo caso, si rivela preziosa l’indicazione della Demartis, la quale ha evidenziato: «La distinzione tra i due sistemi simbolici esprime la contrapposizione tra due modi di intendere la razionalità: una razionalità che opera attraverso simboli dalla denotazione più univoca possibile, risultanti da convezioni codificate e collegati mediante successione e calcolo; e una razionalità concepita come insight, intuizione di una relazione tra più elementi, che si esprime nella forma pregnante di una significanza polisemica. L. Demartis, L’estetica simbolica …, cit. pag. 7. 36 zionare certe forme predominanti, se debbono riuscire a registrare cose e non puri “sentiti” confusi […] Un oggetto non è un dato, ma una forma costruita dall’organo sensitivo e intelligente, e che è, al contempo, una cosa individuale esperita e un simbolo del suo concetto45 . La razionalità umana, in quanto capacità di organizzazione formale della realtà, individuazione di schemi ordinativi, viene da Langer fatta confluire in ambiti che sino ad allora erano stati considerati prerazionali: il processo di astrazione simbolica, di fatto, si realizza già a livello di insight sensoriale. È chiaro quindi che da questo punto di vista l’articolazione formale della realtà in cui viviamo è, a parere di Langer, prerogativa della nostra percezione ancor prima che della razionalità discorsiva. Da questa acquisizione si apre la strada per un simbolismo diverso, presentazionale, adatto ad articolare e a costeggiare l’ineffabile: si tratta dell’articolazione dell’umano sentire, di quella sfera, teniamo a sottolineare, che la filosofia neopositivistica aveva confinato nell’ambito del sentimento incomposto. La mente secondo questa prospettiva langeriana ha un raggio d’azione più ampio perché ogni simbolo ha il suo significato, non esistono simboli che restano esclusi dall’ambito della significazione. La teoria langeriana dell’arte s’impianta su questo terreno, fondandosi sulla considerazione che la significatività dell’arte si dispiega nell’articolazione simbolica del sentimento. È il caso di aggiungere, prima di passare alla discussione di Langer sull’espressività, o come lei ha preferito definirla, sulla significatività della musica, che il sentimento nella sua concezione è di più di quello che comunemente associamo a questo termine. Tale nozione, oltre che essere scevra da qualsiasi tipo di connotazione romantica, rinvia infatti alla definizione di “feeling” che William James ha introdotto e sviluppato nei Principi di Psicologia 46 , dove il termine “feeling” viene utilizzato sia in riferimento alla coscienza (feeling of relations, feeling of tendency, the feeling of rational sequence), sia al sé (self feeling), allo spazio (the feeling of crude extensity), alle emozioni. In altri termini, “feeling” nel senso più ampio di qualsiasi cosa possa essere sentita 47 . Per Langer l’opera d’arte ha infatti una “portata” che è «la struttura della vita stessa com’è sentita e direttamente conosciuta» 48 . 45 S. K. Langer, Filosofia in una nuova chiave, cit., pag. 126. W. James, The Principles of Psychology, London, Macmillan & Co, 1901; 1ª ediz. H. Holt, v. I, 1980. 47 Cfr. S. K. Langer, Problems of Art, New York, Charle’s Scribner’s Sons, 1957; tr. it. di M. Attardo Magrini, Problemi dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 1962, pag. 28. 48 S. K. Langer, Sentimento e forma, cit., pag. 48. 46 37 Alla luce di quanto sinora esposto, veniamo ora ad occuparci della concezione langeriana della musica come simbolo incompiuto e degli esiti fondamentali di questa sua concezione. La musica sostiene Langer si avvale della possibilità di esser “vera” rispetto alla vita del sentimento, di rivelare là dove le parole oscurano, di veicolare simboli capaci di sempre nuove significanze, di essere quindi: simbolo inconsumato. Ma se la musica ha una qualche significatività, tiene a precisare Langer, questa è semantica non sintomatica: «si tratta di un “significato” non tale da funger da stimolo per evocare emozioni, né da segnale che le annunzi; se la musica ha un contenuto emotivo, lo “ha” nello stesso senso che il linguaggio “ha” il suo contenuto concettuale; cioè simbolicamente. La musica non è causa o terapia di sentimenti, ma la loro espressione logica» 49 . In tal senso, appare dunque evidente il fatto che Langer rifiuti una considerazione della musica basata sul doppio punto di vista: quello del compositore e dell’ascoltatore. La musica cioè, così come le altre arti, non è spiegabile né nella prospettiva dell’autoespressione né in quella dell’impressione: una teoria dell’arte che fornisca una tale interpretazione della musica non è infatti una teoria apprezzabile. Nulla ci dice del problema che per eccellenza alla musica pertiene, un problema di tipo logico. La soluzione a questo problema Langer l’ha individuata impostando la relazione della musica con le emozioni come una relazione di tipo isomorfico. La musica ha sì una relazione con la nostra vita emotiva – Langer non nega certo questa possibilità – ma si tratta di una relazione di tipo analogico che s’instaura, appunto, per via della similarità che esiste tra le proprietà strutturali formali proprie della musica e quelle del “feeling”. A conferma di quanto detto, Langer si è così espressa: le strutture tonali che noi chiamiamo “musica” hanno una stretta somiglianza logica con le forme del sentimento umano: forme di sviluppo e decrescenza, di flusso e di accumulo, di conflitto e di soluzione, di rapidità, arresto, somma eccitazione, calma, o attivazione sottile e cadute nella sfera del sogno; non gioia e dolore, forse, ma il mordente dell’una o dell’altra o di entrambi; la grandezza e la brevità e l’eterno trascorrere di tutto ciò che è vitalmente sentito. Questo lo schema, o la forma logica, del sentire; e lo schema della musica è quella forma stessa, elaborata nella purezza e nel metro del suono e del silenzio. La musica è un corrispondente tonale della vita emotiva 50 . Una tale analogia formale, o congruenza di strutture logiche, è la condizione prima per una relazione fra un simbolo e tutto ciò che 49 50 S. K. Langer, Filosofia in una nuova chiave, cit., pag. 281. Corsivo mio. 38 questo deve significare. Il simbolo e l’oggetto simbolizzato devono avere una qualche forma logica in comune» 51 . La musica per Langer può riflettere quindi solo la morfologia dei sentimenti, avvalendosi di simboli impliciti anziché di simboli trasparenti quali sono quelli di cui invece si avvale il linguaggio: l’articolazione è la sua vita, non l’asserzione; l’espressività lo è, non l’espressione 52 . Isoliamo quindi anche in questo caso le nozioni-chiave che ci accompagneranno nel corso della nostra ricerca: - La musica intrattiene una relazione intima con la vita emotiva. - La musica non esprime sintomaticamente le emozioni, ma esprime simbolicamente le forme del sentire. - Esiste dunque un rapporto isomorfico tra musica ed emozioni. Concezione, in particolare, quest’ultima, come emergerà con chiarezza in un secondo tempo, che, a nostro avviso, opera sotterraneamente anche laddove viene dichiarata inutilizzabile. Si tratta di quella tesi che abbiamo qui voluto caratterizzare come una risposta “dal basso”, secondo la quale per l’appunto l’espressività della musica risiede in una somiglianza tra la musica e il comportamento espressivo umano. Una somiglianza che si dà nell’immediatezza della nostra esperienza percettiva. 3. Externality claim vs Arousal theory Buona parte della comunità degli estetologi analitici, partendo dal comune riconoscimento che esista una speciale connessione tra la musica e le emozioni, si trova oramai da tempo impegnata a spiegare in che termini tale relazione possa sussistere, quali ne siano le motivazioni profonde. Da una parte troviamo la musica dall’altra invece le emozioni. Si tratta, come bene evidenziato da Martha Nussbaum 53 nel libro L’intelligenza delle emozioni (2001), di due mondi apparentemente diversi: quello delle emozioni dell’ascoltatore, e quello delle qualità espressive della musica. Da un lato, ci chiediamo come dobbiamo intendere 51 S. K. Langer, Sentimento e forma, cit., pag. 43. Ricordiamo che Langer rifiuta la possibilità di parlare della musica come linguaggio dei sentimenti. 53 M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004. 52 39 le emozioni che proviamo quando ascoltiamo musica: sono emozioni «reali» o no? Che tipo di emozioni sono? A chi appartengono? Qual è il loro oggetto intenzionale e il loro contenuto? Dall’altra, ci interroghiamo sulle nostre attribuzioni di qualità emotive alla musica stessa: cosa stiamo effettivamente facendo quando diciamo che l’ultimo movimento del Concerto per violino di Beethoven è gioioso? Che nell’Ouverture delle Ebridi di Mendelssohn c’è un’espressione di speranza? Che lo scherzo della Seconda sinfonia di Mahler esprime un sardonico disgusto nei confronti della vita quotidiana? Formuliamo questi giudizi certi che tali attribuzioni ci dicano qualcosa a proposito della musica stessa. E facciamo anche delle distinzioni più sottili, attribuendo diverse sottospecie di una singola emozione. Per esempio, sento di essere arrivata a cogliere qualcosa a proposito della musica, e non solo delle mie reazioni private, allorché, paragonando i movimenti conclusivi dei concerti per violino di Dvořák e Beethoven, affermo che entrambi esprimono una forma di intensa ed esuberante gioia, ma che quella del primo è più riflessiva, più solida e in un certo senso più attiva, e quella del secondo è una vertiginosa euforia, fuggevole e capricciosa. E ancora, se paragoniamo il Liebestod del finale del Tristano di Wagner con il duetto complessivo «Pur ti miro pur ti godo» di L’incoronazione di Poppea di Monteverdi […], possiamo dire che entrambi esprimono la passione sessuale, e il trionfo della passione sulle norme morali – ma in modi molto diversi. Il Liebestod esprime un tragico struggersi infinito, irrisolto, in cui la felicità fisica è costantemente lontana; il duetto di Monteverdi esprime un completo immergersi nella gioia dei sensi, ed è in effetti una straordinaria rappresentazione musicale del rapporto sessuale. Il problema è, dunque: che cosa significa tutto questo? Stiamo realmente dicendo qualcosa di valido sulla musica, quando diciamo cose del genere? 54 ». Senza prendere in esame la teoria delle emozioni della Nussbaum, che non può a rigore essere inquadrata all’interno della cornice in senso stretto analitica 55 , diamo tuttavia uno sguardo rapido alle domande contenute nel passo che abbiamo appena citato. Affiora infatti in esso tutta la portata problematica di una questione sempre ricorrente nella storia del pensiero musicale. La sfida è quella di capire come le emozioni possano essere in qualche modo vincolate alla struttura musicale, poiché ogni qualvolta si tenta di spiegare il nesso della musica con le emozioni ci si trova poi nella difficoltà di stabilire quale emozione associare alla musica. In altri termini, quando diciamo che un passaggio musicale è doloroso, gioioso, malinconico, ecc., stiamo parlando della capa54 Ivi, pp. 306-307. Corsivo mio. La teoria di Martha Nussbaum può essere considerata come una teoria cognitiva dell’emozione, che rivolge particolare attenzione alla condizione dell’ascoltatore, e della soggettività nell’atto creativo piuttosto che all’espressività come proprietà estetica della musica stessa. Il sentimento, in questo quadro, resta strettamente vincolato ad esperienze particolari di vita, che possiamo senz’altro considerare come il contenuto intenzionale che appartiene all’emozione stessa. Come si vede, si tratta di una tesi assimilabile perciò a quella hanslickiana, secondo la quale un sentimento determinato non esiste come tale senza un reale contenuto storico. 55 40 cità della musica di suscitare un’emozione in noi oppure stiamo attribuendo una tale emozione alla musica stessa, come una proprietà che percepiamo in essa? Se scegliamo la seconda ipotesi, dobbiamo ancora domandarci come un’emozione possa appartenere alla musica? Anticipiamo sin da ora che questo è il problema certamente più dibattuto negli ultimi cinquant’anni dall’estetica analitica; occorre cioè stabilire in quali termini è possibile giustificare una descrizione della musica in termini espressivi, posto che per i filosofi analitici una simile descrizione risulta essere perfettamente sensata. In realtà le cose non sono poi così semplici come appaiono a prima vista, poiché se è vero che quasi tutti gli studiosi si trovano in sintonia rispetto a questo riconoscimento, non sono poi altrettanto d’accordo sul tipo di soluzione proposta. Esistono delle divergenze marcate soprattutto tra quei filosofi della musica che sostengono la tesi secondo cui l’espressività della musica possa e debba essere ricercata nella musica, come ad essa appartenente, e coloro invece che credono di potere rendere conto di una spiegazione della musica in termini espressivi guardando piuttosto alle emozioni generate dall’ascolto musicale. La prima tesi è portata avanti dai teorici cosiddetti cognitivisti o sostenitori dell’externality claim, requisito dell’esternalità – definizione coniata da Jerrold Levinson nell’opera The Pleasures of Aesthetics 56 per identificare questa concezione particolare dell’espressività musicale –, mentre la seconda è sostenuta dai teorici della nota e controversa Arousal Theory, teoria disposizionale. In generale l’impegno del primo gruppo di filosofi è quello di stabilire come un’emozione possa essere nella musica. E, più precisamente, in conflitto con l’istanza formalistica hanslickiana, di difendere l’idea che l’espressività della musica sia inequivocabilmente vincolata alla struttura musicale, come una sua proprietà o un aspetto di essa, piuttosto che vincolata all’esperienza emotiva, percettiva, di chi ascolta, compone, esegue. Riecheggia, notavamo, ancora una volta, in questa ipotesi interpretativa il riferimento alla teoria paradigmatica per eccellenza nel contesto analitico, la teoria hanslickiana quale teoria a cui guardare ma da cui dover poi velocemente rifuggire. Con Hanslick, di fatto, i teorici analitici sostenitori del requisito dell’esternalità si trovano in perfetta sintonia quando egli spiega che non è nelle nostre attribuzioni di qualità emotive alla musica che possiamo rinvenire il reale valore estetico di essa (teoria metaforica delle emozioni in musica). Non hanno quindi nulla da obiettare quando egli s’impegna risolutamente a sgomberare il mondo della musica dalle affezioni particolari 56 J. Levinson, “Musical Expressiveness,” in The Pleasures of Aesthetics, Cornell University Press, Ithaca and London, 1996, pag. 91 41 suscitate dall’ascolto, da quel dominio del patologico che impediva la possibilità di guardare alla musica come mondo a se stante, libero dalle proiezioni della nostra vita emotiva. Torna certamente utile ricordare quanto Hanslick ha affermato a tale proposito: L’ascoltatore gode attraverso una pura contemplazione [Anschaung] il pezzo musicale eseguito e ogni interesse per il contenuto deve essergli lontano. Tuttavia un interesse per il contenuto è la tendenza a lasciar eccitare in se stessi le affezioni. Se il bello interessa esclusivamente l’intelletto, siamo nel campo della logica, non dell’estetica; se esercita un effetto dominante sul sentimento, si ha un fatto ancora più preoccupante, vale a dire un fatto patologico. Tutto ciò, sviluppato già da tempo dall’estetica generale, vale altrettanto riguardo al bello di ogni arte. Se dunque si considera la musica come arte bisogna riconoscere come sua istanza estetica la fantasia e non il sentimento. Questa breve premessa ci sembra opportuna, perché in maniera indefessa si ritiene che con la musica si ottenga un’influenza calmante sulle passioni umane, finendo spesso col non sapere più se si parli della musica come di una norma di polizia, di pedagogia o di medicina 57 . In realtà è ben noto il fatto che questo riconoscimento spinse Hanslick a negare qualsiasi possibilità di dare descrizioni della musica in termini espressivi, poiché l’unico significato estetico che egli riconosce alla musica è quello della sua bellezza formale, delle forme sonore in movimento, nient’altro. Le cose non stanno così invece per i sostenitori del requisito dell’esternalità i quali manifestano uno scetticismo pressoché radicale rispetto a questa istanza teorica. Urge infatti, dal loro punto di vista, il bisogno di ripensare il problema dell’espressività musicale all’interno di una prospettiva che accetta, è vero, i presupposti di un’impostazione formalistica, ma non ne condivide gli esiti. È possibile cioè salvare l’espressività musicale a partire da premesse formalistiche. Ma a questo punto, preannunciavamo, sorge il problema di stabilire come si possa vincolare un’emozione alla struttura musicale. Una prima conferma a quanto sinora esposto è quella che ci viene da Kivy, il quale così ci informa della mutata condizione: Fra i filosofi della musica è andato crescendo il consenso sul fatto che, contrariamente alla affermazioni scettiche di Hanslick, sia perfettamente sensato descrivere la musica in termini espressivi e che, ancora contrariamente alla affermazioni scettiche di Hanslick, fra gli 57 E. Hanslick, Il bello musicale, cit., pag. 40. 42 ascoltatori qualificati l’accordo relativo a ciò che la musica esprime in ogni singolo caso, qualora essa sia espressiva di qualcosa (cosa che non è necessariamente sempre vera), sia più o meno generale. Più precisamente è cresciuto il consenso relativamente al fatto che la musica possa essere, e spesso è, espressiva delle emozioni comuni, come il dolore, la gioia, la paura, la speranza e poche altre emozioni fondamentali come queste. C’è un consenso generale anche sul fatto che, quando diciamo che un passaggio musicale è doloroso, pauroso, o simili, non stiamo descrivendo una disposizione della musica di suscitare un’emozione in noi, ma stiamo attribuendo una tale emozione alla musica stessa, come una proprietà che percepiamo in essa 58 . Fra quei filosofi della musica, siamo certi, Kivy riconoscerebbe anche se stesso. Anch’egli in disaccordo con l’idea di Hanslick che nega il valore espressivo della musica si muove oramai da tempo nella direzione opposta. Kivy è infatti dell’opinione che dietro quella negazione si celi una vera e propria contraddizione, dal momento che è Hanslick stesso il primo a dare una descrizione della musica in termini emotivi quando si trova impegnato nella sua attività di critico. Questo dimostrerebbe il fatto che c’è qualcosa nella musica che solo in quei termini può essere descritto e per Kivy questo qualcosa sono le sue proprietà emotive. La musica, egli sostiene, pur essendo un mero gioco formale ha a che fare con le emozioni (formalismo enhanced, “arricchito”). E, più precisamente, le emozioni appartengono alla musica come sua qualità percettiva. Da questo punto di vista, capiamo bene, che una musica è triste, allegra, malinconica, ecc., non per la sua capacità di destare, stimolare in noi questi sentimenti o, in quanto proprietà rappresentazionale, cioè in quanto rappresentazione di un’emozione particolare, bensì perché essa stessa possiede questa emozione nelle sue proprietà acustiche. Esiste, per così dire, un sentimento del suono che può essere un sentimento altro da quello che proviamo direttamente nell’ascolto. Vale la pena riportare il passo in cui troviamo chiaramente esplicata questa concezione di Kivy: A non essere contemplata era la possibilità che la musica sia triste in virtù del fatto di possedere la tristezza come una proprietà acustica, allo stesso modo in cui una palla da biliardo possiede la rotondità e l’essere-rossa come una sua proprietà visiva. Ma, una volta concepita la possibilità delle proprietà emotive come proprietà acustiche della musica, diviene allora immediatamente evidente che le descrizioni emotive della musica sono compatibili con il «formalismo», inteso ampiamente come la dottrina, delineata nel capitolo precedente, secondo cui la musica è una struttura di eventi sonori senza contenuto semantico o rappresentazionale. Infatti, se le proprietà emotive come 58 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pag. 39. 43 la tristezza sono proprietà acustiche della musica, sono semplicemente proprietà della struttura musicale; pertanto dire che un passaggio musicale è triste o allegro non significa descriverlo in termini semantici o rappresentazionali più che descriverlo come turbolento o tranquillo. Un passaggio musicale tranquillo non rappresenta la tranquillità né significa «tranquillo». Esso è semplicemente tranquillo. E lo stesso vale per un passaggio malinconico. Non significa la «malinconia» né rappresenta la malinconia. È semplicemente malinconico, è questo è tutto 59 . È in questi termini quindi che Kivy spiega l’espressività musicale, vale a dire: pensando all’emozione musicale come percepita in quanto presente nella musica. Questo modo di comprendere le emozioni musicali, come bene evidenziato da Kivy, fu ben compreso dallo scomparso filosofo americano Oets. K. Bouwsma 60 , il quale sosteneva che la relazione tra l’emozione e la musica assomiglia più alla relazione tra il rosso e la mela, che a quella tra il rutto e il sidro. Bouwsma intendeva qui vincolare l’espressività musicale alle qualità strutturali della musica per fuggire all’idea che essa potesse assumere un mero valore sintomatico. Si tratta di una spiegazione dell’espressività musicale rispetto alla quale però Kivy si trova d’accordo sino a metà strada, e cioè fino a quando l’emozione viene collocata nella musica come sua qualità piuttosto che in noi in quanto da essa causata, ma che non è più valida nei modi in cui questa possibilità viene descritta. C’è poi chi, come Roger Scruton 61 , individua la possibilità di dare una descrizione dell’espressività musicale come qualità terziaria. L’emozione, infatti, sostiene Scruton, non può appartenere alla musica né come sua qualità primaria, cioè una proprietà fisica di un oggetto, né come sua qualità secondaria, poiché in tal caso qualunque creatura dotata di capacità percettiva potrebbe riconoscerla; capacità che sappiamo appartiene tanto agli animali umani quanto a quelli non-umani. Questi ultimi però possono avere la percezione dei colori, ma non quella di un’emozione, qualunque essa sia, dal momento che l’emozione non implica solo il coinvolgimento della nostra capacità sensoriale, ma anche il concorso di intelletto e immaginazione. In questo Scruton rivela la sua ascendenza kantiana poiché il sostegno scelto a convalida di questa sua teoria è quello che ricava direttamente dalla teoria kantiana del libero gioco delle facoltà. In 59 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pp. 108-109. O. K. Bouwsma, “The Expression Theory of Art”, in Id., Philosophical Essays, Lincoln, University of Nebraska Press, 1969, p. 49. 61 R. Scruton, The Aesthetics of Music, Oxford University Press, New York, 1997. 60 44 un’ottica cognitivista, si annoverano, come vedremo, anche le tesi di Levinson, Davies, Budd. In netta rottura, avevamo anticipato, con la spiegazione che i teorici del requisito dell’esternalità danno dell’espressività musicale troviamo i teorici disposizionalisti, o sostenitori dell’Arousal Theory. È loro convinzione infatti che la musica possa esprimere le distinte emozioni per la sua predisposizione a causarle nell’ascoltatore. Si tratta quindi di una tesi diametralmente opposta a quella di chi, abbiamo potuto constatare, vuole decisamente prendere le distanze da una descrizione del rapporto tra musica-emozioni tutta sbilanciata dalla parte della reazione emotiva dell’ascoltatore, ritenendo che questo modo di vedere finisca per caratterizzare l’esperienza musicale alla stregua di esperienze ordinarie della vita quotidiana. Questo invece non costituisce un problema per chi come Derek Matravers 62 riabilita versioni più o meno forti dell’Arousal Theory, poiché per poter dare un’adeguata descrizione della musica in termini espressivi – egli sostiene – è necessario ricondurre l’esperienza emotiva musicale all’esperienza comune dell’emozione. La tristezza, la malinconia, o qualsiasi altra emozione quindi, non risiede nella musica, bensì nella sensazione che quella musica ha eccitato nell’ascoltatore. Dal suo punto di vista in effetti, ciò che la musica eccita in noi non è un’emozione vera e propria, bensì una sensazione. Ragione per cui possiamo descrivere un brano musicale come triste soltanto perché esso suscita in noi quelle sensazioni che nella vita reale sono parte dell’esperienza della tristezza. Secondo tale teoria la musica sarebbe quindi espressiva di tristezza in virtù del fatto che essa suscita tristezza negli ascoltatori, espressiva di gioia perché suscita gioia negli ascoltatori e così via. In altri termini, essa possiede le proprietà emotive come disposizioni a suscitare emozioni negli ascoltatori nello stesso modo in cui l’oppio ha la proprietà disposizionale di indurre il sonno. Sarebbe qui in gioco un rapporto che metterebbe tra parentesi, almeno provvisoriamente, qualsiasi riferimento alle mediazioni formali e stilistiche, alla dimensione estetica come regno della virtualità e della simulazione. Costeggiata così la conflittuale dinamica teorico-concettuale che attraversa il recente dibattito sul tema musica-emozioni in ambito analitico, il passo successivo sarà quello di iniziare ad occuparci approfonditamente delle teorie sopra esposte. 62 D. Matravers, Art and Emotion, Clarendon Press, Oxford, 1998; Id., The Experience of Emotion in Music, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 61, pp. 353-63. 45 CAPITOLO SECONDO Musica e forma 1. La musica assoluta: superficie o profondità? La proposta di Peter Kivy Abbiamo visto come uno dei tratti metodologici caratterizzanti la ricerca analitica sia quello di prediligere una scansione dei contenuti filosofici per problemi specifici. Per questa ragione rispettando il taglio particolare di questa impostazione, la presente analisi e quella del capitolo successivo si svolgerà seguendo un ordine tematico. In questo capitolo, nello specifico, ci soffermeremo sulle questioni inerenti al tema musica-forma. Negli ultimi anni, di fatto, in ambito analitico, tale tematica è stata ampiamente ripresa e sviluppata partendo da una riformulazione della teoria formalista di Hanslick che non escluda completamente il riferimento all’espressività dai tentativi di descrivere la musica. Sappiamo infatti che il testo seminale che inaugura questo tipo di discussione e nel quale peraltro affonda le radici tutto il dibattito analitico sulla musica è Il bello musicale. E, in effetti, come è stato recentemente evidenziato da D’Angelo nell’Introduzione all’estetica analitica 63 «accade sempre nella filosofia di tradizione analitica [che], la persistenza di un problema e il suo sviluppo sono legati alla discussione di alcuni testi precisi, che ricorrono nelle trattazioni della questione e vengono a formare una sorta di catena» 64 . Il problema di fondo intorno al quale viene a costruirsi questa catena è quello relativo alla seguente domanda: la musica assoluta, la musica strumentale senza testo, titolo o programma, ha una sua profondità, può essere in qualche modo vincolata a contenuti rappresentativi determinati, oppure si tratta di un’arte esclusivamente formale, il cui apprezzamento si deve limitare a degli aspetti, per così dire, di superficie o morfologici? Uno dei principali protagonisti di questa discussione è lo studioso cui abbiamo già più volte fatto riferimento nel corso di questo scritto, Peter Kivy 65 . Al centro della rinascita che ha caratterizzato la filosofia della musica negli ultimi trent’anni troviamo, 63 P. D’Angelo, Introduzione all’estetica analitica, Laterza, Roma, 2008. Ivi, pag. 5. 65 Peter Kivy è uno degli esponenti più autorevoli dell’estetica analitica, di quell’estetica analitica che ha tra i suoi più insigni rappresentanti Nelson Goodman, Monroe Beardsley, Richard Wollheim, George Dickie, Arthur Danto ed oggi anche Jerrold Levinson e Noel Carroll. Il suo campo di specializzazione è l’estetica e la filosofia dell’arte. Uno dei suoi primi lavori in quest’area si è incentrato sull’estetica britannica del diciottesimo secolo, e, in particolare su Francis Hutcheson. All’inizio degli anni Settanta dirige la sua attenzione all’estetica analitica angloamericana ed in particolare ai problemi inerenti all’ultimo saggio di Frank Sibley, “Aesthetic Concepts”. Ma è solo alla fine degli anni Settanta che inizia ad interessarsi al problema filosofico delle emozioni in musica, diventando così uno dei più apprezzati filosofi della musica in area anglosassone. La filosofia della musica, infatti, a partire da quel momento, diventa il suo interesse principale, occupandosi nello specifico di questioni quali: il carattere artistico specifico della musica, il linguaggio musicale, l’espressività della musica e il ruolo delle emozioni nell’esperienza musicale, l’ontologia dell’opera musicale, la fenomenologia della performance. 64 47 di fatto, l’autorevole presenza di questo filosofo, protagonista instancabile del dibattito sul tema musica-emozioni, artefice, peraltro, di una proposta teorica di particolare rilievo. Si tratta di una teoria formalista alternativa che guadagna, senza contravvenire ai suoi presupposti, la possibilità di giustificare una relazione della musica con le emozioni. È in questo senso che Kivy preferisce presentare la sua proposta nella chiave di un formalismo arricchito, enhanced appunto. Kivy inizia ad interessarsi al problema dell’espressione musicale verso la fine degli anni Settanta, e nel 1980 pubblica The Corded Shell 66 . Il titolo dell’opera (letteralmente: La conchiglia accordata) è tratto da un verso del poema di John Dryden del 1687 A Song for St. Cecilia’s Day, dedicato appunto al personaggio biblico che si suppone sia il fondatore della musica. Nel 1989 l’opera è stata ristampata con alcuni ampliamenti con il titolo di Sound Sentiment. Come ha bene evidenziato Bertinetto, l’espressione contiene un gioco di parole difficilmente traducibile. Sound Sentiment significa «sentimento ragionevole (sicuro, brillante)», ma sound significa anche suono, rumore, rumoroso e quindi l’espressione può rimandare anche al «sentimento del suono». In questa seconda edizione, Kivy torna a meditare sulle tesi esposte in quella prima versione, tenendo conto delle obiezioni che gli erano state mosse. Si tratta di un atteggiamento frequente e tutto interno al dibattito analitico, se è vero che la tendenza a ripensare e riformulare le proprie tesi è un tratto caratteristico di chi non resta impermeabile alle eventuali obiezioni ed anzi ne trae spunto per ulteriori approfondimenti. Siamo peraltro convinti che nel caso di Kivy questo work in progress non comporti l’abbandono delle posizioni precedentemente sostenute. La conferma ci viene dalle parole di Kivy stesso, il quale nella Prefazione a Sound Sentiment dice: «Niente di quanto ho scritto in The Corded Shell mi fa arrossire, ma dal 1980 ad oggi ho appreso un po’ di cose. L’opportunità di condurre una seconda edizione del libro mi rende acutamente consapevole di come molte questioni sono state lasciate irrisolte e di come molte delle cose dette oggi potrebbero dirsi differentemente … Nonostante ci siano stati dei ripensamenti riguardo ad alcuni temi trattati, la verità è che resto comunque ostinato su determinate affermazioni, e questo, non per il gusto di perseverare nell’errore, quanto perché son forte delle mie convinzioni e ansioso di persuadere con il potere di un’argomentazione razionale che bene può dimostrare le mie tesi» 67 . In effetti, come 66 P. Kivy, The Corded Shell. Reflections on Musical Expression, Princeton University Press, Princeton, 1980. 67 P. Kivy, Sound Sentiment: An Essay on the musical Emotions. Including the complete text of The Corded Shell, Temple University Press, Philadelphia, 1989, pag. xv. 48 evidenziato dall’editore di questa seconda edizione, Joseph Margolis, il messaggio di Sound Sentiment resta molto vicino a quello di The Corded Shell: occorre spogliarsi di qualsiasi forma di scetticismo in merito al tema dell’espressività musicale, ed opporre all’“emotivismo musicale” il “cognitivismo musicale”, vale a dire, all’idea che le attribuzioni espressive siano dovute all’eccitazione di emozioni nell’ascoltatore, la tesi, assai più feconda, che vede le qualità espressive o emotive strettamente ancorate alle strutture musicali. In The Corded Shell, Kivy cerca per la prima volta di chiarire come la musica possa essere espressiva delle emozioni comuni (garden-variety of emotions), quali ad esempio: amore, tristezza, gioia, ecc. Soprattutto, si pone il problema di come «alcuni predicati emotivi possano essere comprensibilmente applicati alla musica, e perché possano essere applicati intersoggettivamente» 68 , operando così in una direzione opposta a quella dei puristi musicali, i quali sostengono invece l’esatto contrario, vale a dire: 1) le descrizioni emotive della musica sono incomprensibili, o meglio non condivisibili; 2) esse sono congenitamente “soggettive” 69 . I puristi musicali, in effetti, sono per Kivy i sostenitori di un formalismo tout court che si sottrae a qualsiasi possibilità di “arricchimento” emotivo. Alla base di questa concezione troviamo l’idea che le descrizioni emotive siano “descrizioni” solo nel nome. Ci si chiede, infatti, come qualcosa possa definirsi correttamente una “descrizione” se non abbiamo criteri condivisi attraverso i quali poter distinguere una descrizione pertinente da una non pertinente. Le descrizioni emotive della musica sono infatti, a giudizio dei puristi, descrizioni puramente soggettive, impantanate tra gli individualismi di una psicologia male intesa. Lapidario, fa notare Kivy, risulta quanto è stato detto a tale proposito da Gurney nell’opera The Power of Sound. Egli scrisse: «spesso troviamo che la musica che per una persona sembra possedere una certa espressione emotiva, non la possiede, o ne possiede una diversa, per un’altra persona, sebbene potrebbe tranquillamente darsi che entrambe le persone apprezzano la stessa musica» 70 . Inoltre, da questo particolare punto di vista, dare letteralmente una descrizione della musica in termini emotivi pare del tutto infondato, perché solo esseri senzienti possono letteralmente essere tristi, allegri e così via. È un’obiezione che vien fatta spesso a coloro che tentano di salvare una qualche idea di espressività per la musica pura e che, dico subito, sorprende per la sua apparente banalità. Torneremo su questo 68 Ivi, pag. 11. Ibidem. 70 E. Gurney, The Power of Sound, Smith, Elder, London, 1880, p. 339. 69 49 problema per evidenziare come una simile affermazione nasconda una sostanziale incomprensione della tesi isomorfica. Secondo Kivy sono queste le obiezioni ricorrenti nelle teorie che negano la possibilità di dare una descrizione della musica in termini espressivi e il nodo gordiano da sciogliere, o per utilizzare la sua stessa terminologia, il “paradosso” della descrizione musicale da risolvere si annida in queste stesse obiezioni. È chiaro infatti che il sospetto nei confronti della descrivibilità della musica poggia su una cattiva interpretazione di quel che intendiamo quando parliamo di descrizione. Tali descrizioni possono infatti oscillare tra due estremi: possono essere comprensibili solo all’esperto musicale; oppure accessibili ai non addetti ai lavori, a chi in altre parole, esperto non è, a costo di essere però descrizioni prive di alcun senso, o semplicemente una mera fantasia soggettiva. In altre parole, le descrizioni possono essere troppo tecniche per le persone comuni (prive quindi di contenuto emotivo), oppure sovraccariche di termini che denotano emozioni (prive quindi di referenze tecniche) 71 . Interessante, a tale proposito, proporre i quattro esempi di descrizione musicale 72 che Kivy ha selezionato come rilevanti per illustrare questo peculiare stato delle cose, questo “paradosso” delle descrizioni musicali: 1) descrizione biografica; 2) descrizione autobiografica; 3) descrizione emotiva; 4) descrizione tecnica; Kivy definisce biografica quella descrizione nella quale l’autore mette in primo piano la personalità del compositore, anziché la musica. L’esempio cui attinge per illustrare questo tipo di descrizione è tratto dagli scritti di Robert Schumann, e più precisamente da quelli dedicati agli studi di Berger 73 . Si tratta di un esempio quanto mai e71 Cfr. Cap. I, pag. 3, di The Corded Shell, cit., interamente dedicato al paradosso della descrizione musicale, e Cap. XII, How to Emote over Music (Without Losing Your Respectability), pag. 132. 72 Kivy chiarisce che la sua analisi si limita a queste quattro tipologie di descrizione musicale, ma che questo naturalmente non deve indurci a credere che sia una tipologia esaustiva. 73 Queste le parole di Schumann: «Tra gli artisti più vecchi, [Ludwig] Berger, come pure Moscheles, non si è rivolto in maniera oziosa ai nuovi impulsi che venivano dati alla musica per pianoforte. Se i vecchi ricordi talvolta lo sopraffanno, egli se li lascia alle spalle, ed è ancora attivo finché la luce del giorno splende. Dopo un lungo silenzio di questo artista ormai anziano, che gode di una fama assai ampia, considerato il numero esiguo delle sue composizioni, ci saremmo dovuti aspettare qualcosa di molto diverso da questi studi [Fifteen Etudes, Opus 22]. Ci saremmo piuttosto dovuti aspettare di trovarlo a fluttuare incessantemente sui torrenti armonici, e a crogiolarsi nel ricordo del suo lungo e fruttuoso lavoro. Invece, egli ha messo di fronte ai nostri occhi una vita profondamente agitata, che cerca, con energico impe- 50 loquente di abuso di termini emotivi, romanticamente riferiti ai presunti stati mentali del compositore. Osserva infatti Kivy: Schumann ci vuole far credere che intende descrivere gli studi di Berger, e forse, indirettamente, posso supporre che lo faccia. Ma in realtà la maggior parte del suo discorso è su Berger, non sulla musica. Quando apprendiamo, a proposito degli studi di Berger, che “noi possiamo contemplare una vita profondamente agitata, che cerca, con energico impegno, di arrivare alla fine del giorno”, quando apprendiamo che questa musica scaturisce “da un cuore profondamente poetico, e da “un’artistica consapevolezza” che qualche volta “viene sommersa dalla sua stessa impetuosità”, a noi sembra di sentire molte cose su Ludwig Berger, ma poche sulla sua musica 74 . Una descrizione di questo tipo è del tutto inattendibile poiché in essa, spiega Kivy, non è certamente la musica ad essere tenuta in considerazione, ad essere protagonista ed oggetto dell’analisi. La musica risulta fuori fuoco e la descrizione non pertinente. La situazione non cambia di molto nemmeno nel caso del secondo esempio, quello della descrizione autobiografica. Tale è una descrizione quando chi scrive racconta la propria esperienza dell’ascolto. Estratto come esplicativo a tale proposito un passo dei Memoirs 75 di Hector Berlioz. Si tratta, con precisione, del passo in cui Berlioz si sofferma a dare una descrizione delle emozioni destategli dall’ascolto dell’Armide di Gluck 76 . La musica anche in questo caso riveste un ruolo marginale, anzi essa funziona semplicemente come stimolo per la fantasia di Berlioz. Ironicamente, Kivy commenta, «egli avrebbe potuto benissimo prendere tanto una dose di laudanum, quanto una dose di Gluck»; e poco più avanti aggiunge: «Il fatto che Berlioz fosse una mente supremamente interessante rende le sue peregrinazioni autobiografiche supremamente interessanti. Ma non le rende delle descrizioni della musica. Il loro soggetto è gno di arrivare alla fine del giorno. In vari punti di questi studi troviamo espressioni tetre, cenni misteriosi, e subito dopo un’improvvisa concentrazione di forze, un sentimento di trionfo che si avvicina − e tutto ciò è emanato, tuttavia, da un cuore profondamente poetico, ed è accompagnato dalla consapevolezza artistica fino al momento in cui esso non viene sopraffatto dalla sua stessa impetuosità»Robert Schumann, Music and Musicians: First Series, tr. by Fanny Raymond Ritter (8th ed.; London: William Reeves, n. d.), pp. 264-265. 74 P. Kivy, The Corded Shell …, cit., pag. 4. Trad. mia. 75 E. Berlioz, Memoirs, tr. by Ernest Newman, New York, Tudor, 1932. 76 Berlioz riferisce: «Ho chiuso i miei occhi, e, mentre ascoltavo la divina gavotta [nell’Armide di Gluck], con la sua melodia carezzevole e con la sua monotona armonia che sussurra sofficemente, e (mentre ascoltavo) il coro, Jamais dans ces beaux lieux, così squisitamente grazioso nel suo esprimere gioia, mi sembrava di essere circondato da tutti i lati da braccia avvolgenti, da piedi adorabili che si intrecciavano, da capelli fluttuanti, da occhi risplendenti, e da sorrisi contagiosi. Il fiore del piacere, scosso con gentilezza dalla brezza melodica, si espandeva, e un concerto di suoni e colori si riversò dalla sua incantevole corolla». E. Berlioz, Memoirs, cit., p. 321. 51 Berlioz» 77 . Alla base di queste giocose considerazioni, vi è l’idea che non si possa associare la qualità espressiva della musica all’effetto emotivo che una certa melodia può stimolare in chi ascolta. Non è sul piano della dinamica stimolo-reazione che possiamo trovare un’adeguata descrizione della musica in termini espressivi. Se Schumann ha quindi commesso l’errore di parlare del compositore, Berlioz invece ha commesso l’errore di parlare dell’ascoltatore, di se stesso in questo caso. Così facendo, nessuno dei due ha tenuto adeguatamente in considerazione la musica, la quale resta come sfondo in entrambe le descrizioni. Lontana invece dalle effusioni romantiche di Schumann e Berlioz, e quindi in un certo senso più rispettabile, sarebbe invece per Kivy la cosiddetta descrizione emotiva. In questo terzo tipo di descrizione le emozioni sono ascritte direttamente alla musica come se essa realmente fosse attraversata da quelle stesse emozioni. Un esempio di tal genere è secondo Kivy quello che si trova in una delle più ammirate opere di esegesi musicale, Essays in Musical Analysis di Tovey 78 . In effetti, Tovey parla della musica (di Beethoven e Brahms) come se realmente fosse “distrutta dal dolore” oppure dall’ira. Mi preme sottolineare sin da ora che è esattamente questo il tipo di descrizione che più di ogni altra convince Kivy, una descrizione cioè dove le qualità emotive vengono ascritte alla musica stessa, poiché, e spiegheremo meglio in seguito per quali ragioni egli arriva a questo convincimento, la musica ha un proprio sentimento, che non è né quello del compositore, né quello dell’esecutore, né tantomeno quello dell’ascoltatore. Non è nelle indipendenti dinamiche emotive dell’umano sentire che dobbiamo ricercare il legame della musica con le emozioni, bensì nella musica stessa quale pura forma che possiede però l’emozione come parte percettiva della sua struttura. Una tesi tanto singolare quindi che certamente si presta a tutta una serie di obiezioni quanto più, e anche in questo caso diamo un’anticipazione di un tema che svilupperemo a parte, una tale concezione rifiuta l’idea che le nostre attribuzioni di qualità emotive alla musica siano da considerarsi metaforicamente. Kivy infatti contravvenen77 P. Kivy, The Corded Shell …, cit., pag. 5. Tovey scrive: «Il primo episodio [del secondo movimento dell’Eroica] è un normale trio in tonalità maggiore, che inizia in un’atmosfera di consolazione e per due volte esplode nel trionfo. Dopo, la luce si spegne e il tema lugubre fa ritorno … Successivamente fa il suo ingresso, finalmente, l’inizio di un nuovo messaggio di consolazione, ma esso svanisce e il movimento si conclude con un’ultima enunciazione del tema principale, i cui ritmi e i cui accenti sono completamente distrutto dall’angoscia. Qui segue [nel primo movimento della Prima Sinfonia di Brahms] un bellissimo passaggio preparatorio al secondo soggetto; un commovente diminuendo, che inizia rabbiosamente … e si ammorbidisce (nel mentre passa rapidamente attraverso delle tonalità molto distanti) verso toni di profonda tenerezza e pietà ….». D. F. Tovey, Essays in Musical Analysis: Volume I, Symphonies, Oxford University Press, London, 1935, pp. 32 e 86. 78 52 do, almeno in questo caso, pienamente alla teoria metaforica delle emozioni sostenuta da Hanslick, ribadisce che una struttura musicale possiede realmente le emozioni come qualità percettive. È in questo senso che egli chiarisce: «Tovey, è chiaro, sa bene quale sia l’oggetto di cui egli presumibilmente sta parlando: non Beethoven, non Brahms, e nemmeno Tovey, ma la musica. Se si volesse contestargli qualcosa, di certo non sarebbe ciò di cui egli sta parlando, ma come egli ne sta parlando. Non è né Beethoven né Tovey ad essere consolato, trionfante, lugubre, completamente distrutto dall’angoscia. Solo la musica lo è. Non è né Brahms né Tovey ad essere commovente, arrabbiato, tenero, caritatevole. Solo la musica lo è» 79 . Una musica può essere dunque distrutta dal dolore? In che senso usiamo come ponte tra musica ed emotività l’aggettivo ‘distrutta’? C’è una motivazione sottile che spinge Kivy, e noi con lui, a ritenere che una simile descrizione accolga in sé le istanze di un formalismo illuminato e nello stesso tempo l’esigenza di salvaguardare la componente espressiva. ‘Distrutto’ è un aggettivo che può evocare molto bene sia il singhiozzo di un sentimento tormentato, sia la discontinuità, frammentazione della sintassi musicale. Vale a dire: ascoltiamo un brano musicale e lo descriviamo come “spezzato dal dolore”, perché la sua struttura ci suggerisce una sintesi percettiva che trova in quella particolare declinazione emotiva la sua identità. Chiariamo subito che per quanto Kivy riconosca la validità di una posizione come questa, senta cioè la fertilità di una concezione che presuppone sostanzialmente un rapporto isomorfico, avverte anche tuttavia il peso delle obiezioni mossegli dagli anti-emotivisti. Il musicologo oppure il filosofo scettico potrebbero sollevare obiezioni come queste, vale a dire: come possono questi predicati emotivi essere realmente applicati alla musica? Se la musica fosse realmente distrutta dal dolore, qualcuno potrebbe anche suggerirci di provare a risollevare la povera musica oppure addolcirla? Risollevarla dal dolore e addolcirla dall’ira. Chi si oppone infatti a una descrizione emotiva della musica accoglie sarcasticamente la possibilità che si possa parlare di essa in termini emotivi, come se ci si riferisse a un essere senziente capace di provare emozioni. In realtà, anche in questo caso direbbero gli scettici, molto probabilmente, non è della musica che si sta parlando, ma ancora una volta, se pur indirettamente, degli stati d’animo del compositore e dell’ascoltatore. Se le cose stessero così, osserva Kivy, tanto varrebbe allora ritornare al punto di partenza, e cioè alla descrizione biografica e autobiografica. En79 P. Kivy, The Corded Shell …, cit., pag. 6. 53 trambe sono state considerate inaccettabili, perché sia nell’uno che nell’altro caso abbiamo potuto constatare che parlare delle emozioni in musica sembra sempre coincidere con il parlare delle emozioni del compositore oppure dell’ascoltatore. L’ovvia conclusione di chi mostra scetticismo nei confronti di qualsiasi forma di ammiccamento all’espressività, sembrerebbe quindi essere: una descrizione emotiva della musica è impossibile. Se non altro questa è la conclusione cui perviene il purista, il quale pur mettendo in gioco l’ipotesi che una simile descrizione possa avere qualche senso, giunge poi alla conclusione che mancano in essa criteri intersoggettivi, pubblicamente condivisi, di applicazione. E il fatto che ci sia disaccordo su come le descrizioni emotive possano correttamente caratterizzare alcuni temi o composizioni musicali è, dal punto di vista dei puristi, il segnale più tangibile del carattere puramente soggettivo di tali descrizioni. La musica, in altre parole, può sortire effetti emotivi diversi a seconda delle persone in ascolto, pur restando invariato il grado di apprezzamento estetico. Infine, troviamo la descrizione tecnica della musica 80 . Tale descrizione è accreditata dal purista, poiché essa è scientifica, oggettiva, distante dalle sciocchezze emotive (emotive flapdoodle) di molti discorsi sulla musica. Non a caso, Kivy scrive a tale proposito: «qui, finalmente, il purista raggiunge la sua meta: nella descrizione oggettiva, sensata, scientifica, scevra di qualsiasi contaminazione soggettivistica o di eccesso romantico. Un ritmo o è giambico o non lo è. Un accordo o è un accordo di quinta o non lo è. Tutti gli ascoltatori dotati di una certa conoscenza sono più o meno d’accordo su come queste questioni devono essere risolte» 81 . Le questioni che entrano in gioco quindi in una simile descrizione appaiono rigorosamente tecniche: la musica ha oppure non ha un ritmo giambico, un accordo è o non è un accordo di quinta, e via dicendo. Tali descrizioni, evidenzia Kivy, per molti aspetti convincono (anzi riconosce che per formazione e inclinazione personale egli non intende essere cieco ad esse), ma al tempo stesso egli non può non evidenziare però il problema che a queste stesse descrizioni inevitabilmente si lega, ovvero il fatto che restano inaccessibili, impenetrabili a tutte 80 Due sono gli esempi di descrizione tecnica riportati da Kivy, il primo è tratto dall’opera di Cooper e Meyer, The Rhythmic Structure of Music, il secondo invece dal lavoro di Kerman, The Beethoven Quartets. Per esemplificare riporteremo solo il primo esempio: «Il ritmo del tema dell’ultimo movimento della “Surprise” Symphony di Haydn … mostra assai più palesemente un profilo giambico. In questo caso i gruppi iniziali, sebbene siano entrambi anfibrachi, sono assai diversi dal punto di vista melodico e temporale, sono assai vicini l’un l’altro, e sono tenuti insieme da una potente progressione armonica (I-V-I). Perciò queste due unità tendono a formare un gruppo trocaico su un secondo livello ritmico e costituiscono una singola e unificata anacrusi a un terzo livello ritmico». G. Cooper e L. B. Meyer, The Rhythmic Structure of Music, University of Chicago Press, 1960, pag. 65. J. Kerman, The Beethoven Quartets, Alfred Knopf, New York, pp. 175-176. 81 P. Kivy, The Corded Shell …, cit., pag. 8. 54 quelle persone che non hanno una conoscenza di tipo tecnico della musica. Queste le sue parole a riguardo: «questo tipo di descrizione, se da un lato è assai invitante per chi ha una competenza musicale, dall’altro lato taglia fuori un’ampia e importante comunità musicale. La musica, dopo tutto, non è solo per i musicisti o per gli studiosi, così come la pittura non è solo per gli storici dell’arte e la poesia non è solo per i poeti» 82 . Dunque, si appresta a concludere Kivy, la strada da imboccare per giungere a una possibile soluzione del “paradosso” dell’espressività musicale non può passare né da una totale negazione della descrizione tecnica né da una totale chiusura nei confronti della descrizione emotiva. Egli ha infatti a cuore l’obiettivo di dare un fondamento razionale alla critica emotiva della musica, vale a dire: fornire sostegno ad una descrizione emotiva della musica che sia rispettabile agli occhi dell’esperto e che possa stare a fianco delle descrizioni tecniche come un valido strumento analitico. Se questo è l’obiettivo, il problema sarà allora quello di stabilire in che modo è possibile conseguire un simile risultato. Una nota strategia filosofica adottata spesso nella storia del pensiero, ma non condivisa da Kivy, per uscire fuori da questa apparente situazione di inconciliabilità delle descrizioni tecniche con le descrizioni emotive, è quella che denuncia sia il nonsenso (meaninglessness) sia il soggettivismo psicologico implicito nella descrizione emotiva, ma al contempo riconosce che tale “descrizione” possa tuttavia risultare utile al lavoro del critico: ci permette di percepire qualcos’altro nell’opera che è lì realmente per essere da noi colto. Kivy sta pensando alle conclusioni di Isenberg, in un saggio molto influente sulla teoria della critica: «il critico sta pensando un’altra qualità, della quale non ci fornisce alcuna idea attraverso il linguaggio da lui utilizzato, una qualità che però egli vede e che riesce a farci vedere tramite l’uso che egli fa del linguaggio» 83 . Da una simile posizione si potrebbe allora sostenere che le descrizioni emotive sono nello stesso tempo prive di senso e rispettabili. Esse colmerebbero un vuoto lasciato dal linguaggio, si sostituirebbero ad una mancanza linguistica allo scopo di evocare metaforicamente un senso altrimenti non afferrabile, non dicibile. Quel “qualcos’altro” di cui ci parla Isenberg. Anche questo modo di impostare il problema rimanda a quell’atteggiamento di fuga dallo specifico musicale che da sempre Kivy combatte. Il fatto che la descrizione emotiva della musica ci conduca a percepire una qualità attraverso il discorso su qual82 Ibidem. A. Isenberg, “Critical Communication,” Aesthetic and Theory of Criticism: Selected Essays of Arnold Isenberg, University of Chicago Press, Chicago and London, 1973, pag. 162. 83 55 cos’altro è implicito anche nella descrizione biografica ed autobiografica. Di fatto, in entrambe le descrizioni, come abbiamo avuto modo di constatare, si realizza qualcosa di simile, vale a dire: nella descrizione biografica, il critico parla di qualcos’altro, del compositore, facendoci in tal modo sentire l’espressività della musica; così, anche nella descrizione autobiografica succede che il critico parla di qualcos’altro, cioè di se stesso, per raggiungere sempre e comunque lo stesso risultato. Ma è esattamente questo il modo di intendere la descrizione al quale Kivy vuole energicamente opporsi. Non è accettabile infatti, dal suo punto di vista, che una descrizione della musica debba sempre svolgersi mediante un discorso per via indiretta (by “indirection”), né tantomeno si può accettare l’idea che noi siamo nelle mani del critico, in balia di una sua cospirazione, e che egli quindi abbia il potere di decidere se introdurci o meno dentro l’ascolto di ciò che egli ha a sua volta sentito, e cosa ancora peggiore, mediante un discorso che è un nonsenso, come se noi non fossimo pronti per la terribile verità, o, non fossimo comunque capaci di seguire un’argomentazione critica autentica. In altri termini, la descrizione emotiva della musica per Kivy non è certamente interpretabile nell’ottica di una complessa mistificazione. Veniamo quindi al punto che qui più ci interessa evidenziare. Secondo Kivy il critico musicale può senz’altro condurci a farci sentire qualcos’altro nella musica, ma non si tratta di sentimenti soggettivi, bensì di quello che egli descrive come le proprietà espressive della musica. E, qui, ritorna la descrizione di Tovey quale modello esemplare di quello che Kivy riconosce essere una valida descrizione emotiva, una descrizione cioè nella quale l’emozione è vincolata, aderente alle caratteristiche strutturali dell’oggetto descritto. Infatti, dice chiaramente Kivy, l’efficacia di un’espressione come quella di Tovey, “la musica è distrutta dal dolore”, consiste nel fatto che quella descrizione non ci allontana dalla musica, ma ce la fa sentire come capace di evocare strutturalmente quella qualità. Le sue stesse qualità, poiché, come avevamo anticipato, la concezione espressiva di Kivy contempla la possibilità che la musica possieda le proprietà emotive come proprietà acustiche. È anche questa la ragione per cui – egli precisa – le descrizioni emotive della musica sono compatibili con il «formalismo», inteso come la dottrina secondo cui la musica è una struttura di eventi sonori senza contenuto semantico o rappresentazionale. Scrive infatti a riguardo che: «se le proprietà emotive come la tristezza sono proprietà acustiche della musica, sono semplicemente proprietà della struttura musicale, dire che un passaggio musicale è triste o allegro non significa descriverlo in termini semantici o rappresentazionali più che descriverlo come 56 turbolento o tranquillo. Un passaggio musicale tranquillo non rappresenta la tranquillità né significa «tranquillo». Esso è semplicemente tranquillo. E lo stesso vale per un passaggio musicale malinconico. Non significa la «malinconia» né rappresenta la malinconia. È semplicemente melanconico, e questo è tutto» 84 . Questo spiega anche perché, precisa ancora Kivy, la musica assoluta, sebbene sia una forma artistica pura, astratta, formale, non ha niente a che vedere con uno “stato freddo”. Essa ha «calore» umano, così si esprime piuttosto semplicisticamente Kivy; perché le emozioni sono una parte percettiva della sua struttura. È proprio a questo punto che si definisce così l’obiettivo di salvare l’espressività della musica senza aver nessuna intenzione di rinunciare ad una prospettiva di matrice formalistica. Ma procediamo per gradi e cerchiamo di capire con quali tesi e argomenti Kivy sostiene la sua teoria cosiddetta cognitiva delle emozioni in musica e giustifichi così l’approdo al formalismo arricchito. 2. Per una teoria dell’espressione musicale Risulta evidente quindi che la musica, nella prospettiva di Kivy, può essere descritta in termini espressivi. È possibile infatti spiegare come le emozioni siano vincolate alla struttura musicale, come la musica possegga le emozioni e sia espressiva di esse nella varietà delle loro sfumature. Poiché, ed ecco il punto, la musica possiede l’emozione come una sua qualità percettiva. Per quanto prematuro possa apparire affermarlo, la tesi centrale che Kivy mette avanti sin dalla primissima fase della sua ricerca sul problema delle emozioni musicali è proprio questa. A mio avviso, si tratta di una vera e propria tesi guida della sua riflessione, visto che dalla pubblicazione di The Corded Shell all’ultima opera scritta, Introduction to a Philosophy of Music, sono trascorsi ventidue anni, ma il suo punto di vista resta pressoché invariato. Certamente, alcuni tra i percorsi teorici seguiti nel tentativo di dimostrare questa tesi nodale sono stati messi in discussione, spesso anche a seguito di critiche ricevute. Per questa ragione ritengo opportuno seguire, almeno nelle sue linee generali, tale percorso evolutivo della ricerca di Kivy prima di approdare alla que84 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pp. 108-109. 57 stione che qui più ci interessa del formalismo musicale nella sua nuova veste emotiva. D’altronde, una tale questione, a mio avviso, non nasce isolata e completamente autonoma rispetto alle altre, ma è problematicamente presupposta in esse. Tuttavia, sappiamo, che è proprio questa una delle tendenze metodologiche privilegiate dagli analitici, i quali tengono per lo più separate le diverse problematiche. Kivy, in particolare, nell’opera Philosophies of Art. Essay in Differences, suffraga questo modo di orientarsi come uno dei punti di forza dell’estetica analitica. L’idea sarebbe la stessa che riecheggia nel motto di Bertrand Russell, secondo il quale il miglior modo di dominare una questione è proprio quella di dividerla, di guardarla isolandola dalle altre: divide et impera, sarebbe infatti secondo Kivy la regola da rispettare anche in estetica85 . A fondamento, quindi, della teoria dell’espressione cui Kivy inizia a lavorare già in The Corded Shell troviamo questo acquisito modo di guardare al problema della relazione tra musica ed emozione. Dico acquisito, perché, come in parte avevamo già rilevato nel primo capitolo, l’idea che l’emozione appartenga alla musica come qualità percettiva era già sufficientemente diffusa in ambito analitico. Kivy stesso non fa mistero alcuno del fatto che l’orizzonte teorico da cui si diparte il proprio percorso di ricerca è proprio quello dell’analisi contemporanea sul tema musica-emozioni. Diversi, anzi, sono i contesti in cui non manca di evidenziarlo apertamente. In un articolo del 1999, Feeling the musical emotions, scrive: Io avevo il vantaggio, rispetto ai miei predecessori, di poter contare sui passi in avanti compiuti dalla filosofia analitica, i quali mi hanno fornito più opzioni, oltre a quelle basate sulla semplice rappresentazione o sul contenuto simbolico, per creare un’alternativa alla concezione disposizionale dell’espressività musicale. Sempre di più, i filosofi dell’arte stavano per rendersi conto che ha più senso – da un punto di vista metafisico – concepire le proprietà emotive nella musica come proprietà percettive pure e semplici 86 . E, così, anche in Filosofia della musica. Un’introduzione: L’analisi contemporanea, comunque, considera ora una seconda possibilità, più vicina alla maniera in cui sembra che noi esperiamo le emozioni nella musica, cioè in quanto proprietà percettive come colori o gusti. La nostra attenzione deve dunque ora volgersi questo nuo- 85 P. Kivy, Philosophies of Art. An Essay in Differences, Cambridge U. P., Cambridge, 1997. Si veda anche, Introduction: Aesthetics Today, in Id., The Blackwell Guide to Aesthetics, Blackwell, New York – Oxford, 2004, pp. 4-5. 86 P. Kivy, Feeling the musical emotions, “The British Journal of Aesthetics”, 39, 1, 1999, pag. 1. 58 vo approccio al problema delle emozioni musicali, che è a mio modo di vedere quello vincente 87 . Tra i sostenitori di questa “nuova” concezione dell’espressività musicale, due sono in realtà i filosofi cui Kivy è solito fare riferimento, Charles Hartshorne e Oets. K. Bouwsma. Hartshorne in particolare, secondo Kivy, fu uno dei primi a sostenere che le proprietà emotive, o qualità affettive, sono parte del nostro campo percettivo. Quando, infatti, il problema delle cosiddette proprietà emotive non era ancora emerso come decisivo per la contemporanea filosofia della musica, Hartshorne, nell’opera Philosophy and Psychology of Sensation (1934), scriveva che «l’ “allegria” del giallo (quella particolare e specifica allegria) è la giallezza del giallo» 88 . L’idea di Hartshorne è che l’allegria non appartiene al giallo perché esso ci rende allegri, bensì perché l’allegria è parte della sua qualità percettiva, è inseparabile dal suo «essere-giallo». Si tratta, in altre parole, semplicemente del modo in cui noi percepiamo questo colore. Stessa cosa, sosteneva Hartshorne, si può dire degli altri colori, della musica, e, in generale, anche di altri aspetti visuali del mondo. Il fenomeno sarebbe quindi legato all’esperienza percettiva umana in generale e, non riguarderebbe dunque in particolare la musica o i colori. Viste così le cose, spiega Kivy, diventa meno problematica e anche meno imbarazzante una spiegazione di come le emozioni «sarebbero inerenti» alla musica. Scoprire infatti nella nostra esperienza ordinaria casi in cui comunemente accettiamo come logica conseguenza che la nozione di proprietà emotiva appartenga anche ad altri oggetti non senzienti, secondo Kivy, dovrebbe farci sentire meno a disagio anche rispetto al fenomeno musicale. L’esempio del colore giallo di Hartshorne sotto questo punto di vista funziona benissimo, perché egli sposta la nostra attenzione da quello che Kivy, a quanto pare, considera un caso problematico da spiegare, e cioè il fenomeno musicale, ad un caso che problematico non è, (quantomeno, non per il comune modo di vedere), quello della tonalità emotiva del colore giallo 89 . Dal nostro punto di vista sostenere, come fa Kivy, che ci sono oggetti nella nostra esperienza ordinaria rispetto ai quali, più facilmente, riusciamo a metabolizzare l’idea che ad essi ineriscano emozioni, in realtà non ci aiuta affatto a comprendere meglio il fenomeno musicale. Perché dovrebbe aiu87 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pag. 38. C. Hartshorne, The Philosophy and Psychology of Sensation, The University of Chicago Press, Chicago, 1934, pag. 7. 89 Cfr. Filosofia della musica. Un’introduzione, cit. pp. 40-41. Kivy scrive: «Uno dei modi tradizionali utilizzati dai filosofi per occuparsi di tali casi consiste nel provare a costruire un’analogia tra il caso problematico e un caso non problematico ch vi assomiglia in modo rilevante». 88 59 tarci, ci chiediamo? Non è assolutamente detto che il colore giallo sia in rapporto con l’allegria, almeno non più di quanto una certa musica lo sia in rapporto ad una certa emozione. Quello che genera una certa perplessità ai nostri occhi è soprattutto il fatto che egli in qualche modo, e per ragioni a noi poco chiare, tenda a dare per scontato che le cose per la logica comune debbano funzionare in questi termini. Possiamo comprendere che tra le diverse tonalità emotive che siamo soliti attribuire al giallo, l’allegria è forse quella predominante, anche se non l’unica, non possiamo invece altrettanto facilmente ammettere che un esempio come questo sia meno problematico di quello della musica. Quali sono i presupposti teorici che giustificherebbero questa credenza? Chi assicura a Kivy che è più facile per noi accettare il fatto che un’emozione x appartenga al colore y e che invece sia più complesso accettare che un’emozione appartiene alla musica? Che l’allegria del giallo non sia un caso problematico, e che l’allegria della musica invece lo sia? Lo stesso Kivy, seppure tenendosi a margine, nota che una simile replica potrebbe venire dallo scettico, il quale comodamente potrebbe evidenziare che il problema non è stato assolutamente risolto, se mai esacerbato. Sembrerebbe inoltre che una simile ipotesi interprativa non goda di nessun credito nemmeno nel pensiero analitico contemporaneo. Opinione diffusa in questo contesto è infatti che la filosofia di Hartshorne sia una sorta di «panpsichismo»: una filosofia cioè che attribuisce alla realtà fisica caratteristiche e dinamismi propri della vita psichica. Se seguiamo questa particolare concezione filosofica, di fatto, anche gli oggetti non senzienti possiederebbero un certo grado di sensibilità, allo stesso modo degli esseri senzienti (persone o animali). Così facendo si corre il rischio di perdere di vista la distinzione tra, per l’appunto, “esseri senzienti” e “oggetti non senzienti”. Per Kivy invece, una tale distinzione ha la sua importanza, per quali ragioni lo capiremo meglio a breve, parlando della teoria del profilo (contour theory). Ne consegue una critica ad Hartshorne, il quale, sostiene Kivy, non è stato capace infine di spiegare quello che a suo avviso è invece il problema fondamentale da risolvere, vale a dire: come sostanze non senzienti possano pervenire a possedere proprietà emotive. Perché, è il caso di evidenziarlo, per Kivy la musica certamente non è un essere senziente pur possedendo le emozioni come sue qualità percettive, mentre nel caso di Hartshorne, se ci fidiamo delle informazioni dateci da Kivy, anche gli oggetti non senzienti in qualche modo sarebbero senzienti. Anche nel caso di queste ultime riflessioni vorremmo aprire una breve parentesi critica. Kivy, abbiamo visto, sottolinea che il merito della spiegazione di Hartshorne è 60 quello di aiutarci a comprendere come un’emozione può inerire ad un oggetto non senziente estendendo il fenomeno al nostro campo percettivo, evidenziando cioè che le proprietà emotive fanno parte del nostro campo percettivo. Semplicemente si tratta del modo in cui percepiamo. Fino a questo punto niente da evidenziare. La nostra perplessità nasce invece quando dopo aver detto questo, portandoci così a credere che nella spiegazione di Hartshorne potevamo trovare un plausibile modo di comprendere il fenomeno musicale, Kivy arriva a sostenere, facendo anche leva sulle critiche della contemporanea filosofia analitica, che Hartshorne non è stato in grado di penetrare la misteriosa questione di come l’emozione possa vincolarsi a strutture che non sono senzienti. Non riusciamo, nel caso specifico, a capire per quali ragioni Hartshorne avrebbe dovuto porsi questo problema, dal momento che egli ha sottolineato che in realtà è all’esperienza percettiva umana in generale che dobbiamo guardare e non solo agli oggetti, poiché un’emozione ad essi inerisce nel momento in cui la percepiamo. L’emozione musicale è legata al modo in cui noi la percepiamo. Abbiamo il sospetto che dietro questa faticosa argomentazione, oscillante cioè tra il polo noetico e quello noematico della nostra esperienza del mondo, vale a dire tra l’accento posto sull’elemento soggettivo dell’esperienza percettiva e quello oggettivo, si nasconda un mancato approfondimento della nozione di sintesi passiva maturata ed elaborata in ambito fenomenologico 90 . Se cioè consideriamo il fatto che i materiali percettivi hanno facoltà di autoorganizzarsi e di suggerire percorsi sintetici e direzioni immaginative, allora non ci sembrerà più né un cedimento al panpsichismo né un’indebita accentuazione delle componenti soggettive il fatto di concepire le qualità espressive come una proprietà strutturale della musica. Per il momento, dobbiamo accontentarci soltanto di queste brevi notazioni, anche perché mancano al nostro attivo altre tesi fondamentali che per esigenze di ordine espositivo non abbiamo ancora potuto esplorare, attraverso le quali guadagneremo certamente maggiore chiarezza. Ora, la tesi che le proprietà emotive appartengono alla musica come qualità percettive era stata sostenuta anche da un altro filosofo americano cui Kivy spesso fa riferimento nelle sue opere. Si tratta del wittgensteiniano Bouwsma, secondo il quale la tristezza è in relazione alla musica non perché la musica ha il potere di renderci tristi, di disporci a un’emozione, bensì perché l’emozione è una sua qualità percettiva. Bouwsma sosteneva in particolare che la tristezza sta alla musica più come “il rossore sta 90 Cfr. E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, trad. it. di V. Costa, a cura di P. Spinicci, Guerini e Associati, Milano 1993. 61 alla mela, che come il rutto sta al sidro”. Tale analogia per Kivy rivela con chiarezza l’esigenza di ancorare le qualità emotive alle strutture musicali, ma non spiega, allo stesso modo dell’esempio di Hartshorne, come la musica possa possedere l’emozione come sua qualità percettiva: il problema – egli aggiunge – è relativo al fatto che pur avendo una buona idea di come il rossore «sia inerente» alla mela e ad altre cose rosse, non abbiamo un’idea altrettanto chiara di come le emozioni «siano inerenti» alla musica 91 . Parte dell’attenzione di Kivy nella sua ricerca è diretta su quel come. Come l’emozione stia «dentro» la musica. Per Kivy è un fatto che la musica possiede le emozioni. È un fatto cioè che una musica in tonalità maggiore, con un tempo rapido e sincopato e temi vivaci e galoppanti sia percepita come allegra, così come una musica in tonalità minore con un tempo lento e pesante, con una dinamica sommessa, i temi esitanti e calanti, sia percepita come melanconica, triste. Perché però, si chiede, ascoltiamo allegria e non soltanto la tonalità maggiore, il tempo rapido, etc., oppure, perché non ascoltiamo la tonalità minore di un brano, la sua dinamica sommessa, la melodia cadente ed esitante, e ascoltiamo invece la malinconia? Questo è il problema. Scrive Kivy: L’approccio più seducente al problema concernente le emozioni «dentro» la musica mi è intimamente familiare, perché è un approccio che ha sedotto anche me. Esso prende le mosse dall’idea che non possa essere una semplice coincidenza il fatto che la musica triste abbia un tempo lento e incerto, una dinamica sommessa e melodie esitanti e calanti, e che le persone tristi camminano con passo lento e incerto, con il corpo chino, e parlino sottovoce in modo esitante. Non può essere neppure una semplice coincidenza il fatto che le opere musicali allegre e le persone allegre si muovano rapidamente, parlino forte e persino saltellino, la musica melodicamente, le persone con il corpo 92 . Ci deve essere, da questo punto di vista, una qualche analogia tra l’andatura, il contegno il portamento delle persone quando esprimono le emozioni comuni e il modo 91 In generale, sottolinea Kivy, l’intera comunità dei filosofi britannici e americani interessata alla questione dell’espressività ha accettato al fatto che la musica sia espressiva delle emozioni comuni in virtù del suo possederle come proprietà percettive. Ma, una volta assodato questo restano tre importanti questioni, sulle quali c’è un sostanziale disaccordo, da risolvere, vale a dire: 1) Come, attraverso quale processo, la musica è capace di esprimere le emozioni nella varietà delle loro sfumature? 2) Qual è il ruolo che le proprietà espressive giocano nella struttura musicale cui appartengono? Dato che le emozioni comuni sono, come proprietà espressive, nella musica e non nell’ascoltatore, che cosa significa essere profondamente commosso dalla musica? 92 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pp. 45-46. 62 in cui la musica suona o è descritta quando è percepita come espressiva di quelle stesse emozioni. Kivy è certo che una simile analogia esista, anzi, è proprio basandosi su di essa che ha tentato di spiegare il problema dell’espressività musicale già a partire da The Corded Shell. Com’è possibile però, ammesso che possibile sia, avvicinare l’espressione umana delle emozioni con l’espressione delle emozioni nella musica? L’emozione è uno stato di coscienza e sembrerebbe che soltanto esseri viventi dispongano di stati di coscienza 93 . Secondo Kivy, è necessario, a tale proposito fare una distinzione tra “esprimere qualcosa” e “essere espressivo di qualcosa”, poiché per potere esprimere qualcosa bisogna sentire l’emozione espressa, mentre per essere espressivi di un’emozione non è necessario che qualcuno o qualcosa provi realmente quell’emozione. L’esempio che egli propone è il seguente: Se, nelle circostanze appropriate, sono spinto dalla rabbia a urlare e a stringere i pugni, è corretto dire che io ho espresso la mia emozione; ed è corretto dire che l’urlare e lo stringere i pugni esprimono o sono l’espressione della mia emozione. È estremamente importante notare che una condizione necessaria affinché l’urlare e lo stringere i pugni siano l’espressione della mia rabbia è che io sia realmente arrabbiato; e fino a che io non sono veramente arrabbiato, non è corretto dire che io ho espresso la mia rabbia o che il mio urlare e il mio stringere i pugni sono espressioni di tale rabbia. Si consideri questo come il paradigma dell’espressione emotiva. Ma si confronti questo caso con quest’altro. Il San Bernardo ha una faccia triste. Con ciò non vogliamo dire che la faccia del San Bernardo esprime tristezza. Poiché di certo il San Bernardo non è sempre triste. E affinché la sua faccia possa essere possa essere sempre appropriatamente descritta come esprimente tristezza, dovrebbe verificarsi il seguente caso: la povera creatura dovrebbe trovarsi in un perenne stato di tristezza. Pertanto, quando descriviamo la faccia del San Bernardo come una faccia triste, non stiamo dicendo che esso esprime tristezza, ma, piuttosto, che esso è espressivo di tristezza. Si consideri questo come il paradigma dell’essere espressivo di φ, dove “φ” è il nome di un’emozione o di uno stato d’animo (come “rabbia” o “malinconia”) 94 . Dunque, perché un essere umano esprima un’emozione, condizione necessaria è che realmente senta quell’emozione (paradigma dell’espressione emotiva). Le cose non 93 Cfr. il recente contributo di A. Bertinetto, Bach e il San Bernardo. La filosofia della musica di Peter Kivy, «Estetica», I (2006), pag. 92. 94 P. Kivy, The Corded Shell …, cit., Cap. II, To Express and To Be Expressive, pag. 12. Questa distinzione ci informa Kivy la si ritrova nel libro di Alan Tormey, The Concept of Expression: A Study in Philosophical Psychology and Aesthetics (Princeton University Press, Princeton, 1971, Cap. II). Sembrerebbe che sia stato proprio il libro di Tormey a trasmettere a Kivy una visione chiara riguardo al concetto di espressione. 63 stanno così invece nell’altro caso, la tristezza del muso del San Bernardo, ma anche in altri casi analoghi a questo, come, ad esempio, quello del salice piangente. Il muso del San Bernardo non esprime tristezza, ma è espressivo di essa. La tristezza del muso del San Bernardo esiste – evidenzia Kivy – in virtù del nostro vederla come una sorta di caricatura del volto umano quando esprime tristezza. Inoltre, possiamo affermare che se il San Bernardo ci appare triste è anche per via di altri suoi tratti fisici, gli occhi umidi, la fronte aggrottata, la bocca ricurva e le orecchie afflosciate; caratteristiche, queste, che rimandano tutte alle caratteristiche di un volto umano quando esprime tristezza. La tristezza sarebbe quindi una qualità del muso nella stessa maniera in cui l’allegria è una qualità del giallo. Stessa cosa dicesi del salice piangente, esso non è così definito perché realmente sta provando la tristezza, bensì perché è espressivo di tristezza (paradigma dell’essere espressivo di φ, dove “φ” è il nome di un’emozione oppure di un umore, come la rabbia, la malinconia, etc.). Il problema ora è questo: a quale dei due paradigmi dobbiamo ricondurre l’espressività della musica? Al paradigma dell’esprimere un’emozione? Oppure al paradigma dell’essere espressivo di? Noi tutti, evidenzia Kivy, abbiamo tentato, chi in un modo chi nell’altro, di descrivere una canzone, una melodia, un tema oppure una sinfonia in termini emotivi: abbiamo detto di una canzone che è triste, di una melodia che è allegra, di un tema che è minaccioso, di una sinfonia che è malinconica. Leggiamo questo tipo di descrizioni della musica dappertutto, nella più “alta” e consapevole così come nella più “bassa” e inconsapevole forma di critica musicale. Compositori grandi e meno grandi hanno descritto la loro musica in termini emotivi, e così anche i musicologi. Ma, quando noi, oppure i compositori, i critici, i musicologi, diciamo che una melodia è triste, stiamo dicendo che essa esprime tristezza o che è espressiva di questa emozione? Applicato agli esempi visti: stiamo parlando del pugno chiuso di un uomo arrabbiato o del muso del San Bernardo? Dal punto di vista di Kivy c’è una buona ragione per accantonare l’idea che quando diciamo di un brano musicale che è triste ciò equivalga a dire che “la musica esprime tristezza”. Perché se la musica esprimesse tristezza, questo vorrebbe dire che la sua tristezza starebbe in stretta relazione con la tristezza di qualcuno, così come l’aver alzato la voce e il pugno chiuso stanno alla rabbia quando correttamente dico di esprimere rabbia, nel paradigma dell’espressione emotiva. Solitamente, l’ovvio candidato è il compositore, la cui tristezza si suppone la musica debba esprimere. Una tesi simile, nota Kivy, è quella sostenuta dal biografo di Beethoven, J. W. N. Sullivan. 64 Per Sullivan infatti la musica di Beethoven è lo specchio dell’uomo, l’espressione delle sue passioni. Egli scrive così: Il coraggio e la risolutezza che troviamo nel primo movimento [della Hammerclavier sonata] sono curiosamente austeri …. Quelle armonie fredde, così tipiche degli ultimi lavori di Beethoven, non trasmettono più quella fiducia calorosa e umana di un uomo che sa che la vittoria sta alla fine. Qui viene espressa una risolutezza arida e spoglia, non priva di coraggio, ma che non è toccata da nessuna delle gioie che si possono provare al termine di un conflitto … L’uomo che ha scritto questa musica è già di per se un gran solitario. Il suo coraggio non si è affatto affievolito, ma è diventato più torvo. Sembrerebbe che la sofferenza lo abbia indurito; verrebbe da pensare che quest’uomo non potrà mai più provare emozioni … Il movimento lento è l’espressione deliberata, da parte di un uomo che non ha alcun riserbo, di una sofferenza fredda e senza eguali, che sembrerebbe trascinarci in un baratro dove nulla di ciò che chiamiamo vita potrebbe durare più di un istante 95 . Quello che emerge chiaramente dalla descrizione di Sullivan non è altro che la diffusa concezione che la musica non sia espressiva, ma che esprima le emozioni, allo stesso modo, abbiamo visto, di un essere senziente: che la musica stia insomma alle emozioni come il pugno chiuso sta alla rabbia, non come la tristezza sta al muso del San Bernardo. Sullivan, scrive Kivy, impassibilmente usa “espressione” piuttosto che “espressivo di”. Inoltre, da questo esempio si evidenzia anche che le qualità emotive della musica sono viste come inerenti allo stato mentale del compositore. La musica di Beethoven in Hammerclavier non esprime più entusiasmo e fiducia, perché è Beethoven che non ha più fiducia e entusiasmo, e che è diventato un “grande solitario”. Così descritta la funzione della musica sarebbe quindi quella di comunicare gli stati mentali del compositore, e, questi stati testimonierebbero la profondità della natura dell’artista e la qualità delle sue esperienze di vita. La teoria dell’espressione cui invece pensa Kivy, non c’è ombra di dubbio, rifiuta l’idea che la musica possa esprimere le emozioni piuttosto che essere espressiva di esse. Una teoria che sgombra il campo quindi dalle facili suggestioni di una critica intrisa di psicologismi o condotta sulla cattiva strada da una monotona teoria dell’espressività. Il pericolo è sempre lo stesso: quello di descrivere la musica emotivamente anche quando è perfettamente chiaro che essa non esprime le emozioni che le ascriviamo; la descriviamo così infatti anche quando non abbiamo modo di sapere se 95 J. W. N., Sullivan, Beethoven: His Spiritual Development, Vintage Books, New York, 1960, pp. 13839. 65 esprime quelle emozioni perché non abbiamo modo di conoscere quali erano gli stati emotivi del compositore quando l’ha scritta. Questo ci deve far molto pensare, osserva Kivy, perché accade di fatto che la maggior parte delle nostre descrizioni emotive della musica sono logicamente indipendenti dagli stati della mente del compositore, mentre se il mio pugno chiuso è o non è un’espressione della mia rabbia è logicamente dipendente dal fatto di essere o non essere arrabbiato. L’espressività della musica rientra quindi nel paradigma dell’essere espressivo di φ. A questo punto dobbiamo capire in che senso la musica espressiva ha la stessa relazione con le emozioni che il muso del San Bernardo ha con l’emozione della tristezza. Kivy distingue tre caratteristiche espressive 96 : 1. In primo luogo ci sono le caratteristiche della musica di cui si può dire che «suonano come» i suoni emessi dagli esseri umani nell’esprimere le loro emozioni: pensiamo all’esempio più ovvio del linguaggio parlato. Una musica è percepita come allegra quando è brillante, forte e nel registro alto, perché le persone allegre si esprimono con toni brillanti, forti, a volte persino rumorosi. 2. In secondo luogo ci sono quelle caratteristiche della musica di cui si può dire che rassomiglino, nel loro suono, ad aspetti visibili del comportamento espressivo umano: per esempio il ritmo della gestualità, il movimento del corpo. La musica in questo caso è comunemente descritta in termini molto simili a quelli che usiamo per descrivere il movimento del corpo umano sotto l’influsso di emozioni. 3. In terzo luogo ci sono alcune caratteristiche musicali, in particolare gli accordi di maggiore, minore e diminuito, che, per la maggior parte delle persone, possiedono rispettivamente i toni emotivi dell’allegria, della malinconia e dell’angoscia, ma che non sembrano rassomigliare né al suono dell’espressione umana né al suo aspetto visibile, perché – come il giallo e la sua allegria – sono semplici qualità percettive. Nei primi due punti troviamo delineata quella che Kivy in The Corded Shell definì «teoria del profilo» (contour theory or model) 97 dell’espressività musicale. Tale teoria è stata così definita perché essa spiega l’espressività della musica mediante la congruenza, l’analogia, del “contorno” o “profilo” della struttura musicale con le manifestazioni acustiche e visive dell’espressione emotiva umana. Kivy tiene a precisare 96 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pag. 47. Cfr. The Corded Shell …, cit., cap. VIII, pp. 71-83; Cfr. anche Filosofia della musica …, cit., pp. 4853. 97 66 che la teoria del profilo non è da considerarsi una teoria rappresentazionale, una teoria cioè secondo cui la musica rappresenta la voce e la gestualità dell’espressione umana. Da questo punto di vista infatti noi non udiamo le emozioni della musica, nella musica, come rappresentate, in maniera mediata, bensì in maniera immediata. L’analogia tra la musica e il comportamento espressivo umano infatti, secondo Kivy, la si può cogliere a livello subliminale, vale a dire: dobbiamo trovarci in uno stato di inconsapevolezza rispetto all’esistenza dell’analogia stessa, non dobbiamo in alcun modo presupporla. Il problema è comprendere però perché dovremmo udire emozioni nella musica a causa di questa percezione subliminale, e non udire invece qualcos’altro. Questo dipenderebbe dall’evoluzione che ci struttura in un certo modo per selezione naturale. Kivy spiega infatti che la tendenza generale di noi esseri umani è quella di vedere le figure ambigue come forme animate anziché come forme inanimate: come esseri viventi, piuttosto che non-viventi. Vediamo forme viventi nelle nuvole, nelle macchie sui muri, così come nelle cose che si celano ombrose nei boschi. Se vediamo un bastone, facilmente siamo portati a pensare che si tratti di un serpente ed è meglio che le cose stiano così, perché se fuggiamo da un bastone il massimo rischio che possiamo correre è quello di sprecare inutilmente un po’ delle nostre energie, farci venire il fiatone, mentre se fuggiamo da un serpente siamo al riparo da un potenziale pericolo. L’evoluzione insomma dice: «Meglio sicuri che sofferenti. Meglio errare che essere mangiati» 98 . La stessa cosa sostiene Kivy accade con i suoni, accade cioè che li percepiamo come animati, come espressivi di emozioni. Tuttavia, nel caso dei fenomeni visivi ambigui siamo coscienti di quello che stiamo vedendo, mentre nel caso della musica le cose funzionano diversamente: per quanto possiamo essere consapevoli delle proprietà espressive, non siamo altrettanto consapevoli del fatto che prendiamo il profilo musicale per un enunciato espressivo. Se questo accade, spiega Kivy, è perché il senso dell’udito ha meno importanza nella lotta per la sopravvivenza, a differenza del senso della vista che è invece il senso primario degli esseri umani e anche di altri primati superiori. È probabile quindi che quella che originariamente era una tendenza consapevole, udire cioè i suoni ambigui come animati e come potenzialmente minacciosi, con il tempo, a causa di ragioni evolutive, sia divenuta inconsapevole. A nostro modo di vedere la teoria del profilo richiama alla mente la tesi isomorfica sostenuta da Langer, la quale forte delle acquisizioni degli psicologi gestaltisti 99 98 P. Kivy, Filosofia della musica, cit., pag. 51. La teoria dell’isomorfismo viene presentata da Köhler in un saggio del 1920, Die Physischen Gestalten in Ruhe und im stationärem Zustand [Le forme fisiche in quiete e nello stato stazionario], come teo99 67 spiegava che in realtà esisterebbe un’analogia formale tra le proprietà strutturali proprie della musica e le proprietà formali del feeling umano 100 . Kivy stesso non manca di evidenziare tale affinità, anche se tiene rilevare le differenze che intercorrono tra la sua concezione e quella della Langer. Mi sembra utile riportare quanto egli scrive a tale proposito: Credo che sarebbe utile, a questo punto, contrapporre alla concezione qui sostenuta quella della Langer, con la quale ha qualche affinità; poiché si potrebbe pensare che ciò che qui si sta sostenendo è semplicemente un rimaneggiamento delle sue ben note obiezioni. Sia Langer che io affermiamo che la musica possiede qualche somiglianza con la “vita emotiva”, e che, in un modo o nell’altro, è proprio qui che possiamo trovare la spiegazione della sua espressività. Ma da qui iniziano le differenze. La Langer afferma, diversamente da me, che l’“isomorfismo” (un suo termine) della musica con la vita emotiva fa sì che la musica sia un simbolo di tale vita. Io affermo invece che la musica è espressiva di emozioni singole e specificabili, per lo meno entro certi limiti, laddove lei nega questo punto, sostenendo solo che la musica è un simbolo della vita emotiva considerata come un insieme unico, e che non può essere simbolica – e quindi non può essere ria generale delle strutture fisiche (per esempio un magnete avvicinato ad altri magneti ne altera la configurazione spaziale complessiva): il suo uso in psicologia non è che un’applicazione particolare. Tale teoria nasce da una riconsiderazione da parte di Köhler, ma anche degli altri gestaltisti berlinesi, del ruolo delle sensazioni. Nello specifico viene criticato – a seguito di una serie di esperimenti, condotti da Wertheimer nel 1910, sulla percezione del movimento apparente o movimento-phi – uno dei paradigmi della psicologia associazionista, l’ipotesi della costanza, secondo cui si deve assumere una corrispondenza puntuale tra lo stimolo e la percezione. Per Köhler invece una simile corrispondenza non esiste, esiste invece una più generale somiglianza strutturale tra complessi gestaltici di stimoli da un lato e fenomeni psichici globali dall’altro. Il processo percettivo non è pertanto una forma di interpretazione a partire da stimoli indipendenti collegati in seguito da processi inferenziali e associativi, ma è caratterizzato fin dal principio da una tendenza alla globalità. Le Gestalten psicologiche, come le Gestalten fisiche, obbediscono a leggi di organizzazione (di somiglianza, contiguità, proseguimento naturale, ecc.). Per quanto concerne da vicino il riferimento alla dinamica musicale, nell’altra importantissima opera del 1929, Gestalt Psychology, Köhler così scriveva: «In modo affatto generale, i processi interiori, vuoi emotivi, vuoi intellettuali, mostrano tipi di sviluppo che si possono terminizzare con elementi comuni nella terminologia musicale, quali crescendo e diminuendo, accelerando e ritardando. Come queste qualità occorrono nel mondo delle esperienze acustiche, occorrono anche nel mondo di quelle visive, per cui possono esprimere caratteristiche dinamiche simili della vita interiore nell’attività direttamente osservabile … Al tempo interiore in accelerazione e al suo livello dinamico corrisponde un crescendo e un accelerando nel movimento visibile. Naturalmente, lo stesso sviluppo interiore può esprimersi in via acustica, come, per esempio, nell’accelerando e crescendo del parlato …». W. Köhler, Gestalt Psychology, Berlino, 1929, pp. 248-249. 100 Nell’opera Sentimento e forma a tale proposito Langer scriveva: «Le strutture tonali che noi chiamiamo “musica” hanno una stretta somiglianza logica con le forme del sentimento umano: forme di sviluppo e decrescenza, di flusso e di accumulo, di conflitto e di soluzione, di rapidità, arresto, somma eccitazione, calma o attivazione sottile e cadute nella sfera del sogno; non gioia e dolore, forse, ma il mordente dell’una o dell’altra o di entrambi; la grandezza e la brevità e l’eterno trascorrere di tutto ciò che è vitalmente sentito. Questo lo schema, o la forma logica, del sentire; e lo schema della musica è quella forma stessa, elaborata nella purezza e nel metro del suono e del silenzio. La music è un corrispondente tonale della vita emotiva. Una tale analogia formale, o congruenza di strutture logiche, è la condizione prima per una relazione fra un simbolo e tutto ciò che questo deve significare. Il simbolo e l’oggetto simbolizzato devono avere una qualche forma logica in comune». S. K. Langer, Sentimento e forma, cit., pag. 43. 68 espressiva – di emozioni singole, dal momento che ciò vorrebbe dire che essa sarebbe un “linguaggio” delle emozioni, il che ovviamente non corrisponde al vero. Come è stato evidenziato dalla letteratura precedente, il passaggio dall’ “isomorfismo” al “simbolo” è fallace. Dal fatto che la musica è isomorfica con la vita emotiva, non segue che essa simbolizza la vita emotiva, sebbene l’essere isomorfica con la vita emotiva potrebbe essere una condizione necessaria (ma non sufficiente) affinché qualcosa sia un certo tipo di simbolo della vita emotiva. Questa particolare critica non può essere rivolta contro la posizione qui difesa; poiché io non sostengo che la somiglianza della musica col comportamento espressivo renda la musica simbolica di alcunché 101 . Con tutte le differenze del caso, a parte cioè la non condivisibilità da parte di Kivy della teoria langeriana del simbolo, ritenuta una indebita associazione alla nozione di isomorfismo, ciò che si evidenzia in entrambe le teorie è l’esistenza di questa analogia tra le proprietà strutturali-formali della musica e la vita emotiva degli esseri umani, ma anche il fatto che è proprio sulla base di questa somiglianza che sussiste la possibilità di spiegare e quindi comprendere l’espressività musicale. Resta ora da chiarire il discorso sulla terza proprietà espressiva, quella relativa cioè agli accordi espressivi, maggiori, minori, diminuiti. In questo caso ci troviamo dinanzi alla cosiddetta teoria convenzionale (convention theory or model) dell’espressività musicale; essa spiega l’espressività della musica come una funzione, semplicemente, della consueta 102 associazione di alcune caratteristiche musicali a quelle delle nostre risposte emotive. Si tratta di caratteristiche però la cui associazione non chiama in causa nessun tipo di relazione analogica. È il caso degli accordi espressivi, i quali sono percepiti dalla maggior parte delle persone rispettivamente come allegri, malinconici e angosciosi, non perché presentino una qualche analogia con i tratti del comportamento umano, ma solo perché sarebbero qui in gioco qualità percettive semplici 103 . Come a giusta ragione, crediamo, ha sottolineato Bertinetto «non basta, come fa Kivy, affermare che recenti teorie di psicologi, biologi evoluzionisti, filosofi analitici (di cui Kivy non fornisce le generalità) sostengono che le emozioni fondamentali sono universali e che il sistema tonale è quello che meglio ha incorporato l’espressione di ta- 101 P. Kivy, The Corded Shell …, cit., pp. 60-61. Questa tendenza di Kivy di appellarsi continuamente al senso comune, al consueto modo di vedere, percepire, ascoltare – come avevamo già evidenziato – desta in noi non poche perplessità. Crediamo infatti che siano formule utilizzate con una certa superficialità e vaghezza. 103 Per un approfondimento in merito alla distinzione di Kivy tra qualità semplici e complesse rinviamo al terzo capitolo di Filosofia della musica …, cit., pp. 42-45. 102 69 li emozioni. Occorrerebbe fornire qualche argomentazione e documentare tale affermazione. Peraltro non sembra ovvio che le emozioni fondamentali (in che senso poi si può distinguere se un’emozione è fondamentale o meno?), e tanto meno le loro espressioni, siano le stesse in ogni tempo e cultura. Tanto meno è ovvio che la tonalità maggiore esprima sempre emozioni positive e viceversa la tonalità minore emozioni negative: isolare l’aspetto armonico dalla struttura ritmica e dalla melodia ostacola la comprensione del complesso rapporto tra la musica e le emozioni. Kivy non dice nulla (per quanto io ne sappia) sull’espressione di emozioni nel jazz, dove non è affatto raro che, in rapporto al ritmo e alla melodia, una tonalità minore possa essere espressiva di gioia. Peraltro i dubbi che affiorano nei più recenti scritti di Kivy intorno alla capacità espressiva della musica sono sintomo del fatto che la teoria naturalistica di The Corded Shell non è sorretta da convincenti argomentazioni» 104 . In effetti, oramai da un po’ di tempo a questa parte 105 , Kivy ha seriamente messo in discussione l’intero impianto della teoria del profilo. Non è più certo infatti, questo forse anche per via di alcune critiche ricevute106 , che ci siano analogie riconoscibili tra il profilo musicale e l’espressione umana, non è nemmeno sicuro che il fenomeno delle figure visive ambigue possa essere applicato ai suoni e a ciò che ascoltiamo in essi, né tantomeno quindi che la spiegazione evoluzionistica possa a questo punto essere di qualche utilità. Tuttavia, Kivy è giunto alla conclusione che, per quanto buffo possa apparire, la teoria del profilo, non avendo ancora trovato, per così dire, una degna sostituta, resta attualmente la più attraente. Semplicemente – egli dice – si rifiuta di morire, 104 A. Bertinetto, Bach e il San Bernard. La filosofia della musica di Peter Kivy, cit., 100-101. Cfr. New Essays on Musical Understanding, cit.; Filosofia della musica …, cit. 106 Tra queste le più significative sono quelle che gli sono state mosse da Jerrold Levinson e Stephen Davies. Entrambi sono sostenitori di una teoria non eccitazionistica dell’espressività musicale. Tanto per Kivy quanto per Levinson e Davies è valido infatti il principio dell’externality claim, secondo cui l’espressività della musica è vincolata alla struttura musicale stessa. Questo è sicuramente il tratto comune delle loro teorie. Anche se poi ciascuno spiega diversamente questa appartenenza. Secondo Davies (il quale è molto vicino all’impostazione cognitivista di Kivy) l’esperienza che abbiamo della musica è quella di caratteristiche emotive il cui aspetto è associato con un’emozione. Ma la capacità di riconoscere un certo brano o passaggio musicale come espressivo di una certa emozione può dipendere non soltanto da fattori naturali, ma piuttosto dall’ambiente socio-culturale. A tale proposito cfr. S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit.; S. Davies, Themes in Philosophy of Music, Oxford University Press, Oxford 2003, pp. 119-91, in particolare pag. 185. Sulla convenzionalità dei sentimenti e della loro espressione musicale insiste anche David Carr, il quale, sostiene da un punto di vista wittgensteiniano che la musica ha il suo proprio carattere emotivo. Cfr. D. Carr, Music, Meaning, Emotion, in «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», 63, 2004, pp. 225-34. Per Levinson invece un passaggio musicale è espressivo di una certa emozione soltanto se tale passaggio è ascoltato, da una persona esperta di quel genere musicale, come espressione di quella data emozione. E poiché l’espressione di un’emozione richiede l’esistenza di un soggetto che esprime l’emozione, ascoltare un’emozione in musica significa ascoltare – magari in modo subliminale – un agente nella musica, una «persona» musicale. Cfr. J. Levinson, Musical Expressiveness, in The Pleasures of Aesthetics, cit., pp. 20-125; Id., Musical Expressiveness as Hearability as Expression, in M. Kieran (a cura di), Contemporary debates in Aesthetics and the Philosophy of Art, Blackwell, Oxford 2006, pp. 192-204. 105 70 nonostante le sue numerose difficoltà. Quale soluzione adottare allora? Kivy non ce lo dice. Si ferma solo a constatare che attualmente c’è un accordo generale sul fatto che la musica esprima le qualità emotive come qualità percettive, e che quindi la cosa migliore da fare, stando così le cose, è di attendere fiduciosi che nel futuro si trovi un spiegazione più convincente. Ritiene, infatti, che sia un errore rimanere impantanati nel problema di come la musica riesca a contenere le emozioni comuni come qualità percettive; ne consegue la scelta di dirigere l’attenzione al ruolo che tali qualità giocano nella struttura e nell’esperienza musicale. Interessante a tale proposito riportare una immagine molto significativa che Kivy utilizza per spiegare il fenomeno dell’espressività musicale, quella della musica come una scatola nera: Consideriamo dunque la musica, sotto questo rispetto, come una «scatola nera», come dicono gli scienziati: vale a dire, come una macchina di cui ci è ignoto il funzionamento interno. Sappiamo che cosa vi entra e che cosa ne esce. Rispetto al modo in cui la musica riesce a esibire le emozioni comuni come qualità percettive, essa è per noi una scatola nera. Sappiamo che cosa vi entra: le qualità musicali che, per tre secoli, sono state associate con le emozioni particolari di cui la musica è espressiva. E sappiamo che cosa ne esce: le qualità espressive che sono udite come espresse dalla musica. E piuttosto che farci prendere dall’ossessione di penetrare dentro questa scatola nera, dovremmo, o per lo meno alcuni di noi dovrebbero, tenere presenti le implicazioni che questo nuovo modo di considerare le qualità espressive della musica (infatti è davvero un modo nuovo) ha per la nostra comprensione complessiva della musica 107 . 3. L’espressività musicale: una breve storia Chiarito dunque che la musica assoluta 108 , secondo Kivy, non esprime letteralmente le emozioni, ma è espressiva di esse, sarà necessario entrare meglio nel merito 107 P. Kivy, Filosofia della musica …, cit., pag. 59. Non dobbiamo dimenticare che al centro dell’indagine di Kivy troviamo la musica assoluta, la cui rapida affermazione verso la seconda metà del diciottesimo secolo segna un momento di svolta radicale di quella tradizione che fino ad allora pensando alla musica pensava principalmente alla musica vocale. Per quanto infatti evidenzia Kivy la musica strumentale non fosse sconosciuta in epoca pre-moderna ed esistevano comunque splendide composizioni, essa non godeva, diciamo così, della stessa considerazione della musica vocale. Questa situazione notavamo però che ad un certo punto muta radicalmente, visto che la produzione di musica strumentale aumenta notevolmente, e, ancor di più, essa diventa il centro dell’attenzione di intellettuali e filosofi. La musica non deve più necessariamente farsi imitazione o rappresentazione della voce umana parlante come aveva voluto la tradizione inaugurata da Platone e sopravvissuta anche nelle idee degli esponenti della Camerata Fiorentina, ma può essere concepita come un 108 71 della questione di come tali emozioni possano essere vincolate alla struttura musicale, capire quindi in che termini egli intenda questo rapporto, in che senso cioè esso possa sussistere e debba essere interpretato. Interessante per noi, da questo punto di vista, dare una rapida lettura del percorso storico-teorico tracciato e seguito da Kivy, in alcune sue opere in particolare 109 , entro il quale, avremo modo di verificare a breve, una tale concezione viene a chiarirsi. Kivy si confronta sempre con un oggetto ben selezionato; anche quando si propone di dare uno sguardo rapido alla storia del pensiero musicale, egli dirige l’attenzione in modo quasi esclusivo alla musica assoluta occidentale e ai modi in cui essa è stata interpretata. Una scelta questa che ha fatto molto discutere e che è stata oggetto di critiche aspre, soprattutto da parte di chi ha visto tale restrizione del campo d’indagine come un ostacolo per qualsiasi tentativo di guadagnare un respiro universale 110 . Vale a dire non si può parlare di Musica, quando tutto il discorso è rivolto ad una tradizione musicale ben determinata storicamente e geograficamente. Il percorso nella storia dell’estetica musicale compiuto da Kivy si snoda lungo due direttrici principali: da un lato troviamo il riferimento ai classici del pensiero filosofico che hanno dedicato particolare attenzione all’arte dei suoni, dall’altro invece il confronto con le tesi di filosofia della musica attualmente più discusse in ambito analitico (Susanne Langer, Leonard Meyer). Apriamo una breve parentesi per evidenziare come anche in questo caso si possa rilevare la piena sintonia di Kivy con l’altra tendenza diffusa tra gli analitici che è qualcosa che è dotato d’un potere espressivo autonomo: essa è capace di veicolare emozioni e significati, grazie alle capacità semantiche che le sono state riconosciute anteriormente, all’epoca della sua stretta unione con il linguaggio verbale. Scrive Kivy a tal proposito, «Per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, «musica» significa musica cantata. Per la stragrande maggioranza delle persone della storia dell’umanità, «musica» ha significato musica cantata. Il moderno «problema della musica» è figlio della musica strumentale pura: musica assoluta, sola musica». Cfr. Filosofia della musica …, cit., pag. 61. 109 Cfr. P: Kivy, The Corded Shell …, cit.; Filosofia della musica …, cit.; Queste per lo meno sono le opere dove troviamo organicamente dispiegato tale percorso, ma potremmo in generale segnalare un po’ tutte le sue opere, poiché Kivy costantemente non rinuncia a questo confronto, a volte anche muovendosi senza seguire un preciso ordine di comparizione delle diverse teorie. Ad ogni modo, il lettore, sicuramente, avrà già constatato che sono quelli i due testi di Kivy cui siamo soliti riferirci, e questo non a caso. Alla base di questa decisione c’è infatti una ragione precisa, poiché il The Corded Shell è la prima opera in cui Kivy getta le basi di tutta la successiva speculazione filosofica sulla musica ed è anche il luogo dove prende forma per la prima volta la teoria del formalismo emotivo, e Filosofia della musica, oltre che essere la più recente opera scritta, è invece il testo nel quale troviamo una summa delle principali tesi filosofiche sulla musica esposte da Kivy nelle sue precedenti pubblicazioni. Si tratta, inoltre di un’opera, nella quale, evidenziavamo, egli, alla luce dell’esperienza acquisita, valuta criticamente alcune delle proposte teoriche avanzate che filosofi a lui contemporanei hanno seriamente messo in discussione. 110 Un altro importante aspetto da tenere in considerazione è proprio questo, e cioè, l’interesse di Kivy è tutto direzionato verso la musica classica occidentale. Nel The Corded Shell chiaramente si evidenzia questo dato quando Kivy scrive: « … E fintantoché la mia spiegazione sarà storica, basata su certi fatti relativi alla musica e alla sua evoluzione nell’Occidente, questa monografia sarà filosofica non in senso stretto». P. Kivy, The Corded Shell …, cit., pag. 16. Tutti gli esempi musicali di Kivy attingono dal repertorio della musica classica occidentale. 72 quella, ricordiamo, di avanzare le personali proposte a seguito di un’esplorazione delle teorie che hanno inciso profondamente nella riflessione filosofica, se pure ritagliando in maniera estremamente selettiva i riferimenti ad essa. In che modo quindi è stata intesa l’espressività musicale nella storia del pensiero estetico? Viste in uno schema, le teorie più rappresentative sembrano riassumersi così: a) teoria dello eccitazionistica o modello disposizionale; b) teoria rappresentazionale; c) teoria metaforica; d) una teoria simbolica. Per quanto concerne specificatamente il primo punto, iniziamo subito ad evidenziare che l’idea fondamentale delle teorie disposizionali è che la musica ha il potere di suscitare emozioni nell’ascoltatore, ed è triste, gioiosa, malinconica, ecc. proprio in virtù del fatto che essa suscita tali emozioni in chi ascolta. E, di fatto, nell’ottica delle teorie disposizionali, dire che un passaggio musicale è malinconico altro significato non ha se non quello di riconoscergli la proprietà di rendere malinconico l’ascoltatore. La tradizione del modello disposizionale, avverte Kivy, è una delle tradizioni che maggiormente ha resistito nel tempo, basti pensare al fatto che essa ha avuto inizio con la teoria platonica della musica e delle emozioni, è stata ripresa a vario titolo dalle teorie del diciassettesimo e diciottesimo secolo 111 (tra queste vi è quella più rilevante della Camerata fiorentina, ma anche la teoria psicologica e fisiologica delle emozioni di Descartes – sotto influsso della quale si diffuse in Germania la cosiddetta «dottrina de111 Le teorie del diciassettesimo e diciottesimo secolo, ci sembra opportuno evidenziare, rivestono un ruolo particolarmente significativo nella ricerca filosofica sulla musica di Kivy, in quanto egli sostiene che se appropriatamente investigate e rivisitate da tali teorie si possono ricavare degli utili spunti per edificare una migliore spiegazione dell’espressione musicale. A tale proposito nella Prefazione a The Corded Shell scrive: «L’argomento di questo libro, così come le sue fonti, rivelano il lungo e imperituro interesse dell’autore per il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, e la sua convinzione che sebbene coloro che in quei periodi hanno scritto sull’espressività musicale si sbagliavano su molte cose, essi avevano profondamente ragione su qualcosa di importante, e sulla cui base si potrebbe costruire una soddisfacente teoria dell’espressione musicale. È mia intenzione qui portare alla luce tale profondità, e costruire tale teoria. Spero comunque che il mio debito verso i filosofi del diciassettesimo e il diciottesimo secolo non comporterà che i capitolo iniziali vengano letti come una storia delle teorie dell’espressione musicale dell’Illuminismo. Non è questo il mio scopo. La mia selezione delle teorie è alquanto parziale, e si basa non su un giudizio storico ma semplicemente su ciò che mi potrebbe essere utile per costruire la mia teoria»; The Corded Shell, cit., pag. xiii. Una precisazione simile si ritrova anche in Filosofia della musica, dove egli precisa: «Per raccontare la storia che sono tenuto a riferire devo ora saltare quasi duemila anni per giungere alla fine del sedicesimo secolo. Non perché nel frattempo non sia stata compiuta nessuna riflessione sulla musica e le emozioni. Tuttavia c’è un continuità speciale tra la storia che comincia con Platone e Aristotele e il revival delle loro teorie delle emozioni in musica nel tardo Rinascimento. Tale storia ininterrotta è quella più pertinente al nostro progetto ed anche quella che risulta più proficua da percorrere»; Filosofia della musica …, cit., pp. 21-22. 73 gli affetti» (Affektenlehre) – e la nuova teoria delle emozioni che nacque in Gran Bretagna, verso la fine del diciottesimo secolo, sulla base della psicologia associazionistica 112 ), e si è protratta in maniera incisiva fino ai nostri giorni con la cosiddetta “arousal theory of emotions” (teoria eccitazionistica delle emozioni) 113 . Kivy si oppone decisamente al modello disposizionale delle teorie eccitazionistiche. Le principali obiezioni mosse sono le seguenti 114 : 112 La teoria della Camerata fiorentina, così come la teoria cartesiana delle emozioni a cui molti teorici verso la metà del diciottesimo secolo aderirono, e la teoria di chi invece scelse di spiegare la relazione musica-emozioni seguendo il modello della psicologia associazionistica, secondo Kivy sono tutte teorie che hanno in comune il fatto di essere teorie disposizionali che accettano la spiegazione secondo la quale X (la musica) è triste se X eccita tristezza. Sotto questo aspetto, naturalmente, egli preferisce rifiutarle. Tuttavia, in comune hanno anche la concezione secondo cui il maggiore operatore nell’espressività musicale – o comunque uno dei maggiori operatori – è una somiglianza della musica con alcuni aspetti dell’umana espressione. Da questo punto di vista, non è difficile a questo punto capire, tali teorie sono da recuperare. Kivy lo ha fatto. Se pensiamo, ad esempio, alla teoria sostenuta dai membri della camerata fiorentina - i quali pensavano che il modo di eccitare un’emozione nell’ascoltatore è quello di creare una somiglianza della linea musicale con la voce umana parlante appassionata (per questa ragione tale teoria è denominata da Kivy “speech theory”, teoria della parola) – subito potremmo accorgerci come essa riviva nella teoria del profilo. Certo Kivy estende l’analogia della musica in generale al comportamento espressivo umano, ma il tono della voce rientra pienamente nella sua descrizione. Ma anche la teoria dell’espressività spiegata secondo la teoria cartesiana rivela questa somiglianza; l’idea ricordiamo era che la musica può suscitare emozioni in virtù della somiglianza che essa presenta con gli spiriti vitali. Così se un compositore avesse desiderato scrivere per esempio musica triste, ciò che egli avrebbe dovuto fare sarebbe stato scrivere musica la cui configurazione generale somigliasse alla configurazione degli spiriti vitali appropriata per suscitare una tale emozione. Nella teoria dell’espressività ricondotta alla teoria psicologica associazionista troviamo invece la descrizione di quel fenomeno che Kivy chiama della “nostra canzone”. La teoria dell’espressione musicale, spiegata secondo l’associazione delle idee nello specifico, si fonda sulla considerazione che è mediante le associazioni per l’appunto che un individuo può fare (in relazione a quello che è lo stato emotivo di quel momento e in base alle particolari esperienze di vita vissute), durante l’ascolto che la musica può eccitare una particolare emozione. (Sul fenomeno della nostra canzone però ritorneremo più avanti). Sulle spiegazioni associazionistiche dell’espressività musicale sviluppate nel Diciottesimo secolo, si veda Maria Semi (a cura di), Il suono eloquente. Musica tra imitazione, espressione e simpatia, Aesthetica Preprint, Palermo 2008. 113 Come avevamo già rilevato sono numerosi i teorici contemporanei che riabilitano nuove versioni, o varianti, dell’Arousal Theory. Ecco alcuni testi di riferimento a testimonianza della vivacità del dibattito: S. Speck, “Arousal Theory” reconsidered, in “The British Journal of Aesthetics”, 28, 1991, pp. 40-47; M. Budd, Music and Communication of Emotions, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 53, 1989, pp. 129-138; R. T. Allen, The Arousal and Expression of Emotion by Music, in “The British Journal of Aesthetics”, 30, 1990, pp. 57-61; J. Robinsoon, The Expression and Arousal of Emotion in Music, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 52, 1994, pp. 13-22; A. Ridley, Musical Sympathies: The Experience of Expressive Music, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 53, 1995, pp. 4958; A. Goldman, Emotion in Music (A Postscript), in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 53, 1995, pp. 59-69; J. E. Mackinnon, Artistic Expression and the Claims of Arousal Theory, in “The British Journal of Aesthetics”, 36, 1996, pp. 278-289; D. Matravers, Art and Emotion, cit.; Id., The Experience of Emotion in Music, cit.; A. Beever, Arousal Theory Again?, in “The British Journal of Aesthetics”, 38, 1998, pp. 82-90; J. Kingsbury, Matravers on Musical Expressiveness, in “The British Journal of Aesthetics”, 42, 2002, pp. 13-19. 114 Per un approfondimento rinviamo all’opera New Essays on Musical Understanding, nella quale troviamo un capitolo, precisamente il settimo, interamente dedicato alla “Arousal Theory”, capitolo nel quale muovendosi dalle critiche che Derek Matravers (uno dei principali sostenitori della teoria eccitazionistica in ambito analitico) ha mosso in una recente opera, Art and Emotion, alla sua teoria cognitivista dell’espressività musicale, giunge a dare una spiegazione delle principali motivazioni per cui una teoria eccitazionistica non può essere accettata. Cfr. D. Matravers, Art and Emotion, cit.. pag. 114-144. Una puntuale disamina critica nei confronti dell’Arousal Theory è anche quella proposta da Kivy in The Corded Shell, cit., nel capitolo and Nevertheless it’s sad, pag. 153-157. 74 1. La prima è quella che si viene ad evidenziare nel cosiddetto “argomento del comportamento”, vale a dire: quando diciamo che un brano musicale esprime rabbia, perché ci fa sentire rabbia, noi in realtà stiamo descrivendo in maniera errata le emozioni che proviamo ascoltando il brano, in quanto mancano tutte le componenti comportamentali presenti quando noi siamo realmente arrabbiati; 2. la seconda obiezione è invece quella che troviamo esplicata nel cosiddetto “argomento delle emozioni negative” 115 : se una musica è triste perché causa tristezza nell’ascoltatore, soltanto un masochista continuerebbe ad ascoltare musica triste. Non si comprende perché ci si dovrebbe esporre alla tortura di ascoltare un brano musicale che, nonostante la sua bellezza, rende tristi, pur avendo a disposizione moltissima musica allegra e di ottima qualità 116 . 3. Terza obiezione: il modello disposizionale riesce infine a spiegare solo casi di personali idiosincrasie o occasionali e soggettive reazioni; casi irrilevanti per la comprensione della musica in sé. È vero che una determinata opera musicale, per es. la Settima di Beethoven, può suscitare tristezza in qualcuno, per il fatto di essere associata a un periodo o a un episodio triste della vita di un particolare ascoltatore. È chiaro che in circostanze speciali – che coinvolgono le esperienze individuali dell’ascoltatore o il suo particolare stato emotivo – un brano musicale può provocare emozioni reali nell’ascoltatore. Si tratta del fenomeno da Kivy chiamato della “nostra canzone” 117 . Tale fenomeno è però del tutto irrilevante per la comprensione estetica della musica, perché dipende unicamente dalla situazione psicologica individuale dell’ascoltatore, mentre il compito del filosofo della musica è la comprensione del carattere emotivo della musica a partire dall’analisi delle sue qualità estetico - strutturali. 115 Per un approfondimento del discorso sulle emozioni negative interessante è il saggio di Jerrold Levinson dedicato interamente alla questione del perché ci esponiamo consapevolmente anche all’ascolto di quella musica che incide sul nostro stato d’animo negativamente. J. Levinson, Music, Art, and Metaphysics: Essays in Philosophical Aesthetics, Cornell University Press, Ithaca, 1990, pp. 306-335. 116 All’ovvia replica, secondo cui allora non si comprenderebbe perché, nel caso di opere letterarie o cinematografiche, il genere tragico sia così apprezzato, Kivy risponde che il piacere derivante da una tragedia può sorgere dall’esplorazione delle emozioni e dei sentimenti negativi, cosa questa che invece non accade nell’ascolto della musica, dato che questa non è un’arte rappresentativa, e, ancora più importante, evidenzia Kivy, non è un’arte linguistica. 117 L’espressione è tratta dal film di M. Curtiz Casablanca (USA, 1942) dove, com’è noto, Rick proibisce a Sam, il pianista di suonare “As time goes by”, la canzone preferita di Rick e del suo perduto amore, Ilsa, perché questa canzone lo rende triste, in quanto gli ricorda la fine della storia d’amore. 75 All’Arousal Theory si contrappone il secondo modello di spiegazione delle relazioni tra la musica e le emozioni, vale a dire, il modello rappresentazionale, la cui storia ha inizio con Aristotele. Secondo questa teoria, la musica non rappresenta un’espressione fisica delle emozioni umane, ma l’emozione umana stessa. Le emozioni non sono così più legate alle reazioni dell’ascoltatore, come accadeva nell’Arousal Theory, ma si trasferiscono, per così dire, dall’ascoltatore alla musica stessa. Un brano musicale è percepito e può essere descritto come triste, gioioso, malinconico, ecc., perché è la musica in se stessa a rappresentare la tristezza, la gioia, la malinconia, non perché suscita tali emozioni negli ascoltatori. Tale teoria è quella che viene a riaffiorare in maniera incisiva nella filosofia della musica di Schopenhauer, grazie al quale, evidenzia Kivy, si ruppe per la prima volta il monopolio asfissiante che la teoria eccitazionistica aveva avuto, per oltre due secoli, sul tentativo di spiegare il fenomeno dell’espressività musicale. Infatti, considerando la musica come una manifestazione della volontà, Schopenhauer suggerì allo stesso tempo che essa potesse essere anche una rappresentazione delle emozioni umane. Fu così che le emozioni della musica furono sottratte in un sol colpo all’esperienza esclusiva dell’ascoltatore, per essere collocate dentro la musica. Tuttavia Kivy non aderisce nemmeno alla teoria rappresentazionale di Schopenhauer, poiché egli sostiene che per quanto perfettamente condivisibile sia il punto di vista che le emozioni appartengono alla musica e non all’ascoltatore, non è altrettanto opportuno spiegare tale aderenza delle emozioni alle proprietà strutturali della musica mediante, per l’appunto, una relazione di tipo rappresentativo. Proseguendo nell’analisi, scopriamo che Kivy prende le distanze anche dalla teoria metaforica dell’emozione, secondo la quale descrivere emotivamente la musica è solo una possibilità tra le tante disponibili per avvicinarsi allo specifico musicale, se è vero che si possono scegliere caratterizzazioni che non chiamano in causa la vita emotiva, come quando diciamo, ad esempio, che una musica è bilanciata o delicata. Primo sostenitore di una teoria metaforica delle emozioni in musica è stato Hanslick, il quale però, secondo l’opinione di Kivy, ne ha fin da subito evidenziato le contraddizioni. Il problema di Hanslick è quello di essere un ‘emotivista’ malgrè lui, poiché pur sostenendo sul piano teorico il carattere puramente metaforico delle descrizioni sentimentali, nella sua concreta attività critica, quando cioè si trova a dover raccontare la musica, spiegarne forme e dinamiche, non può che descriverla in termini emotivi. 76 L’ultimo modello che incontriamo in questo viaggio attraverso le diverse teorie dell’espressione musicale è quello del simbolismo langeriano, secondo il quale la musica è iconicamente simbolica della vita emotiva in generale, e lo è sulla base di una relazione «isomorfica» con essa. Sappiamo però da quanto abbiamo illustrato nel precedente paragrafo quali sono le ragioni per cui Kivy prende parzialmente le distanze anche da questo modello. Un approfondimento non è quindi necessario. 4. Kivy dialoga con Levinson e Davies Alla luce di quanto detto finora, continuiamo adesso ad esaminare il percorso di Kivy riportandoci questa volta al dialogo che egli intrattiene con i contemporanei filosofi della musica. Diciamo subito che i suoi due referenti preferiti sono Stephen Davies e Jerrold Levinson, con i quali intrattiene un intenso e serrato dialogo soprattutto in relazione al problema di come la musica possa commuoverci emotivamente, sul come e il perché di questo effetto emotivo 118 . Problema questo che si pone principalmente a chi rifiuta una teoria eccitazionistica e preferisce invece aderire alla concezione che le proprietà emotive siano proprietà della stessa struttura musicale, a chi, in altre parole, riconosce valido il requisito dell’externality claim. Spiega infatti Kivy che nella semplice teoria eccitazionistica una tale questione non affiora, in quanto in essa il problema dell’espressività musicale viene a fondersi con la questione del potere emotivo che la musica ha su di noi. La situazione è diversa quando anziché riconoscere le emozioni in noi, le riconosciamo nella musica. Levinson e Davies sostengono che quantunque sia errato affermare che la musica è triste perché provoca la tristezza nell’ascoltatore, può darsi che la musica susciti comunque tale emozione nell’ascoltatore e da questo dipende anche il fatto che essa ci commuova. In Musical Meaning and Expression scrive Davies a tale proposito: «la musica triste potrebbe spingere alcuni ascoltatori a sentirsi tristi, anche se l’espressività della musica non va spiegata in funzione del suo potere di risvegliare tale risposta» 119 . 118 Cfr. P. Kivy, ‘How Music Moves’, in Philip Alperson (ed.), What is music? An Introduction to the Philosophy of Music, Haven, New York, 1987; lo stesso articolo è stato successivamente ristampato a seguito di un lavoro di revisione in P. Kivy, Music Alone: Philosophical Reflections on the Purely Musicla Experience, Cornell University Press, Ithaca, 1990, (ottavo capitolo). Feeling the musical emotions, cit.. Cfr. Filosofia della musica …, cit., VII capitolo, Le emozioni in noi. 119 S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., pag. 279 77 Anche Levinson si pone sulla stessa linea argomentativa quando ribadisce che l’espressività della musica debba considerarsi inequivocabilmente appartenente alla musica, come una proprietà o una aspetto di essa, piuttosto che all’ascoltatore, ma nello stesso tempo insiste anche sull’idea che «l’espressività musicale dovrebbe essere tale che, quando viene percepita o rilevata da un ascoltatore, l’evocazione di un sentimento o di uno stato affettivo, oppure l’immaginazione di un sentimento, naturalmente, se non inevitabilmente, ne deriva (requisito dell’ “affettività”)» 120 . Per Kivy la posizione di Davies e Levinson può essere condivisa sul piano generale: hanno ragione quando rilevano che la musica è espressiva delle emozioni comuni in virtù delle qualità emotive che riconosciamo in essa, quando cioè vincolano l’espressività alle strutture musicali. Non appare tuttavia a Kivy condivisibile la spiegazione che entrambi forniscono del modo in cui la musica può commuoverci, può cioè sortire in noi un certo effetto emotivo, e allo stesso tempo non appare altrettanto condivisibile il tipo di caratterizzazione che danno dell’emozione musicale. Stephen Davies, in particolare, ritiene che le manifestazioni comportamentali delle emozioni comuni siano assenti nella musica: se sei felice perché la musica ti ha reso felice, apparentemente non fai le stesse cose che fanno le persone felici quando provano queste emozioni; stessa cosa se sei triste perché la musica ti ha suscitato questa emozione, certamente non ti comporterai come si comportano le persone quando sono tristi; semplicemente – egli spiega – resti seduto assorto nell’ascolto. Non bisogna quindi trascurare, secondo Davies, questa assenza della risposta comportamentale quando vogliamo parlare di come la musica può commuoverci. Nei casi non-musicali accade, scrive Davies, che «Se mi sento triste perché credo che la situazione sia sfortunata e deplorevole, cercherò di modificare la situazione per far sì che essa non sia più sfortunata e deplorevole» 121 . Nei casi musicali invece «Non solo la risposta emotiva è priva di molte delle credenze che, normalmente, condurrebbero all’azione, ma essa è anche priva delle credenze che conferiscono intensità a quei sentimenti» 122 . Dopotutto, l’oggetto intenzionale della tristezza musicale, secondo Davies, non è una situazione sfortunata e spiacevole, ma è semplicemente la qualità espressiva della tristezza che la musica possiede. Da questo particolare punto di vista quindi, accade che durante l’ascolto di una musica triste si faccia esperienza di un modo di sentire analogo a quello reale ma drasticamente indebolito, al punto che a variare sono proprio le forme com120 J. Levinson, “Musical Expressiveness”, cit., pp. 91-92. S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., pp. 305-306. 122 Ivi, pag. 307. 121 78 portamentali associate all’ascolto. Insomma, nella situazione musicale, come Davies mette in evidenza, ai nostri sentimenti «mancano gli elementi intenzionali che donano loro forza e intensità» 123 . La teoria cui Davies aderisce per illustrare la sua concezione di come la musica ci commuova è la cosiddetta teoria della tendenza o del contagio, della quale egli è, insieme a Colin Radford 124 , certamente uno dei maggiori sostenitori. L’idea difesa è che una musica triste ha la tendenza a causare la tristezza nell’ascoltatore, così come la vivacità gioiosa del colore giallo avrebbe la tendenza a suscitare allegria e la cupezza del nero la tendenza a suscitare malinconia. Detto in altri termini, le proprietà espressive della musica hanno la tendenza a produrre in chi percepisce le emozioni di cui sono espressive. Davies illustra la teoria del contagio mediante l’esempio dell’operaio che lavora in una fabbrica di maschere tragiche. L’operaio inevitabilmente, egli spiega, dopo aver trascorso giorni e giorni a diretto contatto con quelle maschere, la cui espressione si sa è quella di un viso corrucciato, certamente avrà la tendenza a deprimersi. La malinconia delle maschere deve inevitabilmente influenzare il suo stato d’animo. La tendenza della maschera a produrre malinconia potrebbe alla fine avere la meglio su di lui. La stessa cosa può accadere con la musica malinconica. Una delle obiezioni di Kivy alla teoria di Davies è che una tendenza è appunto solo una tendenza; non è detto quindi che susciti effetti reali. Inoltre, affinché l’operaio si deprima per la sua situazione dovrà vedere le maschere tutti i giorni durante un tempo piuttosto lungo, e precisamente per otto ore al giorno, per cinque giorni alla settimana. Ma nessuno ascolta la musica in questo modo, non sono queste le circostanze normali cui è sottoposto il pubblico di un concerto che normalmente non dura più di tre ore: normalmente le condizioni di chi ascolta un brano musicale non sono tali da poter trasformare la tendenza in un fatto reale. Peraltro ciò che accade con una musica triste, ma bella, è esattamente il contrario: essa non suscita in noi tristezza, quantunque ci commuova profondamente. «Più spesso che mai, [precisa infatti Kivy], se si è amanti della musica e l’esecuzione è stata buona, si vive [invece] una sorta di esaltazione 125 . È chiaro che se una persona trascorresse molto tempo ascoltando musica triste, alla fine si intristirebbe. Questa però non è una condizione che possa interessare il filosofo, perché non è la situazione di cui egli deve tener conto nell’analisi dell’emozione musicale: egli 123 Ibidem. Cfr. C. Radford, Emotions and Music: A reply to the Cognitivists, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 47, 1989; Id., Muddy Waters, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 49, 1991. 125 P. Kivy, Filosofia della musica …, cit., pp. 147-148. 124 79 deve considerare il caso normale della musica ascoltata in una sala da concerto. Soprattutto Kivy non può esimersi dall’evidenziare l’aspetto della teoria che più confligge con la sua concezione musicale (capiremo a breve per quali ragioni), e cioè il fatto che le emozioni di cui parla Davies sono anemiche in quanto il contagio ci rende tristi o allegri, ma in modo soft, pallido: l’emozione che la musica suscita è sì la tristezza, ma solo in una forma indebolita, incapace di attivare qualsivoglia delle risposte comportamentali ordinariamente associate a quella emozione. Qualsiasi cosa essa sia, non è esattamente la tristezza, in un senso ordinario. Analogamente a Davies, anche Jerrold Levinson 126 si sofferma ad evidenziare questo indebolimento della componente cognitiva e della nostra risposta comportamentale per quanto concerne specificamente le emozioni musicali. Ecco le sue parole a riguardo: È giunto il momento di dire chiaramente che la riposte emotive standard a un brano musicale – ad esempio, quella che io ho chiamato una reazione triste – non sono in verità delle emozioni piene. Ciò dipende principalmente dal fatto che la musica né fornisce un oggetto appropriato verso al quale l’emozione possa essere diretta, né produce i desideri, le credenze, o le attitudini relative a un oggetto e che sono essenziali affinché un’emozione sia ciò che è. Quando un adagio di una sinfonia mi “intristisce”, non sono né triste in riferimento alla musica, né considero l’adagio come un qualcosa che vorrei che fosse diverso da quello che è. Inoltre, questo indebolimento della componente cognitiva nella risposta emozionale alla musica in genere sfocia nell’inibizione della maggior parte dei comportamenti caratteristici e in una significativa diminuzione delle tendenze comportamentali 127 . Diversamente dalle emozioni della vita reale, le emozioni musicali non sono emozioni piene. Secondo Levinson, infatti, l’emozione che si prova nell’ascolto di un brano musicale manca dell’aspetto cognitivo (non ci interessa l’oggetto che produce o verso il quale è indirizzato il sentimento, ovvero la musica in quanto causa efficiente o finale) e 126 Jerrold Levinson è senza dubbio uno dei massimi filosofi contemporanei di area analitica. Il suo ambito di studio principale è l’estetica (sebbene egli si sia occupato anche di filosofia morale e di filosofia della mente). Levinson ha fornito dei contributi fondamentali, in particolare, ai problemi (molto dibattuti all’interno dell’area anglo-americana) della definizione dell’arte (proponendo una definizione di tipo storico-intenzionale), delle proprietà estetiche (scrivendo tra gli altri un seminale saggio intitolato ‘Aesthetic Supervenience’) e della filosofia della musica (introducendo anche qui una propria proposta teorica originale e altamente qualificata, che va sotto il nome di ‘teoria della persona musicale’). I suoi principali scritti di estetica e di filosofia della musica sono contenuti in tre volumi, intitolati Music, Art and Metaphysics (1990), The Pleasures of Aesthetics (1996) e Contemplating Art (2006). Alcuni dei suoi saggi sono stati tradotti in italiano, ed altri suoi saggi saranno tradotti e pubblicati in un testo a lui interamente dedicato per la casa editrice Aesthetica di Palermo. Attualmente Levinson è titolare di una cattedra di Estetica all’Università del Maryland (USA). 127 J. Levinson, ‘Music and Negative Emotion’, in Music, Art, and Metaphysics, cit., pp. 313-314. 80 comportamentale, ma presenta un accentuato e caratteristico (in quanto non accompagnato dalla componente cognitiva) aspetto affettivo e fisiologico (ovvero la componente fenomenologica dell’emozione, ciò che uno sente internamente, il feeling specifico). La descrizione del modo in cui la musica ci commuove passa, nel caso di Levinson, attraverso una teoria empatica, la cosiddetta teoria della persona, della quale egli non solo è uno dei maggiori sostenitori, ma anche uno dei principali artefici. Secondo tale teoria ogni brano musicale viene ascoltato come un enunciato umano. Possiamo, per esempio, immaginare una sinfonia come incarnazione di un agente, una “persona musicale”, il quale va inteso come il soggetto delle emozioni che tale sinfonia esprime (ciò non vuol comunque dire – precisa Kivy – che tale “persona” sia la rappresentazione musicale dell’autore). Ascoltando la sinfonia, proveremmo cioè le emozioni che immaginiamo che stia provando la persona musicale, proprio così come empatizziamo con una persona reale quando esprime le sue emozioni. È proprio in questo senso che la relazione tra la musica e le emozioni viene vista come una relazione di tipo empatico: l’ascoltatore può condividere, tramite immedesimazione, le stesse emozioni che la musica “sta provando”, in quel particolare momento. Non è importante il fatto che la persona musicale sia un prodotto immaginario, dal momento che l’opportunità di immedesimarsi in taluni sentimenti non deve necessariamente essere subordinata all’esistenza materiale del soggetto con cui noi empatizziamo; d’altronde la stessa cosa accade con i personaggi di un racconto, di un film, ecc. (sebbene altra cosa sia comprendere perché ciò accada). Kivy muove anche in questo caso tutta una serie di obiezioni. Eccone alcune tra le più significative: 1. La musica mi commuove profondamente anche senza che io percepisca affatto personae musicali esprimenti i loro stati emotivi; 2. L’analogia tra la persona musicale e i personaggi di finzione della narrativa non regge. Kivy obietta che a tale ‘persona’ mancano proprio le caratteristiche che fanno apparire un personaggio immaginario come una persona reale. 3. È complicato spiegare la relazione tra i personaggi immaginari e le emozioni che proviamo. Nella vita reale per determinare la reazione emotiva di una persona al cospetto dell’espressione emotiva di un’altra persona occorre conoscere le circostanze della relazione tra le due persone, chi sono, ecc. È semplicemente falso che la reazione emotiva delle persone di fronte all’espressione di tristezza di qualcuno sia sempre la tristezza: se la persona triste è una persona cara può 81 succedere che empatizziamo con il suo sentimento, mentre se a provare tristezza è un nostro nemico verosimilmente e crudelmente ci sentiremo felici. Questo accade anche nel caso della letteratura, del cinema, del teatro, accade cioè che l’allegria di un personaggio malvagio possa provocare spesso rabbia, non certo gioia. Se una teoria come quella basata sull’identificazione con i personaggi e sul sentire le loro emozioni non funziona nel caso della narrativa di finzione – spiega Kivy – ciò vale a maggior ragione nel caso della musica assoluta. Dunque la teoria secondo cui proviamo un’emozione perché ci identifichiamo empaticamente con il personaggio immaginario è falsa. Il difensore della teoria delle persona a questo punto, sostiene Kivy, ha due opzioni: 1. Può affermare che, diversamente dalla vita reale, nel caso della musica empatizziamo sempre con la “persona musicale”, e sempre proviamo l’emozione che essa esprime – ma allora occorrerebbe spiegare perché questo accade soltanto nel caso della musica e non nella vita reale. 2. O può affermare che, esattamente come nella vita reale e nella finzione narrativa, può accadere che la musica triste provochi allegria e viceversa; però il nostro problema era quello di spiegare precisamente com’è possibile che la musica triste commuova e sia riconosciuta come espressiva di tristezza. Dunque la teoria della persona musicale non funziona. In breve, le emozioni suscitate dall’espressività della musica – sottolinea Kivy – sono, nella tesi sostenuta da Davies, emozioni anemiche (anaemic emotions), e in quella sostenuta da Levinson, quasi-emozioni (quasi-emotions) o emozioni del ‘come se’ (emotion-like). Si tratta semplicemente di surrogati emotivi che ci restituiscono una pallida immagine di quelle emozioni che nella vita si presentano in modo nitido. A questa sorta di riflesso della tensione sentimentale nelle forme musicale, a questa idea di un’emotività sdoppiata e pallida, Kivy invece contrappone la sua teoria delle emozioni musicali piene, tali perché intenzionano la bellezza della musica stessa. Riprendendo la teoria cognitiva di Brentano, Kivy evidenzia che l’emozione è un fatto complesso composto di tre elementi: un oggetto intenzionale, una credenza e un feeling (sensazione/sentimento). Quando ho paura di qualcosa, per esempio di una tigre, ho una credenza o una serie di credenze relative a questo oggetto (credo che la tigre sia un animale feroce e dunque credo che sia troppo pericoloso starle vicino), e un feeling, associato a tale credenza (per esempio un brivido). Tale teoria è la stessa che Kivy rico- 82 nosce valida per le emozioni musicali, le quali anch’esse hanno evidentemente un oggetto, una credenza e un sentimento: 1) L’oggetto dell’emozione musicale è la musica, o, più esattamente, l’insieme delle caratteristiche della musica che l’ascoltatore crede siano belle, magnifiche, portatrici di un valore estetico. In una parola, l’oggetto dell’emozione musicale è la bellezza della musica. 2) La credenza dell’emozione musicale è la credenza dell’ascoltatore che la musica che sta ascoltando, o un suo aspetto, sia bella, magnifica, o possegga comunque proprietà estetiche in modo molto accentuato. 3) Il sentimento è il tipo di eccitazione o di euforia o di stupore o di meraviglia che una tale bellezza comunemente suscita. Assistiamo quindi ad una vera e propria virata dell’intenzionalità dal piano dell’esperienza umana al piano della bellezza della musica, delle sue strutture, che ci riporta ad un sentimento del suono la cui specificità, a questo punto, nulla ha più a che spartire con le emozioni della vita reale (pur trattandosi di un sentimento che ha la stessa pienezza delle emozioni ordinarie, diversamente da quanto sostenuto da Davies e Levinson). Per Kivy infatti se la musica ha il potere di commuoverci, dato che egli non mette in discussione, non siamo mossi a queste emozioni ma da queste emozioni. Siamo mossi dalla loro bellezza musicale. Se si tratta di malinconia, siamo mossi da quanto la musica è stupendamente malinconica. Detto in altri termini, se dunque la musica può commuoverci profondamente non è per la tristezza, la malinconia o l’allegria che può trasmettere, bensì per la sua bellezza. Ciò che apprezziamo della musica sono dunque le sue qualità estetiche. Mi riservo a tale proposito di evidenziare che, ancora una volta in accordo con l’osservazione di Bertinetto, Kivy si appropria della nozione di bellezza, centrale come sappiamo nel dibattito estetico per spiegare la virata dell’emozione verso i processi della sua messa in forma, senza però approfondire i motivi di questa scelta, né richiamare, anche solo per cenni, i luoghi della riflessione tradizionale sul tema. Kivy, forse, non ha dato la giusta importanza al fatto che l’estetica sin dalla sua nascita come disciplina autonoma non fa che interrogarsi sul problema del bello e del gusto, per cui il fatto di dare per scontato il significato del termine rende tutto il discorso, almeno per ciò che riguarda questo aspetto, poco persuasivo. 83 5. Formalismo e formalismo arricchito Secondo il paradigma formalistico, la musica strumentale non possiede contenuto semantico o rappresentazionale, non si riferisce a nulla, non rappresenta oggetti, non racconta storie, non fornisce argomentazioni, non espone alcuna filosofia, ma è semplicemente una pura struttura sonora; contenuti e significati sono strettamente limitati ai casi in cui essa sia accompagnata da testi, titoli o rappresentazioni. In virtù del suo essere pura struttura di suoni essa possiede una sua trama, ma è una trama del tutto particolare che non eccede mai gli stessi eventi sonori, i quali accadono, come sosteneva Hanslick, con una loro logica e con un loro senso. La musica assoluta è dunque la bella arte della ripetizione. Leonard Meyer, in Emotions and Meaning in Music 128 (1956), mutua dalla teoria dell’informazione l’idea secondo cui la pratica dell’ascolto musicale risponde a un preciso gioco di regole relazionali che si instaurano tra l’ascoltatore e certe caratteristiche della musica. Poiché Kivy ritiene tale teoria fondamentale per la comprensione del formalismo, ne analizziamo il senso alla ricerca di una prima risposta all’interrogativo: perché la musica pura suscita il nostro gradimento estetico, dal momento che pare distinguersi dalle altre forme d’arte in virtù delle sue ‘manchevolezze’? Nella narrativa, sostiene Leonard Meyer, gli eventi, nella trama del loro svolgimento costituiscono un continuum, tanto nel loro essere attesi quanto nel loro essere inattesi. Se si volesse applicare questa teoria alla musica, gli eventi sonori musicali sarebbero valutati in ragione del loro maggiore o minore grado di prevedibilità, laddove un determinato evento è massimamente informativo quanto più imprevedibilmente si manifesti, mentre un evento atteso è poco informativo, ma allo stesso modo del primo contribuisce alla particolare comprensione della trama musicale. La musica che piace, secondo Meyer, deve perciò collocarsi in un regime tensivo intermedio: non deve concedere troppo alla sorpresa e deludere le aspettative, né essere sempre e immancabilmente una conferma: se gli eventi fossero tutti disattesi, sarebbero certamente sorprendenti e dunque altamente informativi, ma la comprensione del decorso musicale sarebbe quasi nulla, al contrario se fossero tutti attesi, cioè prevedibili, essi soddisferebbero certamente le attese dell’ascoltatore, senza però essere mai significativi. Il grado di informatività di un determinato evento sonoro è cioè inversamente proporzionale alla prefigurazione di ciò che accadrà della trama di quell’avvenimento. 128 L. Meyer, Emozione e significato nella musica, Il Mulino, Bologna, 1992. 84 La teoria di Meyer quindi si presta perfettamente a spiegare il tipo di rapporto che un lettore intrattiene con una certa opera di narrativa finzionale, ma nel caso della musica il problema nasce quando bisogna capire di che tipo di eventi stiamo parlando, poiché un evento sonoro, non è certamente un evento in senso stretto. Kivy, nello specifico, distingue tra due generi di eventi musicali: gli eventi sintattici e gli eventi formali. I primi regolano la struttura musicale, avendo a che fare con le sequenze degli accordi, con le linee melodiche e con le combinazioni di melodie, rappresentano cioè la struttura minima di un avvenimento musicale, laddove gli eventi formali, concernono invece l’organizzazione temporale dell’opera nel suo sviluppo complessivo. Eventi sintattici, dunque, ed eventi formali, guidano l’ascoltatore attraverso lo svolgersi della trama musicale, originando una serie di aspettative che possono genericamente essere articolate in esterne e interne: le prime sono costituite dal patrimonio esperienziale dell’ascoltatore, e che dunque egli per così dire immette nella formulazione delle sue aspettative in ordine allo sviluppo armonico dell’ascolto in atto; le seconde sono invece generate direttamente ed esclusivamente dall’ascolto contingente di un particolare brano musicale, sono cioè immanenti a quel brano. Risulta evidente come nell’ascolto musicale le aspettative generate dalla propria esperienza entrino in relazione col modo in cui ci disponiamo all’ascolto di ogni nuova musica nel gioco delle conferme e delle sorprese. In tutti i casi, conferme e sorprese accresceranno la nostra esperienza d’ascolto che consisterà dunque nel piacere di lasciarci coinvolgere in questo gioco per trovare una strada che possa condurci, per un verso, abbastanza lontano dalle consuete abitudini (in tal modo amplieremo la nostra cultura musicale) ma che, al contempo, non ci allontani troppo da quello sfondo di abitudini e di attese che è il portato culturale di tutti gli ascolti pregressi e che determina la nostra peculiare forma di familiarità musicale. La teoria di Meyer, nella sua applicazione alle pratiche musicali, dà luogo a una serie di considerazioni che possono infine essere ricondotte a due grandi domande: la prima riguarda le modalità attraverso le quali si innesca nell’ascoltatore quel meccanismo in grado di favorire la serie di sorprese e conferme di cui parlavamo prima; si tratta di un’azione cosciente, oppure essa fa capo a un meccanismo che opera al di sotto della soglia cognitiva? La seconda domanda concerne il modo o i modi in cui tale processo possa perpetrarsi senza consumarsi, in presenza di una medesima opera musicale, anche a seguito di successivi ascolti. 85 Kivy ritiene che il livello della coscienza cognitiva, così come quello che opera indipendentemente da esso, siano entrambi ugualmente responsabili di quelle aspettative formulate dall’ascoltatore nei confronti dello svolgersi degli avvenimenti musicali, ma tuttavia abbandona l’aspetto inconscio della questione per sviluppare la sua analisi in ordine a ciò cha accade nella coscienza di colui che gioca consapevolmente con la musica, avanzando una serie di congetture cognitive per formulare previsioni relativamente a ciò che nell’ascolto sta per accadere. Si tratta quindi di un ascolto attento, il cui ambiente ideale è costituito dalla sala da concerto, nel cui spazio l’esecuzione risulta evidentemente decontestualizzata, condizione questa indispensabile per l’apprezzamento delle sue qualità formali. Questo, ovviamente, non significa che la musica non abbia un suo ruolo anche in ambiti sociali diversi, cerimonie religiose, feste da ballo e altri svariati contesti, è evidente che il suo ascolto non si riduca a quello che ha luogo nelle sale da concerto. Tuttavia, sostiene Kivy, il filosofo della musica deve occuparsi del caso paradigmatico della musica eseguita e ascoltata nelle sale da concerto. Il ruolo dell’attenzione così conseguita, risulta essenziale per la formulazione di quelle ipotesi che si rivelano più o meno in linea con le aspettative, a seconda del maggiore o minore grado di informatività della musica che si sta ascoltando e che derivano come già abbiamo visto dall’interazione delle precedenti esperienze d’ascolto con l’evento musicale attuale. Ne consegue che un ascoltatore attento e competente sarà fornito di un apparato concettuale più vasto rispetto a un neofita, nella misura in cui riuscirà a contestualizzare e organizzare più coerentemente il suo personale gioco di ipotesi, aprendosi a sempre nuove opportunità di ascolto. Non sfugge a Kivy come tale circostanza possa prefigurare il rischio di una sorta di intellettualizzazione del processo che presiede alla comprensione della musica: il vero ascolto è quello competente, consapevole, capace di esplicitare in termini concettuali le dinamiche dell’esperienza che si sta compiendo a contatto con un brano musicale. D’altra parte, un certo grado di esclusività dell’ascolto ci sembra fortemente rivendicato da parte di Kivy. Il secondo problema che essa solleva è relativo invece a come sia possibile che il gioco dell’attesa si rinnovi ogni volta anche in presenza di ripetuti ascolti della medesima opera. In questo caso il gioco potrebbe perdere ogni sua ragion d’essere e con essa il piacere dell’ascoltatore di formulare ipotesi: che senso avrebbe tale gioco se il modo in cui la melodia si svilupperà ci è noto dall’inizio? In altri termini sembrerebbe 86 rispondere al senso comune l’idea che non avrebbe più pregio verificare se quel certo sviluppo melodico conforterà o meno le nostre aspettative dal momento che una conoscenza precedentemente acquisita destituirebbe di fatto quell’attesa da ogni incertezza. La teoria della persistenza dell’illusione costituisce lo sfondo teorico attraverso cui Kivy espone la tesi secondo la quale un ascoltatore, per quanto attento e competente, pur conservando un ricordo abbastanza preciso di una certa musica, non potrà comunque avere mai una memoria fotografica della successione degli accordi e dello sviluppo temporale di quell’opera, in grado di invalidare quella disponibilità ogni volta rinnovata a lasciarsi nuovamente coinvolgere da essa. Inoltre ogni nuovo ascolto rivelerebbe particolari sfuggiti in precedenza, quei particolari che con molta probabilità non costituivano ancora oggetti intenzionali dell’ascoltatore. Parallelamente alla persistenza dell’illusione si colloca il fenomeno del nascondi e cerca: le forme della musica assoluta sono pure trame senza contenuto, ma in analogia isomorfica con quanto accade nelle opere di narrativa finzionale esse instaurano con l’ascoltatore una relazione (non semantica in questo caso) in cui egli è mosso alla ricerca di quei temi che, pur immanenti alla trama della struttura musicale, non risultano immediatamente visibili perché opportunamente occultati dal compositore. La scoperta di tali temi, rappresentati dai motivi centrali della melodia che si susseguono nella struttura temporale complessiva dell’opera, risulta essere una parte importante del godimento musicale traducendosi in una sorta di autoconferma della personale abilità e dunque della propria competenza musicale. La musica diventa cioè l’oggetto intenzionale dell’attenzione dell’ascoltatore, in tal modo una consolidata conoscenza tecnica della sintassi e della struttura musicale tenderà ad aumentare la nostra consapevolezza e dunque il nostro gradimento musicale nella misura in cui contribuirà ad ampliare il nostro oggetto intenzionale, ovvero quella competenza formale che consente di relazionarsi sapientemente con il bel gioco della ripetizione della trama musicale, con quell’inseguimento di passaggi e frammenti melodici che costituiscono le figure del suono, quasi fossero forme grafico-decorative che si ripetono periodicamente per essere ricomprese in disegni più ampi e che costituiscono, secondo Kivy, il materiale da costruzione essenziale della maggior parte delle forme musicali prodotte durante gli ultimi trecento anni. Un primo problema si profila, già a partire da queste considerazioni. Il meccanismo sopra descritto, per intendersi la dialettica di attese e conferme che sostiene l’ascolto, si applica con una certa agilità a contesti musicali molto circoscritti, vale a 87 dire alla musica classica occidentale e tonale. Tale circostanza introduce evidentemente una prima difficoltà nella struttura teorica del formalismo e si traduce di fatto in un ridimensionamento di quelle qualità strutturali: private di una autentica esistenza indipendente e di qualsiasi pretesa di universalità, esse andrebbero dunque ripensate e contestualizzate. L’introduzione nel formalismo di una teoria che in qualche modo apre al mondo dell’esperienza anticipa quello che sarà il tentativo di Kivy di rompere quell’isolamento che aveva costituito la forza ma forse anche la debolezza del formalismo di Hanslick, ma introduce fatalmente il problema dei problemi: definire cioè in che modo le proprietà percettive della forma sonora interagiscono con la coscienza dell’ascoltatore, o ancora quanta parte di essa sia direttamente o indirettamente responsabile dell’effettiva fecondità di quelle proprietà. La riflessione che si aprirebbe sarebbe tanto ampia da non poter essere contemplata nel contesto del presente scritto, ci chiediamo semplicemente, prima di proseguire, se le strutture di cui si occupa il formalismo avrebbero ancora senso al di fuori del flusso che le collega al vissuto della coscienza. Kivy sente questo problema, e da qui nasce il suo progetto di revisione del formalismo. Il formalismo di Hanslick e sostanzialmente anche quello di Gurney avevano rigorosamente tenuto il contesto musicale separato da quello emozionale, pur ammettendo (Gurney) un certo grado di coinvolgimento emotivo nell’esperienza musicale che comunque non valicava mai la semplice accidentalità. Tale atteggiamento era funzionale, spiega Kivy, alla necessità da parte dei formalisti della prima ora di contrapporsi decisamente alla tradizione romantica dominante, radicalizzando lo scontro fino a negare alla musica qualsiasi tipo di rapporto significativo con l’universo delle emozioni. Inoltre, sostiene ancora Kivy, Hanslick non disponeva di una teoria in grado di aprire il formalismo al mondo extramusicale, senza snaturarne l’essenza. È proprio a questa apertura che Kivy mira, proponendo la teoria del ‘formalismo arricchito’, espressione che egli mutua dal filosofo Philip Alperson, e che rappresenta il tentativo di liberare il formalismo dal suo stato di isolamento, per riformarlo alla luce di ciò che evidentemente appariva come un fatto incontestabile, e cioè che la musica e le emozioni di cui essa è espressiva intrattengono necessariamente un qualche tipo di rapporto. Un’analisi formalista quindi, dal suo particolare punto di vista, non doveva e non poteva in alcun modo trascurare gli aspetti emotivi dell’esperienza musicale; l’impegno maggiore sarà dunque quello di arricchire il formalismo con una teoria 88 delle emozioni, senza però snaturarne il senso, per non ricadere su posizioni contenutistiche; impresa che sin da ora non ci appare priva di enormi difficoltà. Nell’opera The Corded Shell, Kivy aveva impostato la proposta teorica del suo formalismo arricchito. Essa si risolveva infine nella scelta di innestare direttamente le emozioni comuni nelle proprietà acustiche della musica, una mossa che risulta pertanto apparentemente coerente con l’anima formalista, nella misura in cui salvaguarda la pura struttura degli eventi sonori senza contenuto semantico né rappresentazionale, e considerando le proprietà emotive come una componente percettiva della musica stessa, le vincola di fatto a quelle strutture. L’alterità dell’esperienza estetica musicale rispetto alle altre forme artistiche rimarrebbe così preservata, come auspicava, per altro, anche Hanslick: mentre tutte le arti contenutistiche si confrontano con i vari aspetti del mondo, la musica assoluta è al contrario l’arte pura della liberazione. Kivy recupera i due elementi che in apertura avevamo considerato come gli oggetti prediletti da un’indagine ispirata al formalismo: la sintassi e la forma complessiva della struttura musicale. Eventi sintattici ed eventi formali costituiscono dunque le proprietà percettive, e nello stesso tempo rappresentano il vincolo, lo schema ordinativo, della nostra risposta emotiva ed immaginativa. Le emozioni comuni sarebbero in altri termini parte costitutiva dei motivi melodici che si alternano ritmicamente nella struttura formale; non avendo significato e non sottintendendo rappresentazioni, esse vanno comprese e apprezzate esteticamente come una sorta di disegno di suoni. Ma in che senso possiamo dire che le strutture formali e le qualità emotive sono delle proprietà percettive? Nell’ascolto riusciamo a cogliere le successive alternanze di tensioni e risoluzioni, ma non nella misura in cui, avverte Kivy, un determinato passaggio ci fa sentire prima in tensione, mentre poi ci concede, nella fase di risoluzione, uno stato di quiete e di abbandono. Si tratta invece semplicemente di cose che stanno accadendo nella musica e di cui, per così dire prendiamo cognitivamente atto assegnando a esse il giusto posto nella struttura della musica “e non in qualche parte della nostra biografia psicologica” 129 , come egli sottolinea in evidente polemica con i sostenitori dell’Arousal Theory. La musica per Kivy non esprime alcuna emozione, ciò non di meno essa è espressiva di emozioni: per esprimere un’emozione, occorre sentirla, la qual cosa è evidentemente competenza esclusiva degli esseri senzienti, mentre l’‘essere espressivo di 129 P. Kivy, Filosofia della musica …, cit., pag. 116 89 emozioni’ potrebbe essere inquadrato all’interno di un contesto di somiglianze e analogie, in cui non apparirà necessario provare realmente l’emozione. In tal modo una musica è percepita come allegra in virtù dell’esistenza di un’analogia subliminare, probabilmente sinestetica, tra, ad esempio, l’aspetto delle persone che esprimono allegria e i modi incalzanti, rapidi e sincopati della tonalità maggiore. Il muso del San Bernardo, secondo il celebre esempio più volte citato, è un caso paradigmatico: esso è espressivo di tristezza senza che il cane sia effettivamente triste. Riprendiamo così brevemente in esame i termini generali della teoria delle emozioni già ampiamente svolta nel paragrafo precedente, solo per vedere nello specifico come il profilo della struttura musicale, il suo disegno sonoro possa essere dunque analogo a quello delle manifestazioni visive o sonore delle principali emozioni umane, non in senso rappresentativo, bensì in maniera immediata, diretta. A sostegno di questo passaggio Kivy svolge tutta una serie di argomentazioni volte a marcare, in sintonia col formalismo tradizionale, la diversità dell’esperienza musicale rispetto ad ogni altro tipo di esperienza. Contrariamente a ciò che avviene nelle situazioni ordinarie dove un’aspettativa dà luogo ad uno stato di ansia e alle sue conseguenti manifestazioni fisiche, nell’ascolto musicale le alternanze di tensione e rilascio non provocano corrispettive alterazioni degli stati interni dell’ascoltatore, a dimostrazione del fatto che tali eventi sono ascoltati nella musica, sono, come dire, osservati a distanza. È in questo senso che Kivy pensa di conciliare il formalismo con il riconoscimento della componente emotiva della musica. Eppure, proprio a questo punto dell’argomentazione, si affacciano nuovi problemi. Una volta che il formalismo si è, in qualche modo, incrinato, almeno nella sua versione più rigorosa, e ha accettato di accogliere una sfera d’esperienza più ampia, non potrà fare a meno di confrontarsi con i movimenti della storia, le variazioni dei gusti, le diversità culturali e di interpretare anche su questa base le dinamiche delle risposte emotive. È ad esempio opinione condivisa da molti che il discorso di Kivy a proposito dei processi di attesa, delle tensioni e previsioni dell’ascolto musicale, non sia sufficientemente pronto ad accogliere le differenze tra le varie culture musicali, in alcune delle quali non si producono le stesse dinamiche. È indubbio che una delle funzioni più ricorrenti nell’ambito della musica classica occidentale sia rappresentata proprio dal gioco delle tensioni armoniche e melodiche che ne regolano la sintassi. Se quindi riconosciamo che termini come tensione, rilascio, 90 e risoluzione si riferiscono solitamente a ciò che esperiamo direttamente sotto l’influsso di particolari situazioni emotive, dovremmo presumere che essi descrivono altrettanto bene opere musicali che proprio su quelle dinamiche si appoggiano. Avevamo in precedenza accennato, a proposito della teoria dell’informazione, al pericolo che si determina a carico dell’impianto teorico formalista, quando esso si apre ad accogliere situazioni esperienziali più ricche e complesse. La teoria formalista nella sua accezione arricchita, è insomma costantemente esposta al rischio di una sorta di invasività storica, che si presenta immancabilmente, ogni qualvolta si conferisce un respiro di universalità ad osservazioni che valgono invece solo in contesti particolari. Kivy sostanzialmente ci sembra prendere atto che le nozioni fin qui esaminate, quelle che conferiscono alla musica il suo carattere emotivo, sono comunque frutto di attribuzioni culturali e dunque relative ad una particolare condizione storica. Crediamo di indovinare un certo imbarazzo nell’ammissione che certi archi melodici che oggi riconosciamo come tendenti alla distensione o alla chiusura sarebbero stati considerati inappropriati per tale funzione da un musicista del diciannovesimo secolo. Tuttavia Kivy pensa di sottrarsi a questo problema semplicemente ammettendo che «la chiusura musicale sarebbe un concetto sintattico e la sintassi in musica così come nei linguaggi naturali si trasforma con l’andare del tempo» 130 . In tal modo, chiude la questione, passando ad altro e sorvolando evidentemente sul fatto che l’affermazione sarebbe pienamente condivisibile solo se la sintassi musicale avesse una sua corrispettiva sfera semantica, poiché ci pare questo e non altro l’elemento che conferisce al linguaggio naturale la sua caratteristica di adeguarsi modificandosi, al cambiamento del mondo di cui è segno. Non è chiaro in altri termini come una struttura formale pura e quindi indipendente possa o debba modificarsi nel tempo adeguandosi ai modi e alle mode musicali di un determinato secolo. In ciò risiede una delle grandi difficoltà della sua teoria formalista. Abbiamo accennato, all’inizio, come Kivy giustificasse in chiave strategica la scelta di Hanslick di chiudere il formalismo a qualsiasi tipo di relazione esterna; le tesi del Bello musicale rispondevano all’esigenza di compensare i parossismi sentimentalistici romantici e idealistici che, come nota il critico Massimo Mila in L’esperienza musicale 131 , finivano, sulla base del principio hegeliano dell’unità dell’arte come momento dell’esplicarsi dello spirito assoluto, col favorire una pericolosa confusione tra le arti. Hanslick ribadiva il principio secondo cui ogni arte deve essere ricondotta alla pro130 131 P. Kivy, Filosofia della musica …, cit., pag. 115. M. Mila, L’esperienza musicale e l’estetica, Einaudi, Torino, 1965. 91 pria tecnica, poiché solo in essa manifesta la sua specificità, e in tal senso egli riteneva di dover rispettare il carattere fondamentale della musica, il cui elemento originario è l’eufonia ed il ritmo la sua essenza. Ma, per Kivy, il primo formalismo era fortemente condizionato dal fatto di non avere a disposizione una teoria che, pur non cedendo ai contenutismi e ai sentimentalismi, riconoscesse la validità delle descrizioni emotive della musica. Ci pare più plausibile che Hanslick avesse intuito perfettamente che l’essenza del formalismo poteva essere preservata come pura riflessione filosofica, solo attraverso una totale e incondizionata chiusura a qualunque tipo di esperienza extramusicale, poiché l’introduzione di qualsiasi rapporto con un più vasto contesto d’esperienza, lo avrebbe posto di fronte al problema di dover poi spiegare come i sentimenti, che in una certa misura risultano essere costruzioni culturali, e comunque mai completamente privi di contenuto rappresentativo, potessero coincidere con gli aspetti strutturali e formali, trasparenti invece ad un’indagine rigorosamente formalistica. Ci pare, dunque, di condividere l’opinione di Alessandro Bertinetto, quando afferma che il formalismo o è formalismo (come il formalismo di Hanslick) tout court o non è formalismo 132 . Da questo punto di vista, che poi è lo stesso di alcuni critici di Kivy, il formalismo nella sua forma arricchita (enhanced) viene considerato come un vero e proprio escamotage utile per integrare l’analisi tecnica della musica con la nostra esperienza musicale reale. Il problema che si evidenzia è che nell’impianto formalistico di Kivy vanno ad inserirsi elementi (le emozioni) che finiscono per scardinarlo. Ha ragione quindi chi vede nella divaricazione tra l’indagine tecnico-formalista della musica e l’indagine emotiva, una discutibile decisione procedurale 133 . Ad ogni modo, precisiamo che, sebbene difeso in un’accezione emotivamente arricchita, il formalismo di Kivy si riporta in ultimo ad una negazione di qualsiasi interpretazione contenutistica, di qualunque tipo essa sia, e il serrato dibattito che Kivy intrattiene con i cosiddetti nemici del formalismo ne è diretta testimonianza. Severo è infatti il suo rifiuto di tutte quelle tesi antiformalistiche che difendono un qualche elemento di narratività anche per quanto riguarda la musica. All’interno dell’articolata ed eterogenea lista di coloro che in vario modo protendono per un’interpretazione in chiave contenutistica, Kivy “sceglie” di dedicare le sue particolari attenzioni alla musicologa americana Susan McClary e a David P. Schroeder, anch’egli americano e musicologo. I due costituiscono i casi probabilmente 132 133 A. Bertinetto, Bach e il San Bernardo. La filosofia della musica di Peter Kivy, cit., pag. 99. Cfr. E. Maus, Music as Drama, in J. Robinson (a cura di), Musical Meaning, cit., pp. 105-130. 92 più estremi di quella concezione contenutistica che Kivy chiama “interpretazione narrativa forte” e che consiste sostanzialmente nell’attribuire alla musica la capacità di rinviare ad una vera e propria ‘trama narrativa’, da intendersi come una sorta di messaggio musicale. La Quarta Sinfonia di Čajkovskij assume così, nell’interpretazione della McClary 134 , i contorni della biografia sessuale del suo autore con una dovizia di particolari che, come nota facilmente Kivy, potrebbero essere esposti solo da un’opera letteraria: la “lettura” della McClary si spinge fino a ipotizzare un conflitto interno del compositore, tra la sua natura omosessuale e le legittime aspettative del padre; tra i due, la figura di una donna, forse innamorata, articola ulteriormente la trama narrativa con altri risvolti psicologici. Analogamente, ma in chiave più prettamente filosofica, Schroeder 135 , interpreta la Sinfonia n. 83 di Haydn come espressione dell’ideale illuministico settecentesco, che culmina con un messaggio sociale ricco di contenuti idealistici: i conflitti di opinione sono inevitabili, essi non vanno risolti con la repressione, bensì con la tolleranza, non sistemi dogmatici quindi ma aperture democratiche. Kivy, ovviamente, condanna senza appello l’infondatezza di entrambe le teorie: una storia, benché minima può essere raccontata solo per mezzo del linguaggio verbale, o entro certi limiti anche dalle rappresentazioni visive. La musica pura, assoluta non ha una simile capacità narrativa. Osserviamo, per inciso, che ritenere che le istanze antiformaliste si esauriscano sostanzialmente nelle teorie sopradescritte ci pare molto limitativo. Kivy in sostanza ha buon gioco nel confutare con cognizione le idee certamente singolari di McClary e di Schroeder, ma non sappiamo dire francamente quanto esse siano rappresentative della teoria contenutistica in senso lato, certamente esse non hanno alla base nessun criterio di giustificazione scientifica. Esiste anche, osserva Kivy, un’interpretazione narrativa debole, secondo la quale la musica, non racconterebbe alcuna storia reale, ma esporrebbe generalizzate trame archetipiche: la Quinta sinfonia di Beethoven, per esempio, è un caso tipico della trama archetipica “lotta contro le avversità fino al trionfo finale”. Anche in questo caso il giudizio di Kivy è decisamente negativo: è assurdo ritenere che una sinfonia possa avere una trama archetipica senza una corrispettiva trama vera e propria, a meno che non si intenda riferirsi alla capacità dei suoni di evocare di- 134 Cfr. S. McClary, Feminine Endings: Music, Gender and Sexuality, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1991. 135 Cfr. D. P. Schroeder, Haydn and the Enlightenment: The Late Symphonies and their Audience, Clarendon Press, Oxford, 1990. 93 namiche tensive originarie. In quest’ultimo caso tanto varrebbe non riconoscerle alcuna componente narrativa. 6. La risposta disposizionale di Derek Matravers Un’antica querelle è quella che concerne la musica e la relazione di essa con la vita emotiva, che Kivy caratterizza come la querelle tra emotivisti e cognitivisti musicali. La stessa querelle che oggi, nel dibattito analitico, troppo spesso sfocia in una sorta di crociata morale: da una parte ci sono coloro (gli emotivisti, critici musicali, teorici o semplici ascoltatori) che sostengono che quando in circostanze normali descriviamo un brano musicale “triste” è perché esso ci rende tristi, intendendo dire che è triste quella musica che normalmente suscita tristezza nell’ascoltatore. Si tratta della crociata contro i senza-cuore, i senza-emozione, i quali ascoltano in maniera analitica e fredda un qualcosa (la musica) che dovrebbe invece costituire un potente stimolo emotivo. Dall’altra parte invece troviamo la crociata di coloro (i cognitivisti) i quali sostengono che sia appropriato descrivere la musica in termini espressivi (cosa ovviamente riconosciuta anche dagli emotivisti), ma diversamente dagli emotivisti, non pensano che la musica triste sia tale in virtù della capacità di suscitare quella stessa emozione negli ascoltatori, piuttosto sostengono che la tristezza sia una proprietà di qualche tipo che noi, ascoltatori, possiamo riconoscere, ascoltare, nella musica, senza che sia necessario provare personalmente una siffatta emozione; la loro è quindi la crociata contro chi si crogiola nel mare di melassa emotiva e rischia così di perdere di vista gli elementi musicali più significativi. In realtà, spiega Kivy, con una buona dose di rammarico e consapevole di essere certamente annoverato tra i più importanti e fervidi sostenitori del cognitivismo, una tale situazione di frattura sorge solo da un’errata interpretazione della teoria cognitivista cui fa riferimento. La teoria cognitiva da lui difesa non sostiene l’inconciliabilità dell’emozione e della cognizione musicale. Per questa ragione trova infondata, e respinge, l’accusa di chi sostiene che egli altro non è se non che un freddo cognitivista. Tale accusa, diciamo subito, sebbene lo avevamo in parte già evidenziato, è quella che si solleva dal coro di coloro che in questi ultimi anni hanno optato per una spiegazione del problema dell’espressività musicale attraverso una riabilitazione, in nuove e spesso 94 singolari varianti, della teoria eccitazionistica o disposizionale (Arousal Theory). In particolare, è il caso di evidenziare – Kivy stesso ne è consapevole – che la voce che da quel coro si erge più altisonante e muscolosa è certamente quella di Derek Matravers 136 . Tra i due, diciamo subito, vi è infatti oramai da tempo un dialogo pressoché costante, anzi dovremmo parlare di una vera e propria pressante marcatura che l’uno esercita nei confronti dell’altro, come si evidenzia dalle rispettive opere. Nello specifico, l’Arousal Theory è bersaglio polemico di Kivy sin dalla primissima fase della sua ricerca. Ricordiamo infatti che il riconoscimento della validità del cognitivismo musicale si afferma parallelamente alla negazione della validità di una teoria disposizionale quale è stata fondamentalmente quella tradizionale e in aperta contrapposizione con quest’ultima. E, in effetti, le prime significative critiche mosse da Kivy all’Arousal Theory le si ritrovano nell’opera Sound Sentiment, e precisamente nel capitolo significativamente intitolato And Nevertheless It Moves, critiche alle quali Matravers controbatte nella sua prima opera dedicata al problema della relazione delle emozioni con le arti (Art and Emotion), confrontandosi con la tesi cognitivista quale essa è stata interpretata e rivisitata da Kivy e analizzando ogni singola obiezione all’Arousal alla luce di quella che, come conosceremo a breve, è in realtà una più sofisticata versione della teoria eccitazionistica, la cui riabilitazione si manifesta in una formula certamente inedita. La risposta, naturalmente, anche in questo caso non tarda ad arrivare; nei New Essays on Musical Understanding, Kivy dedica infatti un nuovo capitolo, anche questo direi dal titolo particolarmente emblematico, The Arousal Theory of Musical Expression: Rethinking the Unthinkable, nel quale risponde alle critiche mosse da Matravers ed esamina la sua teoria. Ma interessanti a tale proposito, sono anche altri scritti di Matravers; tra questi, particolarmente significativo è ‘Unsound Sentiment: A Critique of Kivy’s “Emotive Formalism”, ma anche ‘The Experience of Emotion in Music’. Quello che viene ad emergere come sfondo costante è quindi, anche negli scritti di Matravers, questa conflittualità accesa, emblematica di due differenti spiegazioni dell’espressività 136 Vale la pena fare una breve presentazione biografica di Derek Matravers, il quale si è cimentato in diverse aree: dall’etica alla politica, dalla filosofia della mente fino ovviamente all’estetica, dove ha mostrato un particolare interesse per i problemi legati alla natura delle descrizioni estetiche, all’esperienza estetica e al valore artistico. Tra le pubblicazioni di Matravers segnaliamo quelle che ci sembrano più significative per il nostro filone d’indagine: Art and the Emotions: A Defence of the Arousal Theory, Oxford University Press, 1998. Paperback edition, 2001; ‘Art and the Feeling Emotions’, The British Journal of Aesthetics, 31 (1991): 322-31; ‘Unsound Sentiment: A critique of Kivy’s “Emotive Formalism”’, Philosophical Papers 22 (1993): 135-47; ‘Once More with Feeling: A Reply to Ridley’, The British Journal of Aesthetics, 34, 1994; ‘The experience of Expression in Music’, cit.; ‘Art and Emotion’; Routledge Companion to Aesthetics; ed. Berys Gaut and Dominic Lopez; Routledge; 2001 (seconda edizione 2005); ‘Experience and Expression’ in Philosophers on Music: Experience, Meaning, and Work’, ed. Kathleen Stock (OUP, forthcoming, 2007). 95 che non trovano, o sembrano non poter trovare, soluzione d’accordo. Conflittualità che egli però preferisce caratterizzare, diversamente da Kivy, come accentuato dissidio tra i teorici disposizionalisti (tra questi, Kendall Walton e Aaron Ridley) e i teorici sostenitori dell’externality requirement (il riferimento in questo caso non poteva che essere a Kivy, Levinson e Davies) 137 . In considerazione quindi di questa serrata corrispondenza e tenuto conto anche del fatto che la tesi disposizionale difesa da Matravers è una tesi particolarmente rappresentativa dell’altra principale tendenza riattivatasi nel dibattito analitico, un approfondimento ci sembra necessario. Diciamo subito infatti che Matravers è uno dei primi a riaffermare e rivendicare la necessità di ripensare al problema della relazione tra musica ed emozioni mediante la difesa della teoria eccitazionistica in un periodo e in un clima fortemente ostili. Nella Prefazione di Art and Emotion scrive a tale proposito: «La mia intenzione in questo libro è quella di riabilitare un approccio alla connessione tra l’arte e le emozioni che è stato a lungo tempo considerato come eretico» 138 . Si tratta, in effetti, come avevamo anche evidenziato, di una teoria particolarmente osteggiata dalla comunità analitica, presso la quale per un certo periodo sembra invece avere avuto maggiori consensi una concezione dell’espressività prossima a quella cosiddetta cognitivista. Ho sperimentato personalmente come le persone che lavorano in questo campo siano restie perfino a prendere in considerazione l’Arousal Theory. Un filosofo in particolare, Peter Kivy, ha attaccato l’Arousal Theory ovunque essa sia comparsa, e talvolta anche in contesti in cui non compariva nemmeno. Kivy, tuttavia, non è il solo ad aver antipatia per questa teoria. L’attuale linea dominante ritiene che l’‘Arousal Theory’ sia certamente falsa e che tutto ciò che viene inquadrato all’interno di una concezione ‘cognitivista’ è corretto139 . Io sosterrò invece che il cognitivismo è muto proprio nel momento in cui dovrebbe dire qualcosa di importante. Inoltre, pochi degli argomenti che vengono rivolti contro l’Arousal Theory vanno presi sul serio, e nessuno di essi è decisivo. Non solo l’Arousal Theory fornisce una soluzione soddisfacente al problema dell’espressione, ma si inserisce all’interno di una spiegazione unitaria delle nostre reazioni emotive alle altre persone, al mondo e alle opere d’arte 140 . 137 Vedi in particolare ‘The Experience of Emotion’, cit., pag. 353. D. Matravers, Art and Emotion, cit., pag. vii. 139 Corsivo mio. 140 D. Matravers, Art and Emotion, cit., pag. 4. 138 96 La difesa della teoria eccitazionistica viene infatti a ribaltare il piano generale della teoria dei cosiddetti cognitivisti o teorici dell’externality, i quali non hanno certamente negato la capacità della musica di commuoverci, ma hanno invece negato perentoriamente che sia in questa dinamica, in quella cioè della risposta emotiva alla musica, che possiamo ricercare una soluzione al problema dell’espressività musicale. Non bisogna, in altri termini, considerare le proprietà emotive della musica come proprietà disposizionali, bensì come proprietà percettive, fenomenologiche della struttura musicale stessa. Kivy così evidenzia questo aspetto quando scrive: A partire dalla pubblicazione di The Concept of Expression (1971) di Alan Tormey’s, e del mio The Corded Shell (1980), si è formato un consenso, tra i filosofi analitici, che l’Arousal Theory of musical expressiveness sia, invero, irrimediabilmente sbagliata, e che le proprietà espressive della musica non sono disposizioni che stimolano delle normali emozioni, ma sono proprietà percepite della musica. In altre parole, noi percepiamo la tristezza, la felicità, la rabbia o la depressione nella musica, così come in genere percepiamo proprietà ‘fenomenologiche’ come il turbamento, la tranquillità, la ‘qualità del fluttuare’, e così via 141 . Qualche riga più avanti aggiunge: Fino a pochissimo tempo fa, potrei dire con una certa sicurezza che c’era in effetti un consenso generale riguardo alle proprietà espressive della musica: esse erano delle proprietà percepite, ovvero fenomenologiche, che si trovavano nella musica stessa, piuttosto che essere disposizioni volte a stimolare le emozioni ordinarie in un ascoltatore qualificato. Ma ora è apparso qualcuno che ha scombinato questa omogeneità di vedute. Si tratta, nello specifico, di Derek Matravers, il quale nella sua recente monografia, Art and Emotion, ha elaborato tanto una critica all’approccio cognitivo all’espressività musicale (che è anche il nome che viene solitamente dato alla mia posizione), quanto una propria personale spiegazione, che egli ritiene essere una versione della ‘Arousal Theory’ 142 . Kivy e Matravers hanno dunque messo in atto una stessa operazione, sebbene di segno inverso: mentre Kivy ha accompagnato all’elaborazione della propria teoria sull’espressività musicale una critica delle teorie eccitazioniste, il punto di partenza di Matravers è invece una puntuale critica delle teorie cognitiviste, in particolare di quella di Kivy. La concezione di base di quest’ultimo è, come abbiamo già approfondito, che la musica, pur non essendo un essere senziente, che possa cioè provare emozioni, può 141 142 P. Kivy, New Essays on Musical Understanding, cit., pag. 120. Ivi, pag. 121. Corsivo mio. 97 nondimeno essere descritta come ‘triste’ (ad esempio) se assomiglia all’espressione (esteriore) di un’emozione da parte di una persona (la quale espressione è possibile anche quando non è direttamente causata dall’emozione stessa, come l’esempio dell’espressione ‘naturalmente triste’ del cane San Bernardo dimostra). La somiglianza della musica con l’espressione umana delle emozioni è quindi, secondo Kivy, la causa del nostro descrivere la musica in termini emotivi; affinché però la spiegazione del significato dell’espressività sia completa, ovvero affinché si dia una spiegazione del significato dell’esperienza dell’espressività musicale e del giudizio espressivo sulla musica, è necessario aggiungere qualcosa al fattore, pur rilevante, della somiglianza. Kivy stesso ne è consapevole, e nel corso degli anni ha fornito diverse interpretazioni del significato dell’esperienza dell’espressività musicale, interpretazioni che Matravers riassume nelle seguenti tre proposte. La prima sostiene che l’esperienza della musica che viene descritta come (ad esempio) triste equivale all’esperienza udibile della tristezza umana. Ora, sebbene sia vero, riconosce Matravers, che talvolta sentiamo nella musica alcune tipiche espressioni uditive umane della tristezza, come il singhiozzare, il piangere, il gridare, e così via, da ciò non deriva che qualsiasi musica descrivibile (in senso lato) come triste rappresenti o riproduca i suoni caratteristici delle persone tristi (tra i tanti esempi a disposizione, Matravers cita il secondo movimento della sinfonia Eroica di Beethoven, che sicuramente non contiene in sé alcuna traccia di suoni di questo tipo, pur venendo solitamente esperita come ‘triste’, ‘angosciante’, ecc.). La seconda proposta sostiene che l’esperienza della musica che viene descritta come (ad esempio) triste equivale all’ascoltare la musica come somigliante all’espressione umana comportamentale della tristezza. La somiglianza alla quale i cognitivisti fanno qui riferimento è principalmente quella tra la musica e il movimento umano (il quale è uno dei modi in cui l’uomo può manifestare esteriormente i propri sentimenti): le successioni di note di frequenza diversa vengono percepite come spostamenti da una posizione all’altra all’interno dello ‘spazio musicale’ (non a caso si parla di note più o meno ‘alte’ o più o meno ‘basse’). La percezione di tale aspetto, ovvero il riconoscimento dell’esistenza di una siffatta somiglianza, non rappresenta però, osserva Matravers, un’esperienza duratura e unitaria, laddove sono proprio queste le caratteristiche che, da un punto di vista fenomenologico, contraddistinguono l’esperienza dell’ascolto della musica espressiva, esperienza che non può ridursi, come vuole questa seconda proposta cognitivista, ad un accadimento momentaneo (vale a di98 re, alla percezione, in un certo istante dell’esperienza dell’ascolto, di una somiglianza tra la musica e il movimento umano). Rimane ancora da prendere in considerazione la terza proposta cognitivista (di nuovo attribuibile a Kivy), secondo la quale l’esperienza dell’espressività musicale equivale all’ ‘animare’ i suoni in una certa maniera (in virtù di determinati motivi, tra i quali la somiglianza tra la musica e il comportamento umano è quello principale), ovvero in maniera tale da percepire, nell’ascolto, l’espressione di un’emozione nella musica, o come un aspetto della musica. Questa terza soluzione si riduce sostanzialmente, secondo Matravers, alla prima, e ricade quindi nelle stesse obiezioni. Nessuna delle tre proposte avanzate da Kivy sembra in grado di giustificare il nostro uso di termini emotivi per descrivere determinate musiche, in quanto non riesce a spiegare il senso intrinseco dell’esperienza che facciamo di tali musiche. L’unico ruolo che Kivy pare poter mantenere per la proprietà della somiglianza (tra la musica e il comportamento umano, ovvero tra la musica e l’espressione umana comportamentale delle emozioni) è di tipo causale: tale somiglianza sarebbe il motivo per cui noi ‘animiamo’ i suoni e facciamo quindi esperienza dell’espressività musicale. Tuttavia, lo stesso Kivy è scettico al riguardo, e riconosce che la somiglianza non è una condizione né sufficiente − a ben vedere, la struttura musicale può somigliare anche al ‘salire’ e al ‘precipitare’ dell’indice del mercato internazionale, senza che con ciò ne sia l’espressione − né necessaria all’espressività − la quale può essere prodotta da altre cause (che Kivy individua principalmente in fattori di tipo convenzionale o associazionistico). Data la provata (a suo avviso) inadeguatezza della teoria cognitivista di Kivy a dar conto dell’espressività musicale, Matravers opera un netto cambio di direzione, e decide di riportare l’attenzione sul versante opposto, e cioè sul fatto che non si può mettere tra parentesi il legame che la musica espressiva ha con l’esperienza emotiva dell’ascoltatore, come i cognitivisti vorrebbero. Piuttosto, egli insiste sul fatto che è esattamente in quella direzione che è necessario investigare qualora si voglia perseguire un’adeguata comprensione del problema espressivo delle arti, bisogna cioè capire come le emozioni formino il ponte tra la nostra esperienza dell’arte e della vita, capire, più specificamente, cosa l’esperienza emotiva musicale ha in comune con l’esperienza ordinaria dell’ascoltatore. Questo non vuol dire, secondo Matravers, perdere di vista o comunque trascurare la specificità dell’una e dell’altra esperienza, chiaramente differenti, ma comprendere proprio a partire da questa singolarità, che l’esperienza artistica 99 porta in primo piano più di altre esperienze della nostra vita, la forza e la pertinenza di quel legame. In questo modo, Matravers vuole farci capire come sia possibile una nostra reazione emotiva nei confronti, ad esempio, di personaggi ed eventi finzionali, e in particolare, come sia possibile spiegare questa reazione verso quelle forme artistiche (come la musica strumentale) che, diversamente dalle arti visive e (soprattutto) da quelle narrative, sono svincolate da qualsiasi contenuto rappresentativo che giustifichi in qualche maniera una nostra credenza. Detto in altri termini, spesso troviamo che un particolare poema, un quadro, o un brano musicale comporti un cambiamento emotivo, possiamo cioè esperire emozioni verso o a favore, rispettivamente, di personaggi funzionali, dei soggetti ritratti in un dipinto o di una particolare sequenza melodica. Tali esperienze sono però filosoficamente complesse e il problema – evidenzia Matravers è proprio quello di interpretarle, poiché le loro cause sembrano essere completamente differenti dalle cause delle nostre emozioni nel resto delle nostre vite. Ciò nondimeno non bisogna comunque rinunciare a comprendere, dicevamo, cosa tali esperienze hanno in comune con le altre, e cosa le lega all’espressione delle emozioni in casi nonartistici. Scrive Matravers a tale proposito: La grande arte ci procura alcune tra le esperienze più degne di merito che sia possibile per noi avere. Tali esperienze coinvolgono simultaneamente molti aspetti della nostra vita mentale: esse saturano i nostri sensi e allo stesso tempo stimolano la nostra intelligenza e chiamano in causa le nostre simpatie e le nostre emozioni. Queste connessioni conferiscono all’esperienza della grande arte un’importanza e una complessità che l’esperienza del buon cibo, ad esempio, per quanto sia apprezzabile, non possiede. In questo libro io esploro alcune di queste connessioni: la relazione – o, meglio, le relazioni − tra l’arte e le emozioni 143 . Come si evince da queste prime e sommarie informazioni, naturalmente, anche per Matravers, come per la maggior parte dei filosofi analitici, il problema della nostra risposta emotiva alle opere d’arte si configura diversamente in relazione ad opere che non hanno un qualche contenuto rappresentativo di riferimento. La risposta emotiva a queste forme artistiche è complessa, soprattutto perché le strategie che, nel caso delle forme d’arte rappresentazionale, forniscono delle spiegazioni sia del perché noi rispondiamo emotivamente ad esse, sia di che tipo siano queste risposte, non sembrano essere 143 D. Matravers, Art and Emotion, cit., pag. 1. 100 valide allorquando si passi alle forme d’arte non-rappresentazionale, come per l’appunto la musica strumentale (e anche l’astrattismo in pittura e in scultura). Si tratta di quello che Matravers definisce il problema della definizione (definitional problem), vale a dire: un romanzo, un film, un paesaggio impressionista danno l’immagine di un mondo umano, con gli elementi del quale possiamo empatizzare o identificarci, reagire o non reagire simpateticamente, o anche riflettere l’impensabile, quasi attraverso una sorta di contagio naturale. Ma con una sinfonia, una sonata, una scultura minimalista o con un quadro dell’espressionismo astratto tali spiegazioni non sembrano avere nessuna validità. Gli esseri umani e le loro storie sono del tutto assenti. Quindi è inevitabile chiedersi perché e in che modo la percezione di tali opere dovrebbe sollecitare, destare emozioni in noi, e a cosa sono dirette tali emozioni. È qui che il problema della definizione differisce dal secondo dei due problemi che considererò in Art and Emotion: nel dover giustificare il fatto che descriviamo le opere d’arte con termini che usiamo per denominare le emozioni (e che chiamerò ‘termini emotivi’), quando tale descrizione non è spiegata, quantomeno non del tutto, dal contenuto rappresentazionale dell’opera. Il problema del descrivere la musica strumentale utilizzando termini emotivi è un caso particolare di questo tipo di problema 144 . Tale problema emerge prepotentemente ed è tanto più spigoloso ovviamente in relazione alla musica strumentale, la quale – evidenzia Matravers –, sebbene non sia inusuale per noi descriverla in termini emotivi, non solo si presenta discontinua con il resto delle nostre vite, ma non è nemmeno, per riprendere un’espressione di Danto, ‘a proposito di’ (about) qualcosa che potrebbe giustificare l’applicazione di un termine emotivo ad essa 145 . Tale è la ragione per cui diventa più difficile comprendere da dove traiamo l’idea che l’opera stia esprimendo le emozioni, e soprattutto, risulta difficile chiarire come e perché l’espressione delle emozioni entri a far parte dell’esperienza di tali opere. Matravers sostiene che un primo passo per arrivare ad una possibile soluzione tanto del primo quanto del secondo problema, per quanto differenti siano l’uno dall’altro, è quello di far emergere quali sostanziali differenze intercorrano tra il complesso stato mentale che è provocato da un’opera d’arte e il complesso stato mentale che è l’esperienza delle emozioni nei casi centrali, ovvero nei casi dell’esperienza ordi144 Ivi, pag. 3. Cfr. A. Danto, The Transfiguration of the Coomonplace: A Philosophy of Art, Cambridge Mass, Harvard University Press, 1981. 145 101 naria della vita. È necessario infatti, dal suo punto di vista, mettere in conto e comprendere il fatto che non tutti gli stati mentali, o esperienze psicologiche, possono essere considerate e classificate allo stesso modo. Matravers nello specifico – muovendosi da una teoria cognitiva delle emozioni, secondo la quale un’emozione è composta da un numero di elementi includenti una o più attitudini proposizionali, e dal funzionalismo che definisce le attitudini proposizionali nei termini della loro collocazione all’interno di una rete causale di input, output e connessioni con altri stati mentali – sostiene che ci sono stati psicologici, le emozioni, che hanno una precisa componente cognitiva, e altri stati, le sensazioni (feelings) in cui tale componente viene meno, anzi è preferibile dire, è completamente assente. Ci sembra dunque qui riproporsi quella distinzione, cui accennavamo nel primo capitolo, tra Gefühl e Fühlen, tra sentimento determinato (Hanslick) e sentimento come tonalità del sentire (Schopenhauer, Langer). Specifica Matravers a tale proposito: Questo dimostra che non tutte quelle che potremmo chiamare esperienze psicologiche sono dirette-verso-un-oggetto. Questa caratteristica delle attitudini proposizionali, e quindi delle emozioni che le coinvolgono, serve a distinguere questi stati in particolare dalle esperienze che rientrano in un’altra categoria psicologica: ovvero da quelle che io chiamerò sensazioni (feelings). Nel distinguere queste due categorie dell’esperienza psicologica, non voglio sostenere che vi debba essere una netta distinzione nelle esperienze stesse, né voglio sostenere che un termine emotivo non possa essere correttamente usato anche per indicare una sensazione che differisce dall’emozione solo per l’assenza della componente cognitiva di quest’ultima. Perciò in alcuni casi potremmo voler chiamare ‘emozione’ una istanza di paura, in quanto essa ha un oggetto (essa è la paura per qualcosa), e in altri casi potremmo volerla chiamare ‘sensazione’ in quanto è priva di oggetti […] La distinzione tra stati mentali che sono a proposito di qualcosa e quelli che invece non lo sono, è, tuttavia, comprensibilmente evidente, e il sottolinearla rende un servizio alla chiarezza. […] È la presenza o l’assenza delle attitudini proposizionali più rilevanti, in particolare le credenze, che considererò come l’elemento che distingue le emozioni dalle sensazioni. Le altre due componenti di questi due stati psicologici, ovvero quella fenomenologica e quella fisiologica, saranno da me considerate caratteristiche di entrambi. Un’emozione si distingue da una sensazione, quindi, in virtù del possesso di un aspetto cognitivo 146 . Le emozioni, quindi, sono dotate di un aspetto cognitivo (esse sono dirette verso un qualche oggetto) che invece è assente nelle sensazioni. Queste ultime costituiscono 146 Ivi, pp. 19-20. 102 la componente fenomenologica e fisiologica delle emozioni. Ed ecco il punto che qui ci preme evidenziare. Secondo Matravers lo stato caratteristico suscitato da un’opera d’arte espressiva è una sensazione e non un’emozione, poiché la sensazione a differenza dell’emozione non ha una componente cognitiva. Lo stato caratteristico suscitato da un’opera d’arte espressiva è […] una sensazione e non un’emozione: ovvero, esso è privo della componente cognitiva. Abbiamo visto nel capitolo 2 che l’ ‘essere-direttiall’oggetto’ da parte delle emozioni è una conseguenza del loro aspetto cognitivo; l’oggetto intenzionale dello stato cognitivo è anche l’oggetto intenzionale delle emozioni. Lo stato che è suscitato da un’opera d’arte espressiva (per uno spettatore qualificato posto nelle appropriate condizioni) non ha oggetto. Esso non è né ‘tristezza riguardo a qualcosa’ né ‘tristezza per il pensiero di qualcosa’ 147 . Naturalmente, aggiunge Matravers, è possibile per le proprietà espressive di un’opera d’arte causare uno stato mentale coinvolgente un’attitudine proposizionale, ma se questo accade – se accade cioè che l’opera d’arte espressiva provochi un’emozione – quell’emozione non ha l’opera come suo oggetto intenzionale; essa avrà qualcosa di esterno all’opera; per esempio, il pensiero della morte della nonna o la perdita di un amore. Dico subito che questo tipo di considerazione costituisce un problema per l’Arousal Theory, poiché – come Matravers stesso non trascura di evidenziare – molti sono i filosofi d’accordo nel sostenere, e tra questi abbiamo già visto da vicino il pensiero di Kivy a tale riguardo, che tali reazioni non sono esteticamente rilevanti. L’idea comune è che se io sono sollecitato (triggered) da un’opera d’arte a provare un’emozione il cui oggetto è qualcosa di esterno all’opera, una tale reazione non può costituire la base per un giudizio estetico sull’opera. L’Arousal Theory dovrà in questo senso trovare un modo di distinguere il primo tipo di reazione dalla seconda. Sulla base di queste considerazioni possiamo così iniziare a comprendere in che termini Matravers viene a reimpostare una più sofisticata versione della teoria eccitazionistica rispetto a come essa si presentava nella sua formula standard, e cioè a partire da una precisa spiegazione di come dobbiamo intendere l’uso del termine emozione in contesti estetici. La spiegazione comunque di come intendere l’uso che facciamo del termine emozione in contesti estetici non è l’unico aspetto da mettere in conto nella ridefinizione da parte di Matravers della teoria eccitazionistica. È importante anche e soprattutto – come egli tiene a precisare – spiegare l’esperienza stessa dell’espressione in 147 Ivi, pp. 147-148. Corsivo mio. 103 arte, vale a dire: in cosa consiste tale esperienza, qual è il suo senso intrinseco, in che modo le emozioni (o, meglio, le sensazioni) entrano a far parte dell’esperienza dell’espressività musicale. Possiamo avere già una qualche comprensione dell’esperienza espressiva delle opere d’arte, avvalendoci semplicemente della riflessione su cosa tale esperienza ha in comune con l’esperienza delle persone che esprimono emozioni. Sostiene Matravers infatti che vi è un’analogia tra la nostra risposta all’arte che esprime emozioni e la nostra risposta alle persone che esprimono emozioni. Nello specifico, l’aspetto interessante di questa analogia tra la musica espressiva e le persone espressive considera il modo in cui è appropriato reagire nell’una e nell’altra situazione. In questo senso – egli sostiene – è inappropriato, quando ci troviamo dinanzi all’espressione umana dell’emozione, semplicemente formarsi una credenza, ovvero una convinzione relativa alle cause dell’espressione (vale a dire, fare delle ipotesi su cosa possa aver causato la manifestazione esteriore dell’emozione). L’appropriata reazione è piuttosto sentire un qualche tipo di emozione in noi stessi 148 . Lo stesso è vero della nostra reazione all’arte espressiva. Poiché è inappropriato semplicemente riconoscere che un’opera d’arte esprime un’emozione e registrare il fatto nella forma di una credenza. In circostanze ottimali, si dovrebbe apprezzare l’opera reagendo ad essa con un’esperienza emotiva appropriata. Si evidenzia così il motivo di netto contrasto tra il punto di vista di Matravers e quello di Kivy: delle emozioni, per Kivy, si ha cognizione, è necessario cioè poterle riconoscere, mentre Matravers sottolinea come esse vadano piuttosto sentite. È muovendosi dalle due principali affermazioni a) che l’appropriata reazione all’espressione artistica è una sensazione e non un’emozione e b) che tale esperienza emotiva causata dall’opera d’arte espressiva è analoga a quella della nostra risposta emotiva dinanzi a persone che esprimono emozioni 149 , che Matravers arriva alla seguente formula: 148 Analogamente a quanto sostiene Ridley, altro illustre sostenitore della teoria eccitazionistica, anche Matravers è dell’idea che per descrivere la musica come espressiva delle emozioni occorre in qualche modo rapportare l’esperienza emotiva della musica all’esperienza comune delle emozioni. Dobbiamo cioè entrare in “simpatia” con la musica che ascoltiamo, altrimenti risulterebbe impossibile una descrizione della musica in termini emotivi. In altre parole, l’esperienza della somiglianza tra un passaggio musicale e l’espressione reale delle emozioni dipende dal fatto che ascoltando il brano in questione “portiamo alla mente” ciò che succede in noi quando proviamo una certa emozione; pertanto il riconoscimento dell’espressione di un’emozione in musica e la descrizione emotiva di un brano musicale implicano il sentimento di quell’emozione. (Cfr. A. Ridley, Musical Symphaties: The Experience of Expressive Music, cit.; Id., Music, Value and Passions, Cornell University Press, Ithaca, Capitolo VI). 149 La differenza tra le due esperienze sta nel fatto che, come detto, reagiamo all’espressione di emozioni da parte di persone provando emozioni, mentre reagiamo all’espressione di emozioni da parte di opere 104 Un’opera d’arte x esprime l’emozione e se, per uno spettatore qualificato p che esperisce x in condizioni normali, x suscita in p una sensazione che costituirebbe un aspetto della reazione appropriata all’espressione di e da parte di una persona, o a una rappresentazione il cui contenuto sia costituito dall’espressione di e da parte di una persona 150 . Spostandosi dalle arti in generale e passando al caso particolare della musica strumentale, lo schema resta pressoché invariato: Un brano musicale esprime un’emozione e se spinge l’ascoltatore a esperire una sensazione α, dove α è la componente sensibile (the feeling component) dell’emozione che sarebbe appropriato provare (nei casi centrali) quando ci troviamo di fronte a persone che esprimono e 151 . Si tratta, diciamo subito, di quella più sofisticata formula mediante la quale Matravers viene a riqualificare una spiegazione dell’espressività musicale in chiave eccitazionistica o disposizionale. Secondo tale spiegazione, sembra dunque evidente, una descrizione della musica in termini emotivi è possibile soltanto perché essa suscita in noi quelle sensazioni che nella vita reale sono parte di quella stessa emozione. Detto in altri termini, possiamo descrivere un brano musicale come allegro perché esso suscita in noi quelle sensazioni che nella vita reale fanno parte dell’allegria, o meglio, che sono forme appropriate di reazione all’espressione di allegria da parte di una persona, e che quindi ci spingono a descrivere la musica come allegra. In questo senso, possiamo adesso comprendere meglio, le proprietà espressive della musica non sono più da intendersi come proprietà percettive della musica stessa, bensì come disposizioni a suscitare sensazioni in chi ascolta. Non si deve infatti, secondo Matravers, cadere nell’errore dei cognitivisti in generale, e di Kivy, in particolare, di pensare che l’espressione della musica possa essere svincolata dal polo dell’esperienza soggettiva, che si possa quindi spiegare l’espressività musicale come un fatto inerente la musica, le sue stesse proprietà. Ma, ed ecco il punto di maggiore incrinatura tra le opposte concezioni, ciò che è did’arte provando sensazioni. Matravers chiarisce anche che questo aspetto dell’Arousal Theory, e cioè che l’appropriata reazione all’espressione artistica è una sensazione e non un’emozione, si potrebbe pensare sia in conflitto con la fondamentale analogia tra la nostra risposta all’arte che esprime emozioni e la nostra risposta alle persone che esprimono emozioni, poiché in quest’ultimo caso è certamente appropriato rispondere con un’emozione – cioè uno stato con una componente cognitiva. Quando ci troviamo dinanzi ad una persona triste, rispondiamo con la tristezza, o forse con la pietà. In realtà – egli spiega – le strutture basilari (ovvero fisiologiche e fenomenologiche) delle risposte sono analoghe, anche se rimuoviamo le considerazioni riguardanti il contenuto cognitivo. 150 Ivi, pag. 146. 151 Ibidem, pag. 149. 105 stintivo riguardo al cognitivismo è proprio l’affermazione che l’espressione è una proprietà di un’opera che è descrivibile in quanto tale indipendentemente da un’individuale reazione ad essa. Come già anticipato, la teoria eccitazionista di Matravers è stata a sua volta il bersaglio di numerose critiche mosse dal fronte dei cognitivisti, in particolare dal suo esponente di punta, vale a dire Peter Kivy. In Art and Emotion, Matravers prende in esame quelle che sono le quattro principali critiche mosse da Kivy all’Arousal Theory, rispondendo alle quali egli non solo difende la validità della propria proposta, ma ne chiarisce alcuni aspetti importanti che possono essere rimasti ancora in ombra 152 . La prima critica sostiene che ogni emozione da noi provata nella vita reale ha delle implicazioni di tipo comportamentale − quando ad esempio proviamo malinconia, di solito perdiamo l’appetito, e stiamo a testa bassa; quando siamo arrabbiati, tendiamo ad attaccare briga; e così via − che sono assenti quando ascoltiamo la musica − di solito infatti non osserviamo comportamenti simili nelle persone sedute in teatro che assistono a un concerto di musica classica, e nemmeno ci lasciamo andare a particolari reazioni esteriori quando ascoltiamo la musica tramite le cuffie del nostro stereo. Ciò minerebbe la presunta analogia tra le emozioni ordinarie e quelle suscitate dalla musica. Matravers ha gioco facile nel ribattere in prima battuta a tale critica, in quanto gli è sufficiente ricordare che la sua teoria afferma che la musica espressiva suscita nell’ascoltatore una (particolare) sensazione (la quale è priva della componente cognitiva, non è rivolta ad alcun oggetto, e che quindi non implica necessariamente delle esternazioni comportamentali specifiche) e non un’emozione. I cognitivisti replicano però a loro volta sostenendo che identificare la sensazione caratteristica di un’emozione, in quanto scissa dalla componente cognitiva di quest’ultima, risulta essere un’operazione pressoché impossibile; il che renderebbe la definizione dell’espressività musicale data da Matravers del tutto inoperativa, dato che tale definizione lega l’attribuzione di un termine emotivo a un dato brano musicale al riconoscimento dell’analogia tra la sensazione suscitata dal brano e la componente sensitiva dell’emozione (feeling component of emotion) corrispondente al termine, la quale componente sensitiva è quella che proveremmo se ci trovassimo di fronte a una persona che esprime l’emozione in questione. A tale ulteriore osservazione, Matravers risponde chiarendo innanzitutto, una volta di più, che non si tratta secondo lui di riconoscere, ovvero di percepire, una proprietà nella musica, ma di provare internamente una certa 152 Ci riferiamo qui sempre al testo di Matravers, Art and Emotion, cit., con particolare riferimento alle pp. 147-187. Le stesse analisi sono riassunte in Id., The Experience of Emotion in Music, cit. 106 sensazione ed esperire la somiglianza di questa con un certo tipo di reazione emotiva che caratterizza la nostra vita comune, i nostri rapporti con le altre persone e in generale con la vita. Ad ogni modo, egli ritiene, riprendendo anche Levinson, che sia possibile identificare, attraverso un’attività di introspezione, il ‘feeling component’ delle emozioni designate dai termini emotivi attribuiti alla musica, specificandoli in termini esperienziali-fenomenologici (ovvero in termini di determinati impulsi, sensazioni interne, sentimenti di piacere o dispiacere, stati di tensione o di rilassamento, ecc.). Tale attività di introspezione è agevolata dal fatto (riconosciuto anche da Budd) che le emozioni espresse dalla musica − come il linguaggio della critica musicale, che attribuendo certi termini emotivi alla musica intende portarne alla luce l’espressività, conferma − sono designabili attraverso un numero limitato e circoscritto di termini piuttosto generali, i quali si riferiscono ad emozioni (malinconia, gioia, tristezza, ecc.) per le quali è lecito attendersi che sia possibile identificare, per via introspettiva, uno specifico ‘feeling component’, almeno in riferimento ai casi centrali (ovvero alle situazioni della vita reale in cui proviamo determinate sensazioni in reazione all’espressione di tali emozioni da parte di certe persone), ai quali l’espressività musicale è collegata da una relazione di somiglianza (tra le sensazioni suscitate dall’ascolto di una musica che descriviamo ad esempio come triste e le sensazioni che proviamo quando ci troviamo di fronte a una persona che esprime tristezza; sensazioni che, come vedremo meglio più avanti, possono essere di tristezza o di pietà). Non mancano quindi a Matravers gli argomenti per respingere la prima critica mossagli da Kivy; critica che, a ben vedere, si basa su premesse tutt’altro che certe. È infatti vero, Matravers riconosce, che i sentimenti suscitati dalla musica sono solitamente moderati, e quindi privi di manifestazioni comportamentali (essi sono simili ai sentimenti suscitati dalla lettura del giornale, le cui notizie possono colpirci emotivamente, ma non fino al punto tale da farci mettere da parte il thè che stavamo sorseggiando durante la lettura). Tuttavia, ciò non toglie che talvolta la musica possa emozionarci al punto tale da farci ridere di gioia, o da farci piangere per la commozione, sebbene solitamente evitiamo di abbandonarci a tali esternazioni, soprattutto se ci troviamo in uno spazio pubblico (come quello di un teatro o di un’arena). La seconda critica che Kivy indirizza alla teoria di Matravers consiste nel famoso argomento delle ‘emozioni negative’, il quale, sinteticamente, pone la seguente domanda, alla quale l’Arousal Theory non sembra essere in grado di rispondere: se la musica che esprime tristezza suscita in noi emozioni (o, più precisamente, sensazioni) di 107 tristezza (e quindi spiacevoli), perché mai dovremmo desiderare di ascoltarla? Tale argomento, da molti ritenuto decisivo, è in realtà facilmente respingibile. Restando sul piano del piacere estetico suscitato dall’ascolto della musica, Matravers osserva infatti che il fatto che l’esperienza dell’ascolto di una musica triste contenga dei sentimenti di tristezza (e quindi di per sé spiacevoli), non implica affatto che tale esperienza non possa essere, nel suo complesso, un’esperienza piacevole (essendo questa un’esperienza che coinvolge anche altri elementi, quali ad esempio l’apprensione della forma musicale). Spostandosi poi sul piano più generale di una teoria del valore, Matravers sostiene (con una riflessione dal sapore nietzschiano) che non c’è alcuna ragione di pensare che tutte le nostre attività volontarie siano finalizzate al raggiungimento di uno stato di piacere; il fine delle nostre attività è, più in generale, quello di “rendere la vita meritevole di essere vissuta”, e ciò può includere anche esperienze e sentimenti ‘spiacevoli’ (felicità e infelicità, diceva Nietzsche, sono sorelle gemelle; le esperienze dolorose possono contribuire, se bilanciate da esperienze di segno opposto, alla pienezza della vita di una persona) 153 . La terza critica da parte dei cognitivisti (che stavolta comprendono, oltre a Kivy, anche Stephen Davies), sostiene che, poiché non sappiamo né perché, né come, la musica espressiva possa provocare dei sentimenti, di conseguenza non possiamo postulare l’esistenza di tali sentimenti (o sensazioni) e tantomeno basare su di essi una teoria dell’espressività musicale. Riguardo alla questione del perché, l’Arousal Theory non sarebbe in grado di giustificare il sentimento provocato dalla musica, in quanto il provare un sentimento non sarebbe una reazione appropriata alla musica, nella stessa maniera in cui (ad esempio) la tristezza è una reazione appropriata alla morte di una persona cara; ma, chiarisce Matravers, l’Arousal Theory afferma che la musica espressiva è proprio quella musica che suscita in noi dei sentimenti, i quali, pur non essendo giustificati, giustificano la credenza che la musica sia espressiva dei sentimenti stessi. (In sostanza, quello che per Kivy e Davies dovrebbe essere il punto di arrivo, per Matravers è invece il punto di partenza). Riguardo alla questione di come la musica possa suscitare dei sentimenti, la risposta può essere fornita, secondo Matravers, solo attraverso una ricerca extra-filosofica. At153 Entrambe le repliche di Matravers a Kivy relativamente all’argomento delle emozioni negative si avvicinano ad alcune delle soluzioni che Jerrold Levinson ha a sua volta avanzato in relazione al medesimo problema. Secondo Levinson, infatti, i principali elementi che rendono desiderabile l’ascolto di una musica che trasmette emozioni negative sono l’ “emotional resolution” − vale a dire l’apprezzamento della finalità interna alla composizione musicale, in base alla quale anche le suddette emozioni acquistano un significato, un senso − e l’ “expressive potency” − ovvero il senso di pienezza e di ricchezza emotiva che acquisiamo attraverso l’ascolto empatico di una musica che esprime una vasta gamma di emozioni, comprese quelle spiacevoli. (Vedi J. Levinson, Music and Negative Emotion, cit., pp. 326 – 329). 108 tingendo ai contributi della storia, della psicologia e dell’antropologia, è plausibile ipotizzare che l’uomo abbia da sempre avuto l’esigenza di esprimere i propri sentimenti attraverso l’arte, e abbia sfruttato tanto l’esistenza di corrispondenze naturali, quanto l’introduzione di determinate convenzioni a livello dei vari linguaggi artistici, al fine di produrre determinate sensazioni nelle persone che all’arte, nelle varie epoche, si sono rivolte, e continuano a rivolgersi. La teoria di Matravers, si è detto, afferma che una musica esprime (ad esempio) tristezza se è tale che noi reagiamo ad essa provando le sensazioni che, nella vita reale, proveremmo di fronte a una persona che esprime tristezza. Tali sensazioni possono essere di tristezza o di pietà. Riprendendo la terminologia introdotta da Elliott, Matravers specifica che nel primo caso esperiamo la musica “dal di dentro”, ovvero come se la musica fosse l’espressione di un nostro sentimento, mentre nel secondo caso la esperiamo “dal di fuori” 154 , ovvero come se la musica fosse l’espressione del sentimento provato da un’altra persona, di fronte alla quale reagiamo provando una reazione appropriata (che nel caso specifico è identificata dalla pietà). Questa duplicità della nostra reazione emotiva alla musica espressiva è parallela a quella che solitamente abbiamo nella vita reale: osservando una persona (descrivibile come) triste, possiamo identificarci con essa (e allora proveremo anche noi tristezza), oppure possiamo assumere un atteggiamento simpatetico (e allora reagiremo provando pietà per tale persona). Questa aggiunta serve a Matravers per chiarire meglio in cosa consiste l’esperienza della musica espressiva; tuttavia, ciò non sembra sufficiente per soddisfare tale scopo. L’ultima critica che è stata mossa all’Arousal Theory sostiene infatti che la caratterizzazione causale dell’esperienza dell’espressività musicale, se anche fosse necessaria, non sarebbe comunque sufficiente a caratterizzare adeguatamente quest’ultima, in maniera tale cioè da distinguerla da altre esperienze che chiaramente non possiedono il requisito dell’espressività. Il contro-esempio più forte che si può fare a Matravers è che, teoricamente, lo stato emotivo suscitato da una musica espressiva può essere provocato anche tramite l’assunzione di una certa droga; di certo, non per questo diremo che la droga è espressiva dell’emozione in questione, ma l’Arousal Theory non sembra in grado di darne conto. A tale critica se ne accompagna un’altra, portata avanti soprattutto (inutile sorprendersi) da Kivy, il quale vede proprio in tale mancanza l’incapacità dell’Arousal Theory di dar conto della complessità e dell’importanza, anche ai fini dell’esperienza dell’ascolto, della comprensione di un brano musicale, il cui ruolo è ri154 Cfr. R. Elliott, ‘Aesthetic Theory and the Experience of Art’ (1967), repr. in H. Osborne, ed., Aesthetics, 1972, pp. 145-57. Oxford, Oxford University Press. 109 conosciuto dalla maggioranza dei critici e degli appassionati di musica, e senza il cui contributo l’esperienza dell’ascolto di una musica espressiva si ridurrebbe al semplice e passivo essere affetti da una qualche sensazione o stato emotivo. Matravers prospetta tre possibili risposte al contro-esempio appena introdotto, ovvero tre diversi fattori che distinguono l’assunzione di una droga dall’esperienza dell’ascolto musicale: i sentimenti suscitati; il tipo di proprietà che stimolano i sentimenti; il modo in cui le proprietà (rispettivamente, la droga e le caratteristiche intrinseche di un brano musicale) stimolano i sentimenti. Matravers ritiene che sia il terzo fattore quello decisivo 155 . Affinché una droga ci renda tristi, è sufficiente assumerla, senza che poi si tenga sempre presente, a livello di coscienza, la rappresentazione di ciò che ha causato il nostro sentimento. Viceversa, l’esperienza espressiva della musica non si riduce all’esperienza del sentimento che essa suscita in noi, ma comprende anche la rappresentazione consapevole delle proprietà percettive della musica in quanto cause del sentimento che proviamo, e dei modi in cui tali proprietà producono in noi il sentimento in questione. Tali modalità prevedono, da parte dell’ascoltatore, l’attenzione continua e costante alle proprietà dinamiche della musica, alla sua configurazione formale (la struttura in senso lato) e a certe caratteristiche del suono (al fatto cioè che una musica sia scritta in tonalità maggiore piuttosto che minore). Nello specifico, è particolarmente importante prestare attenzione alle proprietà dinamiche, ovvero alle relazioni tra i toni, in virtù dell’esistenza di un isomorfismo di base tra la musica e le emozioni, per cui la percezione del movimento che una musica compie (ad esempio) dalla dissonanza alla risoluzione produce nell’ascoltatore il passaggio da uno stato d’animo di tensione o di ansia a uno di rilassamento e di soddisfazione. Fatte tali aggiunte, l’Arousal Theory è in grado di fornire una descrizione sufficientemente informativa dell’esperienza dell’espressività musicale, pur rimanendo all’interno di una cornice causale; descrizione che, al contrario di quanto sostenuto dai suoi detrattori, dà pienamente conto dell’importanza e della complessità dell’ ‘understanding music’, fornisce una caratterizzazione fenomenologica di tale esperienza in termini di simultaneità (nella coscienza) della causa (la musica) e dell’effetto (il sentimento) in quanto intimamente connessi tra loro, e fuga ogni dubbio circa la sua presunta affinità con esperienze extra-musicali (come quella dell’assunzione di droghe). 155 Matravers accenna al primo dei tre fattori nel citato The Experience of Emotion in Music, dove egli sottolinea la maggiore complessità degli stati emotivi suscitati dalla musica, rispetto a quelli suscitati dalla droga. Il terzo e decisivo fattore è invece preso in esame ancora in Art and Emotion (in particolare, nelle pp. 164 – 184). 110 L’Arousal Theory cattura quindi, secondo Matravers, il senso primario dell’espressività musicale; e anche quando quest’ultima deriva non tanto dai sentimenti che una musica provoca, quanto dalle relazioni che intercorrono tra tali sentimenti (possiamo ad esempio dire che la speranza e l’ottimismo che la Quinta Sinfonia di Beethoven nel complesso esprime siano dovuti al graduale passaggio dalle sensazioni di angoscia alle sensazioni di gioia che sperimentiamo durante l’ascolto), è pur sempre vero che senza le esperienze primarie dell’espressività musicale (ovvero dei vari sentimenti suscitati, durante l’ascolto, dalle proprietà, soprattutto dinamiche, della musica) questo secondo livello di espressività non sarebbe possibile. 111 CAPITOLO TERZO Musica, metafora e isomorfismo 1. Introduzione al dibattito sulla metafora Fino a questo momento è emerso che due sono le principali posizioni nell’attuale dibattito sul problema espressivo della musica. Abbiamo infatti, parafrasando Kivy, appurato che c’è in atto quasi una sorta di crociata morale tra teorici cognitivisti o sostenitori del requisito dell’esternalità e teorici disposizionalisti. Nonostante infatti la specificità che caratterizza le singole tesi, ciascuna di esse può essere ricondotta al polo interpretativo di chi ritiene, detto in estrema sintesi, che il problema espressivo della musica si può comprendere focalizzando l’attenzione sulle proprietà espressive e percettive della musica stessa, oppure al polo interpretativo opposto che invece si fa sostenitore dell’idea più antica ed egemone nel pensiero musicale che è quella platonica, secondo cui la musica è triste, allegra e quant’altro, perché causa tali sentimenti nell’ascoltatore. Da questo punto di vista, come abbiamo visto, le proprietà emotive della musica sono considerate piuttosto che come proprietà percettive come proprietà disposizionali. Non si tratta, cioè, di riconoscere una proprietà della musica (come insistono per lo più i teorici cognitivisti), ma di provare internamente una certa sensazione, sentirla, ed esperire la somiglianza di questa con un certo tipo di reazione emotiva che caratterizza la nostra vita comune, i nostri rapporti con le altre persone e in generale con la vita. Due poi abbiamo visto sono anche le principali risposte al problema di come intendere e spiegare l’emozione musicale, la nostra risposta emotiva alla musica. C’è chi insiste sulla pienezza di tali emozioni, sul fatto cioè che al pari di tutte le altre emozioni esse abbiano una precisa componente intenzionale, e chi invece ritiene che le emozioni musicali non siano emozioni vere e proprie, poiché in esse vi è un indebolimento della componente cognitiva e della nostra risposta comportamentale. La stessa dinamica conflittuale, vedremo adesso, riverbera anche a proposito dell’altra questione al centro dell’attuale discussione sul rapporto musica-emozioni, vale a dire: come intendere le descrizioni della musica in termini emotivi. Anche in questo caso, possiamo anticipare, emergono due prospettive in conflitto tra loro: c’è chi propende per un’ipotesi letterale delle descrizioni emotive e chi, invece, ritiene che queste siano necessariamente metaforiche. Una concezione di tipo letterale è quella che abbiamo già incontrato quando ci siamo occupati della teoria espressiva di Kivy, il quale, nella sua prima opera, The Corded Shell, iniziava l’indagine proprio a partire dall’analisi di quello che egli defini113 sce il paradosso della descrizione musicale. Ciò che è emerso è che per Kivy non c’è bisogno infine di convocare le risorse della metafora, perché si riconosce all’oggetto, cioè alla musica stessa, il possesso di quelle proprietà che giustificano una sua descrizione in termini emotivi. Così, anche Matravers, sebbene a partire da altri presupposti, è disposto ad archiviare come inutile e improduttivo qualsiasi ricorso alla metafora quando si parla dei giudizi di espressione. «La dichiarazione ‘quel brano di musica è triste’ è più vicino a dichiarazioni inequivocabilmente letterali come ‘quel brano era lungo’, ‘quello era un valzer’, che non alla dichiarazione inequivocabilmente metaforica ‘quella musica ha dato fuoco alla sala’. La metafora mette a confronto la musica e il fuoco, mentre il giudizio d’espressione non fa confronti di questo tipo. Se la comunicazione è valida, chiunque ascolti il giudizio d’espressione non perverrà ad alcuna credenza relativa a una qualche proprietà, specificabile separatamente, comune alla musica e alle persone tristi, ma arriverà semplicemente a credere che la musica è, in effetti, triste» 156 . Vi è qui dunque in gioco l’ipotesi che le descrizioni della musica in termini emotivi siano da intendersi come descrizioni letterali. Ipotesi questa cui dedicheremo adesso maggiore attenzione, mediante l’approfondimento particolare delle tesi di due esponenti aderenti, come Kivy, alla corrente cognitivista (Malcolm Budd e Stephen Davies). Anche per loro ha valore un’idea di espressività che rivendica il carattere di realtà delle proprietà emotive della musica e allo stesso tempo riabilita un’ipotesi isomorfica quale contraltare di una spiegazione dell’espressività capace di catturare i rapporti analogici tra la nostra esperienza e le caratteristiche proprie dell’oggetto estetico. Su tutto un altro fronte, versus dunque un’ottica “letteralista”, troviamo i sostenitori di una tesi metaforica. Da questo punto di vista vi è l’idea che quando descriviamo un brano musicale in termini emotivi stiamo in realtà attribuendo alla musica non proprietà reali, ma proprietà metaforiche, e che pertanto ascoltare la tristezza della musica sia una questione non di «ascoltare che», ma di «ascoltare come», e cioè in maniera immaginativa. In una prospettiva di questo tipo certamente si annoverano rispettivamente le tesi di Goodman e Scruton. Sostenitore di una tesi metaforica è anche Nick Zangwill, per il quale le descrizioni emotive della musica sono da intendersi come descrizioni metaforiche delle proprietà estetiche della musica. In questo caso, come spiegheremo meglio in seguito, il riconoscimento del valore metaforico delle descrizioni emotive della musica può fun156 D. Matravers, Art and Emotion, cit., pag. 110. 114 zionare come indebolimento drastico del rapporto musica-emotività, se è vero che descrivere emotivamente la musica è solo una possibilità tra le tante disponibili per avvicinarci allo specifico musicale, poiché si possono scegliere caratterizzazioni che non chiamano in causa la vita emotiva, come quando diciamo, ad esempio, che una musica è bilanciata o delicata. Sullo sfondo di queste diverse posizioni strettamente connesse al discorso sulla musica, troviamo dunque il dibattito più generale sul problema della parafrasabilità o traducibilità della metafora. Il punto centrale della questione riguarda quindi il criterio prettamente linguistico della parafrasabilità, e ruota intorno all’interrogativo se una certa metafora possa conservare il suo contenuto semantico pur in presenza di formulazioni linguistiche alternative, il che equivale a chiedersi sostanzialmente se una metafora possa essere letteralmente traducibile oppure no. La domanda è allora questa: una metafora reca in sé qualcosa che non è riconducibile (o lo è solo in parte) alla sua manifestazione letterale, è capace di apportare una conoscenza che in qualche modo è implicita pur senza essere letteralmente presente nella formulazione linguistica che la esprime? Ancora una volta sarà interessante a tale proposito, prima di entrare nel merito dell’attuale discussione e di vedere anche in questo caso quali sono le posizioni teoriche di maggiore rilievo, guardare alla questione a partire da un’indagine delle tesi e dei testi seminali che sono alla base del dibattito. 2. I testi seminali 2. 1 Il bello musicale di Hanslick Torniamo ancora su questo testo, perché in esso è presente la tematica dell’uso metaforico delle attribuzioni emotive alla musica, anche se, come è ovvio, non vi troviamo una vera e propria teoria della metafora. Per Hanslick, non vi è ombra di dubbio, che le nostre descrizioni della musica in termini emotivi siano da intendersi non come descrizioni di un’emozione reale, bensì come descrizioni metaforiche. A suffragare questa tesi vi è, ancora prima, la confutazione dell’erroneo presupposto che il bello della musica possa consistere nell’esibizione di sentimenti, poiché il sentimento per Han115 slick è sempre determinato, vincolato cioè ad un’esperienza particolare. Il bello della musica è invece – egli sostiene – un bello specificamente musicale, che non dipende e non ha bisogno di alcun contenuto esteriore, ma che consiste unicamente nei suoni e nella loro artistica connessione. Le ingegnose combinazioni di suoni belli, il loro concordare e opporsi, il loro sfuggire e raggiungersi, il loro crescere e morire, questo è ciò che in libere forme si presenta all’intuizione del nostro spirito e che piace come bello. L’unico contenuto che alla musica si può ascrivere è quello delle forme sonore in movimento. Tutto quello che è vincolato al nostro mondo non ha nessuna relazione, né diretta, né indiretta con la musica, in quanto il suo regno, asserisce esplicitamente Hanslick, non è di questo mondo. La musica ha un suo mondo, è un’immagine il cui oggetto non può essere racchiuso in parole ed essere esaurito in concetti. Per tale ragione, le descrizioni che diamo di essa non possono essere che metaforiche. Interessante, a tal proposito, riportare il passo in cui esplicitamente Hanslick dice: È straordinariamente difficile descrivere in musica questo bello indipendente, ossia l’elemento tipicamente musicale. Poiché la musica non ha modelli in natura e non esprime alcun contenuto concettuale si può parlare di essa solo in aridi termini tecnici, oppure con immagine tecniche. Effettivamente il suo regno “non è di questo mondo”. Tutte le fantastiche descrizioni e illustrazioni di un brano musicale sono metaforiche o erronee. Ciò che per ogni altra arte non è che descrizione, per la musica è metafora. La musica, insomma, vuol essere intesa in quanto musica e può essere compresa e gustata solo in se stessa 157 . A conferma del fatto che le nostre descrizioni della musica in termini emotivi sono da intendersi solo in senso figurato e che non possano avere nessun valore, diciamo così, letterale di applicazione, vi è anche il fatto, spiega Hanslick, che spesso attingiamo a descrizioni che designano il carattere espressivo della musica senza ricorrere a concetti che richiamano la nostra vita emotiva, assumendo definizioni che appartengono a tutta un’altra cerchia di fenomeni. Possiamo cioè descrivere un brano musicale come malinconico, ma anche con altri termini quali, ad esempio, bilanciato, delicato, etc. In questo senso i sentimenti che utilizziamo per la designazione del carattere di una musica sono solo fenomeni come altri che offrono somiglianze. Si può dire che la musica è triste, ma ci si guardi bene dal dire questa musica descrive tristezza. Descrivere, spiega Hanslick, significa mostrare con chiarezza ed evidenza qualcosa, “esibirla” di 157 E. Hanslick, Il bello musicale, cit., pag. 65 116 fronte ai nostri occhi, ma la musica assoluta, lo abbiamo visto, a differenza delle altre arti, non ha nulla da esibire. Per caratterizzare l’espressione musicale di un motivo scegliamo spesso concetti propri della nostra vita affettiva come “fiero, triste, tenero, ardito, nostalgico”. Possiamo però prendere le definizioni anche da un’altra cerchia di fenomeni e chiamare una musica “vaporosa, primaverilmente fresca, nebulosa, gelida”. Per la designazione del carattere di una musica i sentimenti sono dunque fenomeni come altri, che offrono somiglianze. Tali epiteti possono essere usati avendo coscienza del carattere figurato, di cui non si può fare a meno, ma ci si guardi dal dire: questa musica descrive la fierezza, ecc. 158 Anticipiamo che sono esattamente queste le stesse riflessioni che troviamo da sfondo e che supportano la teoria metaforica sostenuta recentemente da Zangwill nell’articolo Music, Metaphor, and Emotion 159 . In questo articolo viene in chiaro come non sia necessario ricorrere ad una teoria della metafora vera e propria per stabilire se la parola emozione è usata oppure non è usata metaforicamente. È sufficiente infatti dal suo punto di vista fornire, più semplicemente, dei criteri specifici per stabilire quali sono gli usi metaforici e quelli non metaforici del termine emozione, sebbene in una nota Zangwill ci informi che è incline ad abbracciare la teoria esposta da Donald Davidson nell’articolo “Cosa significano le metafore” 160 . Si tratta dello stesso articolo di cui ci occuperemo a breve e che espone una cosiddetta teoria letterale o non-cognitiva della metafora. È il caso infatti di specificare che oltre alla tesi hanslickiana che offre una spiegazione di come intendere le descrizioni della musica senza ricorrere a nessun tipo di teoria metaforica vera e propria, ma basandosi più semplicemente su un’osservazione di quella che è la natura della musica e di un’emozione, negli articoli di cui ci occuperemo a breve, avremo modo di verificare che puntualmente vi è il riferimento ad una teoria metaforica entro cui si inquadra il tentativo di dar conto delle descrizioni emotive della musica. 158 Ivi, pag. 67. N. Zangwill, Music, Metaphor and Emotion, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 65, 2007, pp. 391- 400. 160 D. Davidson, Che cosa significano le metafore, in Id., Verità e interpretazione, trad. it. Di R. Brigati, a cura di E. Picardi, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 337-360 e in Simona Chiodo (a cura di) Che cosa è arte, la filosofia analitica e l’estetica, UTET, Torino 2007, pp. 1 35-146 (What Metaphor Mean, «Critical Inquiry» n. 5, 1978, pp. 31-47, anche in Id., Inquiries into Truth and Interpretation, Clarendon Press, Oxford 2001). 159 117 L’orizzonte storico-teorico di riferimento è quello che vede rinnovarsi una concezione cognitiva della metafora in ambito analitico. A venire meno è la vecchia e riduttiva opinione che vede la metafora come mero abbellimento o come sostituto della similitudine, un ornamento letterario, un congegno raro o esotico, esclusivamente decorativo. Si viene così a riaffermare l’idea che la metafora ha una capacità cognitiva importante e solidale al progresso della conoscenza e che è diversa per articolazione ma non per funzione dagli altri strumenti discorsivi a cui va riconosciuto un vero e proprio esercizio gnoseologico. Si riconosce così il valore cognitivo del discorso metaforico. In passato, chi negava che la metafora avesse un contenuto cognitivo nuovo rispetto a quello letterale voleva sovente mostrare che la metafora è fonte di confusione, ha carattere puramente emotivo, è inadatta al discorso scientifico o filosofico serio. Il primo a rinnegare questa idea, vedremo nell’approfondimento che segue, riportando in auge una concezione cognitiva della metafora è stato Max Black. Una conferma a tale proposito è quella che rinveniamo nelle parole di Ted Cohen nel saggio Metaphor 161 : Dopo essere stato trattato in maniera alquanto saltuaria nella storia della filosofia per più di 2000 anni, il tema della metafora ha cominciato a ricevere un’intensa attenzione nell’ultima parte del ventesimo secolo. Possiamo trovare dei rilievi occasionali sulla metafora in Aristotele, Hobbes, Locke, e Nietzsche, tra gli altri, ma questo tema ha cominciato a ricevere un’attenzione continua, in special modo da parte dei filosofi analitici, a partire dal 1950. La rilevanza della metafora nella filosofia del linguaggio e nella filosofia dell’arte è stata ora riconosciuta, e alcuni hanno ritenuto che tale tematica sia importante per la filosofia in generale. Jacques Derrida (Derrida 1974) ha detto che virtualmente tutte le dichiarazioni sono, in un certo senso, metaforiche; e George Lakoff e Mark Johnson (Lakoff and Johnson 1980) hanno sostenuto che la stessa struttura del pensiero è profondamente metaforica. Queste tesi ardite non hanno esercitato molta influenza sui filosofi analitici, ma sono state fatte proprie da un consistente numero di persone che operano in altri campi. Uno dei primi testi fondamentali, per i filosofi analitici e non solo, è stato “Metaphor” di Max Black, sebbene tale saggio abbia goduto di un’ampia considerazione solo una dozzina di anni dopo la sua pubblicazione, quando fu positivamente menzionato da Nelson Goodman (Goodman 1968. La tesi di Goodman è elaborata e difesa in Scheffler 1979) 162 . 161 T. Cohen, Metaphor, in “The Oxford Handbook of Aesthetics” (a cura di) Jerrold Levinson, Oxford University Press, Oxford, 2002, pp. 366-376. 162 Ivi, pag. 366. 118 2. 2 Metaphor di Max Black Significativo certamente è stato il lavoro di Max Black 163 , Metaphor 164 , a cui non mancano di far riferimento quasi tutti i saggi pubblicati sull’argomento. Black è infatti il principale sostenitore di una teoria che ha riscosso molto successo e insieme ha rinnovato l’interesse nei confronti degli studi relativi a questa figura. Si tratta, diciamo subito, di una teoria cognitiva della metafora secondo la quale la metafora ha un contenuto cognitivo speciale, additivo, che non può essere riducibile ad una equivalente espressione letterale. Il modello di spiegazione metaforica da cui Black attinge nel tentativo principale di difendere strenuamente il valore cognitivo del discorso metaforico è quello della cosiddetta concezione interattiva della metafora (interaction view), proposta ancora prima da Richards (The Philosophy of Rhetoric, Oxford 1936) 165 , ma emendata della primitiva e schematica distinzione tra significato «scientifico» e significato «emotivo». Tale concezione vede la metafora come l’interazione tra due insiemi di luoghi comuni associati ai due termini in essa presenti che Black identifica come soggetto «principale» e soggetto «sussidiario». Nell’esempio, oramai molto banale, ‘Giulietta è il sole’, ‘Giulietta’ sarebbe il soggetto principale e il ‘sole’ il soggetto sussidiario. Tali soggetti, precisa Black, non sono da intendersi come oggetti semplici, bensì come complessi sistemi di implicazioni. Il successo di una metafora, secondo la spiegazione interattiva nella formula rivisitata da Black, è il risultato di una selezione che opera all’interno del sistema d’implicazione del soggetto sussidiario sopprimendo alcuni casi ed enfatizzandone altri, per trasferirli all’interno del sistema del soggetto principale; il criterio che rende pertinente l’operazione di scelta e successivamente quella di trasferimento poggia su un sistema di relazioni isomorfiche, i cui centri sono costituiti da quell’insieme di luoghi comuni e opinioni notevoli che costituiscono il contenuto di tali sistemi. 163 Max Black (1909 – 1988) è stato uno dei più importanti esponenti della filosofia analitica nella prima metà del XX secolo. I suoi contributi hanno interessato gli ambiti della filosofia del linguaggio, della filosofia matematica, della filosofia della scienza, e della filosofia delle arti. Ha pubblicato anche saggi sui lavori di Frege. Studiò matematica al Queens’ College di Cambridge, dove sviluppò l’interesse per la filosofia matematica. In quel periodo Russell, Wittgenstein, George Edward Moore, e Frank Plumpton Ramsey erano presenti contemporaneamente a Cambridge, e la loro influenza su Black fu considerevole. Si laureò nel 1930, e vinse una borsa di studio di un anno a Göttingen. Tra i suoi lavori più rappresentativi ricordiamo: “Vagueness; An exercise in logical analysis” (1937), “Metaphor” (1954), “Models and metaphors” (1962), “More about Metaphor” (1979). 164 M. Black, Metaphor, “Proceedings of the Aristotelian Society”, 55, 1954, pp. 273-294; trad. it. Modelli Archetipi Metafore, Pratica Editrice, Parma, 1983. 165 I. A. Richards, The Philosophy of Rhetoric, Oxford University Press, New York, 1936. 119 Come Black specifica nell’altro saggio dedicato alla metafora, More about Metaphor 166 (Ancora sulla metafora), nel quale riprende la concezione interattiva già esposta in Metaphor, apportando solo lievi modifiche, la relazione reciproca tra soggetto principale e sussidiario è espressa dal contrasto tra il focus dell’asserzione metaforica, il centro di essa, vale a dire, quel termine (o quei termini) direttamente responsabili del senso metaforico della frase, e dal frame, dalla cornice letterale da cui il focus è circondato. Focus e frame sono entrambi egualmente responsabili della riuscita di una metafora per via di quel rapporto di interazione che si stabilisce tra loro, e senza il quale qualsiasi attribuzione predicativa del soggetto sussidiario a quello primario sarebbe arbitraria e perciò priva di qualsiasi senso. Risulta dunque chiaro, nella struttura sintattica di una metafora, come il frame sia invariabilmente sovrapposto al soggetto sussidiario, mentre il focus è costituito dal soggetto principale (questo almeno nelle metafore brevi), quale ad esempio: «L’uomo è un lupo». La concezione interattiva nella forma esposta da Black rimanda ai seguenti sette requisiti 167 : 1. Un’asserzione metaforica ha due soggetti distinti, un soggetto «principale» e uno «sussidiario». 2. Questi soggetti sono spesso valutati meglio come «sistemi di cose» piuttosto che come «cose». 3. La metafora funziona applicando al soggetto principale un sistema di «implicazioni associate» proprie del sistema sussidiario. 4. Queste implicazioni consistono solitamente di «luoghi comuni» riguardanti il soggetto sussidiario, ma possono, in casi specifici, consistere di implicazioni devianti, stabilite ad hoc dallo scrittore. 5. La metafora seleziona, enfatizza, sopprime ed organizza i tratti del soggetto principale, implicando asserzioni di esso che normalmente vengono attribuite al soggetto sussidiario. 6. Questo comporta spostamenti nel significato delle parole che appartengono alla stessa famiglia o sistema dell’espressione metaforica; alcuni di questi spostamenti, anche se non tutti, possono essere traslati metaforici (le metafore subordinate devono comunque essere lette meno «enfaticamente»). 166 M. Black, More about Metaphor, in “Dialectica”, vol. 31, n. 3-4, 1977; trad. it. Modelli Archetipi Metafore, Pratiche Editrice, Parma, 1983. 167 Ivi, pag. 63. 120 7. Non c’è, in generale, nessuna «base» semplice per i necessari spostamenti di significato – nessuna ragione recondita perché una metafora funzioni e un’altra fallisca. Black descrive il modello dell’interazione della metafora come non riducibile ad una parafrasi letterale. A differenza delle primitive e classiche concezioni della metafora, quella della sostituzione o della comparazione (come nella concezione aristotelica) 168 , la teoria dell’interazione identifica il contenuto cognitivo di una metafora con la sua richiesta di percezione simultanea di due soggetti, il soggetto «principale» e il soggetto «secondario», con i loro rispettivi sistemi di implicazione. Black ritiene infatti che l’effettivo funzionamento della metafora si ha quando essa “seleziona, enfatizza, sopprime, ed organizza caratteristiche del soggetto principale implicando asserzioni di esso che normalmente attribuiamo al soggetto sussidiario”. Questo vuol dire che, il successo di una metafora dipende da fecondi e specifici allineamenti o dis-allineamenti tra gli insiemi di associazioni dei suoi due soggetti. Ragione per cui, semplicemente, 168 Scrive infatti Black che i meriti della concezione interattiva, che sviluppa e modifica le valide intuizioni di I. A. Richards, dovrebbero essere valutati per contrasto con quelli delle uniche alternative esistenti – le tradizionali «concezione sostitutiva» e «concezione comparativa». La concezione sostitutiva vede «l’intera frase, che è il luogo della metafora, come sostitutiva di alcuni insiemi di frasi letterali»; la concezione comparativa invece considera la presente parafrasi letterale come affermazione di una somiglianza o analogia, e considera di conseguenza qualunque metafora come una similitudine condensata o ellittica. Conformemente alla concezione sostitutiva, il focus della metafora, la parola o l’espressione che ha un chiaro uso metaforico all’interno di un contesto letterale, viene usato per comunicare un significato che avrebbe potuto essere espresso letteralmente; così in un esempio un po’ sfortunato, «Richard è un leone» che gli scrittori moderni hanno discusso con noiosa insistenza, il significato letterale è considerato lo stesso della frase «Richard è coraggioso». Scrive ed evidenzia Black «Quali che siano i meriti di tali speculazioni che riguardano l’atteggiamento del lettore, esse concordano nel fare della metafora un ornamento. Eccetto che nei casi dove una metafora è una catacresi che rimedia ad alcune temporanee imperfezioni della lingua letterale, il proposito della metafora è di divertire e di distrarre. Da questo punto di vista, il suo uso costituisce sempre una deviazione dallo «stile piano e strettamente appropriato». Così, se i filosofi hanno qualcosa di più importante da fare che fare piacere ai loro lettori, la metafora non può avere un posto serio nella discussione filosofica. L’altro caso invece di spiegazione metaforica, quella comparativa, considera il significato dell’espressione metaforica simile o analogo a quello del suo equivalente letterale. Una volta che il lettore ha scoperto ciò che è alla base dell’analogia rappresentata o della similitudine può risalire il sentiero percorso dall’autore e in tal modo giungere al significato originale. Scrive Black a tale proposito: «Quando Schopenhauer chiamò una dimostrazione geometrica una trappola per topi voleva dire, in accordo con tale concezione (sebbene non esplicitamente): «Una dimostrazione geometrica è come una trappola per topi, poiché ambedue offrono una ricompensa ingannevole, adescano a poco a poco le proprie vittime e le conducono ad una spiacevole sorpresa». Precisa inoltre: «Si noterà che la «concezione comparativa» è un caso particolare della «concezione sostitutiva». Perché ciò che conta è che un’asserzione metaforica possa essere sostituita da un’equivalente comparazione letterale». La differenza principale fra una concezione sostitutiva e la forma particolare di questa, che ho chiamato concezione comparativa, può essere illustrata attraverso l’esempio standard «Richard è un leone». Nel primo caso la frase significa approssimativamente lo stesso di «Richard è coraggioso»; nel secondo è approssimativamente lo stesso di «Richard è come un leone (in quanto coraggioso)», dove le parole aggiunte fra parentesi sono implicite, ma non affermate esplicitamente. Nella seconda traduzione, come nella prima, si ritiene che l’asserzione metaforica occupi il posto di qualche equivalente letterale. Ma la concezione comparativa fornisce una parafrasi più elaborata, visto che l’asserzione originale è interpretata come se parlasse tanto di leoni quanto di Richard. Cfr. M. Black, Modelli Archetipi Metafora, cit., pp. 49-54. 121 parafrasare una metafora (nel senso della concezione comparativa) affermando ‘Giulietta è come il sole’ oppure ‘Giulietta è come… (un esaustivo elenco di proprietà del sole) non ottiene lo stesso effetto che una semplice metafora può sortire. I significati estesi che risultano da una metafora non possono così essere né antecedentemente predicati né successivamente parafrasati. Scrive Black a tale proposito: «La parafrasi letterale dice inevitabilmente troppo e con l’enfasi sbagliata. Uno dei punti su cui vorrei insistere è che la perdita, in casi simili, è una perdita di contenuto cognitivo; la più grossa carenza della parafrasi letterale non è costituita dal fatto che questa possa essere fastidiosamente prolissa o noiosamente esplicita o priva di qualità stilistiche; essa non riesce come traduzione perché non riesce a dare quel tipo di intuizione che la metafora dava» 169 . La metafora, ed ecco il punto centrale che ci preme maggiormente evidenziare, sostiene Black, piuttosto che formulare una somiglianza la crea («la tesi della creatività forte») 170 ; e ciò che essa è in grado di creare è una nuova visione e una nuova intuizione della realtà. È precisamente in questo che Black riconosce il potere creativo della metafora ed è questa la ragione per cui egli considera le metafore non come un semplice ornamento ma come strumenti cognitivi veri e propri, indispensabili per instaurare connessioni che sono veramente presenti, solo quando vengono percepite. Alla domanda “le metafore funzionano sempre da strumenti cognitivi?”, Black risponde, “Io credo di sì”. Le metafore ci mettono in grado cioè di vedere aspetti della realtà che la creazione della metafora aiuta a costituire e dal momento in cui tali aspetti si sono dati a vedere divengono parte integrante della realtà, come sua verità e non come semplice allusione ad essa. E ciò ritiene Black non è poi tanto sorprendente se si crede che il «mondo» è necessariamente un mondo che cade sotto una certa descrizione – o un mondo visto da una certa prospettiva. Alcune metafore possono creare tale prospettiva. L’idea di Black che le metafore abbiano un contenuto cognitivo, additivo, si traduce quindi nella possibilità di mettere in conto il fatto che le asserzioni metaforiche possano, cambiando i rapporti tra le cose designate (il soggetto principale e quello sussidiario), generare a volte nuove conoscenze e scoperte, suscitare nuove visioni. Una visione però, non trascura di evidenziare Black, per quanto mediata, deve essere sempre visione di qualcosa. Il problema è quello di suggerire cosa è quel “qualcosa”, e quanto il suo possesso possa contribuire all’intuizione di «come sono le cose». Questo non equivale a chiedersi, come alcuni filosofi sono soliti fare, se le asserzioni metafori169 170 M. Black, Modelli Archetipi Metafore, cit., pag. 65. Ivi, pag. 128. 122 che siano asserzioni vere, poiché una tale domanda se applicata al discorso metaforico risulta essere solo una forzatura. La strategia di questi filosofi, scrive Black, «è fuorviante, e tale da indurre distorsioni in quanto richiama l’attenzione su quella speciale connessione tra asserzione e realtà che noi segnaliamo mediante l’attribuzione del valore di verità» 171 . Ma l’aggettivo “vero” – egli precisa – è più appropriato in quelle situazioni in cui lo scopo principale è quello di esprimere un fatto, cioè in cui l’asserzione in questione che «esprime il fatto» è associata ad una procedura accettata di verifica o di conferma. In tal senso, ciò che, secondo Black, si nasconde dietro il desiderio di forzare «il vero» perché si adatti a certi casi, è il riconoscimento che una metafora non superflua non appartiene al regno della finzione e non viene usata, come pretendono certi autori, per certi misteriosi «effetti estetici», ma realmente «dice qualcosa». In realtà, Black sostiene che «il riconoscimento invece di ciò che può essere chiamato l’aspetto rappresentazionale di una metafora forte può essere meglio compreso ricordando altri comuni espedienti per rappresentare «come sono le cose» che non possono essere assimilati alle «asserzioni sui fatti». Cartine e mappe, grafici e diagrammi pittorici, fotografie e dipinti «realistici», e soprattutto i modelli sono comuni espedienti di carattere cognitivo per mostrare «come sono le cose», espedienti che non è necessario percepire come semplici sostituti di un insieme di asserzioni sui fatti. In questi casi parliamo di correttezza e non correttezza, senza dover ricorrere agli epiteti troppo sfruttati di «vero» e «falso» 172 . Secondo Black è questa l’indicazione di cui abbiamo bisogno per rendere giustizia degli aspetti cognitivi della metafora, informativi, e ontologicamente illuminanti delle metafore forti. Tale è l’indicazione che si ricava dalla concezione interattiva della metafora che postula delle interazioni tra due «sistemi», basate su analogie di struttura (in parte create, in parte scoperte). Gli isomorfismi che le sono stati attribuiti possono, come abbiamo visto, essere resi espliciti e diventano così i soggetti idonei alla specificazione di appropriatezza, fedeltà, parzialità, superficialità e simili. Si può giustamente ritenere che le metafore che sopravvivono ad un tale esame critico forniscono, in forma essenziale, profonde intuizioni circa i sistemi a cui si riferiscono. In tal modo esse possono, e talvolta lo fanno, generare intuizioni su «come sono le cose» in realtà. Infine, le metafore, nella visione di Black sono, possiamo dire appropriandoci dell’espressione usata da Goodman, il quale difende anch’egli una teoria cognitiva del discorso metaforico, luce della luna; come la luna illuminano e rischiarano la nostra vi171 172 Ivi, pag. 133. Ivi, pag. 135. 123 sione della realtà e non alludono come invece vuole Davidson, secondo il quale la metafora è il «lavoro del sogno» del linguaggio, la cui funzione non è quella di significare un «senso» speciale importante da tradurre, ma è quella di sollecitare una «visione», cioè di alludere senza significare. In effetti, c’è ancora da dire che, tra le varie e numerose recensioni critiche che sono state fatte al lavoro di Black, la più significativa è proprio quella di Donald Davidson il quale, possiamo già evidenziare, oppone a una teoria cognitiva della metafora la teoria dichiaratamente antitetica cosiddetta letterale o non-cognitiva, della quale un approfondimento sarà ora necessario. 2. 3 Che cosa significano le metafore di Donald Davidson La tesi centrale sostenuta da Davidson 173 in Che cosa significano le metafore, è che, strettamente parlando, le metafore non significano niente di più di ciò che significano le parole nella loro interpretazione letterale. In questo senso, se la parafrasi letterale di una metafora non è possibile, spiega Davidson, non è perché le metafore hanno un contenuto cognitivo determinato, un ‘significato’ metaforico speciale, che non può essere ricondotto ad una equivalente traduzione letterale, bensì perché nella metafora non c’è nulla da parafrasare. Scrive a tale proposito: «La concezione che vede la metafora principalmente come un veicolo per trasmettere idee, quantunque inusuali, mi sembra altrettanto errata quanto l’idea affine secondo la quale le metafore avrebbero un significato speciale. Concordo con l’opinione che le metafore non possano essere parafrasate, ma penso che ciò sia vero non perché le metafore dicano qualcosa di troppo inconsueto per essere espresso letteralmente, bensì piuttosto perché non c’è in esse niente da parafrasare. Possibile o no, la parafrasi attiene a quanto vien detto: nella parafrasi, si tenta di dire lo stesso in un altro modo. Ma, se vedo giusto, una metafora non dice nulla aldilà del suo significato letterale (né colui che la crea dice, usando la metafora, nulla che trascenda il letterale). Con ciò, naturalmente, non si nega che una metafora abbia uno scopo, né che tale scopo possa essere ottenuto usando altre parole» 174 . Non si nega 173 Donald Davidson (1917-2003), allievo di Whitehead e di Quine, ha insegnato in diverse Università statunitensi, in particolare a New York, a Chicago e a Berkeley. Tra i lavori essenziali: Azioni ed eventi e Verità e interpretazione. 174 D. Davidson, Che cosa significano le metafore, cit., pag. 137. 124 cioè, come accadeva in passato, che la metafora possa portarci a nuove e importanti conclusioni cognitive, si nega invece che tali conclusioni appartengano ad essa come suo contenuto cognitivo additivo, come significato speciale, in aggiunta a quello letterale. Ciò vuol dire che le metafore, a differenza del linguaggio letterale, non sono fenomeni semantici: esse piuttosto sono usate, come indicazioni o fotografie, per attirare la nostra attenzione a certe caratteristiche del mondo di cui possiamo o non possiamo essere precedentemente consapevoli. L’obiettivo polemico di questo suo saggio – precisa Davidson – non è infatti quello di mettere in discussione l’effetto che la metafora può sortire su di noi, per come tale effetto è stato caratterizzato da Max Black, Paul Henle, Nelson Goodman, Monroe Beardsley, bensì la sua critica s’innesta sul modo in cui la metafora dovrebbe produrre tali effetti. Tale critica mette avanti invece, come punto di maggiore incrinatura con le tesi di quei filosofi, la distinzione fra ciò che le parole significano e ciò per cui vengono usate, poiché, sostiene Davidson, la metafora appartiene esclusivamente all’ambito dell’uso e non ha nulla a che vedere con il significato. Se un significato alle metafore si vuole attribuire questo può essere solo quello vincolato al significato originario, letterale delle parole, poiché sia che la metafora dipenda o no da significati nuovi o traslati, certamente essa dipende in qualche modo dai significati originari; una spiegazione adeguata della metafora deve ammettere che i significati primari e ordinari delle parole rimangono attivi nella loro ambientazione metaforica. Una metafora infatti, sottolinea Davidson, dice solo ciò che esibisce apertamente: di solito una falsità palese o una verità assurda. E questa verità o falsità ovvia non ha bisogno di parafrasi alcuna: il suo significato è dato dal significato letterale delle parole. Abbiamo visto che Black sostiene, tra gli altri, che una metafora può comunicare un contenuto cognitivo non-letterale (un significato metaforico speciale) in addizione ad un significato letterale. Egli crede che la chiave per comprendere le metafore stia nella spiegazione di come questo significato extra sia arrivato al significato letterale di un’espressione e come si è relazionato ad essa. Davidson ritiene invece che questo progetto si basi su una fondamentale incomprensione circa la natura della metafora e della sua funzione. Non è utile – egli sostiene – per spiegare come funzionano le parole nella metafora postulare significati metaforici o figurativi, oppure alcun tipo speciale di verità poetica o metaforica. Idee come queste non spiegano la metafora, ma ne vengono spiegate. Una volta compresa una metafora, possiamo chiamare «verità metaforica» ciò che abbiamo afferrato e possiamo dire (entro un certo limite) quale sia il «significato 125 metaforico». Ma collocare semplicemente questo significato nella metafora equivale a spiegare perché una pillola fa dormire dicendo che ha una vis dormitiva. Detto in altri termini, analogamente a Black, Davidson è d’accordo nel sostenere che le metafore ci permettono di arrivare a nuove e importanti conclusioni cognitive, è invece fortemente in disaccordo con l’idea che queste conclusioni cognitive siano in qualche modo parte della metafora stessa come qualche significato metaforico. Questo si spiega attraverso l’archiviazione da parte di Davidson dell’intera categoria del significato metaforico: non esistono una verità e una falsità metaforiche, poiché il significato cioè il dominio del vero e del falso sono prerogativa esclusiva del discorso letterale e non di quello figurale. Da questo particolare punto di vista le metafore non “significano” ciò che esse ci mostrano oppure ci forzano a notare. Esse sono piuttosto strategie della conversazione attraverso le quali queste relazioni tra cose, o aspetti del mondo, vengono messi in evidenza. Le metafore, in questo senso, più che essere proposizioni che possiedono valore di verità, sono come indicazioni o il disegno di un diagramma. Quando chiediamo la direzione, non rimaniamo perplessi se qualcuno ci indica la propria destra. Ma, allo stesso tempo, non confondiamo questo ‘indicare’ con una proposizione portatrice di verità. Non penseremmo che il loro gesto sia vero o falso; piuttosto, sostiene Davidson, penseremmo che quel gesto diriga la nostra attenzione verso qualcosa che ha un qualche significato. Siamo spinti a credere che dovremmo andare a destra. Questa credenza può essere vera o falsa, ma il valore di verità non ha alcun legame con il gesto dell’indicare. Riprendendo l’esempio già fatto da Black, quando Shakespeare scrive “Giulietta è il sole”, non dovremmo, secondo la concezione di Davidson, pensare che quest’asserzione contenga un significato extra, non-letterale, seguendo la linea di “Giulietta è come il sole” oppure “Giulietta, come il sole, è centrale, gassosa, brillante, etc.”. Piuttosto dobbiamo assumere che le metafore ci consentono di notare aspetti di Giulietta e del sole che non avevamo notato prima. L’arrivo cognitivo a questa potenziale novità e agli aspetti sorprendenti del soggetto di Shakespeare non è una proprietà semantica della metafora stessa, ma solo un effetto pragmatico che la metafora produce in noi. Risulta quindi che per Davidson l’aspetto interessante e importante da evidenziare sta quindi non nella questione di cosa propriamente significa la metafora, ma nella “questione di come la metafora è relazionata a ciò che essa ci rende capace di vedere”. Si tratta, come a questo punto facilmente si può comprendere, di un «vedere come», che le metafore condividono con le immagini, e non del «vedere che» che ha invece a 126 che fare con le dichiarazioni del linguaggio letterale. La metafora ci fa dunque vedere una cosa «come» un’altra mediante una certa asserzione letterale che ispira o stimola l’intuizione. Allude cioè, ma senza significare, suggerisce una somiglianza che già c’è e che non è creata con un’allusione metaforica, perché la metafora non ha alcun esercizio veritativo. Tale concezione viene messa in discussione da Nelson Goodman nel saggio precedentemente citato Metafora come luce della luna. Egli infatti, diversamente da Davidson, e in piena sintonia con la tesi di Black, si fa sostenitore dell’idea che la metafora è cognitiva, perché essa dice qualcosa. Sarà interessante quindi vedere con quali argomenti Goodman confuta la teoria di Davidson in questo breve saggio, e successivamente, sulla base di questo approfondimento, vedere come tale concezione trovi un campo d’applicazione privilegiato nel mondo delle arti, ovvero di quelle formazioni simboliche capaci di creare nuovi orizzonti di senso, e di suscitare una nuova visione del mondo. 2. 4 Metafora come luce della luna di Nelson Goodman Il breve saggio Metafora come luce della luna 175 è stato scritto da Goodman 176 con l’intento apertamente dichiarato di mettere in discussione la posizione difesa da Davidson in Che cosa significano le metafore. Nello specifico, Goodman riafferma, versus Davidson, il valore cognitivo delle espressioni metaforiche. Esse non funzionano come semplici indicatori, ma sono direttamente implicate nella creazione di nuovi domini di conoscenza. La particolarità e l’importanza che Goodman infatti ascrive alla metafora è quella di svolgere un esercizio gnoseologico, al pari di tutti gli altri strumenti discorsivi, rispetto ai quali – egli precisa – la metafora è diversa solo per articolazione ma non per funzione. Le metafore possono fornirci una nuova visione della realtà, che, per intenderci, non è la visione allusiva cui fa riferimento Davidson, il «vede175 N. Goodman, Metaphor as Moonlighting, «Critical Inquiry» n. 6, 1979, pp. 125-130 (trad. it di Simona Chiodo (a cura di) in Che cosa è arte, la filosofia analitica e l’estetica, UTET, Torino 2007, pp. 135146), poi in ELGIN C. Z. (a cura di), The Philosophy of Nelson Goodman, vol. IV: Nelson Goodman’s Theory of Symbols and It’s Applications, Garland, New York 1997, pp. 53-58. 176 Nelson Goodman (1906-1998), interlocutore di Carnap, collega di Quine e allievo di Lewis, ha insegnato presso la Harvard University (Cambridge (Mass.), USA). Tra i suoi studi che sono essenziali per la filosofia analitica contemporanea, quelli di interesse estetico sono, in particolare, I linguaggi dell’arte, Vedere e costruire il mondo e Of mind and other matters. 127 re come», ma è un autentico «vedere che», che le asserzioni metaforiche condividono con il linguaggio letterale. Analogamente ad esso, le metafore possiedono la capacità di dire la verità. Questa discussione testimonia la sensazione crescente che la metafora sia importante e particolare – la sua importanza è particolare e la sua particolarità è importante – e che la sua collocazione in una teoria generale del linguaggio e della conoscenza abbia bisogno di studio. L’uso metaforico del linguaggio varia sensibilmente dall’uso letterale, ma rispetto all’uso letterale, non è meno comprensibile, più oscuro, meno pratico e meno vincolato alla verità e alla falsità. Lontano dall’essere un semplice strumento ornamentale, l’uso metaforico del linguaggio partecipa pienamente al progresso della conoscenza: nel sostituire alcune vecchie specie «naturali» con categorie nuove e illuminanti, nel costruire fatti, nell’aggiustare una teoria e nel darci mondi nuovi 177 . Davidson, come abbiamo spiegato, nega il carattere veritativo della metafora perché egli ritiene che le metafore in realtà non abbiano nessun significato additivo, siano prive di un contenuto speciale. Non esistono, dal suo punto di vista, la verità e la falsità metaforiche, esistono solo la verità e la falsità letterali. Goodman invece ritiene che la verità e la falsità siano vincolate sia al «senso» letterale sia al «senso» metaforico. Anzi, precisa Goodman, la particolarità della metafora è che «la verità metaforica è compatibile con la falsità letterale: una sentenza falsa, se intesa letteralmente, può essere vera se intesa metaforicamente, come nel caso di «il locale è in fermento» o di «il lago è uno zaffiro». La particolarità viene compresa riconoscendo che l’applicazione metaforica di un termine è di solito piuttosto diversa dall’applicazione letterale. Applicato letteralmente, il sostantivo «zaffiro» indica vari oggetti, compresa una particolare pietra, ma non un lago. Applicato metaforicamente indica vari oggetti, compreso un particolare lago, ma non una pietra. «Il lago è uno zaffiro» è quindi letteralmente falso, ma metaforicamente vero, mentre «lo stagno fangoso è uno zaffiro» è sia letteralmente sia metaforicamente falso. La verità e la falsità metaforiche sono distinte l’una dall’altra – e opposte l’una all’altra – analogamente alla verità e alla falsità letterali. E «il lago è uno zaffiro» è metaforicamente vero se e solo se «il lago è metaforicamente uno zaffiro» è letteralmente vero» 178 . La metafora, secondo Goodman, implica che un termine, o una struttura di termini, venga estratto da un’iniziale applicazione letterale per essere poi applicato in mo177 178 N. Goodman, Metafora come luce della luna, cit., pp. 154 e 155. Ivi, pag. 155. 128 do nuovo, in maniera tale da produrre un effetto nuovo all’interno dello stesso o di un diverso regno. Da questo punto di vista la negazione da parte di Davidson del fatto che le applicazioni metaforiche possano distinguersi dalle applicazioni letterali e che una proposizione falsa se intesa letteralmente può essere vera se intesa metaforicamente non fa altro, sostiene Goodman, che generare una grande confusione sull’argomento. Alla base di questa discussione critica di Goodman vi è l’intento di confutare, insieme a Black e a chi in generale riafferma il valore cognitivo del discorso metaforico, la concezione che vede la metafora come un mero artificio letterario, un congegno raro o esotico, esclusivamente decorativo. Non è in quest’ottica che si valorizza la metafora, ma nell’ottica di chi riesce invece a scorgere che la metafora rappresenta una via particolarmente economica, pratica e creativa di uso dei simboli, poiché introducendo vecchie parole in nuovi contesti possiamo risparmiare un gran numero di parole e abbiamo il vantaggio di dare il via ad abitudini linguistiche che avviano il processo di trascendimento delle parole. In questo senso egli afferma e conclude che «Nella metafora i simboli illuminano come la luce della luna» 179 . Interessante per noi adesso è rilevare che tale concezione della metafora (o del simbolo) è quella che si riflette nella concezione goodmaniana delle arti, le quali funzionano come simboli veri e propri che hanno un valore gnoseologico analogo a quello delle scienze. Dicendo qualcosa di vero, un simbolo è una «versione» vera del mondo. Come bene evidenziato da Simona Chiodo, un simbolo dunque nella concezione di Goodman «è una versione vera di un mondo, perché, in uno scenario gnoseologico costruzionalistico, ciascuna versione vera costruisce il mondo del quale essere vera e, un oggetto d’arte, agendo da simbolo, funziona analogamente a una versione del mondo, costruendo un mondo proprio. Le arti da questo punto di vista non alludono all’esistenza, ma dicono con saturazione la verità dell’esistenza che costruiscono» 180 . Questo è quanto, peraltro, chiaramente emerge nell’opera più importante a tal proposito, vale a dire in I linguaggi dell’arte. Per Goodman, il cui intento principale in quest’opera è stato quello di impostare – come egli stesso dichiara nell’introduzione – una teoria generale dei simboli, un quadro, una scultura, una sequenza di suoni musicali sono simboli. Ora, una caratteristica distintiva dei simboli artistici è che essi sono tipicamente considerati come espressivi: un quadro dai toni grigi con un tema cupo è così descritto come “triste”, così come triste dovrebbe descriversi una melodia lugubre in 179 Ivi, pag. 159. S. Chiodo, Visione o costruzione. Nelson Goodman e la filosofia analitica contemporanea, LED, Milano, 2006, pag. 60. 180 129 una tonalità minore. Per Goodman, tale tristezza non è un attributo proprio del simbolo è invece figurativa o metaforica: nel descrivere il quadro o la melodia come “triste”, noi trasferiamo un sistema di concetti dal suo regno tipico (gli stati emotivi associati agli esseri senzienti) dentro un nuovo regno. L’espressività di un’opera d’arte, di conseguenza, non è un attributo dell’opera in quanto tale, ma è semplicemente attribuita all’opera. Il tentativo goodmaniano di fornire una spiegazione plausibile dell’espressività dell’opera d’arte – ed in particolare, della musica – si è incontrato con due tipi di obiezioni. La prima, e più semplice, proviene dai filosofi che hanno sostenuto che il carattere espressivo è parte fondamentale dell’opera stessa: intendendo dire che l’espressività è una proprietà ineliminabile dell’opera musicale, ad esempio. Quando Goodman ha relegato la tristezza di una melodia al dominio del metaforico, non ha capito la cosa più importante, visto che il proposito della melodia è quello di essere espressiva di qualche emozione. Diciamo subito che è questa l’obiezione mossa da chi (Budd, Davies, lo stesso Kivy di cui ci siamo già occupati, e per certi versi anche Levinson) riconduce la spiegazione del problema espressivo a quella che abbiamo definito una risposta “dal basso”, riporta cioè l’isomorfismo al suo massimo di necessità. Da questo punto di vista infatti non c’è bisogno di convocare la metafora perché ciò che si dà nell’esperienza musicale di una determinata persona, e che quindi viene colto in essa, è, in quanto irriducibilmente percettivo (anziché metaforico), impossibile da specificare senza fare riferimento all’oggetto di quell’esperienza, vale a dire, senza fare riferimento alla musica stessa. Si tratta della percezione di, per avvalerci delle parole di Budd, somiglianze trans-categoriali tra, da un lato, gli oggetti di una modalità sensoria, e dall’altro lato, gli stati psicologici “interni” o i tratti esteriori delle manifestazioni comportamentali. La seconda obiezione a Goodman viene dal filosofo Roger Scruton, il quale ha notato che l’approccio di Goodman non ha dato spazio all’ambito cognitivo, perché in realtà i simboli artistici e il valore espressivo loro attribuito sono completamente indipendenti dall’umana cognizione 181 . La teoria estetica di Scruton, nella sua interezza, richiede invece che l’opera d’arte trovi posto nel regno complesso e mediato dei processi intenzionali. Ci si confronta cioè, in questo caso, con l’obiezione di chi riconduce il problema espressivo alle dinamiche di una cosiddetta risposta “dall’alto”, e cioè a complessi processi intenzionali e immaginativi che trascendono la possibilità di una risposta immediata qual è quella che si dà in una dinamica percettiva. Si comprende così 181 Cfr. R. Scruton, Art and imagination: A study in the philosophy of mind, London, Methuen & Co, pag. 222. 130 il netto rifiuto da parte di Scruton di qualsiasi idea di somiglianza, analogia, isomorfismo tra stati interni e oggetto artistico. Anticipiamo che si tratta di obiezioni significative a partire dalle quali vedremo anche, in quest’ultimo capitolo, in che modo una particolare concezione espressiva venga a influenzare e favorire anche la concezione di come intendere e spiegare le attribuzioni di qualità emotive alla musica. Sono tali descrizioni metaforiche o letterali? A tal proposito, daremo in primis, prima cioè di prendere in esame le obiezioni sopra indicate, un approfondimento della concezione metaforica di Nick Zangwill, il quale a partire dalla riabilitazione pressoché integrale della concezione hanslickiana della musica, della quale è certamente un convinto sostenitore, viene a ribadire l’idea che le nostre descrizioni della musica in termini emotivi non possono essere altro che descrizioni metaforiche, anziché letterali. 131 3. Nick Zangwill: musica, metafora ed emozione Nell’articolo “Against Emotion: Hanslick was right about music” così esordisce Zangwill: Dovremmo comprendere la musica in termini emotivi? Sono d’accordo con Eduard Hanslick: la risposta è ‘No’. Lasciatemi elencare i modi in cui non si dà alcuna connessione: non è essenziale, per la musica, il possedere emozioni, lo stimolare emozioni, l’esprimere emozioni, o il rappresentare emozioni. La musica, in se stessa, non ha nulla a che fare con le emozioni. Questa tesi negativa è ristretta alla musica strumentale o assoluta. […] Dimostrerò che Hanslick aveva ragione nel condurre la sua critica negativa alle teorie emotive letteraliste della musica 182 . Come emerge chiaramente in questa citazione, per Zangwill 183 non è vi è dubbio che la musica assoluta non ha alcun tipo di relazione con l’emozione. Questa è l’idea che egli viene a riaffermare, a partire, non possiamo più far finta di non notare, da una lettura della tesi di Hanslick come una tesi che inclina e recide qualsiasi legame della musica con le emozioni. Lettura il più delle volte accreditata nell’attuale dibattito (eclatante è il caso di Kivy), ma che non restituisce e non tiene adeguatamente in considerazione, dal nostro punto di vista, la complessità che agisce invece al fondo della riflessione hanslickiana sulla musica. È vero che Hanslick ha dichiarato che le nostre descrizioni della musica in termini emotivi debbono essere intese metaforicamente, ma tale dichiarazione dovrebbe essere inquadrata più nell’ottica di una volontà di liberare la musica dall’ingombrante fardello delle impressioni soggettive dell’ascoltatore, che non invece nel tentativo dissacratorio di negare tout court una dimensione espressiva alla musica. In tal senso, ci chiediamo infatti come ci si confronta con le seguenti affermazioni di Hanslick: «la musica è spirito che si plasma interiormente» 184 , «il comporre è un lavoro dello spirito su un materiale spiritualizzabile» 185 , o ancora «la musica ha un contenuto, sebbene sia musicale, in quanto scintilla del fuoco divino non inferio182 N. Zangwill, Against Emotion: Hanslick was right about music, “The British Journal of Aesthetics”, Vol. 44, No. 1, 2004, pp. 29-43. 183 Nick Zangwill è un filosofo britannico contemporaneo molto attivo nel campo della filosofia analitica. Egli insegna alla University of Durham (UK), dove tiene corsi in estetica, teoria della conoscenza e etica. In ambito estetico, egli si è occupato prevalentemente di proprietà estetiche, espressività musicale e creatività artistica. La sua posizione su tali questioni è etichettabile, per sua stessa ammissione, come ‘formalismo moderato’. I suoi principali riferimenti ‘continentali’ sono Kant e Hanslick. Il suo pensiero estetico è ampiamente approfondito in sue due opere principali: The Metaphysics of Beauty (Cornell University Press, 2001) e Aesthetic Creation (Oxford UP, 2007). 184 E. Hanslick, Il bello musicale, cit., pag. 65. 185 Ivi, pag. 66. 132 re alla bellezza di ogni altra arte. Ma solo negando inesorabilmente alla musica ogni altro “contenuto”, se ne salva il contenuto spirituale. Infatti non con il ricorrere a un sentimento indefinito – in cui, nel migliore dei casi, consiste il contenuto – si può attribuirle un significato spirituale, ma riconoscendo la bella e ben definita forma sonora come creazione dello spirito, compiuta su un materiale atto a essere spiritualizzato» 186 . Ad ogni buon conto, muovendosi da siffatta interpretazione, Zangwill viene a porsi in netta rottura con la posizione dei cosiddetti teorici “letteralisti”, i quali ipotizzano, al contrario, che tra la musica e le emozioni vi sia una relazione di qualche tipo. Non esageriamo se diciamo che tutta la disamina offerta da Zangwill in questo articolo è improntata proprio sul voler dimostrare come per l’appunto nessuna delle relazioni ipotizzate dai “letteralisti” possa sussistere tra la musica e le emozioni. Questo è quanto peraltro, viene fuori con maggior vigore e chiarezza in un articolo successivo, Music, Metaphor and Emotion, che è quello cui, volgeremo l’attenzione, essendo questo il luogo teorico in cui Zangwill affronta diffusamente la tematica di come spiegare le nostre descrizioni della musica in termini emotivi. Punto di avvio dell’indagine in questo articolo è l’ovvia constatazione di quello che egli definisce il “fatto inconfutabile – indiscutibile” (The Indisputable Fact), sul quale siamo pressoché tutti d’accordo, e cioè che spesso diamo descrizioni della musica in termini emotivi. Il problema è però come comprendere questo, e cioè in che senso diciamo, ad esempio, che un brano di musica è triste, malinconico, allegro, ecc. Sono queste descrizioni letterali o metaforiche? Due sono qui, precisa Zangwill, le questioni in gioco, reciprocamente connesse: da una parte quella della descrizione linguistica della musica e dall’altra la questione che riguarda da vicino la natura della musica. Sullo sfondo il problema centrale, stabilire cioè se tra la musica e un’emozione possa esservi una qualche essenziale relazione. Se si adotta un’ottica di tipo letterale tali descrizioni sono da intendersi letteralmente. Da questo punto di vista, infatti, certamente deve esservi una qualche relazione tra la musica e un’emozione reale: esempi importanti di tali teorie, riconosciute anche come teorie dell’emozione, sono secondo Zangwill, quelli di chi ritiene che la più importante funzione della musica deve essere quella di esprimere emozioni, eccitare emozioni, oppure rappresentare emozioni 187 . All’opposto, se si adotta una prospet186 Ivi, pag. 118. Per quanto concerne da vicino la prima tesi, e cioè che la musica debba esprimere emozioni, il riferimento è in particolare a quanto sostenuto da Aaron Ridley, nell’opera Music, Value, and the Passions e a Dereck Cooke, in The Language of Music; mentre per un esempio di Arousal Theory, come possiamo facilmente comprendere oramai da quanto abbiamo appreso nel precedente capitolo, Zangwill, non può 187 133 tiva non-letterale, tali descrizioni sono invece considerate tipicamente metaforiche, poiché la musica in se stessa non ha nulla a che vedere con un’emozione reale. Per chi, come Zangwill, è dell’idea che le emozioni siano dimensione distintiva dell’umano, chiaramente una prospettiva di tipo letterale non può che rivelarsi fallace, nonché facile preda di obiezioni. Ancora prima infatti di ipotizzare la possibilità che tra la musica e le emozioni vi sia una qualche relazione, è necessario un esame preliminare della natura di un’emozione. Il più delle volte, sospetta Zangwill, le difficoltà e i problemi derivano tutti dal fatto che non si ha un’univoca e chiara definizione del concetto di emozione. Un’emozione, riportandosi anche in questo caso all’ipotesi intenzionale di Hanslick, è uno stato mentale della persona, che ha sia carattere che contenuto qualitativo, vale a dire: un’emozione è essenzialmente posseduta da una persona, è circa qualcosa, ed è sentita. Emozioni quali paura, collera e orgoglio sono possedute dalle persone, esse sono a proposito di qualcosa, sono sentite in un certo modo, e sono collegate necessariamente ad alcune credenze. Se qualcuno quindi applica la parola emozione a qualcosa che è privo di queste caratteristiche, allora quell’uso è probabilmente metaforico o perlomeno è un uso esteso del termine. Solo un pazzo o un illuso può pensare che le cose stiano diversamente. In altri termini, si può secondo Zangwill pervenire a delle soluzioni plausibili, fermandosi a riflettere attentamente sulla natura della musica, che come molti altri hanno evidenziato, non è un essere senziente, e sulla natura delle emozioni. Questo è quanto certamente non è stato fatto dai “letteralisti”, i quali, evidenzia Zangwill, ingenuamente hanno invece trascurato il fatto che: a) descriviamo anche la natura in termini di emozioni. Per esempio, parliamo di rocce orgogliose, fiori timidi, nuvole minacciose, etc. Dovremmo ipotizzare allora anche in questi casi che vi sia una qualche significativa relazione tra un’emozione reale, quale ad esempio, la malinconia, e le nuvole? Viste così le cose, spiega Zangwill, è chiaro che non può esserci nessun legame generale tra le prevalenti descrizioni in termini emotivi e il possesso, l’espressione, oppure la rappresentazione dell’emozione, perché le cose naturali inanimate chiaramente non possono possedere, esprimere o rappresentare emozioni. Tuttavia non si esclude la possibilità che anche la natura comunque possa suscitare emozioni. In ogni caso, egli avverte, dovremmo essere cauti nel postulare emozioni corrispondenti alle descrizioni in termini di emozioni. che rinviare all’opera di Derek Matravers, Art and Emotion; come esempio invece di una teoria rappresentazionale cita la tesi sostenuta da Langer in Philosophy in a New Key. 134 b) Descriviamo anche altri tipi di opere d’arte, oltre che la musica, in termini di emozioni. Siamo infatti soliti fornire descrizioni in termini emotivi anche di sculture e di quadri astratti, possiamo cioè parlare di colori gioiosi di un quadro oppure di forme minacciose di una scultura. A tal proposito Zangwill, come già in precedenza hanno fatto anche Kivy e Matravers, riconosce che una cosa è parlare delle arti che non hanno nessun contenuto rappresentativo, altra è in qualche modo parlare delle arti che hanno qualche contenuto rappresentativo, in quanto – precisa Zangwill – nel caso delle arti rappresentazionali, il motivo per cui le descriviamo in termini emotivi è ben diverso, visto che in tali arti abbiamo a che fare con delle persone che sono rappresentate come aventi un’emozione oppure con situazioni che sono rappresentate in un modo da invitare ad una risposta emotiva. Ma, ed ecco l’altro motivo per cui non c’è nessuna ovvia ragione per sostenere le tesi letterali, ci dice Zangwill, diamo anche descrizioni in termini emotivi di quadri astratti e sculture che non dipendono dalla rappresentazione. Dunque non è evidente che la musica si differenzi dalle altre arti sotto questo aspetto. c) Molti presumono che sia condivisibile affermare che la musica ha proprietà “espressive”. In linea di principio, spiega Zangwill, questo pensiero è condivisibile se alla base vi è l’idea che la musica è appropriatamente descritta in termini di emozioni, poiché questo non coincide già con l’asserzione perentoria che vi sia un legame tra la musica e un’emozione reale. Il problema, ravvisa Zangwill, sta invece nel fatto che asserendo che la musica ha proprietà espressive, in realtà spesso si aspira a dire molto di più. E, precisamente, si dice qualcosa di controverso e discutibile se la parola “espressivo” viene usata per indicare che le descrizioni in termini di emozioni si riferiscono a stati mentali emotivi 188 . Il letteralismo è dunque un modo inadeguato di guardare al problema. Anzi, Zangwill sostiene, è un modo ingenuo, che possiamo tollerare se viene adottato dalle persone comuni, ma non se a pensarla così è un teorico della musica. È assolutamente inverosimile che un esperto di musica possa spingersi a credere che quelle descrizioni siano indicative del fatto che la musica è in relazione con un’emozione reale. Sarà necessario dunque portarsi oltre questa visione dimostrando che in realtà le descrizioni della musica non sono da intendersi quali descrizioni letterali, bensì come descrizioni metaforiche delle proprietà estetiche della musica. Anticipiamo, che è questa la cosiddetta tesi della metafora estetica difesa da Zangwill. In tal senso, Zangwill introduce tutta una serie di argomenti con l’intento di dimostrare il valore positivo di 188 N. Zangwill, Music, Metaphor, and Emotion, cit., pag. 392. 135 un’ottica non-letterale. Uno di questi argomenti è quello che egli definisce della parità (the parity argument) e si basa sulla considerazione che: Diamo molte descrizioni della musica (e del modo in cui la musica suona) che non sono descrizioni in termini di emozioni, ma che sono anch’esse ovviamente metaforiche 189 . Poniamo, per esempio, il caso di quando descriviamo la musica come “delicata” o “bilanciata”. Qui, evidenzia Zangwill, nessuno si spinge a dire che le parole servono a riferirsi a qualche emozione con la quale la musica è connessa. (Sentimenti delicati? Sentimenti sbilanciati/non-bilanciati? Certamente no). Quasi con una punta di ironia, egli si diverte a sottolineare che qualcosa di esteticamente delicato non deve di necessità essere a rischio di rottura, e, che qualcosa che è esteticamente bilanciato non deve di necessità avere una eguale distribuzione di peso tra le sue parti. Perciò questi utilizzi di “delicato” e “bilanciato” non possono, chiaramente, essere altro che metaforici. A sostegno di questa tesi, Zangwill chiama in causa Scruton 190 , il quale anch’egli, seguendo Victor Zuckerkandl 191 , ha sottolineato il fatto che le descrizioni della musica in termini di altezza e movimento sono metaforiche. Si tratta, anche in questo caso, si può riscontare, di descrizioni che designano comunque il carattere espressivo della musica senza però ricorrere a concetti che chiamano in causa la nostra vita emotiva, concetti la cui applicazione resta sempre e comunque, secondo la spiegazione di Zangwill, metaforica. Tali descrizioni della musica in termini non-emotivi dovrebbero essere tenute in considerazione dai filosofi della musica tanto quanto le descrizioni emotive. Se pensiamo che le descrizioni della musica in termini di “delicatezza”, “bilanciamento”, “altezza” e di “movimento da una nota all’altra” sono chiaramente metaforiche, dobbiamo allo stesso modo presumere che anche le principali descrizioni della musica in termini emotivi siano altrettanto metaforiche. Non si capisce invece perché tendiamo a fornire spiegazioni diverse nell’uno e nell’altro caso, quando sarebbe invece auspicabile che si desse una spiegazione unica che valga per tutte le suddette descrizioni. Chiaramente riusciamo a scorgere quanto, in queste affermazioni, incida con forza il pensiero di Hanslick, il quale per dimostrare la tesi che le descrizioni emotive della musica sono metaforiche si è appellato, diciamo così, al criterio della sostituibilità di siffatte descri- 189 Ibidem. R. Scruton, “Understanding Music”, in The Aesthetic Understanding, Manchester: Carcanet, 1983; The Aesthetic of Music, Oxford University Press, 1997, cap. 1, 2. 191 V. Zuckerkandl, Sound and Symbol, Prometheus, New York, 1956. 190 136 zioni: per descrivere la musica attingiamo spesso anche a concetti tratti da altre sfere che non sono quelle del mondo emotivo dell’uomo, concetti che con facilità siamo portati a qualificare come metaforici, piuttosto che come letterali. Un’idea, quella della sostituibilità, che Zangwill condivide in pieno, dal momento che, e questo è un punto certamente importante da evidenziare, il riconoscimento del valore metaforico delle descrizioni emotive della musica funziona qui come indebolimento drastico del rapporto musica-emotività, se è vero che descrivere emotivamente la musica è solo una possibilità tra le tante disponibili per avvicinarsi allo specifico musicale. Un indebolimento che si può evidenziare anche se prestiamo attenzione alla cosiddetta tesi dell’intreccio o interconnessione (the interweaving thesis), vale a dire: Le descrizioni della musica in termini emotivi sono intimamente connesse con altre descrizioni che sono chiaramente metaforiche – in particolare, spesso le descrizioni in termini di emozioni sono fornite sulla base di descrizione in termini non emotivi che sono chiaramente metaforiche, e viceversa 192 . Per esempio, possiamo dire di un brano di musica che è sereno perché esso è delicato. Tuttavia se queste descrizioni in termini non-emotivi non possono evidentemente che essere considerate se non come metafore, sarebbe strano considerare diversamente le descrizioni in termini emotivi. Ciò che si vuole evidenziare è che l’uso delle metafore dell’emozione in musica è spesso strettamente connesso con l’uso di altre metafore e non può essere compreso senza di esse. L’esempio può essere: La musica arrabbiata (angry) è solitamente violenta (violent) o scabrosa (jagged). Nell’arco di queste argomentazioni possiamo constatare come Zangwill parli di descrizioni metaforiche rinunciando a precisare quali siano i criteri per stabilire cosa è che consente di qualificare una descrizione come metaforica piuttosto che letterale. In realtà, dal suo punto di vista, una spiegazione di questo tipo non è necessaria; si può infatti comodamente evitare di dare un ragguaglio generale di cosa sia una metafora, mentre, come avevamo anticipato, è necessario fornire criteri specifici per poter distinguere gli usi metaforici e non metaforici dei termini che denotano emozioni. E il criterio cui appellarsi per stabilire se la parola emozione è usata metaforicamente senza dover dipendere da una controversa teoria generale della metafora, sappiamo, è quello che si può reperire chiarendo cosa è un’emozione. 192 N. Zangwill, Music, Metaphor, and Emotion, cit., pag. 392. 137 Questo è quanto chiaramente potrebbe emergere confrontandosi, sostiene Zangwill, anche con una tesi dichiaratamente letterale delle descrizioni emotive della musica. Si tratta della tesi di Stephen Davies, per il quale, come meglio avremo modo di verificare in un approfondimento successivo, le descrizioni della musica, come “triste”, “delicato”, e “alto”, non sono metaforicamente, bensì letteralmente applicate alla musica 193 . Ciò che hanno in comune tali metafore è il fatto di essere familiari, dei veri e propri cliché. Per tale ragione, c’è la comprensibile tentazione di pensare che esse siano metafore morte, ovvero che esse, essendo divenute familiari, cessano di essere metafore e diventano espressioni letterali (usando a sua volta una metafora, Zangwill dice che esse, morendo come metafore, approdano al paradiso dei termini letterali). Riprendendo i termini che abbiamo introdotto nella sezione dedicata ai testi seminali, potremmo dire, che l’uso di tali termini ha esaurito l’originaria contraddizione fra significato letterale falso e significato metaforico vero. Nel tempo cioè quelle che originariamente riuscivamo a riconoscere distintamente come metafore sono diventate vere e proprie asserzioni letterali al pari di molte altre. Secondo Zangwill, in realtà, tale tesi non è plausibile se si tiene adeguatamente in considerazione il fatto che queste descrizioni sono dello stesso tipo di quelle nuove che possiamo coniare per descrivere la musica, le quali – aggiunge – sono chiaramente metaforiche. Così scrive: Ad esempio, non ricordo di aver sentito le seguenti descrizioni della musica, ma posso pensare a una musica che vorrei chiamare “sconvolta”, “crudele”, “titubante”, “nervosa”, “insistente”, “vibrante”, e così via 194 . Anche questi nuovi termini in realtà sono metaforici, così come lo sono quelli che costituiscono le cosiddette metafore morte: non vi è alcuna differenza tra le prime descrizioni e le seconde. Per tale ragione anche in questo caso è auspicabile, secondo Zangwill, dare una spiegazione unitaria dei due tipi di descrizione. Egli ritiene infatti che tali ‘nuove’ metafore (nuove in quanto inedite) siano dello stesso tipo delle descrizioni cliché della musica come “triste”, “delicata”, e “alta”. Ma soprattutto, Zangwill sottolinea una volta di più il fatto che, al di là della questione se i termini che denotano emozioni usati per descrivere la musica siano metafore o metafore morte, tali termini comunque non descrivono stati che hanno le caratte193 S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit, pp. 162-165; vedi anche Leo Treitler, “Language and the Interpretation of Music”, in Music and Meaning, ed. Jenefer Robinson, Cornell University Press, 1993. 194 N. Zangwill, Music, Metaphor, and Emotion, cit., pag. 393. 138 ristiche essenziali delle emozioni. Ecco perché anche se Davies avesse ragione, e se quindi alcune descrizioni della musica in termini di emozione fossero metafore morte, ovvero descrizioni dotate di un senso letterale secondario, ciò non cambierebbe comunque le cose, visto che anche in questo caso le descrizioni della musica in termini di emozioni non si riferirebbero a stati mentali realmente emotivi – ovvero, a stati che una persona ha, che hanno un contenuto intenzionale, che hanno un carattere qualitativo, e che sono organizzati in dei precisi modi – che le parole, considerate nel loro senso letterale primario, suggerirebbero. Da questo punto di vista Zangwill ritiene che una teoria delle descrizioni in termini di emozioni in quanto metafore morte è classificabile in realtà più come una teoria non-letterale, visto che chiama in causa dei significati secondari non riferibili alle emozioni reali. Per tale ragione Zangwill arriva a concludere che tutto sommato una teoria della metafora morta può bene accordarsi con la sua teoria metaforica. Egli dice: Personalmente ammetto che un utilizzo letterale dei termini che denotano emozioni implica che essi vengano riferiti a degli stati mentali emotivi o a qualcosa che stia in una qualche relazione con stati mentali emotivi. Il punto della questione è se le descrizioni della musica in termini emotivi facciano effettivamente riferimento a tali stati. Fin qui abbiamo visto che ci sono alcune ragioni per pensare che tale riferimento non sussista 195 . Il più delle volte, spiega Zangwill, facilmente ci si può rendere conto del modo in cui il problema delle descrizioni linguistiche della musica sia in relazione con la questione riguardante la natura della musica. Nello specifico, il letteralismo, se è vero, ha come implicazione, per ciò che riguarda la natura della musica, che essa sia in qualche modo collegata alle emozioni. E, in tal senso, dunque il letteralismo si connette alle teorie dell’emozione. Al contrario, il non-letteralismo, per come è stato caratterizzato, incoraggia fortemente una concezione non-emotiva. Se cioè le descrizioni in termini emotivi non si riferiscono realmente alle emozioni, allora è chiaro che la natura della musica non ha nulla a che vedere con le emozioni. Non sempre però, tiene a precisare Zangwill, i confini sono così nitidamente delineati. Questo è infatti il dato che emerge, diciamo così, in teorie più complesse, tali in quanto in esse sembrerebbe profilarsi la possibilità di combinare una tesi non-letterale con una teoria delle emozioni. Si tratta di quelle che Zangwill definisce teorie intenzionali delle emozioni, nelle quali vi è in gio- 195 Ivi, pag. 394. 139 co l’ipotesi che la musica non sia in realtà relazionata ad un’emozione quanto piuttosto a pensieri sulle emozioni (thoughts about emotions). In una prospettiva di questo tipo egli annovera rispettivamente le tesi di Scruton e Levinson, i quali entrambi fanno appello alle emozioni immaginate durante l’ascolto di musica. Da questo punto di vista – egli spiega – un’emozione immaginata è un pensiero sull’emozione che non è una credenza. Sembrerebbe dunque che, sebbene non in un’accezione piena, anche in questi casi vi sia il riferimento ad un’emozione. Eppure – evidenzia Zangwill – per Scruton le descrizioni della musica in termini emotivi non debbono essere considerate letteralmente, piuttosto metaforicamente. Il problema destabilizzante sembra qui essere per Zangwill quello di chiarire e stabilire se un’emozione immaginata è oppure non è un’emozione vera e propria, poiché sono questi, e non altri, come abbiamo finora puntualmente verificato, i criteri di cui egli si avvale per stabilire quali sono i precisi confini tra teorie letterali e teorie metaforiche. Scrive infatti a tale proposito: «Non è chiaro se queste teorie dovrebbero essere classificate come teorie emotive, dato che esse non chiamano in causa emozioni reali, ma solo dei pensieri ad esse relativi. Non è così importante fare questa classificazione. Tuttavia, la combinazione del letteralismo con una teoria intenzionale dell’emozione può creare confusione: se nell’esperienza della musica sono coinvolti dei pensieri relativi alle emozioni, di sicuro potremmo attenderci che le descrizioni linguistiche della musica significhino letteralmente le emozioni a cui i pensieri si riferiscono in tali esperienze» 196 . Per chi come Zangwill si trova in sintonia con una concezione dichiaratamente formalista, le descrizioni della musica in termini emotivi possono intendersi solo come descrizioni metaforiche delle proprietà estetiche della musica 197 . Tali proprietà esteti196 Ibidem. È il caso di specificare, seppure senza poter dare un certo approfondimento della questione, che la tesi della metafora estetica può essere meglio compresa laddove si tiene in considerazione la concezione che Zangwill ha delle proprietà estetiche, che è, dico subito, una concezione realista. Si tratta però di una forma di realismo temperato. Come infatti spiega a tale proposito Matteucci, in un saggio dedicato specificamente alle proprietà estetiche, «Zangwill amplia la base di subvenienza anche alle proprietà non sensoriali senza con ciò rinunciare al rapporto di dipendenza tra estetico e percettivo, riconoscendo al tempo stesso che il peso delle proprietà sensoriali varia nelle diverse arti. La ‘dipendenza debole’ che ne deriva viene così formulata da Zangwill: «le proprietà sensoriali sono necessarie per le proprietà estetiche, non sufficienti. Accettare una tesi di dipendenza debole è compatibile con l’ammettere che anche altri fattori sono necessari. Ma la tesi debole implica comunque che senza proprietà sensoriali non ci sarebbero proprietà estetiche». Cfr. Aesthetic/Sensory Dependence, “The British Journal of Aesthetics”, 38, 1, 1998, pp. 66-81. È quindi una tesi che vincola le proprietà estetiche alla dimensione percettiva, senza tuttavia risolverle completamente in essa. Cfr. G. Matteucci, Le proprietà estetiche, in Introduzione all’estetica analitica, cit. pag. 103. Detto in altri termini, la forma di realismo difesa da Zangwill vede sul tappeto l’ipotesi che le caratteristiche (che vengono) attribuite attraverso i predicati dei giudizi estetici sono proprietà estetiche, proprietà ‘emergenti’ rintracciabili negli oggetti, proprietà che dipendono dalle proprietà di primo-livello degli oggetti, e (sostiene) che l’apprezzamento estetico di un oggetto consiste nell’acquisizione della conoscenza delle sue proprietà estetiche attraverso una normale attività percettiva 197 140 che comprendono la bellezza, l’eleganza, la delicatezza, e possono essere descritte solo metaforicamente. La descrizione in termini emotivi non è dunque una descrizione che rinvia a qualche emozione esperita o trasferita, bensì alle proprietà estetiche che appartengono alla musica stessa. A tale proposito, precisa infatti Zangwill, se la tesi della metafora estetica è corretta, «essa suggerisce con forza che non si verifica nulla di genuinamente emozionale che sia in qualche modo rilevante, né nella creazione immediata, né nella ricezione immediata della musica. Ovviamente, le emozioni possono talvolta svolgere un ruolo se le consideriamo come le cause più remote dell’attività creative, e le emozioni possono talvolta figurare tra i più lontani effetti dell’esperienza della musica. Ma ciò è filosoficamente poco interessante. L’esperienza musicale e la creazione musicale primarie non comportano affatto il coinvolgimento delle emozioni. Per ‘esperienza musicale primaria’ della musica io intendo l’esperienza di una certa musica, e per ‘creazione musicale primaria’ io intendo il pensiero creativo relativo alla musica e che fa nascere la musica stessa 198 . Per rafforzare l’indipendenza della musica dalle emozioni, Zangwill respinge anche la concezione ‘moderata’ di chi, come Jenefer Robinson, sostiene che la musica sia in grado di suscitare nell’ascoltatore solo un certo tipo di emozioni: vale a dire, le emozioni che sono prive di un contenuto intenzionale, e che Robinson chiama “viscerali”. Una di queste emozioni è quella dell’eccitamento. Secondo Zangwill, è plausibile usare questo termine per descrivere alcuni passaggi della Quinta Sinfonia di Shostakovich; così come è possibile che, nell’ascoltare tali passaggi, noi ci sentiamo realmente eccitati, nel senso inteso da Robinson. Tuttavia, precisa Zangwill, la prima asserzione non deriva dalla seconda. Noi non descriviamo la musica come ‘eccitante’ per il fatto che il suo ascolto ci provoca la sensazione di eccitamento, ma per il fatto che “udiamo” affiancata dall’esercizio della ‘percezione estetica’, ovvero del ‘gusto’. Ora, interessante per noi è evidenziare che in antitesi con la concezione realista delle proprietà estetiche difesa da Zangwill troviamo la concezione antirealista di Scruton. Scruton in realtà non insiste più di tanto sulla forza persuasiva dell’argomento antirealista che rivolge direttamente contro questa teoria, si accontenta piuttosto di sottolineare la particolare natura delle qualità emozionali (e affettive) delle opere d’arte, che egli, seguendo una consuetudine consolidata, è lieto di descrivere come qualità ‘terziarie’. Posto che non vi siano caratteristiche di livello-inferiore e normalmente percepibili di fronte alle quali una persona che non percepisce una proprietà estetica di un certo oggetto è per tal motivo cieco, si può comprendere come Scruton colleghi la ‘percezione’ di una proprietà estetica alla percezione delle apparenze (o aspetti), ovvero al ‘vedere-come’ (essendo le apparenze i paradigmi delle qualità terziarie). La sua posizione può essere dunque così riassunta: sentire la tristezza della musica non è una questione che riguarda un sentire che, ma (riguarda) un sentire come − sentire la musica come triste. Si tratta di una forma di sentire/udire immaginativo. Quello delle proprietà estetiche è un problema centrale nell’attuale discussione, e per certi versi legato alla questione dell’espressività, cui non abbiamo dedicato una specifica attenzione per limiti di spazio e per salvaguardare l’unità della trattazione. Per un approfondimento rinviamo in questo caso alla lettura dell’articolo di Malcolm Budd, Aesthetic Realism and Emotional Qualities of Music, “The British Journal of Aesthetics”, 45, 2005, pp. 111-122. 198 N. Zangwill, Music, Metaphor, and Emotion, cit., pp. 394-395. 141 l’eccitamento nella musica, ovvero percepiamo in essa la proprietà estetica dell’eccitamento, da sola o, più probabilmente (come implicato dalla tesi dell’intreccio), in congiunzione con altre proprietà estetiche (come l’essere ‘tumultuosa’, ‘stridente’, aggressiva’, e via dicendo). L’eccitazione di cui parla Robinson segue tale percezione, e non la precede; inoltre essa può darsi come può non darsi (non è una conseguenza necessaria del nostro udire la proprietà dell’eccitamento nella musica). Con ciò Zangwill ribadisce una volta di più che le nostre descrizioni della musica in termini emotivi dipendono dalla rilevazione di proprietà estetiche presenti nella musica, piuttosto che dal nostro provare determinati stati d’animo. Questo tuttavia non vuol dire che Zangwill intenda l’esperienza della musica come un’esperienza asettica, fredda e distaccata. È infatti incontestabile il fatto che la musica, in particolare la grande musica, ci procuri un’esperienza speciale, intensa, gratificante: in una parola, piacevole. Di che tipo di piacere si tratta? Muovendosi su una linea già tracciata da Hume e Kant, Zangwill precisa che si tratta di un tipo di piacere particolare, sia per quanto riguarda la sua natura − il piacere che l’ascolto della grande musica ci procura è tale da portarci in uno stato di totale assorbimento, rapito ed estatico −, sia per ciò che concerne le cause che ne sono alla base. Il piacere estetico è infatti legato alla percezione della bellezza della musica, la quale è una proprietà superiore a tutte le altre proprietà estetiche ‘sostanziali’ (come l’essere una musica ‘eccitante’, ‘bramosa’, ‘appassionata’, ‘arrabbiata’, e via dicendo), dalla cui combinazione (“intreccio”) deriva per l’appunto la qualità della bellezza − secondo una visione piramidale delle proprietà estetiche messa a punto dallo stesso Zangwill in The Beautiful, The Dainty and the Dumpy 199 . Pertanto, come, dal punto di vista metafisico, la bellezza deriva dalle proprietà estetiche sostanziali, così, dal punto di vista esperienziale, il piacere associato alla percezione della bellezza deriva dalle diverse reazioni estetiche associate alle percezione delle suddette proprietà estetiche. Tali reazioni non sono, vale la pena ricordarlo, necessariamente delle emozioni: quando ascoltiamo una musica descrivibile come ‘arrabbiata’, noi non diveniamo per forza arrabbiati (mancando l’oggetto intenzionale di una siffatta emozione, come potrebbe essere qualcuno che ci sta offendendo), ma reagiamo esperienzialmente alla percezione, nella musica, di una siffatta proprietà, che descriviamo metaforicamente come ‘arrabbiata’. Se poi siamo fortunati, la musica è meravigliosamente arrabbiata e l’ascoltarla ci procura un grande piacere. Non si può non rilevare come qui la teoria di Zangwill ricalchi quella di Kivy, il quale in 199 Zangwill, The Beautiful, the Dainty and the Dumpy, “The British Journal of Aesthetics”, 35, 1995, pp. 317-329. Vedi anche Id., The Metaphysics of Beauty, Cornell University Press, Ithaca, 2001. 142 maniera del tutto simile, come abbiamo già avuto modo di vedere, sostiene che la musica ci procura un particolare sentimento di eccitazione (estasi, direbbe Zangwill) quando è, ad esempio, splendidamente malinconica, il che vuol dire che non solo possiede la proprietà della malinconia, ma la incarna in una maniera che è musicalmente bella 200 . 200 Vedi Kivy, Feeling the musical emotions, cit. L’eccitazione di cui parla qui Kivy non è l’eccitazione ‘viscerale’ della Robinson (la quale usa tale termine per descrivere un sentimento simile a quello che proviamo al termine di una corsa), ma è vicino all’estasi di cui parla Zangwill (Kivy afferma infatti che il termine ‘eccitazione’ non è nemmeno adeguato a descrivere il sentimento che proviamo di fronte alla bellezza della musica, che a ben vedere è un sentimento privo di un nome specifico). 143 4. Roger Scruton: immaginazione e metafora Nella riflessione musicale di Roger Scruton 201 , due sono i termini fondanti e imprescindibili: l’immaginazione che è la facoltà che rende possibile il costituirsi dell’esperienza dell’ascolto musicale, e il regime metaforico come modalità descrittiva della musica. Partiamo dal primo dei due termini, e vediamo in che modo esso viene introdotto dal filosofo inglese nei suoi scritti riguardanti la filosofia della musica. Scruton distingue nettamente il regno dei suoni fisici dal regno della musica. Non si tratta di una differenza meramente quantitativa o di grado, bensì è in gioco un vero e proprio salto qualitativo. I suoni sono parte del mondo naturale, sono fenomeni ‘trovati’, per così dire, mentre la musica coinvolge la sfera dell’intenzionalità e dell’immaginazione umana. Il dualismo prospettato da Scruton ci riporta direttamente, attraverso un approccio antropologico di stampo kantiano, alle due modalità attraverso cui si può parlare di uomo: a) la modalità “fisiologica”, nella quale egli come essere di natura è capace di percepire suoni grazie alla conformazione fisica del suo apparato percettivo, e (b) la modalità “pragmatica” che, nella terminologia di Scruton, assume l’accezione di intenzionalità immaginativa, come condizione razionale che (ci) permette di proiettare il (nostro) pensiero in un orizzonte speculativo lontano dal presente e dal luogo attuale, attraverso i mondi del possibile e dell’impossibile. 201 Roger Scruton è un personaggio poliedrico, polemico e oggetto di polemiche. La sua formazione culmina nel conseguimento del titolo di Philosophiæ Doctor a Cambridge, con una tesi in estetica poi confluita nella sua prima pubblicazione, Art and Imagination. Successivamente anche la sua carriera accademica si svolge interamente nel mondo anglofono; attualmente insegna filosofia presso l’università cattolica Institute for the Psychological Science in qualità di Research Professor, dividendosi tra Washington e Oxford. I suoi interessi filosofici sono quindi orientati verso l’estetica, la musica in particolare, ma spaziano anche nella morale e soprattutto nella politica. Oltre a essere portavoce di istanze conservatrici, è stato anche protagonista attivo, ad esempio in Repubblica Ceca come supporto ai dissidenti del regime comunista. Naturalmente la sua posizione politica e il suo attivismo, unitamente ad altre particolarità come la sua difesa della caccia alla volpe, lo rendono un personaggio spesso al centro di dibattiti. Anche la risonanza di Scruton in Italia è incentrata soprattutto su questioni di ordine politico. «Quelli che lo odiano, tutti politicamente corretti, lo definiscono uno dei maggiori reazionari e clerico-fascisti europei. Quelli che lo amano lo considerano uno dei pochi maestri coraggiosi del pensiero occidentale». Come giornalista scrive sugli argomenti più disparati, dalla religione al vino. È anche autore di romanzi e compositore: The Minister e Violet sono le sue due opere in musica. Tra i suoi lavori più significativi ricordiamo: Art and Imagination, cit; The Aesthetics of Music, cit; Representation in Music, “Philosophy”, 51, 1976, 273-287; Absolute Music, in “Sadie”, ed., Vol. I, 1980a, 26-27; The Natural of Musical Expression, in “Sadie”, ed., Vol. 6, 1980b, 327-332; Programme Music, in “Sadie”, ed., Vol. 15, 1980c, 283-287; The Semiology of Music, in “The Politics of Culture and Other Essays”, Carcanet Press, Manchester, 1981, 75-79; Analytical Philosophy and the Meaning of Music, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 46, Analytic Aesthetics, 1987, 169-176. 144 L’esperienza musicale, come peraltro altre modalità di intervento e di azione dell’uomo nel mondo, è una sorta di innalzamento, di presa di distanza dalla finitezza naturale per dislocarsi su un piano di intenzionalità immaginativa. L’essere di ragione è aperto al mondo come un immenso e imprevedibile teatro di eventi da interpretare e modificare per compiere se stesso attraverso il compimento del mondo. L’attività cognitiva quotidiana coinvolge la percezione, la credenza, e la raccolta di informazioni. Si tratta di un’attività comune a molte specie animali, e non è certo distintiva dell’uomo. Tuttavia gli esseri razionali – di cui l’uomo e la divinità sono i soli esempi conosciuti – hanno delle capacità che non possono trovarsi altrove. L’immaginazione è una di queste 202 . L’immaginazione estetica è un fatto della musica nella misura in cui questa sia capace di emanciparsi dal mondo fisico dei suoni per configurarsi come tramite tra l’essere razionale e l’universale delle realtà immateriali; rappresentando quel ponte ideale capace di instaurare una relazione cognitiva tra i due piani. Se dunque l’immaginazione è un fatto della musica, la musica è un fatto dell’essere razionale, e la sua caratteristica è quella di uno sdoppiamento ontologico attraverso due distinte forme di realtà: quella oggettiva esperienziale della percezione e quella immateriale del pensiero immaginativo. Qui, e solo qui, agisce la razionalità come caratteristica esclusivamente umana che consente di esperire l’universale attraverso la pratica conoscitiva delle arti, della cultura e del linguaggio. Nell’esperienza estetica, l’immaginazione si avvale di un ulteriore elemento che Scruton definisce nei termini di “competenza”. L’immaginazione razionale, informata dalla “competenza”, consente quindi di manipolare la realtà attraverso un complesso apparato simbolico, per dislocare in due diversi ambiti cognitivi le cose reali e le apparenze, ovvero la concettualizzazione delle apparenze che, emendate dalla necessità della credenza, restano sospese nello spazio virtuale dell’esperienza estetica accanto agli oggetti materiali, senza alcuna aspettativa derivante dalla necessaria concatenazione vedere = credere. Poniamo che io veda un uomo che sta in piedi di fronte a me con atteggiamento minaccioso. Il mio istinto è di stare in guardia. Mi aspetto qualcosa e la temo; e rispondo in accordo con tale paura. Il mio comportamento è adeguatamente spiegato dal fatto che ciò che io ve202 Roger Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 88. 145 do è anche ciò che credo che sia lì. In effetti, vedere, in questo caso, è anche credere 203 […]. Supponiamo ora che io veda un uomo che sta in piedi con lo stesso atteggiamento minaccioso, ma che fa parte di un dipinto. Il mio istinto è di vedere, di studiare, di apprezzare con piacere questa meditazione sul fenomeno della collera. Non mi aspetto nulla, non temo nulla, e sono interamente assorbito dal modo in cui le cose appaiono. Qui il mio comportamento è spiegato dal fatto che ciò che io vedo è anche ciò che io credo che non sia lì. Io sto ‘guardando senza credenza’ 204 . Tale condizione consente uno stato di pura contemplazione, dove l’esperienza è coscienza del sé che si proietta attraverso visioni in cui il suo oggetto è l’oggetto di un mondo parallelo che nulla condivide con quello delle cose materiali: due mondi copresenti, ma non relazionati. L’esperienza musicale è quindi una speciale realtà dualistica in cui operano tanto un sistema progettuale organizzato di note, accordi e melodie, quanto un parallelo ma distante sistema immaginativo capace di coglierne il senso come oggetto intenzionale, senza desumerlo dalla “forma” che la manifesta come tale nella realtà fattuale. Senza questo senso speciale, note, accordi e melodie ricadrebbero sotto il dominio indeterminato dei suoni non significativi. Non si tratta di ascoltare, spiega Scruton, la musica come in una sorta di presente allargato in cui la ritenzione memorativa del gioco degli accordi precedenti dispone allo sviluppo dell’ascolto in atto nei termini di uno schema combinatorio consequenziale, poiché nell’esperienza in divenire dell’ascolto, un nuovo accordo, non si aggiunge come effetto di una gerarchia generativa, bensì nel modo in cui tutta la melodia, gestalticamente ne risulta ridefinita nell’immanenza di un’apprensione immaginifica ed estetica, che prescinde dalla somma computazionale dei suoni in essa contenuti. In quanto razionale, l’immaginazione non è arbitraria ma anzi può rivendicare a sé contenuti cognitivi nella misura in cui è pur sempre l’oggetto sensibile a innescare quella relazione attraverso cui la facoltà immaginativa può concettualizzare la visione estetica. Ma in che misura tali visioni sono veramente nell’oggetto nel quale esse sono udite? La loro oggettività dice Scruton è perlomeno messa in discussione dal fatto che solo gli esseri dotati di immaginazione sono in grado di percepirle: 203 204 Corsivo mio. Roger Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 89. 146 Come ogni oggetto della percezione immaginativa, esse sono soggette alla volontà, e sono l’oggetto di scelte consapevoli o inconsapevoli. Questo è ciò che rende possibile la critica, qui come nel caso della pittura. Si possono fornire delle ragioni per sentire i colpi di percussione che aprono il Concerto di Violino Op. 61 di Beethoven come una prolungata battuta in levare, o parte della melodia; la scelta risiede nell’ascoltatore. Se guardiamo attentamente al parallelo con i dipinti, vedremo che la percezione musicale coinvolge tutte quelle caratteristiche che ho attribuito all’immaginazione, e non potrebbe esistere nella mente di una creatura incapace di avere un pensiero immaginativo 205 . Il rischio di un radicamento dell’immaginazione all’interno di contesti individuali, sembra comunque scongiurato: Scruton è un antirelativista per eccellenza, e l’eliminazione del rapporto causalistico strumento-suono o in altri contesti suonomusica non va inteso come precondizione liberatoria in grado di favorire il libero esercizio di suggestioni immaginative o fantasiose slegate da ogni necessità e prive di contenuto cognitivo. La musica rimane quell’elemento unificante che si costituisce nell’esperienza d’ascolto come condizione capace di vincolare a sé l’immaginazione di un’idea condivisa o almeno condivisibile; in quanto facoltà razionale degli esseri umani essa aggrega il singolo in un’esperienza allargata, laddove il rapporto interno/esterno si risolve nell’idea di ispirazione kantiana di un terreno comune costituito dalle tradizioni sociali, religiose e culturali, intese come patrimonio storico irrinunciabile delle civiltà e dal quale il dato sensibile riceve la sua verificazione etica nella connessione con le categorie concettuali umane. 4. 1 Suoni e note Per meglio chiarire quanto detto fin qui a proposito del ruolo ricoperto dall’immaginazione nel costituirsi dell’esperienza musicale, sarà opportuno fare un passo indietro, e analizzare con attenzione quello che è il punto di partenza del pensiero di Scruton, vale a dire la distinzione tra suoni e note 206 . 205 Ivi, pag. 94. Usiamo qui il termine ‘nota’, anziché ‘tono’, per tradurre l’originale ‘tone’ usato da Scruton. La nostra scelta deriva dal fatto che nel linguaggio comune è decisamente più usato il primo termine, dato che il secondo non può essere compreso senza far riferimento all’organizzazione tonale che è sottesa a gran 206 147 I “suoni” sono sensazioni causate dalla vibrazione di un corpo in movimento che propagandosi nell’aria con diverse frequenze e intensità giungono alla percezione sensoriale attraverso un apparato fisiologico che le trasforma in sensazioni uditive correlate alla natura della vibrazione originaria. Per “nota”, comunemente si intendono due cose: il segno in cui si rappresentano i suoni usati nella musica e le singole occorrenze sonore a essi conformi, generate da strumenti o dalla voce umana. La classe dei suoni naturali risulta sovradimensionata rispetto a quella delle note che in quanto occorrenze fanno quindi riferimento a due diverse classi di entità: quella immediata dei suoni naturali, e quella dinamica organizzata all’interno di una certa teoria musicale. I suoni naturali non vanno intesi nell’accezione di suoni della natura, (anche un suono emesso da uno strumento rimane in primis un suono naturale), bensì in quella più ampia di vibrazioni che producono una perturbazione di carattere oscillatorio che si propaga attraverso un mezzo elastico. Una “nota” produce lo stesso tipo di perturbazione fisica di un suono ordinario, potendosi entrambi definire nei termini di numero di oscillazioni (variazioni di pressione) misurabili in cicli al secondo (hertz). Ne consegue che nessun tipo di analisi empirica potrebbe distinguere una nota da un suono ordinario, o per citare direttamente Scruton: “l’estensione nel mondo materiale di ciascun concetto (ciascuno dei due) è la stessa” 207 . Ciò che segna il passaggio dal mondo dei suoni al mondo delle note va quindi cercato non in determinate proprietà degli oggetti, ma nelle facoltà dei soggetti, ovvero degli ascoltatori. Ma procediamo per gradi, e cerchiamo di ripercorrere il percorso compiuto da Scruton. Il filosofo inglese inizia constatando una vicinanza dei suoni ai colori, in quanto entrambi dipendono dall’esercizio di un’unica modalità sensoria (rispettivamente, l’udito e la vista): essi (i suoni) “sono oggetti dell’ascolto più o meno nella stessa maniera in cui i colori sono oggetti della vista, e sono assenti nel mondo delle persone sorde, proprio come i colori sono assenti nel mondo delle persone cieche” 208 . I filosofi hanno tradizionalmente classificato come secondarie le qualità che sono oggetto di un’unica modalità sensoria, in quanto contrapposte a quelle qualità, etichettate come primarie, le quali possono essere rilevate anche attraverso altre modalità (si pensi alla parte della tradizione musicale classica occidentale − tradizione che rimane comunque, vale la pena ricordarlo, l’orizzonte entro cui la riflessione scrutoniana si dipana. 207 R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 93. 208 Ivi, pag. 1. 148 forma di una moneta, che può essere percepita anche col tatto, oltre che con la vista). Di certo i colori sono qualità secondarie, in quanto la loro rilevazione dipende da come gli oggetti appaiono a degli osservatori qualificati posti in condizione standard di osservazione: essi, in questo senso, costituiscono il “rivestimento fenomenico” delle cose. Tuttavia, osserva Scruton, i suoni, a differenza dei colori, non possono essere considerati qualità secondarie, poiché non sono affatto delle qualità. I colori, infatti, vengono percepiti in quanto appartenenti a certi oggetti: noi acquisiamo familiarità col colore blu osservando oggetti blu, e così via. Viceversa, i suoni non appartengono agli oggetti che li determinano causalmente, ma sono emessi da questi. Ciò significa che “sebbene ogni suono debba avere una causa, da ciò non segue che esso debba anche essere emesso dalla sua causa, o che debba essere inteso come il suono che ha quella causa” 209 . La separabilità del suono dalla sua causa ha secondo Scruton delle importanti conseguenze. La principale riguarda il fatto che i suoni possono essere esperiti come “eventi puri”, come “suoni a sé stanti”, distinti dalle cause fisiche dalle quali pure essi dipendono − il che non accade con la nostra esperienza ordinaria, in cui normalmente quando assistiamo a un dato evento, noi percepiamo degli oggetti che agiscono e si modificano. Teoricamente è possibile immaginare una “stanza della musica” entrando nella quale noi sentiamo dei suoni, ma in cui non sono rinvenibili le fonti del suono stesso, che viene quindi esperito “acusmaticamente” 210 . Ciò significa che noi possiamo sentire i suoni come abitanti un mondo tutto loro, e come organizzati primariamente entro la dimensione temporale, mentre la dimensione spaziale non può che essere solo immaginata metaforicamente. La separazione tra i suoni e le loro sorgenti è il primo passo per comprendere la natura della musica, che, secondo Scruton, va innanzitutto definita come “arte del suono” 211 . Tuttavia, non ogni suono è musica (si pensi al suono di una fontana, la quale sia stata creata sotto la guida di un’intenzione estetica). Si potrebbe allora aggiungere la seguente caratterizzazione: la musica è l’arte del “suono organizzato”. Ma anche questa aggiunta non è sufficiente a delimitare il nostro ambito di ricerca, in quanto anche la poesia è un’arte del suono organizzato − dalle regole della sintassi e della semantica, come dall’intenzione del poeta e dalle aspettative del lettore. È necessario specificare allora di che tipo di organizzazione si serve la musica. A tal fine può essere d’aiuto, di- 209 Ivi, pag. 2. Ivi, pp. 2-3. Il termine ‘acusmatico’ è desunto dai Pitagorici, i quali ascoltavano parlare il loro maestro al di là di un telo che lo nascondeva alla vista, ed erano chiamati akousmatikoi. 211 Ivi, pag. 16. 210 149 ce Scruton, fare un parallelo con quanto accade alle parole che utilizziamo per dialogare con altre persone. Ogni suono emesso intenzionalmente dalle persone viene istintivamente interpretato come un tentativo di comunicazione. Esso rimane però un puro suono privo di significato, fino a che non viene percepito all’interno di un campo di forze organizzato, che nel caso del linguaggio è rappresentato dalla grammatica, la quale fa sì che il suono venga percepito come una parola con un proprio significato. Qual è il campo di forze che trasforma un suono in una nota, e un insieme di suoni in musica? Per stabilire ciò, è sufficiente secondo Scruton prendere in considerazione quelle che sono le opere d’arte (musicali) paradigmatiche della nostra tradizione, ovvero i capolavori indiscussi della musica classica occidentale, tralasciando invece i casi-limiti che si possono rinvenire nel modernismo e nel post-modernismo. Lo studio di tali opere ci dice che l’organizzazione alla quale sottostà l’arte musicale dei suoni è l’organizzazione della musica tonale. I suoni diventano musica quando noi, in quanto esseri razionali dotati di immaginazione, percepiamo, nell’ascolto, qualcosa in essi; questo ‘qualcosa’ è il tono, o nota, ed è dotato di una propria forza, in virtù della quale lo udiamo come “derivante” da altri suoni/note e “conducente” verso altri suoni/note. Quando ascoltiamo la musica, noi udiamo le note come sottostanti a una “causalità virtuale”, ulteriore a quella fisica che regola le relazioni tra i suoni corrispondenti; in virtù di tale causalità virtuale noi percepiamo un movimento − immaginato, metaforico − tra le note che si succedono temporalmente 212 . Questo modo di intendere la musica si applica a tutte e quattro le principali forme di organizzazione musicale, vale a dire l’altezza, il ritmo, la melodia e l’armonia. Concentriamoci sulla seconda e sulla terza delle forme appena menzionate. Per quanto riguarda il fenomeno del ritmo, Scruton respinge le teorie che fanno capo a spiegazioni di tipo generativo 213 in quanto rendono conto di un solo aspetto del ritmo: quello del metro, esplicato in termini di divisione della battuta in valori a loro volta divisibili. Similmente Cooper e Meyer 214 commettono lo stesso errore, confondendo il ritmo, con uno solo dei suoi aspetti, teorizzato attraverso il raggruppamento di una o più pulsazioni non accentate in relazione a una pulsazione accentata. Teorie di questo tipo tendono a ricondurre il problema in termini di rapporti materiali ai quali secondo Scruton il ritmo non è mai riconducibile; affiorando da uno 212 Ivi, pp. 16-20. Spiegazioni di questo tipo sono quelle che provengono, spiega Scruton, dalla psicologia cognitiva. Cfr. H. C. Longuet-Higgins, Mental Processes: Studies on Cognitive Science, MIT Press, Cambridge, 1987. 214 Cfr. G. Cooper, L. B. Meyer, The Rhythmic Structure of Music, cit. 213 150 sfondo virtuale generato dall’immaginazione, esso non dipende dalla regolarità del battito, ma dalla fluidità della pulsazione vitale. Nel ritmo non cogliamo un calcolo, ma […] una sorta di animazione. Il ritmo coinvolge la stessa causalità virtuale che troviamo nella melodia. I battiti non si susseguono uno dopo l’altro; si pongono in essere l’un l’altro, si rispondono vicendevolmente e respirano animati da una stessa vita. L’organizzazione che ho appena descritto non è una possibile organizzazione di suoni, costruiti come oggetti materiali. Ma è un’organizzazione di oggetti mentali, che conosciamo intimamente dalla nostra esperienza interiore: l’esperienza della vita consapevole di sé in quanto vita 215 . Non si può quindi comprendere il ritmo se non si considerano tanto la varietà di aspetti che lo determinano − la regolarità, la pulsazione, la distinzione tra battere e levare, i raggruppamenti, gli accenti, l’enfatizzare una nota o l’altra, la stretta connessione con la melodia (ogni pulsazione è infatti associata ad un frammento melodico) − quanto la sua natura intrinsecamente metaforica. Non si può infatti descrivere il ritmo se non facendo ricorso a espressioni metaforiche come “pulsazione vitale”, “esperienza della vita”, o “organismo che respira” 216 . Le stesse caratteristiche di complessità e di metaforicità si applicano anche all’esperienza della melodia. La melodia è un tipo particolare di Gestalt musicale: essa è l’unità che si instaura tra le note che si succedono, ma anche tra micro-unità come frasi e motivi. Da questo punto di vista, la melodia si distingue tanto dall’armonia − la quale è una Gestalt in cui però vari elementi vengono percepiti simultaneamente come unitari, mentre la Gestalt melodica è un’unità di elementi che si succedono nel tempo − quanto dal ritmo − in quanto la melodia, a differenza del ritmo, è percepita come un “individuo musicale”, reidentificabile e riconoscibile (da ciò deriva il frequente utilizzo, da parte dei compositori, della tecnica della variazione melodica, che senza la possibilità di riconoscere delle unità individuali melodiche che sono sottoposte a trasformazione non avrebbe alcun significato). Il riconoscere una melodia come unità organica e non come mera somma di elementi richiede l’esercizio dell’immaginazione, attraverso la quale riconosciamo un inizio e una fine della melodia (una stessa nota può essere sentita come la fine di una melodia o come l’inizio di un’altra), in virtù del riconoscimento di una dinamica interna alla musica in corrispondenza della quale ‘segmentiamo’ la melodia in parti che si ‘muovono’ ineso215 R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 35. Espressioni, queste, che secondo Scruton non possono essere applicate alla musica pop, in cui il semplice battito sostituisce quell’intima connessione tra ritmo e melodia che ci fa percepire la musica stessa non come una macchina ma come un organismo che vive e respira. 216 151 rabilmente (ovvero guidate da un’intima necessità) l’una verso l’altra all’interno di uno spazio che non può che essere metaforico (dato che non c’è nulla, qui, che occupa letteralmente una posizione). Percepire il movimento musicale è quindi di fondamentale importanza, poiché esso è “la realtà di sfondo su cui le melodie prendono forma” 217 . Riassumendo, Scruton ritiene che per comprendere la musica sia necessario distinguere non solo il suono dalla sua sorgente materiale, ma anche il suono dalla nota: solo quest’ultima è l’oggetto intenzionale dell’esperienza musicale. Non bisogna però incorrere nell’errore di considerare suoni e note come entità individuali distinte: esse sono piuttosto due modi diversi di concepire una medesima realtà, allo stesso modo in cui lo sono mente e corpo per Spinoza. L’esperienza musicale è e rimane indubbiamente un dato reale nella misura in cui si dispiega in uno spazio fisico attraversato da vibrazioni che colpiscono i nostri sensi per un tempo determinato definito da un inizio e da una fine; tuttavia è la sua comprensione nei termini di organizzazione tonale a renderla pienamente reale, vale a dire reale per noi (uomini). In noi la musica è conoscenza e insieme movimento: movimento immaginario di suoni all’interno di uno spazio virtuale in cui le note si muovono ora verso il basso ora verso l’alto, e che non va confuso con quello esemplificato dal diagramma musicale, dove il rapporto significatosignificante si risolve in un ordine necessitato da un sottostante codice analogico nel quale ogni segno è conforme al suo manifestarsi come nota all’interno dell’esecuzione. La realtà musicale acusmatica proposta da Scruton fa invece riferimento a un ben più complesso sistema di significati in cui agisce uno sfondo etico: quando egli dice che una nota è conseguenza di quella che la precede, lo è nella misura in cui ne è ragione (ragione umana) e non conseguenza necessitata da rapporti causali descrivibili nei termini discorsivi delle asserzioni sui fatti. Sottratta ai parametri che guidano il criterio di oggettività scientifica, la musica in quanto oggetto immaginario non è e non può essere né vera né falsa, configurandosi piuttosto nei termini di una tensione morale in vista di un “dover essere” in cui “etica ed estetica sono una cosa sola” 218 . La nostra esperienza della musica sarà dunque esperienza di un mondo immateriale. Ha ancora senso parlare di esperienza? Che tipo di esperienza possiamo sperare di conseguire, ovvero: in che modo e in quali ambiti possiamo parlare di musica? Negli ultimi decenni il dibattito estetico si è spesso trovato diviso tra una serie di alternative, una di queste riguarda il problema delle qualità che attribuiamo alla mu- 217 218 Ivi, p. 155. R. Scruton, Art and Imagination. A study in the Philosophy of Mind, cit., pag. 249. 152 sica (comprese quelle espressive). Sono proprietà reali o vanno piuttosto intese in senso metaforico? E se sono metaforiche, in che senso lo sono? Potremmo togliere di mezzo la metafora e descrivere l’oggetto dell’esperienza musicale senza che si dipenda da essa? 4. 2 Metafora Ci sono dei contesti, sostiene Scruton, nei quali le metafore sembrano essere indispensabili 219 : non solo in quanto fanno parte di un’esperienza letteraria unica, ma in quanto le stiamo utilizzando per descrivere qualcosa che è altro dal mondo materiale, in particolare in quanto stiamo cercando di descrivere come il mondo “appare” dal punto di vista dell’immaginazione attiva. E questo è il caso di quando ascoltiamo la musica 220 . Riprendiamo brevemente l’esempio del quadro raffigurante la figura di un uomo minaccioso, che, citando direttamente le parole del suo autore, avevamo già incontrato, per svilupparlo ora in una chiave di interpretazione più prettamente metaforica. In quel contesto avevamo lasciato l’esperienza estetica sospesa in una dimensione puramente contemplativa nella quale al vedere non conseguiva una richiesta di verificazione oggettiva: “Ciò che io vedo, è anche ciò che io credo che non sia lì ” 221 . Si tratta di un mondo che esiste senza esistere accanto a quello materiale nel quale invece il vedere coincide necessariamente con la credenza di vedere per davvero. Abbiamo appreso come i due mondi, co-presenti nella realtà, sono tuttavia separati da un’abissale distanza, la medesima che separa l’essere di ragione dall’essere di natura o, per essere più precisi, l’essere umano nella sua dualistica e contemporanea appartenenza a due mondi diversi. Qui il tentativo di trovare una relazione tra il dato sensibile della necessità e quello intellegibile dell’immaginazione, ci riporta ancora una volta al progetto kantiano della terza critica, o meglio ad una delle sue possibili chiavi di lettura che possiamo scorgere nel paradigma della “doppia intenzionalità” proposto da Scruton: 219 Corsivo mio. R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 91. 221 Ivi, pag. 89. 220 153 Quando vedo un dipinto, e l’uomo in esso ritratto, l’intenzionalità della percezione può sdoppiarsi, proprio in quanto non vi è conflitto tra le immagini. Non sono diviso tra credenze rivali, come lo sarei invece di fronte a un affresco trompe l’oeil, e non devo chiedermi se ho di fronte un dipinto o un uomo. Posso accostarmi ad esso come a uomo o come dipinto, proprio in quanto l’uomo non appartiene al mondo nel quale il dipinto è collocato. Credo che l’oggetto posto di fronte a me sia un dipinto, e semplicemente rifletto sull’uomo che sta all’interno di questo. Questa è la peculiare esperienza che l’immaginazione rende possibile: l’incontro del pensiero detto e nondetto 222 . È questo il punto centrale in chiave gnoseologica della concezione metaforica di Scruton: la trasposizione di un’immagine in un’altra si connette con la teoria dell’immaginazione estetica, nella misura in cui è la distanza (logica) che pareva incolmabile tra i due termini e non la loro vicinanza 223 (fisica) a consentire l’innesco delle due differenti concettualizzazioni del pensiero: quello detto (asserito) e quello non-detto (non-asserito), che in chiave puramente esemplificativa possiamo far corrispondere in ultima analisi a ciò che accade nella metafora tra il soggetto e il predicato. Il “focus” della metafora (terminologia che Scruton mutua da M. Black) cioè il predicato oggetto della trasposizione è parimenti importante, quanto il contesto letterale che lo accoglie. Scruton tende costantemente a mantenere soggetto e predicato all’interno di un rapporto di “appropriatezza” che li unisce e separa nello stesso tempo, nella misura in cui il significato denotativo del predicato applicato, mantiene la sua integrità indenne rispetto all’operazione della trasposizione, laddove invece nella concezione interattiva di Black esso si disperdeva come abbiamo visto in un sistema connotativo molto più instabile di “implicazioni associate” capace (almeno potenzialmente) di determinare un effetto dòmino, a carico di tutto il linguaggio dove i nomi perderebbero progressivamente il loro significato denotativo a causa della reciproca interferenza (interattività) tra soggetti e predicati. Non possiamo esimerci dal ritornare se pur brevemente alla teoria interattiva esposta in Metaphor da M. Black che rappresenta il momento stesso della trasformazione in chiave moderna della concezione della metafora, e segna l’evoluzione da concezioni definite sostitutive o comparative di derivazione storica (spesso fraintese) a 222 Ivi, pp. 89-90. Oppure somiglianza, in tal caso dovremmo specificare cos’è una somiglianza e dovremmo farlo ricorrendo ancora una volta ad Aristotele … per il momento lasciamo quindi “vicinanza” (per non complicare le cose) vicinanza è un termine generico che non ci costringe ad entrare nel merito, come invece saremmo obbligati a fare parlando di “somiglianza”. 223 154 concezioni cognitive che raccolgono molte delle adesioni nell’attuale dibattito filosofico intorno allo statuto del discorso metaforico. L’impressione però è che se da un lato sembra ormai riconosciuta la valenza conoscitiva assegnata da Aristotele alla metafora, dall’altro come sottolinea Guastini, non sempre la filosofia del Novecento si è interrogata adeguatamente intorno a quale tipo di conoscenza mette in gioco la metafora aristotelica 224 . Senza alcune necessarie precisazioni non saremo in grado di tenere insieme, il dato conoscitivo (cognitivo) con la concezione metaforica comparativa adottata da Scruton (che sarebbe più utile inquadrare col termine di “appropriatezza”) 225 e che invece recupera in pieno all’intenzione aristotelica tutto il suo valore eminentemente conoscitivo riscattandolo da una progressiva delegittimazione gnoseologica, subita attraverso i secoli, a partire come nota ancora Guastini da Cicerone prima e Quintiliano in modo ancora più sistematico poi, [i quali] pur riprendendo spesso parola per parola le argomentazioni esposte da Aristotele nella Poetica e nella Retorica, inseriranno ciò che l’uno chiama translatio e l’altro propriamente metaphora all’interno della dimensione dell’ornatus orationis, dell’ornamento stilistico, avranno di fatto modificato in modo profondo il contesto in cui Aristotele aveva trattato della metafora. Contesto che il filosofo nelle due opere richiama con il termine lexis e che, seguendo l’intendimento aristotelico, sarebbe forse più adeguato allargare all’intero ambito del linguaggio; questo per usare una terminologia moderna, sia al piano dell’espressione che a quello del contenuto piuttosto che, come farà invece la retorica classica, al solo ambito, assai più delimitato, dell’elocutio e dello stile […] Quindi, almeno all’apparenza, un contesto tassonomico, classificatorio quello recepito dalla tradizione della retorica classica, che dell’argomentazione svolta qui da Aristotele coglierà solo questo – che pure c’è, intendiamoci – di carattere stilistico, e che tuttavia non rappresenta affatto il centro dell’argomentazione, né nella retorica e nemmeno, malgrado certe indecisioni, nella Poetica 226 . Il carattere esoterico degli scritti aristotelici, unito ad alcune apparenti contraddizioni tra i due testi Poetica e Retorica, e infine la loro trasposizione in un contesto filosofico che non tiene più conto del dato referenzialistico né dell’orizzonte metafisico 224 D. Guastini, Aristotele e la metafora: ovvero un elogio dell’approssimazione. Questo contributo è il testo di una relazione tenuta a Urbino il 7 Dicembre 2004 in occasione del seminario di studi: Vedere il simile nel dissimile: la metafora in Aristotele e il simbolo in Kant, tenutosi presso l’istituto di filosofia Arturo Massolo dell’Università di Urbino, pag. 2. 225 Sostitutiva è il termine adoperato in chiave riduttiva come sinonimo di superfluo, e per estensione superflua, decorativa ecc, vedi M. Black, Modelli Archetipi metafore, cit. Appropriatezza è il termine che più si avvicina a “vicinanza prossemica” termine introdotto da Aristotele nella Poetica. 226 D. Guastini, Aristotele e la metafora …., cit., pp. 1 e 4. 155 del contesto originario, fanno sì che l’idea aristotelica si sia dispersa, dalla scolastica fino al secolo scorso, attraverso una serie di letture, che non si configurano come interpretazioni più o meno adeguate, ma finiscono adesso per dare origine a una vera e propria dicotomia. Ripristinare come punto centrale il carattere di “appropriatezza” dell’uso figurato del linguaggio esemplificato dalla trasposizione metaforica aristotelica, (e ugualmente dalla similitudine) è per Scruton una condizione imprescindibile ed equivale a mostrarne tutto il suo contenuto cognitivo, contro certe interpretazioni, che (come si evince dalla breve ricostruzione che segue) celebrano invece l’arbitrarietà della trasposizione predicativa e della sua stessa connotazione come quella condizione che renderebbe eminentemente alla metafora, (contro la similitudine) l’esclusivo possesso del dato conoscitivo gnoseologico e che l’avverbio di paragone “come” negherebbe ipso facto. Sostiene M. Black : Uno dei rischi di occuparsi soprattutto di ciò che ho chiamato «motivi metaforici» è quello di postulare una risposta standard 227 a una data asserzione metaforica, risposta determinata da convinzioni linguistiche, concettuali o d’altro genere. Un tale punto di vista è insostenibile perché l’asserzione metaforica implica una violazione delle regole. Non ci può essere nessuna regola per violare «creativamente» le regole 228 . 4.3 Metafora e similitudine Le teorie metaforiche comparative e sostitutive di derivazione storica sono solitamente considerate da una larga parte del dibattito contemporaneo, come semplici casi di similitudine implicita o, in altre versioni, come la sostituzione di un certo termine con una forma figurata di quel termine; in entrambi i casi è sempre possibile ritornare alla corrispondente formulazione letterale ripristinando il termine originario o facendo emergere in superficie l’avverbio di paragone “come” che distingue una similitudine da 227 Si noti come Black adoperi il termine standard, forzando volutamente i termini della questione, poiché era perfettamente chiaro anche a lui che l’appropriatezza prospettata da Aristotele era in realtà, come si evince dalla retorica, una appropriatezza inappropriata, vale a dire la transazione inappropriata di un predicato appropriato (in sé), quindi tutt’altra cosa rispetto a quel meccanismo automatico che Black vorrebbe suggerire col termine standard. 228 M. Black, Modelli Archetipi Metafore, cit., pag. 107. 156 una metafora. In tal modo la metafora si configura come similitudine ellittica, nella quale l’eliminazione (ma solo superficiale) dell’agente “come” contribuisce all’economicità dell’espressione e le conferisce una suggestione maggiore. La netta distinzione tra linguaggio letterale e linguaggio scientifico rimane preservata poiché una metafora così concepita non presenta nessun problema di interpretazione in quanto la sottostante similitudine necessita e convalida la conseguente espressione metaforica. Ne deriva un’unione che nei termini del paragone preserva l’alterità dei due soggetti, e sacrifica il “senso metaforico” poiché la molteplicità delle somiglianze che può essere colta tra cose dissimili è praticamente infinita così che si può affermare che ogni cosa, sotto certi aspetti, è letteralmente come un’altra cosa. Il secondo polo attraverso cui la retorica classica e medievale ha considerato la metafora, è quello della concezione sostitutiva che per certi aspetti è strettamente connesso al sistema comparativo appena descritto, entrambi si definiscono infatti nei termini di concezioni deduttive necessitate. In questo secondo caso, si assume la preesistenza di un corrispettivo termine letterale per ogni termine metaforico sulla base di un codice in cui ogni espressione metaforica è sostituibile con una equivalente espressione letterale; il lavoro di ricostruzione (parafrasi) consisterà quindi nell’esplicazione della figura retorica e nel ripristino della corrispondente formulazione letterale. In entrambi i casi il prezzo da pagare è alto e si misura nei termini di svalutazione del dato gnoseologico. Ma siamo sicuri che le cose stiano davvero in questo modo, e che la questione sia riconducibile in ultima analisi a una sterile contrapposizione tra contenuto cognitivo da una parte e appropriatezza predicativa (non cognitiva) dall’altra? La questione è tanto controversa che persino I. A. Richards riconosciuto pressocché unanimemente come il precursore delle moderne concezioni metaforiche, e a cui lo stesso Black riconosce alcune intuizioni fondamentali, mostra ancora una malcelata nostalgia verso quelle che definisce “caratteristiche comuni” 229 quando dice che nella trasposizione metaforica una parola o un’espressione deve connotare solo una selezione delle caratteristiche connotate nei suoi usi letterali, e così riducendone di fatto la discrezionalità connotativa, induce Black ad accusarlo di essere ricaduto in una delle più vecchie e meno sofisticate analisi che si tenta di superare 230 . 229 230 Ivi, pag. 56. Ibidem. 157 Questo è il punto di snodo cruciale dell’intera questione, un nodo da sciogliere al più presto per una corretta comprensione di ciò di cui parliamo quando parliamo di metafora. Per precisare ulteriormente i termini della questione, marcandone le differenze, citiamo ancora una volta Scruton che in polemica col nominalista N. Goodman, ci fa sapere che Per metafora intenderò ciò che Aristotele intendeva: l’applicazione deliberata di un termine o di una frase a qualcosa che sappiamo non esemplificare tale termine o frase (se non vi piace questa definizione aperta, potete semplicemente sostituire un altro termine a ‘metafora’). Subito ci si presenta un problema. Se applicate deliberatamente un certo predicato a un oggetto, non state forse dando per scontato che il predicato si applica davvero all’oggetto? Qual è il significato dell’espressione “sappiamo non applicarsi a”? Se siete dei nominalisti, e credete che non vi sia bisogno di ulteriori spiegazioni per giustificare il modo in cui classifichiamo le cose, e che l’applicazione dei predicati sia la fase finale di tale classificazione, allora è davvero difficile distinguere un uso metaforico da altri tipi di usi. L’unica distinzione che ci potrebbe venire in mente è quella tra usi più o meno nuovi. L’uso metaforico sarebbe allora quello al quale non ci siamo ancora abituati. Questa è la teoria della metafora esposta dall’ipernominalista Nelson Goodman ne I linguaggi dell’arte, ed è una teoria che convenientemente risolve la discussione. Troppo convenientemente, però. Se c’è qualcosa che può mettere a nudo l’incoerenza del nominalismo, questo qualcosa è la metafora. Più precisamente, è la nostra consapevolezza della metafora che ci permette di distinguere il caso in cui qualcosa è realmente blu dal caso in cui il nostro giudicare qualcosa come blu poggia essenzialmente sulla sua falsità. Ne siamo così consapevoli che la parola ‘letteralmente’ ha tutto fuorché rimpiazzato le parole ‘veramente’ o ‘realmente’ nel parlare quotidiano 231 . Seguendo Scruton, proviamo a dare un giusto ordine alle cose, cercando di comprendere i limiti (ove ce ne fossero) e il valore (presunto) di ciò che correttamente si intende per attribuzione appropriata di un predicato a un soggetto, all’interno di un’asserzione metaforica. 231 R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pp. 80-81. 158 4.4 Un’appropriata trasgressione Nella referenzialità del contesto aristotelico originale, la trasgressione metaforica porta in luce qualcosa che ontologicamente preesiste, essa quindi non crea nuovi domini di riferimento, il suo scopo va invece compreso nei termini di scoperta più che in quelli di invenzione; la relazione semantica non può infatti in nessun caso prescindere dal rapporto ontologico originario e la metafora deve essere pertanto guidata da un’appropriatezza che la riporta sempre ai suoi attributi naturali. L’arbitrarietà della trasgressione si costituisce non di meno come elemento conoscitivo fondamentale, e attiene unicamente al dispositivo stesso della metafora, ovvero al trasferimento non ortodosso (trasgressivo) delle parole da un contesto a un altro, sebbene il significato delle parole consista poi sempre nella denominazione (e non connotazione) di oggetti. Spostando così il fulcro della significazione metaforica dal contesto dei significati a quello della pragmatica, cioè del loro uso. Lo scopo della similitudine, sostiene Scruton, è identico a quello della metafora: esso non consiste nel descrivere un oggetto (come invece vorrebbe la teoria interattiva) ma nel cambiarne l’aspetto in modo tale che noi rispondiamo ad esso in altro modo. Ciò è possibile perché i termini che vengono usati metaforicamente, come quelli che sono presenti in una similitudine, vengono usati nel senso ordinario 232 . Sono cioè soggetti a una regola, regola che mette fuori gioco molte teorie della descrizione estetica. Quando diciamo metaforicamente che una musica è triste, non siamo chiamati a decidere 233 (implicitamente) quali caratteristiche veicolate dalla tristezza possono sopravvivere e quali soccombere a seguito della trasposizione predicatoria, né in che modo la musica possa presentare certe caratteristiche in grado di accoglierle. Il termine ‘triste’ che viene utilizzato nell’asserzione metaforica ‘questa musica è triste’ è esattamente lo stesso triste che adoperiamo nel linguaggio letterale, cioè nelle situazioni in cui ordinariamente parliamo di tristezza. (Qui Scruton cita a conferma il noto esempio wittgensteiniano del martedì/mercoledì grasso/magro): 232 Ivi, pag. 84. Qui decidere è usato metaforicamente, poiché non esiste un termine adeguato per descrivere la situazione, si tratta infatti di una sorta di decisione implicita. 233 159 Dati i due concetti “grasso” e “magro”, saresti disposto a dire che mercoledì è grasso e martedì è magro, o saresti meglio disposto a dire il contrario? (Io sono propenso a scegliere la prima alternativa). Ebbene, qui «grasso e «magro» hanno un significato diverso dal loro significato ordinario? Hanno un impiego diverso. – Dunque, per parlare propriamente, avrei dovuto usare altre parole? Certamente no. – Qui voglio usare queste parole (con i significati che mi sono familiari). […] Se qualcuno mi chiedesse: «Che cosa intendi, propriamente, con “grasso” e “magro”?» potrei spiegargli i significati di queste parole soltanto nel modo assolutamente ordinario. Non potrei riferirli agli esempi di martedì e mercoledì 234 . L’appropriatezza dell’idea scrutoniana coincide quindi con la deliberata (e non implicita) consapevolezza di utilizzare questa parola, qui dove essa non dovrebbe essere usata, ed è riconducibile alla nozione di “relazione prossemica” introdotta da Aristotele. Tale consapevolezza, che non deve necessariamente intendersi come implicita conoscenza letterale del meccanismo che soggiace dell’asserzione metaforica nei termini della sottostante o esplicita similitudine, va invece compresa in Scruton come intenzione: l’intenzione di invitare qualcuno a condividere l’esperienza estetica della “trasformazione alchemica” 235 di una cosa suggerita nei termini di un’altra, e questo è anche lo scopo di una similitudine, portare alla luce una fusione di esperienze, nei termini della doppia intenzionalità informata dalla persistenza di due contemporanee concettualizzazioni: quella del pensiero detto (asserito) e quella del pensiero non detto, (non asserito) dei quali ci eravamo già occupati e che qui riprendiamo alla luce delle ultime acquisizioni, con un ulteriore approfondimento, citando ancora una volta direttamente l’autore. Quando vedo un volto in un dipinto, in un normale contesto estetico, non sto vedendo un dipinto e un volto; né sto vedendo una somiglianza tra il dipinto e il volto. Il volto e il dipinto sono fusi insieme nella mia percezione. Il che non vuol dire che confondo l’uno con l’altro, o che ne scambio la realtà. Ho di fronte due oggetti simultanei di percezione: il dipinto reale, e il volto immaginario. E la mia risposta all’uno si fonde con la mia risposta all’altro. Ad esempio, rispondo alle linee fluenti e al color carne con delle emozioni e delle aspettative che derivano dall’esperienza che io ho dei volti, e (rispondo) al volto con le emozioni e le aspettative che derivano dal mio interesse per il colore, l’armonia e l’espressività delle linea. La fusione si com- 234 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999 (trad. it. Di R. Piovesan e M. Trinchero), pag. 283 (parte II, § XI). 235 R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 82. 160 pie al più alto livello di interesse razionale, nello stesso tempo in cui si traduce nell’atto percettivo stesso 236 . Un’analoga esperienza si manifesta nella comprensione di una metafora: non stiamo semplicemente pensando il soggetto nei termini letterali del predicato applicato, non stiamo stabilendo analogie e soprattutto non stiamo confondendo gli oggetti che sono simultaneamente immaginati. Al contrario! Come si evince nell’esempio del dipinto, l’effetto dipende proprio dal riconoscimento dell’ineliminabile differenza metafisica tra i due oggetti della nostra visione: quello materiale e quello immaginario. Scruton spiega la “doppia intenzionalità” come una visione simultanea che avviene nella mente quando l’attenzione si concentra sull’apparenza di una cosa (asserita) e contemporaneamente sull’apparenza di un’altra (non asserita). In tal modo le qualità della seconda vengono trasferite simpateticamente e appropriatamente alla prima, realizzando una connessione che è reale nell’immaginazione ma solo immaginata negli oggetti, perché il fascino estetico che attribuiamo ad essi, in realtà risiede dentro di noi nel modo in cui cerchiamo per tramite di essi di conoscere il mondo. Di questo mondo gli oggetti della percezione sono pertanto da intendersi più come mezzo che non come fine della conoscenza. Diverso il discorso quando una metafora è utilizzata per descrivere gli avvenimenti del mondo materiale; in questi casi sostiene Scruton, al di là del valore poetico, misurabile in termini di mera suggestione, non rimane altro e quindi possiamo anche farne a meno (la metafora è qui interpretabile come la “versione stenografata” di una realtà complessa, che possiamo portare alla luce estrapolando dalla metafora il suo significato 237 ); ma, quando il mondo è il mondo della musica così come di ogni altra esperienza in cui opera l’immaginazione, allora la metafore (o la similitudine) si rivelano indispensabili. La metafora indispensabile sopraggiunge quando il modo in cui il mondo appare dipende dal nostro coinvolgimento immaginativo con esso, piuttosto che dai nostri normali fini conoscitivi. E questo è il caso di quando ascoltiamo la musica 238 . 236 Ivi, pag. 87. Posso ad esempio estrapolare il significato dell’espressione metaforica homo homini lupus descrivendo i più conosciuti esempi ed episodi di aggressione dell’uomo nei confronti dei suoi simili. 238 Ivi, pag. 92. 237 161 4.5 Musica e metafora L’altezza di un suono è paragonabile al colore di una luce, sotto questo aspetto: è una qualità secondaria, prodotta da una vibrazione […] inoltre proprio come ogni cambiamento della frequenza delle onde luminose produce una modificazione del colore, così ogni cambiamento della frequenza di un suono ne modifica l’altezza. […] La nostra esperienza dell’altezza come quella del colore, ci presenta un continuo: tra due colori o due altezze qualsiasi, giace sempre un terzo, anche se le sue caratteristiche non sono per noi percettivamente differenti da quelle dei suoni vicini 239 . L’esperienza dell’ascolto musicale coinvolge molti sistemi metaforici, di questi quelli fondamentali sono tre: lo spazio, il movimento e l’azione. Essi non vanno intesi in ordine ad alcuni tipi di attribuzione che possiamo riferire alla musica attraverso l’istituzione di rapporti isomorfici quali soggetti di riferimento espliciti, idonei a rilevare criteri di somiglianza. Spazio movimento e azione sono in noi: la musica è movimento in quanto è vita, e in quanto è vita è azione, azione che fa vibrare il nostro spazio immaginativo la cui “forma” è la forma 240 dello spazio fenomenico attraverso cui organizziamo concettualmente la realtà ordinaria nei termini di sotto, sopra, salire e scendere, alto e basso. È una possibilità questa del pensiero immaginativo, di fondere 241 realtà separate da un abisso, conseguita al patto di rinunciare al dovere di credere alle cose. Così pure, se siamo posti di fronte a un dipinto, posso chiederti di guardare ad esso non come al ritratto di un bambino, ma come al ritratto di un nano con gli occhi da bambino, oppure non come al ritratto di una donna, ma come al ritratto di un uomo vestito da donna. Gli esempi familiari di figure ambigue, che possiamo vedere ora in un modo, ora in un altro, non sono delle eccezioni: esse sono semplicemente gli esempi più chiari della libertà universale che abbiamo, quando ciò che vediamo viene visto senza credervi. Il cambiamento di aspetto è il cambiamento da un’esperienza ad un’altra: ma esso non è causato da alcun cambiamento nell’informazione visiva; esso implica il passaggio da un pensiero non-detto ad un altro, ciascuno incorporato in un’immagine visuale i cui contorni sensori rimangono gli stessi 242 . 239 Ivi, pag. 20. “Forma” è virgolettato nell’accezione riferita allo spazio immaginativo, non è virgolettato nell’occorrenza immediatamente successiva, poiché lo spazio fisico ha realmente una (per quanto vaga) forma. 241 Fondere qui è usato convenzionalmente, poiché esse non sono fuse nel senso ordinario del termine, bensì mantenute in una contemporanea sospensione estetica. Usiamo fusione solo per brevità. 242 R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 90. 240 162 Non possiamo fornire di questa impossibile unione ulteriori descrizioni rispetto a quanto possa fare la metafora stessa, poiché è la combinazione di parole dell’esperienza verbale (e non ciò che essa rappresenta o descrive) a collegare parlando cose impossibili da collegare, e coincide con “Il mettere davanti agli occhi le cose” dell’espressione aristotelica resa proverbiale dalla Retorica. Rimane da rilevare ancora come la coppia spazio-tempo dell’impianto metaforico musicale di Scruton, segni un deciso scarto rispetto all’orizzonte speculativo kantiano che costituiva fino a qui un sicuro orizzonte di riferimento per le argomentazioni del filosofo inglese. Per entrambi, ma per opposti motivi, infatti spazio e tempo costituiscono le due condizioni fondamentali della conoscenza: per Kant essi sono esibiti da un ordine pre-concettuale secondo le “forme dell’intuizione”, prima di qualsiasi rappresentazione dell’oggetto, per Scruton invece costituiscono irrinunciabilmente un dato pienamente concettuale, senza il quale non può darsi l’esperienza musicale (così come nessun’altra esperienza estetica). Scruton polemizza però non tanto con Kant, quanto con quei filosofi contemporanei (come Peacocke) che, sulla scia della dottrina kantiana, hanno avanzato l’ipotesi che un oggetto possa presentarsi alla percezione di una persona, anche se questa persona non è in grado di identificarlo mediante concetti. Scruton è ben consapevole che la possibilità di una percezione immediata metterebbe fuori gioco tutta la sua teoria, poiché non ci sarebbe bisogno di alcuna metafora per mostrare ciò che spontaneamente si mostrerebbe da sé alla percezione dei sensi. Non potremmo infatti udire le melodie e le armonie come individui musicali, senza invece che si debba udirli in termini di spazio e movimento? La vera questione qui, secondo Scruton, non è tanto se ci possa essere un’organizzazione pre-concettuale esibita dalla Gestalt musicale, quanto piuttosto se sia sufficiente sentire questa organizzazione per poter sentire la musica come musica. Su questo punto egli ha molte riserve, espresse nel seguente esempio: Si consideri la prima frase di ‘Baa, Baa, Black Sheep’, che inizia nella tonalità C. La frase è composta nel modo che segue: due semiminime in C, due in G, e poi quattro crome in A, B, C, e A, che conducono di nuovo a G dove riposa. È del tutto possibile che un ascoltatore senta tutto ciò come un’unità, senza che senta il movimento che noi vi sentiamo. Per lui, come per noi, la melodia inizia in C e si ferma in G, con le note intermedie che conducono dalla prima nota all’ultima. Ma egli potrebbe ordinare le note in questa maniera, anche se esse non avessero, per lui, nessuna direzione: anche se egli non ri163 conoscesse alcun movimento ascensionale da C a G; anche se egli non sentisse che le crome trascinano la melodia nella stessa direzione; anche se il ritorno a G non comportasse quindi la perdita della spinta ‘verso l’alto’. Un caso del genere sarebbe parallelo a quello in cui una persona riconoscesse una figura come posta in piedi contro uno sfondo, ma non avesse alcuna conoscenza della natura di tale figura. Di certo, tuttavia, saremmo portati a dire che il nostro ascoltatore, anche se ha percepito una unità musicale, non l’ha percepita come musica. Egli ha sentito il contorno, ma non la sostanza, e il fondamentale atto di riconoscimento, che è un riconoscimento del movimento, non è ancora avvenuto 243 . L’esempio mostra una volta di più come, secondo Scruton, la musica sia l’oggetto intenzionale di un’esperienza che solo gli esseri razionali possono avere, e solo attraverso l’esercizio dell’immaginazione; per descriverla dobbiamo far ricorso alle metafore, in particolare a quelle spaziali e di movimento, non in quanto esse registrano un’analogia della musica con altri tipi di oggetti, bensì in quanto le metafore descrivono esattamente cosa sentiamo, quando sentiamo i suoni come musica. Questo, ci rimanda al dualismo da cui eravamo partiti tra un implicito sentire del corpo e un razionale sentire della mente, a quell’insanabile distanza metafisica tra natura e razionalità che si dà nell’esperienza estetica e che solo la metafora può, per Scruton, contribuire a ridurre. Per quanto ci riguarda, concludiamo con un’ultima citazione, questa volta di W. Nowottny che sottoscriveremo per la sua splendida sintesi: La critica corrente prende spesso la metafora au grand sérieux, come uno spiraglio sulla natura della realtà trascendentale, un mezzo primario attraverso cui l’immaginazione può vedere nella vita delle cose. Questo atteggiamento rende difficile vedere il funzionamento di quelle metafore che deliberatamente pongono l’accento sulla loro forma, offrendosi come deliberate fabbricazioni, come mezzi primari per vedere non nella vita delle cose, ma in quella della coscienza umana creatrice, artefice del proprio mondo 244 . 243 244 R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 95. W. Nowottny, The Language Poets Use, London, 1962, pag. 89. 164 5. Malcolm Budd: metafora e isomorfismo Nell’attuale dibattito analitico, le ipotesi legate all’adozione di modelli isomorfici sembrano fornire una buona soluzione per affrancarsi da insoddisfacenti teorie metaforiche, e opporsi al problema rappresentato in ambito formalista dalle dicotomie logiche, contro la cui autorità abbiamo visto costantemente infrangersi molti dei tentativi di vincolare le categorie dell’espressività alla struttura della musica, da Hanslick in poi. Oggetti appartenenti ad ambiti disomogenei presentano, talvolta, alcune caratteristiche di somiglianza rintracciabili nel ruolo che ognuno di essi svolge all’interno del proprio sistema di riferimento o rispetto agli altri oggetti di quella medesima struttura; l’ordine presente nelle cose è di tipo dinamico e gli oggetti non si danno a priori ma si fondano e ridefiniscono continuamente a partire dai dati fenomenici. Da qui la conseguente caratteristica dinamica e multiforme delle somiglianze che possono essere colte nella realtà. In chiave strategica, l’adozione di tali modelli sembrerebbe rivelarsi particolarmente utile per uscire dall’impasse laddove la metafora rivela le sue intrinseche contraddizioni; quelle contraddizioni che Malcolm Budd 245 segnala come casi tautologici. La possibilità, nonché, la necessità di svincolare l’esperienza musicale dal piano d’immanenza, le conseguenti aperture che si offrono a una dinamica trans-categoriale, consentono al senso di evolversi dalla dimensione materiale dell’essere secondo le categorie logiche, per dispiegarsi in un campo di forze in cui i contorni dell’oggettività stemperandosi rivelano soggiacenti similarità trasversali rispetto alle quali sembrerebbe plausibile insinuare ipotesi alternative contro la logica del “o A o B”. Nell’accostarsi all’isomorfismo riteniamo sia imprescindibile la rinuncia a idee dualistiche che tendono ad opporre mente-corpo, senso-ragione, soggettivo-oggettivo, interno-esterno e che finiscono inevitabilmente per pretendere di indagare l’uno nei termini concettuali dell’altro, cercando poi l’impossibile sintesi in un linguaggio disincarnato e ulteriormente scisso tra letterale e non letterale, tra logica ed estetica. Se la natura umana è una natura linguistica, il linguaggio si costituisce in un’inscindibile unità tra corpo e anima, tra ragione e senso. Nell’esperienza musicale, forse più che in ogni altro tipo di esperienza estetica, non basta seguire una logica rettilinea e deduttiva, ma occorre invece anche un altro tipo di ragionevolezza capace di muoversi non sem245 Malcolm Budd ha insegnato filosofia alla University College of London per più di trent’anni prima di ritirarsi dall’insegnamento e concentrarsi sui suoi scritti. Egli è stato eletto Socio della British Academy nel 1995 ed è diventato Presidente della British Society of Aesthetics nel 2004. 165 plicemente lungo una linea predefinita, ma per così dire più ampiamente e liberamente attraverso diversi livelli di realtà, non solo per cogliere ma anche per instaurare nessi tra le cose a partire dalla centralità del linguaggio e delle sue potenzialità estetiche. Se esaminiamo la nota proposizione di Wittgenstein “la vocale E è gialla” ci accorgiamo immediatamente che non avrebbe senso chiedersi che tipo di cosa è rivelata nell’affermazione, o come e perché la “giallezza” del predicato trasposto possa mantenere la sua natura 246 . Non avrebbe ugualmente senso domandarsi se ci troviamo al cospetto di una metafora, di una folgorazione sinestetica o di qualcos’altro, o peggio interrogarsi su cosa egli volesse dire dicendo … ciò che ha detto. Molto più semplicemente, Wittgenstein spiega il carattere non traslato di questa affermazione (che è del tutto simile alla proposizione ‘questa musica è malinconica’) chiamando in causa una sensazione primaria che conserva la sua integrità anche alla fine del processo logico che la porta all’evidenza e che anzi diviene in essa pienamente reale e condivisibile. Si potrebbe dire che ciò che sta alla base di affermazioni come quelle appena riportate sia, secondo Wittgenstein, una sorta di “sensazione del pensiero” 247 : un pensiero che sfiora la verità lasciandosi intercettare dalla realtà linguistica e che, pur sfuggendo a qualsiasi richiesta di spiegazione, realizza non di meno quell’identità tra senso e linguaggio che costituisce probabilmente un punto centrale dell’interpretazione per l’analisi della questione di cui qui ci occupiamo. La stessa questione che autori come Langer, Pratt e Budd hanno variamente reinterpretato, con esiti talvolta controversi. È importante a questo punto sottolineare quanta e quale importanza rivesta ancora oggi una tesi di tipo isomorfico, anche laddove una ripresa di essa si manifesti solo in forma talvolta trasversale, talvolta celata, e talaltra volutamente omessa, ma solo nell’ottica forse di prendere le distanze da certe “contaminazioni” che l’isomorfismo ha contratto. Budd in ogni caso non manifesta (almeno dal punto di vista delle intenzioni) nessuna reticenza nel riappropriarsi della tesi isomorfica in maniera assolutamente dichiarata. I testi cui facciamo riferimento consistono in una serie di articoli di Malcolm Budd scritti tra il 1983 e il 2005 248 in cui l’autore passa più volte in rassegna le princi246 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., pag. 284. S. Vizzardelli, “Musica”, in Le Arti nell’estetica analitica, cit., p. 103. 248 M. Budd, Motion and Emotion in Music: How Music Sounds, “The British Journal of Aesthetics”, 23, 1983, 209-221; Music and the Emotions: The Philosophical Theories, Rutledge & Kegan Paul, London, 1985a; Understanding Music, “Proceedings of the Aristotelian Society”, Supp. Vol. 59, 1985b, 233-248; Music and the Communication of Emotion, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 47, 1989a, 129138; Music and the Expression of Emotions, “Journal of Aesthetic Education”, 23, no. 3, 1989b; “Review of Walton’s Mimesis as Make-Believe”, “Mind”, 101, 1992, 195-198; Values of Art, The Penguin 247 166 pali questioni che animano il dibattito analitico contemporaneo attraverso la comparazione incrociata di alcuni tra gli autori contemporanei più influenti, ripartendo dalla storica contrapposizione tra formalisti ed espressionisti/disposizionalisti. I temi della comprensione musicale, dell’immaginazione, del realismo, del linguaggio, la questione della metafora e della parafrasi, l’oggettività delle emozioni s’intrecciano in un dibattito serrato ma privo di direzionalità, dal quale emerge lo sforzo dell’autore di cogliere il significato della musica come “forma d’arte” e di capire come le categorie emozionali giocano un ruolo nella comprensione e nell’apprezzamento di essa, sia in riferimento al suo valore intrinseco, sia in riferimento a valori esterni: la musica per Budd è un’arte astratta in quanto non è basata sulla capacità umana di rappresentare o riferire i propri elementi al mondo esterno, ciò nondimeno sarebbe sbagliato inferire che l’esperienza e il valore della musica non possano essere relazionati al mondo extra-musicale. La peculiarità della sua riflessione consiste essenzialmente proprio nella ricerca di una sintesi in grado di dare risposta alla domanda: in che modo è possibile ascoltare una particolare emozione nella musica? Budd si avvale dell’idea di Schopenhauer come chiave di lettura per spiegare la capacità della musica di contenere o incorporare un’emozione. Secondo il filosofo tedesco la musica è rappresentazione diretta dell’intima essenza del mondo, ovvero di quella “Volontà” che nell’uomo si realizza con particolare vivacità nell’esperienza delle varie emozioni; egli riconduce a questa relazione diretta tra musica ed esperienza emotiva la spiegazione del fascino profondo prodotto dalla forma d’arte musicale: [La musica] non esprime questa o quella gioia particolare e determinata, questo o quell’affanno o dolore o terrore o giubilo o allegria o tranquillità d’animo; bensì la gioia, l’affanno, il dolore, il terrore, il giubilo, l’allegria, la tranquillità di spirito stessi, per così dire in abstracto, ciò che in essi è essenziale, senz’alcun accessorio, e dunque anche senza i relativi motivi 249 . Tale affermazione equivale a dire che ciò che la musica riflette è costituito dalle forme, infinitamente diverse, in cui il contenuto non-rappresentazionale e nonconcettuale delle emozioni − la ‘quintessenza astratta’ della soddisfazione e della insoddisfazione − può venire esperito nel tempo. Budd interpreta l’intuizione schopen- Press, London, 1995; Aesthetic Realism and Emotional Qualities of Music, “The British Journal of Aesthetics”, 45, 2005, pp. 111-122; Musical movement and aesthetic metaphors, “The British Journal of Aesthetics”, 43 (3), 2003, 209-223. 249 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pag. 521. 167 haueriana concedendo un maggior grado di espressività alla musica e rimarcando l’importanza del concetto di somiglianza tra la musica e l’esperienza emozionale, diciamo così, diretta dell’ascoltatore: se nell’idea di Schopenhauer la musica è una rappresentazione di ciò che non può essere rappresentato, nell’interpretazione di Budd, la vita interiore di un’emozione può manifestarsi nella musica, incarnandosi nei vari aspetti dell’esperienza fenomenologica. Budd dichiara di non essere interessato a una ricognizione storica, bensì a una riflessione prettamente filosofica, che lo guida attraverso le diverse posizioni in campo alla ricerca di un metodo, o di quella che egli definisce “base canonica” 250 , a partire dal quale i giudizi sulle proprietà estetiche vengono elaborati sulla base di un’esperienza percettiva e immaginativa capace di connettere la musica nel suo essere pura struttura sonora, con l’innegabile fatto che essa in qualche modo è implicata nella fenomenologia di alcuni tipi di emozioni umane: alcuni fenomeni musicali infatti non esistono solo nella musica e la nostra familiarità con le loro istanze non-musicali può giocare un ruolo determinante nella nostra esperienza d’ascolto, come quando la nostra risposta riconosce una relazione isomorfica tra il ritmo e determinati movimenti corporei ad esso corrispondenti . Le teorie metaforiche risultano incapaci nell’insieme di fornire una risposta adeguata alla questione relativa all’espressività musicale, risposta che, secondo Budd, è invece più adeguatamente reperibile nell’adozione di un modello isomorfico o come egli la definisce in Values of Art, di una concezione minimale di base 251 da contrapporre alle teorie metaforiche “forti” di Scruton e Goodman, che sia pure in diversi contesti e non sempre per ragioni coincidenti o derivanti (come per altro abbiamo approfondito) da una medesima interpretazione della metafora applicata alla spiegazione della musica, avevano ugualmente teorizzato l’imprescindibile necessità del ricorso a una teoria metaforica per dar conto dell’attribuzione di proprietà emotive alla musica. Budd in realtà non nega le importanti funzioni della metafora, riconoscendole anzi, in ossequio al pensiero di Donald Davidson, il merito di segnalare un problema laddove le lacune del linguaggio non sarebbero in grado di dar conto della complessità del problema musica-emozioni. Ciò che Budd nega è la loro necessità, perché metafo- 250 Il riferimento è all’articolo Aesthetic Realism and Emotional Qualities of Music, cit., pag. 111. L’aspetto centrale della “concezione minimale di base” consiste nell’idea secondo cui la percezione dell’espressività musicale, consiste nell’esperienza di una somiglianza tra, da un lato gli oggetti di una modalità sensoria, e dall’altro degli stati psicologici interni. 251 168 ricità ed ineliminabilità non sono per lui compatibili 252 , dal momento che una metafora, stando a quanto dice Davidson, deve sempre poter essere parafrasata, ovvero tradotta in una corrispondente locuzione letterale. Così come non si può descrivere un dipinto senza l’uso (evidentemente letterale) del linguaggio dei colori, similmente non si può descrivere l’esperienza dell’ascolto prescindendo dall’uso del vocabolario inerente la teoria musicale. L’ambito della metafora è pertanto assegnato alla competenza dell’uso e non a quella del significato, poiché essa (metafora) non spiega perché descriviamo le opere d’arte utilizzando termini corrispondenti agli stati d’animo delle creature senzienti 253 . Il suo significato invece coincide senza residui col significato letterale, ovvero denotativo, di ciò che in essa vien detto, salvo poi decidere circa il vero o il falso dell’asserzione espressa. La convinzione di Budd è che quando la musica viene descritta come triste, la parola «triste» è usata proprio nel senso in cui è normalmente riferita ai discorsi ordinari del sentimento, ovvero letteralmente. La riflessione filosofica di Budd appare a tratti un complesso sistema filosofico ritagliato trasversalmente all’interno di teorie spesso eterogenee: muovendosi per aggiunte ed emendamenti, secondo il tipico stile degli articoli qui esaminati, a rimanere irrimediabilmente sacrificata è una visione complessiva e unificante, dove le diatribe polemiche tipiche della contrapposizione punto-per-punto delle sue argomentazioni spingono costantemente in secondo piano ciò che sembrerebbe un passaggio obbligato, ovvero il problema del riconoscimento di quel senso di profonda contiguità tra ciò che nominiamo metafora e ciò che nominiamo analogia. Risulterebbe infatti in linea con lo spirito del metodo isomorfico riconoscere nell’una e nell’altra una differenziazione convenzionale più che uno status naturale, e dunque una variazione del grado di senso all’interno di quel continuum costituito dal linguaggio, e non già l’individuazione di “oggetti” di genere differente: superando alcune differenze terminologiche non sembre252 Cfr. Budd, Understanding Music, cit. Qui Budd attacca l’affermazione di Scruton che le metafore usate per descrivere la musica sono ineliminabili. Budd sostiene che ineliminabilità e metaforicità si escludono a vicenda. In alcuni casi (compresi quelli descritti da Scruton) i termini sono eliminabili e metaforici; in altri essi possono essere eliminabili e non metaforici; e in altri ancora essi sono ineliminabili e quindi non possono essere metaforici. Cfr. R. Scruton, The Nature of Musical Expression, cit. 253 Questo è stato anche evidenziato da Stanley Cavell, il quale, in un articolo del 1977, affermava che “ciò di cui abbiamo bisogno è una spiegazione del perché descriviamo le opere d’arte utilizzando termini che sono solitamente confinati alla descrizione degli esseri senzienti (più specificatamente, delle persone). Dire che la descrizione è metaforica senza aggiungere nient’altro, equivale ad evitare di fornire l’analisi che qui è richiesta”. L’articolo è “Music Discomposed”, in Must We Mean What We Say?, Cambridge, Cambridge University Press, 180-212. Anche Davies sottolinea che non c’è ragione di pensare che il riferimento alla metafora possa sostituire l’analisi del fenomeno che è invece necessario spiegare: l’espressività della musica. Questa è l’accusa che può essere rivolta a Scruton, The Nature of Musical Expression, cit; D. A. Putman, Music and Metaphor of Touch, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 44, 1985, 59-66; Id., Some Distinctions on the Role of Metaphor in Music, “Journal of Aesthetic Education”, 23, 2, 1989, 103-106; M. Evans, Listening to Music, Macmillan, London, 1990. 169 rebbe, per esempio, azzardato individuare una serie di contiguità sostanziali con l’idea metaforica del rivale Scruton certamente propenso anch’egli all’accettazione di un sistema di significazione analogico 254 . Ma è sul comune piano dell’immaginazione consapevole e informata che le distanze sembrano ulteriormente ridursi a una mera forzatura tassonomica in linea con il tipico uso di rimarcare i contrasti, sorvolando così spesso sugli aspetti comuni sostanziali: la strategia di Budd di svincolarsi dalla metafora necessitata di Scruton è evidentemente prioritaria rispetto al rilevamento di alcune sostanziali identità che pure si mostrerebbero evidenti. Senza contare per inciso che molte delle teorie metaforiche moderne, (pensiamo nello specifico alla teoria interattiva di Max Black in primis) ipotizzavano già l’esistenza di una rete sotterranea di rapporti contrassegnata da scambi di somiglianze analogiche responsabili del venire alla luce delle conseguenti manifestazioni metaforiche. Se è vero, dunque, che Budd si muove con l’intento di riconoscere a tutte le idee in campo un qualche barlume di verità, è altrettanto vero che non sempre emerge un approfondimento esaustivo delle questioni poste, e d’altra parte il sostanziale ed esplicito riconoscimento del valore del metodo isomorfico, in senso generale appare più improntato ad un uso di tipo strategico-difensivo di quanto non sia propositivo in senso pieno: le idee di Budd non sembrano liberarsi per esempio da un eccesso di prudenza quando tenta di rimuovere alcuni aspetti (peraltro sostanziali) della tesi di Langer il cui fascino, innegabilmente suscitato sin dal suo apparire negli anni 40’ sulla scena filosofica, è stato costantemente accompagnato da una latente diffidenza. L’influenza neopositivista della prima riflessione analitica e probabilmente la controversa (e spesso fraintesa) eredità della concezione linguistica wittgensteiniana continuano a rappresentare per la scuola analitica una sorta di limite invalicabile, al di là del quale si prospetterebbero pericolose aperture metafisiche certamente non auspicabili. In questo contesto sembra possibile inquadrare la tiepida accettazione del simbolismo langeriano da parte di Budd che a proposito dei presunti difetti di quella teoria sostiene che l’idea secondo cui l’asserzione verbale è pressoché inutile per trasmettere in maniera precisa delle conoscenze relative al particolare carattere della nostra vita affettiva è imputabile alla sottovalutazione della Langer delle considerevoli risorse del linguaggio per descrivere come ci sentiamo. Budd sostiene infatti che Langer è erroneamente indotta, dall’enfasi che ella pone sui termini emotivi generici/comuni, a pensare che il linguaggio non possa possedere una specificità quando è adoperato per descrive254 Si rimanda alla lettura del paragrafo su Scruton. 170 re i sentimenti – e questa presunta inadeguatezza viene quindi spiegata come una conseguenza della discrepanza tra la modalità di rappresentazione propria del linguaggio e la struttura della nostra vita emotiva. Ma tale spiegazione – egli precisa – è ridondante. Poiché non è vero che, per descrivere il modo in cui ci sentiamo, dobbiamo limitarci ad usare le parole del linguaggio ordinario che designano i vari tipi di emozioni, tutt’al più integrandoli facendo riferimento ad alcune delle circostanze che fanno pensare al sentimento in questione. I sentimenti del tipo al quale Langer fa riferimento nella sua discussione sul significato della musica derivano la loro articolazione e la loro complessità dai pensieri sui quali sono fondati. Di conseguenza, la descrizione di tali sentimenti può essere effettuata con precisione, specificando i pensieri che sono integrali ad essi. E dal momento che non vi sono pensieri il cui contenuto non possa essere rappresentato nel linguaggio, non vi è in linea di principio alcuna difficoltà a descrivere in maniera precisa la natura particolare di un sentimento. Sul piano del linguaggio si articola dunque buona parte del pensiero di Budd: la possibilità di una caratterizzazione linguistica della precisa natura degli stati interni, diventa un problema centrale. Budd contesta con i medesimi argomenti la seguente celebre frase di Felix Mendelssohn: “i pensieri che sono espressi da un brano musicale che amo non sono troppo indefiniti per essere tradotti in parole, ma al contrario sono troppo definiti” 255 ; dietro affermazioni di questo tipo, non si cela una semplice denuncia delle presunte carenze di una certa lingua, bensì un’impossibilità di principio che rimanda a una presunta incommensurabilità di tipo logico e dunque irriducibile tra il linguaggio da una parte e le emozioni espresse da un brano musicale dall’altra. Una concezione, questa, tipicamente solipsistica, secondo cui le emozioni nella vita (oppure nella musica) appaiono più difficilmente descrivibili di quanto non lo siano gli oggetti materiali. Budd ritiene che tale visione delle cose non è convincente, argomentando che anche se è plausibile ammettere che le capacità espressive della musica eccedano in qualche misura quelle della lingua ciò non vuol dire che esse non potrebbero mai essere espresse in virtù della presunta mancanza di corrispondenza tra la natura determinata delle emozioni e quella indeterminata del linguaggio. Altrove afferma, ad ulteriore conferma, che anche quando, per effetto di certe carenze del linguaggio, alcuni concetti non presentino un corrispettivo significato referenziale, tali carenze potrebbero essere emendate ricorrendo exnovo ad un termine adatto. 255 F. Mendelssohn, Lettera a Marc André Souchay, Berlin, 5 October, 1842, 171 Al medesimo principio è improntato il suo rifiuto nei confronti delle teorie metaforiche che pretenderebbero di “catturare” il senso dell’indicibile traendolo da un’originaria condizione di indeterminatezza per portarlo all’evidenza del linguaggio positivizzando il carattere di vaghezza del discorso metaforico. Budd non riconosce valore a idee di questo tipo, poiché la concettualizzazione categoriale è per lui indipendente rispetto alla formulazione linguistica che la porta all’evidenza del linguaggio, e in fondo la sua polemica con Goodman sembra rimandare in ultima analisi proprio al disconoscimento di quel valore speciale della metafora che coinciderebbe con la possibilità stessa di esperire e non semplicemente nominare, etichettandoli, nuovi domini di riferimento, altrimenti inattingibili e dunque necessariamente metaforici. In polemica con Scruton, Budd respinge in particolare l’idea che le nozioni di movimento e azione 256 possano essere applicate alla musica metaforicamente, pur riconoscendo che nell’ascolto musicale c’è qualcosa in più rispetto a una semplice percezione di suoni, ma qualunque sia questa cosa, non esiste ragione perché non possa essere detta secondo le regole di significazione del linguaggio ordinario. Budd ritiene insoddisfacente l’assunto secondo cui movimento e azione sono metaforici, poiché una tale teoria non spiega ciò che dovrebbe spiegare se non è dotata di una motivazione in grado di individuare lo scopo; motivazione della quale il pensiero di Scruton evidentemente è privo. L’individuazione dello scopo di una metafora consiste nell’esplicazione del suo significato; conseguentemente perché una metafora possa definirsi tale deve, sostiene Budd, poter essere convenientemente parafrasata, ma una proposizione come “la musica è triste” non può essere parafrasata perché il suo scopo non può essere catturato senza il riferimento al carattere emotivo dell’espressività della musica: la parola “triste” non può essere eliminata dalla descrizione della metafora della quale costituisce il predicato trasposto, ovvero non può essere sostituita. Una parafrasi di essa non potrebbe comunque non contenerla, e dunque conclude Budd è come dire la stessa cosa con altre parole. Budd sembra raggiungere in tal modo, con successo, lo scopo di dimostrare come quello della metafora sia in fondo un problema tautologico, ma da questo de256 M. Budd, Music and the Communication of Emotion, cit., pag. 132. «Se la funzione di una metafora è quella di indicare una qualche somiglianza tra M e E o un’espressione corporea o vocale di E, allora l’esperienza può essere caratterizzata come la percezione di tale somiglianza. Ma l’effetto di una siffatta mossa è quello di abbandonare, piuttosto che risollevare, la spiegazione metaforica proposta. Poiché se è possibile esplicitare lo scopo della metafora e utilizzarlo per fornire una caratterizzazione indipendente dell’esperienza allora la nozione di metafora non ha un ruolo fondamentale nella specificazione della natura dell’esperienza. Pertanto la spiegazione dell’esperienza nei termini della metafora o è emendabile oppure non è illuminante». 172 stino sembra non sfuggire la sua stessa spiegazione poiché più avanti suggerisce l’idea che per superare questa impasse, la parafrasi potrebbe a sua volta contenere essa stessa termini metaforici, a patto che questi non costituiscano parte della metafora alla quale essa sta come parafrasi, e così rimandando evidentemente all’infinito la soluzione del problema. Per i sostenitori delle tesi metaforiche (Goodman in particolare) 257 questo non è un metodo adatto per analizzare la questione, ma solo un punto di vista, poiché la non parafrasabilità di tali descrizioni, piuttosto che mettere in discussione lo status di metafore, rivela invece i limiti del linguaggio letterale ai quali il ricorso alla metafora è un tentativo di rimediare. Questo passaggio ci dà modo di ritornare ancora una volta sulla circostanza, qui particolarmente esemplare, di come l’impossibilità di pervenire a un accordo, sia frutto di un errore che sta alla base: quello di considerare il linguaggio metaforico e quello letterale come i campi di due domini inconciliabili di significazione linguistica, e di come l’insistita e colpevole miopia a voler interpretare di volta in volta l’uno nei termini concettuali dell’altro finisce inevitabilmente per determinare un cortocircuito. Lo stesso Davidson a cui Budd fa riferimento si mostra molto meno interessato alla questione della parafrasabilità di quanto non possa sembrare, limitandosi prudentemente a collocare il problema in una posizione più defilata rispetto ai problemi sostanziali posti dalla questione metaforica 258 , e concludendo infine che la metafora non presenta rispetto al linguaggio letterale alcun tipo di problema specifico tale da necessitare il ricorso a un trattamento speciale rispetto ai casi ordinari. Ritornando alla questione centrale è interessante per noi soprattutto rilevare come l’adozione di una tesi isomorfica consenta a Budd di invalidare una volta per tutte tesi metaforiche necessarie (la tesi della necessità metaforica), come ad esempio quella già esaminata di Scruton. Nello specifico l’idea cui Budd manifesta una particolare attenzione è una delle prime tesi isomorfiche comparse nella storia della riflessione filosofica sulla musica. Si tratta della tesi di Carroll Pratt. Ci preme precisare che 257 «L’applicazione metaforica dei termini ha l’effetto, e spesso lo scopo, di tracciare significativi confini che agevolano il superamento di abitudini logorate dall’uso e di selezionare nuove specie importanti per le quali non abbiamo ancora descrizioni letterali semplici e familiari». Cfr. N. Goodman, Metafora come luce della luna, cit. pag. 156. 258 «Concordo con l’opinione che le metafore non possono essere parafrasate, ma penso che ciò sia vero non perché le metafore dicano qualcosa di troppo inconsueto per essere espresso letteralmente, bensì piuttosto perché non c’è in esse niente da parafrasare. Possibile o no la parafrasi attiene a quanto viene detto, nella parafrasi si tenta di dire la stessa cosa in un altro modo. Ma, se vedo giusto, una metafora non dice nulla al di la del suo significato letterale […] Infatti una metafora dice solo ciò che esibisce apertamente: di solito una falsità palese o una verità assurda. E questa verità o falsità ovvia non ha bisogno di parafrasi alcuna: il suo significato è dato dal significato letterale delle parole». Cfr. D. Davidson, Che cosa significano le metafore, cit., pp. 137 e 149. 173 l’applicazione alla musica di una siffatta tesi isomorfica, derivata dagli studi prima scientifici e successivamente psicologici, era già stata operata da Riemann il quale nell’opera Wie hören Wir Musik? scrive: «In verità, non è affatto questione di esprimere emozioni perché … la musica solo commuove l’animo in modo analogo a quello in cui lo commuove l’emozione, senza tuttavia pretendere in alcun modo di farla sorgere (ed ecco perché non significa nulla il fatto che effetti del tutto eterogenei abbiano forme dinamiche simili, e possano perciò esser “espressi” dalla stessa musica, com’è già stato osservato, e molto giustamente da Hanslick) …» 259 . Tale teoria è quella successivamente sviluppata da Pratt, il quale (evidentemente in modo affatto indipendente da Riemann) è venuto alla conclusione che la musica né causa, né elabora sentimenti reali, ma produce certi effetti peculiari che noi scambiamo per sentimenti. La musica ha il suo speciale carattere uditivo che, «intrinsecamente contiene certe proprietà, le quali, in grazia della loro stretta somiglianza con certe caratteristiche del dominio soggettivo, vengono frequentemente confuse con vere e proprie emozioni» 260 , ma «queste caratteristiche uditive non sono affatto emozioni: semplicemente, suonano come gli stati d’animo sentono 261 … Più spesso che no, queste caratteristiche della musica non hanno un nome: sono semplicemente ciò che la musica è …» 262 . È il caso di precisare che è questa la tesi di Pratt cui ancor prima di Budd si era ispirata e aveva guardato Langer, la quale, muovendo dagli esiti particolari degli studi gestaltici e per l’appunto dalla tesi isomorfica di Pratt, cui non manca di fare esplicita menzione nell’opera Filosofia in una nuova chiave, ripensa le funzioni dell’isomorfismo. Esso si traduce in una somiglianza tra la morfologia del feeling umano e le proprietà strutturali-formali della musica, più che in una somiglianza tra il movimento in musica e i movimenti del e nel corpo, per come l’analogia si configura nella concezione di Pratt. Anche per Langer infatti l’espressività della musica non è il risultato del trasferimento dei sentimenti che qualcuno ha sentito né tantomeno è da intendersi come residuo emotivo delle impressioni che ha destato in noi l’ascolto, piuttosto evidenzia energicamente Langer: «formulazione e rappresentazione di emozioni, stati d’animo, tensioni mentali e risoluzioni: un “ritratto logico” della vita senziente e responsiva, una fonte di intendimento, non una richiesta di simpatia. I sentimenti rivelati dalla musica non sono essenzialmente, “la passione, l’amore o il desiderio del tale o del 259 H. Riemann, Wie Hören wir Music? (Come ascoltiamo la musica?), Leipzig, 1888, pp. 22-23. C. C. Pratt, The Meaning of Music, New York and London, McGraw-Hill Book Co., 1931, pag. 191. 261 Corsivo mio. 262 Ivi, pag. 203. 260 174 tal altro”, un invito a metterci nei suoi panni, ma sono direttamente presentati alla nostra intellezione, sì che possiamo afferrare, realizzare, comprendere questi sentimenti senza pretendere di averli, o imputarli a qualcun altro. Proprio come le parole possono descrivere eventi di cui non siamo testimoni, luoghi e cose che non abbiamo visto, così la musica può presentare emozioni e stati d’animo che non abbiamo sentito, passioni che non avevamo prima subìto. Il suo soggetto è lo stesso che nell’autoespressione e i suoi simboli possono addirittura esser mutuati occasionalmente, dal dominio dei sintomi espressivi; ma gli elementi suggestivi così mutuati sono formalizzati e il soggetto “distanziato” in una prospettiva artistica» 263 . Sulla scia inoltre di quell’anima formalista di matrice hanslickiana che ha animato anche lo spirito di Pratt, e che però rivendica la necessità di ripensare la “forma” in un’accezione più significativa, troviamo anche il riferimento di Langer al motivo (decorativismo) come espediente organizzativo delle opere d’arte figurativa. “I motivi – scrive Langer, tentando di dimostrare che qualsiasi forma di arte figurativa ha in sé l’anima del decorativismo – sono espedienti organizzativi che mettono in moto l’immaginazione dell’artista e ‘motivano’ l’opera in un senso genuino. Essi la orientano e ne guidano lo sviluppo” 264 . Come evidenziato da Vizzardelli, «I motivi, in questa visione, rispondono ad un bisogno di astrazione che, pure, resta congeniale alla nostra intuizione dello spazio essendo guidato dall’interesse per la percezione dei ritmi e delle dinamiche emotive. Per questo la composizione grafica non è una copia di impressioni visive dirette, ma è il modo di foggiare queste impressioni secondo i ritmi della forma vitale, è simbolizzazione originaria. I motivi non agiscono come immagini riproduttive della realtà, sono piuttosto delle finestre artificiali che danno accesso ad un mondo intermediario, ad un mondo in cui si assiste ad uno scambio, ad una conversione interno-esterno, ad una intercettazione di piani distinti ma isomorfici» 265 . 263 S. Langer, Filosofia in una nuova chiave, cit., pag. 286. In Feeling and Form poi così scriveva a tale proposito: Le strutture tonali che noi chiamiamo “musica” hanno una stretta somiglianza logica con le forme del sentimento umano: forme di sviluppo e decrescenza, di flusso e di accumulo, di conflitto e soluzione, di rapidità, arresto, somma eccitazione, calma o attivazione sottile e cadute nella sfera del sogno; non gioia e dolore, forse, ma il mordente dell’una o dell’altro o di entrambi; la grandezza e brevità e l’eterno trascorrere di tutto ciò che è vitalmente sentito. Questo lo schema, o la forma logica del sentire; e lo schema della musica è quella forma stessa, elaborata nella purezza e nel metro del suono e del silenzio. La musica è un corrispondente tonale della vita emotiva. Una tale analogia formale, o congruenza di strutture logiche, è la condizione prima per la relazione fra un simbolo e tutto ciò che questo deve significare. Il simbolo e l’oggetto simbolizzato devono avere qualche forma in comune. Cfr S. K. Langer, Sentimento e Forma, cit., pag. 43. 264 S. Langer, Sentimento e Forma, cit., pag. 86. 265 S. Vizzardelli, Musica, cit., pag. 98. 175 Le tesi isomorfiche peraltro rappresentano il terreno di incontro per Langer e Pratt, i quali citano reciprocamente e con approvazione i rispettivi scritti. Pratt però a differenza di Langer non è dell’idea che la musica sia un simbolo (non-referenziale), ma egli sostiene che essa possiede un carattere emozionale, oggettivo, dovuto alla similarità formale tra il movimento musicale e le sensazioni organiche e cinestesiche che sono i correlati e i determinanti delle emozioni. Scrive Pratt in un articolo del 1954, “The Design of Music” 266 : «La musica tutto al più non è simbolica … il disegno tonale non sta per niente oltre se stesso. Esso non suggerisce emozioni e sentimenti. Esso è emozioni e sentimenti. Le qualità della percezione uditiva non sono segni iconici, neppure essi per loro stesso tramite rappresentano o imitano oppure copiano qualcosa» 267 . E aggiunge: «Le emozioni e la lotta della volontà e del desiderio sono incarnati nella musica non direttamente, ma indirettamente per via di disegni tonali che somigliano fortemente nel profilo formale al movimento interno degli spiriti … Ma qui in ultimo potrebbe essere vero che la musica diventa simbolica, perché sembra significare ed esprimere la gioia e il dolore di tutto il genere umano» 268 . Secondo la tesi di Pratt, le emozioni sono “soggettive” (cioè esperite, come interne al corpo): «Il materiale dell’emozione è un processo fisico, un elaborato modello di turbamento muscolare e viscerale» 269 . La musica non può incarnare o contenere le emozioni, ma per via del suo carattere dinamico la musica può possedere proprietà che sono simili a quelle delle emozioni, per tale ragione si può dire che essa possiede o presenta un carattere emozionale. La musica non può “significare” (cioè, riferirsi a) emozioni; piuttosto, essa possiede proprietà formali con un oggettivo (cioè, “esterno al corpo”) carattere fortemente simile a quello delle emozioni: «L’agitazione è sia un sentimento organico che una percezione uditiva ma nel primo caso essa è un’emozione e nel secondo essa è un’impressione sensoria terziaria – due modi psicologici dell’esperienza completamente differenti, che tuttavia, per via della similarità nella forma, sono chiamati con lo stesso nome. La confusione verbale è largamente responsabile della confusione nella teoria» 270 . Gli ascoltatori possono rispondere emozionalmente alla musica, ma l’espressività della musica è indipendente dai suoi effetti. In breve, come avevamo segnalato, Pratt è un formalista che contesta agli altri formalisti, come Hanslick, di avere eccessivamente 266 C. C. Pratt, The Design of Music, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 12, 289-300. Ivi, pag. 290. 268 Ivi, pag. 300. 269 Ivi, pag. 291. 270 C. C. Pratt, Music as the Language of Emotion, Washington, D. C.: Library of Congress, 1952, pag. 18. 267 176 contratto la nozione di forma. La musica presenta forme che colpiscono i sensi, le quali forme sono così simili a quelle dei sentimenti, al punto che possiamo caratterizzare la musica come triste, felice, e così via. Muovendosi dal riconoscimento di quanta e quale fecondità possa avere l’intuizione di Pratt, carpita sapientemente da Langer, Budd ritorna – anche in questo caso a dispetto della critica che Scruton ha mosso alla teoria della somiglianza in The Aesthetics of Music annoverandola come una delle tre teorie più pericolose dell’espressione in musica 271 – ad accogliere l’idea fondante e principale della tesi isomorfica di Pratt incapsulata nel famoso slogan “la musica suona nel modo in cui le emozioni sono vissute”, e concentra la sua attenzione, vedremo adesso nel particolare, sull’idea (che sta a fondamento della tesi di Pratt appena citata) che vi sia un’analogia tra i movimenti del nostro corpo e i movimenti della musica. Secondo Budd, quella di Pratt è una delle teorie che meglio possono aiutarci a comprendere il problema dell’espressività nella musica, sebbene nemmeno essa sia esente da problemi, derivanti in ultimo della particolare caratterizzazione che Pratt dà del movimento musicale. In Music and the Emotions, Budd prende le mosse proprio dalla tesi che Pratt sviluppa nell’opera The Meaning of Music. Si tratta di un’ipotesi prettamente dualistica secondo la quale: ciò che una persona esperisce come esterno al suo corpo è per quella persona oggettivo e ciò che esperisce come appartenente oppure interno al suo corpo è invece soggettivo. Secondo questo criterio gli stati d’animo e le emozioni sono soggettivi per la persona che sente tali emozioni o stati: ciò che qualcuno prova quando egli sente preoccupazione, ansia, disagio, paura e gioia, appartiene o è interno al suo corpo. Un’emozione è soggettiva nel senso che ciò che viene sentito è localizzato all’interno, piuttosto che all’esterno, del corpo del soggetto. Quando una persona esperisce un’emozione, ella sente la contrazione della fronte, la tensione dei suoi muscoli, il san271 In ordine, tali teorie sono: a) la teoria biografica, secondo la quale un’opera d’arte esprime uno stato della mente perché l’artista “mette nell’opera il suo stato mentale”; b) la teoria dell’evocazione: spostando l’attenzione dall’artista allo spettatore-ascoltatore, questa teoria identifica l’emozione espressa da un’opera con l’emozione indotta nell’ascoltatore. Dobbiamo invece distinguere il significato di un’opera dal suo significato per me. Dire che io associo ad un’opera musicale certi miei sentimenti, esperienze, memorie è come non dire niente sul suo carattere musicale. L’espressione appartiene invece, ci suggerisce Scruton riprendendo esplicitamente la tesi crociana della sintesi intuitiva, al carattere estetico di un’opera d’arte. Si può apprezzare l’espressività di un’opera solo prestando attenzione a essa, e ascoltando l’emozione in essa. Basta distrarsi e l’esperienza svanisce. Ma si possono apprezzare le associazioni fatte durante l’ascolto di un’opera musicale anche chiudendo la mente ad essa, anche distraendosi. Quelle associazioni sono provocate, stimolate dall’esperienza estetica, ma si estendono molto al di là di essa; c) la teoria della somiglianza: secondo questa teoria l’espressione in musica è fondata sull’analogia o somiglianza tra una struttura musicale e uno stato mentale. Scruton ritiene che la teoria della somiglianza musica-emozioni sia maldestramente al centro del dibattito estetico a partire dalle tesi di S. Langer fino alle ipotesi sviluppate M. Budd e P. Kivy. Cfr. R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 144-148. 177 gue che pulsa, o qualche altro accadimento interno o diretto al proprio corpo. Ma talvolta parliamo degli stati d’animo e delle emozioni come se si pensasse che essi possano essere proprietà di fenomeni che sono per ciascuna persona oggettivi – in particolare, come se essi possano essere proprietà della musica. Eppure non può essere letteralmente vero che la musica incarna l’emozione, perché essa non è un corpo vivente che sente i propri processi corporei. In che modo, allora, dobbiamo intendere la descrizione della musica come agitata, calma, malinconica, seducente, inquieta, pomposa, appassionata, triste, trionfante o bramosa 272 ? L’intento di Pratt, nell’ambito di questa riflessione, è quello di contrapporre un’alternativa alla teoria secondo la quale questi sono semplicemente stati d’animo o sentimenti che l’ascoltatore erroneamente ha trasferito da se stesso alla musica perché è diventato vittima di quella che Ruskin ha chiamato “fallacia patetica” (the pathetic fallacy) 273 . Ruskin ha creduto infatti che le nostre emozioni possono causare una falsità nella nostra esperienza del mondo esterno. Gli oggetti fisici possono cioè assumere false apparenze sotto l’influenza di violente emozioni, per questo motivo noi siamo portati ad attribuire a tali oggetti caratteristiche che in realtà essi non possiedono. Noi attribuiamo agli oggetti inanimati caratteristiche che sono specifiche delle cose viventi e attribuiamo ad altri tipi di cose viventi qualità che solo gli esseri umani possiedono. Sebbene sappiamo che le creature non-umane non possiedono caratteristiche specificatamente umane e che gli oggetti inanimati non sono forme di vita, le emozioni hanno il potere di farceli apparire diversamente: questi oggetti possono cioè apparire come se fossero caratterizzati da proprietà che essi sono incapaci di possedere. Lo stato eccitato dei nostri sentimenti ci rende, per un certo periodo, irrazionali. Mentre la nostra ragione è temporaneamente sconvolta, immaginiamo che gli oggetti che percepiamo abbiano caratteristiche che sappiamo essi non possono avere. Se qualcuno che ascolta musica è così potentemente colpito dalla musica al punto di arrivare a pensarla come animata e a percepirla come qualcosa che è in uno stato emotivo, allora questa falsità nella sua coscienza è un esempio di tale fallacia patetica: è stata la forza dei sentimenti che lo ha spinto a proiettare nella musica l’emozione che egli sente. Secondo Budd, tuttavia, un’illusione che comporti la dislocazione dell’emozione vissuta da un soggetto in un oggetto inanimato, non è un qualcosa al quale siamo naturalmente portati a credere. Inoltre la descrizione della musica in termini emotivi, così concepita, è sempre ingiustificata: un carattere è stato erronea272 273 Cfr. C. C. Pratt, The Meaning of Music, cit., 157-162. John Ruskin, Modern Painters, Volume III, London, 1856, Cap. XII. 178 mente trasferito dall’ascoltatore alla musica, ma la descrizione della musica come gioiosa, triste o trionfante non sempre è inappropriata. Forse, allora, la descrizione emotiva della musica è semplicemente un modo fantasioso di parlare in cui le emozioni apparentemente attribuite alla musica dovrebbero essere intese come emozioni che sono provate dall’ascoltatore; ciò che l’ascoltatore, esprimendosi in questa maniera, vuole significare, può essere quindi vero, sebbene egli si esprima in modo ingannevole. Tuttavia questa proposta è di poco migliore di quella precedente: poiché sebbene non richieda che l’ascoltatore esperisca emozioni così violente da fargli perdere la ragione, essa invero richiede che provi l’emozione che egli stesso apparentemente attribuisce alla musica. Eppure non è necessario che un individuo si senta trionfante, triste, allegro, affinché egli possa correttamente caratterizzare la musica attraverso i nomi di queste emozioni. Per Budd infatti, è il caso di mettere in chiaro con vigore, vale il concetto fondamentale secondo cui le qualità delle emozioni sono proprietà udibili della musica: il modo più basilare in cui esperiamo la musica quando la sentiamo come espressiva di un’emozione consiste nel sentire l’emozione, di cui la musica è espressiva, come caratterizzante la musica stessa, come quando la sentiamo come sobria, malinconica, allegra o felice: noi sentiamo l’emozione nella musica. In che modo, allora, dobbiamo interpretare l’apparente attribuzione di stati d’animo e di emozioni alla musica? La soluzione che Pratt dà a questo problema è una soluzione di tipo isomorfico, come d’altronde avevamo evidenziato, ed è una soluzione cui Budd – interessato anch’egli a contravvenire una volta per tutte a ragionamenti come quelli insiti nella teoria della fallacia patetica che spesso, crediamo di comprendere, confluiscono anche nell’approdo di alcune particolari caratterizzazioni metaforiche – guarda con attenzione considerandola meritevole di ulteriori approfondimenti. L’idea di Pratt, così esposta da Budd, è la seguente: Ci sono movimenti sia del, che nel, corpo: il nostro corpo può muoversi ed è esso stesso un luogo di movimenti. Alcuni di questi movimenti vengono sentiti attraverso sensazioni organiche e cinestesiche. Il fatto che possiamo sentire cinestesicamente ed organicamente i movimenti corporei è la principale ragione per cui, per descrivere il modo in cui ci sentiamo, utilizziamo parole che indicano il carattere dinamico del movimento. Le parole ‘forte’, ‘debole’, ‘languido’, ‘agitato’, ‘inquieto’, ‘tranquillo’, ‘eccitato’, ‘quieto’, ‘indeciso’, ‘grazioso’, goffo’, ‘maldestro’, ‘rapido’, ‘ritmico’ e ‘fluente’, ad esempio, possono correttamente essere usate per descrivere il modo in cui ci sentiamo. Ma queste parole si applicano ugualmente alle qualità dei 179 movimenti corporei di cui facciamo esperienza. Perciò, se c’è un’altra specie di movimento che possiede queste stesse caratteristiche del movimento sentito nel nostro corpo, queste parole possono essere applicate con uguale efficacia ad altre specie di movimento. Di conseguenza non c’è nessuna fallacia patetica in questo uso delle parole. Ed infatti il movimento musicale possiede caratteristiche del tipo richiesto. Quindi, un’affermazione come “la musica è angosciata”, quando è vera, è letteralmente vera 274 . L’applicazione della nozione di movimento alla musica è, come Budd non manca di evidenziare, un’operazione alquanto problematica. Tuttavia la nozione di movimento musicale sostenuta da Pratt sembra essere più convincente di quella proposta da altri filosofi, in particolare Scruton. Entrambi prendono seriamente in considerazione la rilevanza che, nella critica musicale, i termini indicanti determinate forme di movimento rivestono. Tuttavia, mentre per Scruton tali termini hanno una necessaria valenza metaforica − il che, in virtù delle critiche prima ricordate all’idea scrutoniana dell’ineliminabilità delle metafore musicali, lo condanna al fallimento 275 − Pratt spera di risolvere il problema indicando un parallelo tra, da una parte, alcuni dei processi che ascoltiamo nella musica e, dall’altra parte, la nostra percezione del movimento tramite la vista (by sight) e la cinestesia. Il movimento fisico è un cambiamento di posizione nello spazio. Se consideriamo un semplice caso di movimento di traslazione, allora percepiremo il movimento attraverso la vista in virtù del fatto che il nostro campo visivo contiene una successione di qualità visive simili poste in differenti posizioni. Quando uno strumento musicale fa seguire, a una nota, un’altra nota avente una diversa frequenza, noi sentiamo, uno dopo l’altro, suoni simili corrispondenti a livelli di frequenza differenti. Ora, se noi accettiamo la tesi di Pratt sull’esperienza della frequenza, allora la nostra percezione uditiva della frequenza implica, fenomenologicamente, l’esperienza di una dimensione spaziale. Quindi, quando uno strumento musicale suona, in successione, delle note di frequenza differente, il nostro campo uditivo contiene qualità uditive tra loro simili e poste in una successione di posizioni differenti. Questo parallelo tra l’esperienza di una serie di note di diversa frequenza e la percezione del movimento tramite la vista è sufficiente, secondo quanto sostiene Pratt, a fornire le basi per l’attribuzione alla musica di caratteristiche proprie del movimento. La musica può contenere processi che possiedono proprietà simili a quelle che altri tipi di movimento propriamente detti possiedono. In particolare, il movimento musicale è capace di ripro274 M. Budd, Music and the Emotions, cit., pag. 39. Sulle critiche di Budd alla spiegazione del movimento musicale avanzata da Scruton, si veda M. Budd, Musical Movement and Aesthetic Metaphors, cit. 275 180 durre la struttura formale del movimento fisico. Il movimento musicale – che è oggettivo – possiede proprietà molto simili a quelle del movimento corporeo – che è soggettivo (per la persona avente il corpo in questione). La stretta somiglianza tra le caratteristiche dei due tipi di movimento ci autorizza ad applicare ad entrambi, e nella stessa maniera, le parole che indicano queste caratteristiche. Secondo Budd, tuttavia, il tentativo di Pratt di risolvere il problema del movimento che verrebbe percepito nell’ascolto della musica è destinato al fallimento 276 . In primo luogo, infatti, è sbagliato rappresentare le forme del movimento musicale come un’illusione percettiva; e tuttavia questo è tutto ciò che si può trarre dalla somiglianza tra l’esperienza dei suoni musicali con la percezione visiva e cinestetica del movimento. In ogni caso, l’esperienza di una serie di note di diversa frequenza non comporta l’esperienza di una variazione continua nella frequenza del suono, laddove quando un oggetto si muove attraverso il nostro campo visivo, la nostra esperienza comporta un cambiamento continuo nella posizione occupata dall’oggetto che a noi appare. In secondo luogo, non è sempre vero che, nell’ascoltare una successione di note di diversa frequenza, percepiamo un movimento verso l’alto e verso il basso. Ma la spiegazione che Pratt dà del fenomeno del movimento musicale implica che noi, nell’ascoltare ciascuna di tali successioni, dovremmo percepire un siffatto movimento. In terzo luogo, la spiegazione fornita da Pratt non è in grado di dar conto della possibilità del contrappunto: noi ascoltiamo due melodie e le percepiamo come se procedessero assieme, anche quando le melodie sono prodotte da strumenti aventi un timbro identico o simile. Ma l’evidente discontinuità del cambiamento nella frequenza di una successione di note ci impedisce di modellare l’esperienza del contrappunto sulla percezione visiva di due movimenti simultanei. Lo stretto parallelo che Pratt voleva rinvenire tra il cosiddetto ‘movimento’ nella musica e il movimento reale, in realtà, dunque, stando alle analisi fatte da Budd, non sussiste. Tuttavia, ciò non comporta la diretta dismissione dell’ipotesi di Pratt relativa al modo in cui si dovrebbe comprendere l’apparente attribuzione di proprietà soggettive alla musica: difatti, sebbene la sua ipotesi cerchi di sfruttare tale presunto parallelo, a ben vedere essa non necessita che la musica sia, o sia esperita come, una forma di movimento: essa potrebbe non aver bisogno di nient’altro se non del fatto che la musica possieda un certo numero di caratteristiche di alcune forme di movimento. È perciò necessario, secondo Budd, considerare più dettagliatamente la spiegazione che Pratt 276 Le critiche che Budd rivolge alla nozione di movimento musicale sviluppata da Pratt e che ci accingiamo ad analizzare, sono ampiamente sviluppate in M. Budd, Music and the Emotions, cit., pp. 37-51. 181 fornisce riguardo all’utilizzo dei termini che denotano emozioni per descrivere la musica. La spiegazione si basa, come abbiamo visto, sull’affermazione secondo cui le emozioni e gli stati d’animo sono esperienze soggettive: quando noi esperiamo un’emozione oppure siamo soggetti ad uno stato d’animo, ciò che noi sentiamo (organicamente oppure cinestesicamente) sono processi che coinvolgono movimenti del, oppure nel, nostro corpo. Ora, se un movimento, o una propensione al movimento, è implicato in un certo stato psicologico, ci sarà un carattere, C, del movimento, che noi sentiamo quando siamo in quello stato. E potrebbe darsi che noi diciamo di sentire C quando ci troviamo in quello stato psicologico precisamente perché questo (carattere) è proprio ciò che noi sentiamo quando siamo in quello stato. Ma questo carattere potrebbe essere posseduto anche da un brano musicale – nel qual caso la musica potrebbe essere propriamente descritta come C. E la descrizione della musica come C non sarebbe figurata ma letterale. La sua forza non dipenderebbe dall’applicazione primaria del termine ‘C’ ad un stato psicologico. Piuttosto, lo stato psicologico deriverebbe il suo nome da una qualità del movimento che è comune al movimento musicale e a quello fisico. Noi saremmo, e insieme sentiremmo, C; la musica non dovrebbe essere sentita come C, ma semplicemente essere C. È precisamente questo tipo di possibilità che Pratt propone come la corretta comprensione dell’uso dei termini che denotano emozioni per descrivere la musica. Pratt presenta un numero di stati psicologici che a suo avviso possono illustrare la sua spiegazione. Uno di questi stati è l’agitazione. Quando un individuo è in uno stato di agitazione egli è tende a comportarsi in modo agitato; e se egli in effetti si comporta in modo agitato, egli sente i movimenti agitati che il suo corpo produce. Ma il carattere agitato di questi movimenti può essere condiviso da molti altri tipi di fenomeni, e in particolare dalla musica. E se un brano musicale ha questo carattere agitato, allora la sua descrizione come agitato è letteralmente vera. Un altro stato è l’irrequietezza. Se un individuo si sente irrequieto, egli non si sente in (uno stato di) quiete. Egli sente cose come un’incapacità a rimanere calmo e un aumento del ritmo della respirazione e del battito cardiaco. Più o meno gli stessi tipi o aspetti del movimento possono trovarsi nella musica: «Passaggi staccati, trilli, accenti forti, crome, rapidi accelerandi e crescendo, scosse, ampi sbalzi di frequenza – tutti questi espedienti portano alla creazione di una struttura uditiva che è appropriatamente descritta come irrequieta»277 . Pratt sostiene 277 C. Pratt, The Meaning of Music, cit., pag. 198. 182 che la maggior parte delle parole come ‘giocoso’, ‘capriccioso’, ‘trionfante’, ‘potente’, ‘marziale’, ‘maestoso’, ‘calmo’, ‘pacifico’, ‘urgente’, ‘combattente’, ‘sconcertante’, ‘tumultuoso’, ‘incerto’, e ‘ansioso’, può essere utilizzata per indicare emozioni e stati d'animo; e quando tali parole sono usate in questa maniera, esse «si riferiscono ad esperienze psicologiche che includono, tra i loro componenti, vari tipi di movimento. Nella misura in cui analoghi tipi di movimento possono presentarsi sotto forma di variazioni o relazioni di diverse tonalità, le stesse parole si applicano altrettanto bene agli effetti musicali» 278 . In breve: la musica può essere agitata, irrequieta, trionfante o calma poiché essa può possedere il carattere proprio dei movimenti fisici che sono implicati negli stati d’animo e nelle emozioni a cui vengono assegnati tali nomi − i quali nomi vengono assegnati alle emozioni e agli stati d’animo suddetti precisamente perché è proprio questo carattere del movimento fisico (agitatezza, irrequietudine, ecc.) che viene sentito (avvertito, percepito) quando gli stati d’animo o le emozioni sono esperite. Per questo tipo di spiegazione è essenziale che vi siano caratteristiche del movimento che possano essere percepite in due modi differenti: attraverso il sentimento organico e cinestesico nella percezione del movimento corporeo e attraverso l’ascolto nella percezione del movimento musicale. L’irrequietezza e l’agitazione sono probabilmente i due esempi che forniscono il maggiore supporto alla spiegazione di Pratt. Qualcosa è in uno stato di irrequietezza se essa è incessantemente in uno stato di movimento. Qualcuno che è irrequieto trova difficile starsene fermo e si muoverà nervosamente. Egli può percepire l’incessante movimento del suo corpo tramite sensazioni corporee/fisiche, nel qual caso egli prova irrequietezza, oppure è consapevole della sensazione di irrequietezza. E, analogamente, la musica può essere soggetta a uno stato di incessante cambiamento. Ancora, qualcosa è in uno stato agitato se si sta muovendo in avanti e indietro o se sta tremando. Qualcuno che è agitato si comporterà in modo agitato salvo che non reprima la sua inclinazione; ed egli può sentire/avvertire i movimenti agitati che il suo corpo compie. E la musica può riprodurre in se stessa uno stato simile all’agitazione. Tuttavia, sostiene Budd, rilevando quella che a suo avviso rappresenta un’insormontabile difficoltà nell’ipotesi avanzata da Pratt, il ragionamento fatto a proposito dell’irrequietezza e dell’agitazione non sembra poter essere esteso alla maggioranza delle emozioni, degli stati d’animo, o 278 Ivi, pp. 197-198. 183 più in generale delle condizioni psicologiche in cui una persona può trovarsi, e che vengono normalmente attribuite − nella critica musicale − determinate composizioni. Le caratteristiche che individuano il movimento di un oggetto possono essere costituite dal numero di movimenti che esso compie, dalle parti dell'oggetto che sono in movimento, dalle modalità, dall’estensione, dalla velocità e dalla forza di ogni movimento e dalla resistenza con cui ogni movimento viene sostenuto. È solo la condizione psicologica (ovvero stato d’animo o emozione) che può essere definita da un insieme di caratteristiche di questo tipo che può accordarsi con l’ipotesi di Pratt. Ma, osserva Budd, non vi è alcun insieme di siffatte caratteristiche che definisca (tanto per fare un esempio piuttosto indicativo) l'emozione della tristezza, ovvero che specifichi ciò che una persona prova quando si sente triste, ed in relazione al quale tale sentimento sia caratterizzato come tristezza. La tristezza, infatti, è una forma di infelicità, e quando qualcuno si sente infelice non c’è nessun insieme di caratteristiche proprie del movimento corporeo che dia il suo nome a quel sentimento. Inoltre, la tristezza è un tipo specifico di infelicità: è l’infelicità che si prova per una perdita, per una sofferenza, per una delusione. E i movimenti corporei che sono indicativi di infelicità non sono in se stessi sufficienti a determinare quale sia l’oggetto dell’infelicità di cui essi sono sintomo: non vi sono movimenti fisici che sono specifici della tristezza in quanto distinta dalle altre forme di infelicità. Pertanto, la descrizione della musica come triste non può essere compresa facendo uso del modello che Pratt propone. Budd rileva che non sarebbe una replica adeguata all’argomento da lui sostenuto affermare che un certo tipo di movimento corporeo costituisce una parte, ma solo una parte, di ciò che qualcuno prova quando si sente triste. Poiché anche se questo fosse vero, non sarebbe sufficiente ad autorizzare l’attribuzione di tristezza alla musica nella maniera difesa da Pratt. Se una persona, quando si sente triste, sente o prova qualcosa in più di questo tipo di movimento, allora − in accordo col modello di Pratt − dovremmo attribuire, alla musica che incarna questo movimento, qualcosa in meno dell’intera condizione emotiva o psicologica indicata dalla parola ‘triste’. Pratt sostiene che certe parole, quando sono usate per le emozioni e gli stati d’animo, indicano esperienze psicologiche che includono tra i loro componenti varie forme di movimento. Ma la conclusione che egli trae da ciò non segue necessariamente: “Nella misura in cui analoghe forme di movimento possono essere presentate tonalmente (ovvero, sotto forma di variazioni o relazioni di diverse tonalità), le stesse parole si applicano altrettanto bene agli effetti musicali”. Se il mio petto si gonfia con orgoglio, questo fatto non rap184 presenta una base sufficiente a farmi attribuire (la proprietà del) l’orgoglio ad un brano musicale che possiede una certa caratteristica tendenza ad espandersi/estendersi. Una forma di movimento corporeo (secondo la spiegazione di Pratt) deve infatti costituire tutto ciò che una persona sente quando esperisce una certa emozione – essa (ovvero la forma del movimento) deve anche dare/prestare il proprio nome all’emozione – affinché la musica che esibisce la stessa forma (di movimento) possa essere correttamente caratterizzata mediante il nome dell’emozione. La proposta di Pratt non è quindi in grado, secondo Budd, di fornire una soluzione generale al problema dell’apparente attribuzione alla musica di ciò che è soggettivo. Il linguaggio della critica musicale utilizza un gran numero di termini che denotano emozioni e stati d’animo, ma il modo in cui essi vengono utilizzati non può essere compreso basandosi sul modello che Pratt difende. Il difetto principale della teoria di Pratt sta, secondo quanto evidenziato dalle critiche di Budd che abbiamo ora esposto, nell’aver ristretto la base di somiglianza tra musica ed emozioni alle caratteristiche attinenti al movimento − le quali non sono fondamentali né per la prima, vista l’impossibilità di definire con esattezza la nozione di movimento musicale (se non ricorrendo alle farraginose costruzioni metaforiche), né per le seconde, dato che i movimenti percepiti nel nostro corpo non esauriscono la componente fenomenica delle nostre emozioni e dei nostri stati d’animo. La soluzione sta quindi, secondo Budd, nel ripartire dall’idea sottesa al modello isomorfico e rielaborarla in una forma più elastica, che sappia cioè dar conto della molteplicità di fattori e di elementi che possono costituire il terreno comune della musica da un lato e delle emozioni dall’altro, e che non si lasciano ridurre (come voleva invece Pratt) ad aspetti relativi al movimento percepito. Il modello isomorfico proposto da Budd trova espressione in quella che lui chiama “concezione minimale di base” dell’espressività musicale. Vale la pena, a tal proposito, riportare l’intero passo in cui troviamo un’esaustiva spiegazione di tale concezione: Il concetto minimale di base dell’espressione musicale delle emozioni risulta essere questo: quando ascoltate una certa musica come espressiva dell’emozione E − quando sentite E nella musica − voi sentite la musica come se suonasse nel modo in cui E viene vissuta 279 ; la musica è espressiva di E se è corretto sentirla in questo modo, o se il pieno apprezzamento della musica richiede che l’ascoltatore la senta in que279 La frase ‘quando ascoltate una certa musica come espressiva dell’emozione E − quando sentite E nella musica − voi sentite la musica come se suonasse nel modo in cui E viene vissuta’ si può anche tradurre così: ‘quando nell’ascoltare una certa musica si pensa che sia espressione dell’emozione E − quando si sente l’emozione E nella musica −, si sente la musica risuonare nel modo in cui l’emozione E viene vissuta’ . 185 sto modo. Pertanto, il senso in cui sentite l’emozione nella musica − il senso in cui essa è una proprietà udibile della musica − sta nel fatto che percepite una somiglianza tra la musica e l’esperienza dell’emozione […] La spiegazione dà ragione anche di una caratteristica sovente rimarcata dell’esperienza musicale, ovvero del fatto che la musica può essere sentita come espressiva di diverse emozioni nello stesso lasso di tempo: ciò è possibile in quanto è possibile che vengano percepite simultaneamente delle relazioni di somiglianza tra sentimenti diversi, se non addirittura opposti. Inoltre essa fornisce una solida base all’idea, apparentemente paradossale, secondo cui nell’esperienza della musica noi percepiamo direttamente ciò che normalmente percepiamo indirettamente (attraverso cioè il suo manifestarsi nell’apparenza corporea), ovvero la ‘vita interiore’ dell’emozione. O, nella formulazione di Schopenhauer, all’idea secondo cui la musica è una rappresentazione di ciò che non può mai essere direttamente rappresentato. Sebbene la somiglianza tra una cosa e un’altra non richieda che il soggetto che la percepisce debba essere consapevole di ciò in cui la somiglianza consiste, la percezione (non-creativa) di una somiglianza richiede che le due cose debbano essere simili in un aspetto che è responsabile della percezione. Pertanto l’emozione può essere propriamente sentita nella musica nel senso sotteso alla somiglianza trans-categoriale solo nella misura in cui la musica e l’emozione si assomigliano. Inoltre, affinché si possa giustificare la percezione di una somiglianza tra un oggetto e un altro identificando una proprietà comune attraverso la riflessione sull’aspetto manifesto dei due oggetti stessi, l’essenza della somiglianza non deve trovarsi al di sotto della soglia della consapevolezza, sì da non poter essere rilevata e resa esplicita. Perciò questo tipo di giustificazione riflessiva della percezione della somiglianza tra la musica e le emozioni richiede che la musica e le emozioni debbano assomigliarsi in qualche maniera (che sia) evidente. Ma l’aspetto per cui i due oggetti sono simili, e che è responsabile dell’impressione di somiglianza, potrebbe anche rimanere al sotto della soglia della consapevolezza, nel qual caso la sua rilevazione competerebbe più a un’investigazione scientifica, che non a una riflessione sugli aspetti manifesti degli oggetti» 280 . Appare dunque risuonare forte quanto mai l’eco dello slogan di Pratt, “music sounds the way emotions feel”. Questo spiega più che mai quindi il fatto che per Budd, come correttamente rileva anche Bertinetto281 , l’analogia tra l’espressione musicale e l’espressione reale non implica l’utilizzo di metafore, ma semplicemente che l’ascolto della musica come triste è un caso reale del sentimento della tristezza. La tristezza, sarà il caso di ricordare ancora una volta, è infatti per Budd una proprietà udibile della musica. Il modello isomorfico fin qui delineato e riassunto nella concezione minimale di 280 M. Budd, Values of Art, cit., pag. 135-137. A. Bertinetto, “Peter Kivy e il dibattito sul «formalismo arricchito»”, in Filosofia della musica. Un’introduzione, cit. pag. 340, nota 31. 281 186 base è piuttosto vicino a quello di Pratt; in entrambi vi è l’idea che l’espressività musicale sia ascrivibile a una somiglianza tra la musica e le emozioni; la differenza sta, come anticipato, nella base di somiglianza che per i due autori accomuna musica e emozioni. Se per Pratt tale base riguarda essenzialmente caratteristiche corporee associate al movimento, Budd ritiene che sia un errore rappresentare il ‘feeling’ proprio di un’emozione, come ad esempio l’ammirazione, il disgusto, la gratitudine, la timidezza o la nostalgia, come composto unicamente da sensazioni corporee. Una tale identificazione potrà apparire credibile solo se ci concentriamo esclusivamente su un numero esiguo di casi particolari che si ritiene che siano paradigmatici − ad esempio, la paura per un pericolo imminente. In questi casi vi sono delle evidenti manifestazioni corporee che il soggetto dell’emozione esperisce: l’adrenalina, il battere del cuore, il drizzarsi dei peli, il brivido lungo la spina dorsale. Ma per la maggior parte delle emozioni e degli stati d’animo, le sensazioni corporee caratteristiche, se esistono, sono poche; e per quanto riguarda l’intero spettro delle emozioni, compresa la paura, se anche un’emozione, nel venire esperita, fosse sempre accompagnata da sensazioni corporee caratteristiche, queste non riuscirebbero a identificare il sentimento (feeling) proprio dell’emozione. Piuttosto, è l’attitudine valutativa, provata dal soggetto, nei confronti del modo in cui il mondo viene rappresentato, e non le sensazioni corporee che vengono patite, che rende la sua reazione una reazione emotiva e serve a definire l’emozione che il soggetto prova. La verità è che le sensazioni corporee sono un elemento secondario dell’esperienza di un’emozione. I sentimenti intrinseci all’esperienza delle emozioni sono invece, primariamente, forme percepite di desiderio e di repulsione (come per l’invidia, il disprezzo o la vergogna), di dolore (come per la paura o per il cordoglio), di piacere (come per la gioia, il divertimento o l’orgoglio) e dispiacere, soprattutto il dispiacere derivante da un desiderio frustrato (come per la rabbia). Il sentimento proprio di un’emozione spesso è un fenomeno complesso, ed è costituito da più di uno solo di questi elementi. Inoltre, i sentimenti che sono coinvolti ne, ma non sono intrinseci a, l’esperienza delle emozioni, comprendono, oltre alle sensazioni corporee, i sentimenti di energia o di spossatezza (come per la gioia o la tristezza), di movimento o di impulsi al movimento (come per il tremore corporeo legato all’ansia), di inclinazioni o di impulsi all’azione (come per la collera), o di tensione o di rilassamento (come per l’eccitamento e per il sollievo). Sulla scorta di questa concezione delle emozioni, e in particolare della loro componente esperienziale − la quale, sola, può espressa dalla musica astratta, in quanto 187 questa, come detto, può riflettere solo il carattere non-rappresentazionale e nonconcettuale delle esperienze emotive −, Budd procede ad enumerare quelle che secondo lui sono le risorse in virtù delle quali la musica è capace di rispecchiare quegli aspetti del sentimento che sono accessibili ad essa − i quali aspetti comprendono primariamente, lo ripetiamo, la mera realtà del desiderio e la facilità o la difficoltà con cui esso viene soddisfatto, la tensione e il rilassamento, il piacere, il dolore, la soddisfazione e il dolore nelle loro varie gradazioni, e secondariamente, le differenze nella direzione, nella magnitudo, nella velocità e nel ritmo del movimento percepito, i livelli di energia avvertita, e così via. Una prima risposa è costituita dal meccanismo che regola le melodie. Già Schopenhauer aveva a suo tempo sottolineato la corrispondenza tra l’aspetto melodico della musica (da un lato), e il processo secondo cui i desideri sorgono e vengono soddisfatti (dall’altro). Una melodia, per come la concepiva Schopenhauer, è un processo in cui c’è una progressione da un punto di riposo relativo a un altro punto dello stesso tipo: le frasi che intrecciandosi compongono la melodia, formano dei processi più brevi le cui note conclusive rappresentano il traguardo di tali frasi, ma questi traguardi sono solamente momentanei e la melodia giunge al termine solo quando essa ritorna alla nota fondamentale in maniera definitiva. Tale processo è analogo al modo in cui, per conseguire un risultato che desideriamo e che ci siamo prefissi, noi ci impegniamo strenuamente per raggiungere un traguardo intermedio, che probabilmente raggiungeremo e dal quale saremo momentaneamente appagati, ma solo fino a che non sorge un nuovo desiderio che richiede di essere soddisfatto, e così via fino a che il traguardo finale viene raggiunto. Più semplicemente, possiamo dire vi è una corrispondenza naturale tra il passaggio, che è integrale alla musica tonale, da quei suoni musicali che sono in attesa di risoluzione a quelli che non lo sono, e il passaggio dagli stati di desiderio agli stati di soddisfazione, ovvero dagli stati di tensione agli stati di liberazione. Un’altra corrispondenza interessante è, secondo Budd, quella tra la dimensione della frequenza e la dimensione verticale dello spazio, e, di conseguenza, tra le successioni di note aventi una differente frequenza (rispetto alla durata e all’intensità) e i movimenti (ritmici) verso l’alto e verso il basso aventi maggiore o minore magnitudo e velocità, sì da permettere alla musica di riflettere i movimenti che vengono percepiti e che sono integrali a determinati tipi di emozione (come avviene per il tremore del corpo, che è intrinseco al sentimento di una forte ansia o agitazione). Ma le corrispondenze tra musica e emozioni non finiscono qui. I livelli di energia percepita trovano degli analoghi naturali nelle 188 variazioni della forza della pulsazione musicale, del grado del movimento e della massa musicale, ad esempio. Il sentimento del fluttuare o dell’essere eccitati può essere rispecchiato dalla musica (rispettivamente) attraverso un alleggerimento della tessitura musicale, probabilmente riducendola a un’unica, e molto acuta, linea melodica, o attraverso degli aumenti di frequenza, di volume e di ritmo. In virtù di queste ed altre risorse Budd ritiene che non vi siano particolari difficoltà, almeno in teoria, a giustificare la nostra percezione di una somiglianza tra la musica e le emozioni, gli stati d’animo e i sentimenti: a tal fine è sufficiente indicare gli aspetti che accomunano entrambi, e che sono stati appena elencati e analizzati. I soli casi in cui possono sorgere delle difficoltà, sono quelli in cui la base della somiglianza si trova al di sotto della soglia della consapevolezza (come nel caso, ad esempio, del suono malinconico posseduto da una triade minore, in quanto opposta a una triade maggiore). Budd riconosce che, per quanto accuratamente possiamo ragionare su come la musica risuona e su come le emozioni vengono vissute, ci sono situazioni (di cui egli peraltro dà pienamente conto nella sua concezione minimale, riportata in precedenza) in cui potremmo non essere capaci di identificare una proprietà comune che sia responsabile della percezione della somiglianza − nel qual caso dovremmo accontentarci del fatto che si hanno delle risposte comuni. Al di là di tali casi, comunque marginali, il modello isomorfico proposto da Budd si rivela certamente più elastico di quello Pratt, essendo la ‘base di caratteristiche comuni’ tra musica e emozioni indicata dal primo più vasta e più coerente (con la dinamica esperienziale delle emozioni) di quella individuata dal secondo. Ma la maggiore elasticità della teoria di Budd non si misura solo sulla estensione della suddetta base, ma anche sull’integrazione, da lui successivamente operata, della propria concezione minimale dell’espressività musicale − secondo la quale, lo ripetiamo, la nostra esperienza del sentire la musica come emozionalmente espressiva equivale alla nostra esperienza dell’ascoltare la musica risuonare nel modo in cui un’emozione viene sentita − con altre possibili concezioni. Egli riconosce infatti che esistono altre concezioni della percezione dell’espressione musicale delle emozioni, le quali sono legittimamente applicabili alla musica. La mossa successiva operata da Budd consiste quindi nel vedere in che modo tali concezioni ulteriori possono essere innestate sulla concezione minimale, la quale spiega la percezione dell’espressività musicale ricollegandola alla semplice percezione di una somiglianza tra la musica e i sentimenti. 189 Budd guarda soprattutto alla teoria del finzionalmente vero (make-believedly) 282 , sostenuta da Kendall Walton, per il quale la frase posta nella forma “M è E” (laddove M indica un brano musicale, e E indica un termine emotivo come triste, allegro, angosciato, ecc.) più che metaforicamente è da intendersi finzionalmente. Tale teoria, spiega Budd, sembra in grado in qualche misura di approssimarsi alla sua teoria dell’espressività musicale, sebbene egli non sposi appieno la formula del make-believe nell’accezione integrale di Walton, un’accezione caratteristicamente coinvolgente in modo decisivo l’immaginazione (imagination-involving). Walton esplicita la sua teoria immaginativa dell’espressione musicale nell’articolo “What Is Abstract about the Art of Music?” 283 nel modo che segue: un passaggio P è espressivo di E se e solo se l’ascoltatore è propenso, nell’ascoltare P, a immaginare o che egli sta ascoltando l’espressione comportamentale, da parte di qualcuno, di E, oppure che egli sta prendendo coscienza dei propri sentimenti verso E. Con la teoria di Kendall Walton Budd condivide in linea generale l’enfasi posta sulle emozioni immaginate in connessione con la musica ascoltata, condivide cioè in ultima istanza l’idea di base dell’approccio del “make-believe”, vale a dire: l’idea che la musica emozionalmente espressiva è quella musica designata per incoraggiare l’ascoltatore ad immaginarsi il sopravvenire di esperienze emotive. Un’idea, possiamo facilmente comprendere, analoga sotto questo aspetto anche a quella che, abbiamo già esposto, è sostenuta da Jerrold Levinson, il quale anch’egli mette in gioco una simile ipotesi immaginativa nella sua teoria empatica dell’ascoltare la musica immaginariamente come una persona, un agente che incarna l’emozione, con la quale appunto mediante l’immaginazione siamo portati ad immedesimarci. Ora, per quanto propenso ad accogliere l’idea fondante della teoria del make-believe, Budd specifica, in Music and Communication of Emotion, che esistono diversi modi in cui la nozione di verità di finzione può essere utilizzata per spiegare il concetto dell’espressione musicale delle emozioni. Nello specifico – egli spiega – si possono distinguere tre modi particolari in 282 Kendall Walton, Pictures and Make-Believe, in “Philosophical Review” LXXXII (July 1973), 298299. 283 Kendall Walton, What Is Abstract about the Art of Music?, in “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 46, 1988. 190 cui “M è E” potrebbe essere analizzata nei termini della nozione di verità di finzione, ed è necessario quindi determinare quale di tali modi sia quello più credibile 284 . 1) In primo luogo: si consideri ad esempio l’emozione dell’angoscia. Secondo il suggerimento di Walton “M è angosciato” dovrebbe probabilmente essere inteso come “*M esprime l’angoscia (di qualcuno o di qualcosa)* (MB)” 285 . Al fondo di questa spiegazione vi è l’idea del finzionalmente vero secondo cui la musica espressiva di emozioni viene esperita come se essa sia, finzionalmente, l’espressione sonora dell’emozione di un individuo. Budd rileva che questa prima ipotesi non cattura un’importante concezione dell’espressione musicale delle emozioni, dal momento che tale idea non si applica a molta della musica che esperiamo come espressiva di emozioni e che ha valore per noi proprio in quanto la esperiamo come espressiva di emozioni. L’idea che l’emozione venga espressa attraverso il corpo di qualcuno non rientra nemmeno parzialmente nell’attitudine che, riflette Budd, abbiamo nei confronti di questo tipo di musica, vale a dire: quando sento un’emozione nella musica, la mia relazione con questa emozione non è mediata dall’idea che i suoni emanino dal corpo di una persona in virtù della sua condizione emotiva. Per tale ragione egli ritiene necessario quindi, diciamo così, invalidare questa prima variante e utilizzare in altro modo la nozione di verità di finzione – e, precisamente, in un modo che stabilisca una relazione più stretta tra l’ascoltatore e l’emozione che viene espressa nella musica – se il risultato finale deve essere quello di conseguire un concetto più completo dell’espressione musicale delle emozioni. 2) Un secondo modello esplicativo basato sulla nozione di finzione, un modello che evita qualsiasi riferimento all’espressione finzionale delle emozioni, potrebbe essere questo: “M è angosciato” deve essere inteso come “*M è angosciato* (MB)”. Ma non è chiaro come lo si dovrebbe interpretare. Se può essere letteralmente vero che qualcosa è angosciato solo se è una creatura senziente (in breve, se è un individuo), allora la definizione suggerisce la seguente lettura: “*M è un individuo che è angosciato* (MB)”. Budd tuttavia non è propenso ad esplorare questa possibilità, ritenendo che vi sia una lettura ad essa strettamente imparentata ma assai più esplicativa. Secondo quest’ultima, “M è angosciato” va inteso come “*M è un’esperienza di angoscia* (MB)”, o (il che è lo stesso) “*M è l’esperienza che un individuo ha dell’angoscia* (MB)”. Questa è una possibilità più invitante, poiché è più credibile, precisa Budd, 284 L’analisi di queste tre diverse modalità è svolta da Budd in, Music and the Communication of Emotion, cit., pp. 132-137. 285 “*p* (MB)” deve essere letto come “è finzionalmente vero che p”. 191 rappresentare finzionalmente la musica come l’esperienza di una persona che rappresentarla finzionalmente come una persona. Secondo questa seconda lettura dell’interpretazione finzionale, quindi, quando ascolto una musica che descrivo come ‘angosciata’, io fingo che la mia esperienza di M sia un’esperienza di angoscia, oppure immagino che, nell’esperire M, io stia provando un’esperienza di angoscia. Una siffatta caratterizzazione della mia esperienza sarebbe, per Budd, invitante sotto vari aspetti. Uno di questi è che essa spiegherebbe la nostra inclinazione tanto ad affermare, quanto a negare, che esperiamo l’emozione che sentiamo essere espressa dalla musica: io esperisco davvero quell’emozione, ma solo finzionalmente. Un altro aspetto che rende appetibile la suddetta caratterizzazione è che essa spiegherebbe la nostra inclinazione a rappresentare l’espressione musicale dell’emozione come intrinsecamente particolare: il mio sentire M è un’esperienza diversa dal mio sentire qualsiasi altra cosa, sicché il mio *esperire l’angoscia* (MB) nel sentire M è un’esperienza diversa dal mio *esperire l’angoscia* (MB) nel sentire qualcos’altro. Un terzo fattore di attrattiva verso questa caratterizzazione è che essa rappresenta l’apprezzamento del lato emozionalmente espressivo della musica in modo tale da non ridurre la musica a un semplice veicolo per la comunicazione delle emozioni: se apprezzo un brano musicale in virtù del fatto che sento tale brano come espressivo di una certa emozione, ciò che sto apprezzando è la mia esperienza del sentire la musica, che equivale al mio *esperire l’emozione* (MB). Ma, a fronte di queste attrattive, Budd è dell’avviso che non sia poi così desiderabile rappresentare la mia esperienza del sentire M come angosciato in un modo tale che il mio sentire M debba equivalere al mio *esperire l’angoscia* (MB), ovvero continuare a sostenere che, quando sento M come angosciato, deve essere finzionalmente vero, relativamente a me stesso, che io sono in uno stato d’angoscia. Poiché anche se questo fosse vero, non è necessario che le cose stiano in questi termini: la musica angosciata non sempre esige che l’ascoltatore che riconosce l’angoscia sia finzionalmente angosciato. Posso certamente immaginare che la mia esperienza di un brano musicale sia un’esperienza di angoscia, e questa esperienza immaginativa può propriamente essere descritta come un’esperienza del sentire la musica come espressiva di angoscia. Ma essa non è l’unica esperienza di questo genere, e probabilmente non è nemmeno la più importante. 3) Il terzo modo in cui “M è angosciato” potrebbe essere analizzato nei termini della nozione di verità di finzione, il quale modo evita anche qualsiasi riferimento all’espressione finzionale di emozioni, è anche quello preferibile per Budd. Posto nella 192 sua forma semplice (questo terzo modello afferma che): “M è angosciato” deve essere inteso come “È la natura di M che fa sì che *l’angoscia viene esperita* (MB)”. In altre parole: “È finzionalmente vero che l’angoscia viene esperita, e questa verità finzionale è causata da M”. Un vantaggio di questo modello esplicativo è, certamente, sostiene Budd, che esso offre una concezione più liberale dell’esperienza del sentire l’angoscia nella musica, rispetto a quella fornita dal modello precedente (anch’esso collegato all’idea di verità di finzione). Poiché, sebbene esso esiga che la mia esperienza della musica che io sento come espressiva dell’angoscia sia guidata dalla mia consapevolezza che è finzionalmente vero che l’angoscia viene esperita, esso non esige che debba essere finzionalmente vero che tale angoscia sia la mia, ovvero che io sia angosciato. In altre parole, chiarisce Budd in Values of Art 286 , questa terza lettura del modello finzionale dell’espressività musicale prevede che anziché immaginare che la vostra esperienza dell’ascolto del brano musicale sia un’esperienza del provare il sentimento, voi potreste semplicemente immaginare che quella musica sia un’istanza di quel sentimento. Questa terza ipotesi di tipo immaginativo richiede che voi utilizziate l’immaginazione; ma tale immaginazione non introduce all’interno di ciò che state immaginando, e, in particolare, non esige che voi concepiate l’istanza immaginaria del sentimento come se fosse la vostra. Se ci si immagina che un brano musicale sia l’istanza di un sentimento, ci si immagina dunque qualcuno che stia provando tale sentimento. Il soggetto del sentimento non deve, tuttavia, essere concepito come qualcuno in particolare − il compositore o noi stessi, ad esempio, tanto per citare i due candidati più probabili −, ma può assumere la forma alquanto indefinita di ‘persona’ immaginata nella musica. Questa terza ipotesi si innesta agilmente sul modello isomorfico rappresentato dalla concezione minimale di base: è sufficiente riconoscere che la causa del nostro immaginare, durante l’ascolto di un brano musicale, che esso sia un’istanza di una certa emozione, poggia sulla percezione, più o meno consapevole, di un certo numero di somiglianze tra certe caratteristiche strutturali del brano e il feeling interno all’esperienza dell’emozione che attribuiamo alla musica ascoltata. Ma ci sono altri due vantaggi che rendono questa terza ipotesi di tipo immaginativo particolarmente adeguata a descrivere l’espressività musicale, e che meritano quindi di essere considerati. Il primo riguarda l’annosa questione − per le teorie, come quella di Budd, che sostengono che le proprietà emotive sono proprietà che appartengono alla musica − di come dar conto del fatto 286 M. Budd, Values of Art, cit., pp. 147-157. 193 che, per quanto irrilevanti ai fini dell’attribuzione dei termini emotivi alla musica, le risposte emotive suscitate dalla musica espressiva di emozioni sono una forma di interazione (dell’ascoltatore con la musica) che ricorre spesso e che è dunque assai importante. Budd sostiene a tal proposito che ci sono fondamentalmente due modi in cui immaginarsi un’occorrenza di un’emozione può sollecitare una risposta emotiva: si può essere o direttamente contagiati dall’emozione che si sta immaginando durante l’ascolto di un brano, oppure si può essere colpiti da tale emozione in maniera simpatetica o antipatetica. Se esperite una risposta simpatetica all’emozione espressa, sostiene Budd, sarete ovviamente consapevoli del fatto che l’emozione alla quale state rispondendo non è reale, ma è finzionale: state solo immaginando un’esperienza di quella emozione, ed è questa emozione immaginata che vi colpisce. La vostra reazione emozionale simpatetica sarà quindi diversa rispetto a una situazione di vita reale, dove la vostra reazione si basa su una credenza relativa a un effettiva occorrenza dell’emozione in una particolare persona; e lo sarà per più di un motivo. Poiché, nel caso nel caso dell’espressione musicale dell’emozione, l’emozione dalla quale siete colpiti non solo è immaginata (anziché reale), ma è anche astratta e, in un certo senso, disincarnata: l’emozione non riguarda nessun determinato stato di cose e non è esperita da nessuna persona avente caratteristiche definite (età, razza, sesso, e così via). Se, ad esempio, l’emozione è quella del trionfo, si tratterà di un trionfo il cui oggetto non è specificato, così come non è specificato l’individuo al quale attribuirlo; si tratterà infatti del sentimento trionfante non di un particolare individuo, ma di una persona indeterminata, la quale è definita unicamente dalla natura dell’emozione che ella finzionalmente prova. L’emozione, qui, non ha né un oggetto definito né un soggetto definito. Pertanto la vostra risposta simpatetica all’esperienza immaginata dell’emozione consisterà unicamente in un’emozione diretta verso tale emozione astratta e disincarnata: proverete un sentimento simpatetico verso la malinconia o la solitudine, oppure proverete piacere nel trionfo o nella gioia immaginarie di un’altra persona. Se la vostra risposta nei confronti dell’aspetto emozionalmente espressivo della musica rispecchia l’emozione espressa, ovvero se venite ‘contagiati’ da tale emozione, l’emozione espressa dalla musica verrà anche in questo caso esperita come astratta e, nel senso appena chiarito, disincarnata. Ma non si potrà dire che immaginerete semplicemente un’occorrenza dell’emozione: voi esperirete l’emozione, e la esperirete nella 194 forma in cui essa viene espressa dalla musica. Pertanto sperimenterete come ci si sente a provare malinconia, solitudine o trionfo, senza che ricolleghiate tale sentimento a un pensiero che specifichi l’oggetto del sentimento stesso. Inoltre, sarete consapevoli del fatto che questo sentimento è prodotto in voi solo dall’immaginarvi l’emozione che una persona fittizia prova, sicché il sentimento di malinconia, solitudine o trionfo che proverete verrà da voi sperimentato non solo in una forma indefinita ovvero priva di oggetto (il che potrebbe darsi anche per i sentimenti che proviamo nella vita reale), ma anche in una forma tale che non sarà corretto descrivervi come malinconici, soli o trionfanti. Il fatto che sperimentiate come ci si sente a provare malinconia, solitudine o trionfo non implica che vi sentiate malinconici, soli o trionfanti, ovvero che vi troviate in uno stato, o condizione, di malinconia, solitudine o trionfo. L’ultimo vantaggio del terzo modello finzionale, costruito da Budd a partire dalla teoria di Walton e innestato sulla propria concezione minimale dell’espressività musicale, consiste nella sua capacità di dar conto, almeno in parte, del valore artistico della musica. Se tale valore, secondo Budd, non può ridursi alla sola presenza di proprietà espressive − in quanto, secondo lui, il potenziale artistico di un brano musicale dipende soprattutto dalla sua struttura formale-compositiva, e quindi ‘puramente’ musicale 287 −, è pur vero, egli aggiunge, che l’immaginazione delle emozioni che ha la sua base nella musica, talvolta permette all’ascoltatore di sperimentare immaginariamente la natura intima degli stati emotivi in una maniera particolarmente vivace e intensa (in virtù della complessità della composizione musicale) e quindi soddisfacente. Inoltre, un brano musicale può essere composto in una maniera tale da condurre l’ascoltatore dotato di immaginazione attraverso una successione di stati d’animo le cui vicissitudini formano un dramma dotato di una sua logica interna e che si risolve in un modo che dona una profonda soddisfazione, in quanto concludendosi comunica probabilmente il raggiungimento di un’armonia, di una pace, di una stabilità, dell’accettazione del destino e della comprensione degli eventi. Per di più, esperendo in questo modo la musica emozionalmente espressiva, l’ascoltatore rinuncia all’autonomia della propria immaginazione per consegnarsi nelle mani del compositore. Se la fiducia dell’ascoltatore è ripagata dall’ascolto, il comprendere (da parte sua) che l’esperienza dell’emozione che egli im- 287 Budd cita, come esempio paradigmatico di valore artistico, il Ricercare a Sei voci di Bach. Sebbene si tratti indubbiamente di una musica splendida, il suo fascino risiede, secondo il filosofo americano, “non nel suo costituire l’espressione di vari tipi di stati emotivi, ma nel modo magistrale con cui Bach tratta le voci, le quali si intrecciano armoniosamente secondo schemi sempre cangianti, sicché il mondo sonoro dell’ascoltatore è caratterizzato da sviluppi multipli che cambiano in continuazione all’interno di una struttura ordinata in un modo eccezionalmente chiaro e complesso” (Budd, Values of Art, cit., p. 156). 195 magina o prova (durante l’ascolto) non è unicamente la sua, ma può essere vissuta anche ad altre persone ed è stata resa possibile dall’immaginazione creativa del compositore, sviluppa in lui un senso di comunione con le altre persone che con la sua sola e personale attività immaginativa non potrebbe raggiungere. In conclusione, possiamo rilevare come l’incessante tentativo di Budd di opporsi alla necessità della tesi metaforica rimanda all’idea di ribadire il principio della letteralità delle descrizioni emotive della musica e quindi la loro piena comunicabilità, così dimostrando anche la fallacia delle tesi solipsistiche e dei linguaggi privati come si evince (pur se con qualche esitazione) dalla presa di distanza da Langer sul piano del simbolismo presentazionale, e dal rifiuto delle riflessioni intimistiche di Mendelssohn e di Deryck Cooke. È questo forse il maggiore merito che gli va ascritto: mantenere le attribuzioni emotive alla musica sempre oltre la soglia normativa della referenzialità ordinaria − compito che egli assolve elaborando un modello isomorfico, sulla scia di quello di Pratt ma senza ricadere nelle ristrettezze di quest’ultimo. Ugualmente meritoria è la tendenza generale a mantenere un atteggiamento di cautela a fronte della consapevolezza di una realtà estremamente articolata che non sempre supporta l’univocità di regole generali; cautela che prende forma nell’integrazione, proposta da Budd, della sua concezione minimale ‘isomorfica’ di base, con un’ipotesi finzionale desunta da Walton. Come contropartita, emerge forse il rischio che, in seguito a tali integrazioni, la concezione isomorfica perda la sua specificità e quindi la sua intrinseca ricchezza di senso. 196 6. Stephen Davies: le caratteristiche esteriori delle emozioni La posizione di Stephen Davies 288 , nell’opera Musical Meaning and Expression, prende le mosse, come in molti altri casi che abbiamo analizzato, da una pars destruens piuttosto dettagliata e articolata. Egli infatti considera e rifiuta una alla volta: a) le teorie descrittive della musica: l’idea cioè che la musica descriva (come il linguaggio); b) le teorie rappresentazionali, per le quali la musica ha un contenuto raffigurativo nello stesso modo in cui i quadri rappresentali/figurativi lo hanno. c) le teorie simboliche, per le quali invece la musica simbolizza (in modo distintivo) le emozioni; nel caso specifico, Davies si trova in netta rottura con la tesi del simbolismo di Langer e di Goodman. Ugualmente Davies resiste all’idea: a) che l’espressività della musica possa spiegarsi solamente come libera espressione della personalità del compositore, sebbene a volte i compositori esprimano davvero, nell’atto del comporre, le emozioni che attraversano il proprio animo. b) che l’espressività della musica consiste nel suo potere di commuovere l’ascoltatore, anche se gli ascoltatori qualche volta sono commossi dalla musica. Queste teorie infatti, per Davies, collocano il significato della musica oltre i confini del brano musicale – come se tale significato fosse un qualcosa a cui si è fatto riferimento, o che è stato denotato, o simbolizzato, o rappresentato, o sfogato, o destato. All’opposto, egli si dichiara favorevole ad una teoria diversa, la teoria cioè che colloca il significato della musica all’interno dell’opera, in quanto risiedente nelle sue 288 Stephen Davies è Senior Lecturer in Filosofia alla University of Auckland, New Zeland. Egli si è occupato, tra le altre cose, dei problemi della definizione e della valutazione dell’arte, occidentale e non (attestandosi su una posizione definibile come contestualista), nonché dell’interpretazione delle opere letterarie. Tra i suoi scritti, segnaliamo: Musical Meaning and Expression, cit.; The Philosophy of Art, Malden, Blackwell, 2006; The Expression of Emotion in Music, in “Mind”, 89, 67-86, 1980; Is Music a Language of the Emotions, “The British Journal of Aesthetics”, 23, 222-233, 1983; Attributing Significance to Unobvious Musical Relationship, “Journal of Music Theory”, 27, 203-213, 1983; Truth-Values and Metaphors, “Journal of Aesthetics and art Criticism”, 42, 291-302. 1984; The Expression Theory Again, “Theoria”, 52, 146-167, 1986; The Evaluation of Music, in “Alperson”, ed., 307-325, 1987; Review of Kivy’s Music Alone, “Canadian Philosophical Review”, 10, 368-372, 1990; The Ontology of Musical Works and the Authenticity of Their Performances, “Noûs”, 25, 21-41, 1991; Definitions of Art, Ithaca, Cornell University Press, 1991; Review of Kivy’s Sound Sentiment, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 49, 83-85, 1991; The End of Art, “A Companion to Aesthetics”, Ed. David E. Cooper, Oxford, Blackwell, 138-142, 1992; Representation in Music, “Journal of Aesthetics Education”, 27, n. I, 15-21, 1993; Musical Understanding and Musical Kinds, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 52, 69-81, 1994. 197 proprietà intrinseche. Scrive infatti Davies: «Io sostengo, nello specifico, che le emozioni espresse in musica sono proprietà del brano» 289 . Ritenendo che l’espressività sia in qualche modo “incarnata” nella musica stessa, e comunque non riferibile, se non isomorficamente, a elementi ad essa esterni, Davies rientra a pieno titolo nella vasta schiera dei post-formalisti che hanno cercato faticosamente di affrancarsi dall’originaria asetticità dello strutturalismo hanslickiano per aprire l’esperienza musicale all’universo delle emozioni umane, marcando nello specifico l’insostituibilità delle descrizioni emotive con quelle descrizioni sensibili o dinamiche che costituivano l’orientamento suggerito da Hanslick. Molte sono le analogie riscontrabili quindi col pensiero di Kivy, molte le questioni riprese e sviluppate direttamente da Malcolm Budd e molte quelle insospettabilmente rintracciabili con le teorie metaforiche rivali, da noi già prese in esame, di Goodman, Scruton e di Zangwill. Nella sostanza si ripropongono, spesso irrisolte, le difficoltà storicamente associate a tutti i reiterati tentativi di connettere, sulla base di una logica scientifica, la struttura della musica con le categorie emozionali, difficoltà accentuate dalla rinuncia alle potenzialità offerte dalle descrizioni metaforiche e dalla continua, quasi ansiosa, riaffermazione di un problematico principio di letteralità discorsiva. In particolare, precisiamo che, il valore della concezione letterale difesa da Davies rappresenta una versione della teoria già esaminata di Budd 290 : come Budd anch’egli prende posizione infatti contro chi propende per una concezione metaforica delle descrizioni musicali. Davies si oppone, in particolar modo, a quelle teorie che ipotizzano l’idea secondo cui la musica conseguirebbe il proprio effetto espressivo in virtù di una propria tipologia di simboli, rilevando la sostanziale indicibilità di tali simbolismi, tanto nel caso di Langer che in quello di Goodman. Davies si oppone pertanto a qualsiasi tipo di sistema simbolico, più o meno ineffabile, che persegua la significazione a prescindere dall’unico sistema legittimo e pubblico: quello del linguaggio letterale, salvo poi abbracciare alla fine una soluzione che individua nell’estensione connotativa dei termini emozionali l’escamotage per tenere insieme, nei termini di ciò che potrebbe definirsi, letteralmente corretto, l’oggettività della struttura musicale con i termini che adoperiamo nella descrizione delle emozioni umane. Davies sostiene, infatti, che i termini che denotano emozioni utilizzati per descrivere determinati aspetti (o modi di apparire), sia delle persone che degli oggetti naturali o delle opere d’arte, sono parassitari rispetto 289 290 S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., pag. 201. Ivi, cit., pag. 150-151. 198 all’uso che di tali termini si fa per riferirsi alle emozioni che vengono vissute; essi rappresentano cioè un uso secondario, seppur letterale, di tali termini. In tale uso secondario, i termini che denotano emozioni descrivono le caratteristiche esteriori delle emozioni (characteristics emotion in appearances), ed è in tale uso che l’espressività musicale risiede. Così scrive a tale proposito: «L’espressività della musica consiste nel suo presentare le caratteristiche esteriori delle emozioni […] Oltre a riconoscere che il parlare (ad esempio) della tristezza della musica implica un uso secondario e derivato della parola “triste”, ho sostenuto che quest’uso secondario è di un tipo a noi familiare. Esso è un uso stabilito in contesti ordinari e non-musicali in cui attribuiamo le caratteristiche delle emozioni agli aspetti esteriori delle persone, o degli animali non-umani, o degli oggetti inanimati. In tal senso, l’espressività attribuita alla musica non è misteriosamente confinata all’ambito musicale […] Le caratteristiche esteriori delle emozioni sono attribuite senza che si prendano in considerazione i sentimenti o i pensieri di ciò a cui esse sono attribuite. Questi aspetti dell’espressione non sono emozioni che sono vissute, che hanno oggetti, che implicano desideri o credenze - esse non sono affatto emozioni che occorrono/sopraggiungono. Esse sono proprietà emergenti delle cose a cui esse sono attribuite» 291 . Fondamentale è infatti per Davies la distinzione tra parole che denominano le emozioni, i sentimenti e gli stati d’animo, nel loro uso primario e le parole che denominano le emozioni nel loro uso secondario. La differenza sostanziale sta nel fatto che le prime si riferiscono ad esperienze, mentre le seconde non riguardano in alcun modo l’esperienza, ma riguardano quello che Davies definisce per l’appunto le “caratteristiche esteriori delle emozioni”. Un esempio, in primis, è per Davies il carattere dell’aspetto di una persona, del suo portamento, del suo volto, o della sua voce, che a volte viene descritto utilizzando termini che denotano emozioni. Di una persona possiamo cioè dire “egli è dall’aspetto triste” oppure “egli dà l’impressione di essere triste”. Ma in casi come questi non vogliamo dire che quella persona si sente triste; né vogliamo dire che quella persona spesso si sente triste, o che immaginiamo finzionalmente che egli si sente triste. Il riferimento cioè in questi casi non è, infatti, a qualsivoglia emozione, ma all’aspetto esteriore della persona. Esse, insomma, le caratteristiche esteriori delle emozioni sono mostrate “all’esterno” senza essere “esperite all’interno”. Le caratteristiche esteriori delle emozioni sono attribuite all’aspetto delle persone e non, come invece avviene per le emozioni, alle persone stesse. È il caso dei volti che 291 Ivi, cit., pag. 228. 199 non sentono emozioni e non pensano pensieri; essi sono non-senzienti. Le caratteristiche esteriori delle emozioni, a differenza delle emozioni vissute, non si riferiscono a oggetti emozionali e non implicano credenze, desideri o attitudini. È in questo senso che egli ritiene, dunque, che i termini che denotano emozioni non possano applicarsi alla musica nel loro uso primario, quanto piuttosto nel loro uso secondario. Dal nostro punto di vista, accreditare una estensione connotativa dei termini discorsivi equivale evidentemente a compiere un deciso passo indietro rispetto alla iniziale riaffermazione del carattere logico letterale del linguaggio e suggerisce pericolose analogie con i presupposti fondativi delle principali concezioni metaforiche moderne. Nel sistema interattivo di Max Black per esempio i termini discorsivi (nomi) non si applicano come etichette alle cose, ma vanno identificati come sistemi di implicazioni associate o come (detto in altre parole) estensioni connotative 292 . Nel caso specifico, Davies sottolinea come una tale scelta non configura di per sé una metafora, e non inficia di conseguenza la validità del linguaggio letterale, dovendosi in tal modo (letteralmente) considerare certi modi di dire, che avendo smaltito nell’uso l’originaria intrinseca contraddittorietà, acquisiscono nel tempo la piena legittimità delle espressioni ordinarie. L’apertura concessa da Davies ci pare ispirata alla distinzione già prospettata da Davidson tra il significato (letterale) del linguaggio e il suo uso nella prassi discorsiva, uso che consentirebbe nel caso in questione di aggirare i limiti descrittivi posti dall’univocità denotativa, ma che ci pare ispirata alla necessità di riconoscere legittimità di diritto a ciò che si presenta già con una innegabile attestazione di fatto, allo scopo di sottrarre certe espressioni dell’uso comune dal dominio metaforico per ricondurle su un piano di letteralità. Ma in fondo anche in questo caso la distinzione appare non necessaria, la questione sembra di forma più che di sostanza: postulare un grado di letteralità intermedio, ovvero di secondo livello per cooptare all’interno del primo (quello letterale in senso pieno) certi usuali modi di dire che si costituiscono nel tempo in consolidate realtà linguistiche atipiche per sottrarre spazi semantici al regno del metaforico, ci sembra un’operazione più politica che filosofica, dettata dall’urgenza più che dalla ragione. Urgenza di dover in qualche modo sistematizzare quelle espressioni che non rientrando a pieno titolo nei canoni della denotazione discorsiva, costituiscono certamente motivo di grave imbarazzo e, tuttavia, si rendono necessarie quando come nel caso specifico un linguaggio troppo scientifico impedirebbe a causa della sua rigidità di parlare di cose 292 Rinviamo alla trattazione della suddetta teoria già esposta nelle premesse storiche del dibattito sulla metafora. 200 inanimate nei termini propri degli esseri senzienti ovvero di estendere le categorie linguistiche da un dominio concettuale a un altro. Ma l’operazione non è priva di rischi, poiché legittimando i casi sopradescritti, come metafore morte, Davies finisce per riconoscerne implicitamente la legittimità, almeno sotto il profilo storico. Il problema delle metafore morte introduce una questione ampiamente dibattuta tra gli studiosi: capovolgendo i termini della questione, potremmo considerare che quando una metafora smaltisce la sua iniziale contraddizione, di cui l’irriflessiva appropriazione da parte della comunità dei parlanti ne è la dimostrazione, allora avrà dilatato lo spazio semantico del linguaggio, aggiustandosi progressivamente verso la sua estrinsecazione in ragione dei modi con cui entra a far parte di quel linguaggio: nella prima fase della sua “vita” la sua caratteristica è quell’indeterminatezza, condizione necessaria che le permette di entrare in contatto con forme di realtà extra-semantiche, la seconda fase è quella che consente almeno in parte di acquisire quelle nuove conoscenze, (nuovi domini di riferimento) introducendole nel linguaggio. L’uso irriflessivo di una certa metafora potrebbe quindi non essere certificazione della sua morte, in quanto tale, ma anzi del suo compiuto passaggio dal primo stato al secondo. In altri termini, l’uso smaltisce nel tempo la caratteristica contraddizione interna tra significato esplicito (letterale) e significato implicito (metaforico). Quanto più irriflessivamente viene usata, tanto più essa avrà assolto al suo compito di estendere il confine semantico del linguaggio, nella misura in cui avrà introdotto al suo interno quelle realtà che solo nel linguaggio diventano pienamente tali, vale a dire: reali per noi. Ma il problema in definitiva ci sembra mal posto poiché indurrebbe anche in questo caso a conseguenze paradossali come quella di dover disporre di un determinato criterio per poter decidere se una metafora è viva o morta, e (sorvolando sulla pertinenza letterale dell’attribuzione di termini come vita o morte a cose inanimate), ipotizzare eventualmente livelli di vita intermedi o stati di morte apparente. Più sensato sembrerebbe invece rendersi conto come in questo ennesimo caso il confine tra metaforicità e letteralità appare ridursi ulteriormente fino ad identificarsi unicamente con le rispettive etichette. Zangwill sostiene che non esiste un criterio discriminate per identificare le metafore vive e quelle morte, salvo ipotizzare (non senza ironia) una sorta di paradiso letterario come loro luogo di destinazione finale. Egli spiega infatti che nei discorsi sulla musica, la valenza metaforica consiste non nel suo stato di salute, bensì precipuamente nella sua proprietà di rappresentare un’emozione, 201 pur in mancanza di qualsiasi riferimento a un corrispettivo stato mentale in cui agisca un’occorrenza di quel termine, quindi una sorta di immagine pura, priva di riferimento. Centrale è dunque la nozione di immaginazione che solo attraverso la rinuncia all’intenzionalità emozionale ci consente di parlare della musica nei termini di triste, allegra. L’immaginazione costituisce allo stesso modo e con le medesime caratteristiche il fulcro dell’idea di Davies, e si rivela via via come quell’elemento trasversale capace di subordinare imprescindibilmente a sé concezioni che pure sembrerebbero inconciliabili tra di loro: da Kivy a Scruton, da Budd allo stesso Zangwill, a Levinson l’immaginazione si rivela decisiva tanto nelle teorie incentrate sulla metafora, tanto in quelle che, al contrario, vi rinunciano optando per una descrizione letterale dei termini implicati; essa si pone come candidato principale a rivestire una funzione transcategoriale, capace di stabilire connessioni che favoriscono il passaggio da un dominio di riferimento concettuale a un altro; variamente declinata a seconda della specificità dei diversi contesti teorici, l’immaginazione (ci) consente di rilevare la presenza di una data emozione in forme che non la rappresentano in quanto occorrente o intenzionale e per le quali Kivy aveva coniato il termine di “espressivo di tristezza” contrapposto a “esprimere tristezza” che indica invece una rappresentazione ovvero una fenomenologia motivata da un corrispondente stato interno di tristezza, accompagnato sempre da ulteriori manifestazioni empiriche. Scelta, questa di Kivy, che Davies sottoscrive in pieno, riconoscendo l’acutezza della distinzione colta dal collega, e rimarcando ulteriormente con una lunga spiegazione l’importanza delle manifestazioni emotive non motivate, ovvero di una fenomenologia dell’apparenza immediata e non mediata (che lo stesso Scruton approverebbe in pieno) 293 priva di caratteristiche riferibili a un oggetto esperito e dunque capace di declinare nei termini delle emozioni umane i discorsi sulla struttura formale della musica, superando in questo modo i limiti delle rispettive concettualizzazioni categoriali. Come nota ancora Zangwill, il metodo e l’obiettivo della riflessione di Davies non si discostano molto dai parametri tipici delle descrizioni metaforiche dei termini emotivi, eppure Davies rigetta questa attribuzione optando, come abbiamo visto, per una descrizione letterale, sia pure di secondo livello. L’impressione è che dietro la molteplicità delle sigle impiegate agisca una sola e unica realtà, una sola immaginazione, indipendente e incurante dei termini usati per descriverne o catturarne il senso. 293 Si veda la nozione scrutoniana di “pensiero non detto”. 202 Nel merito, dunque, la teoria generale di Davies è che la musica sia in prima luogo espressiva nel suo rappresentare non le istanze delle emozioni ma l’apparenza acustica di ciò che egli chiama caratteristiche delle emozioni (emotion characteristics in appearances): in particolare l’esperienza del movimento in musica sarebbe simile alla nostra esperienza di quelle forme di comportamento che negli esseri umani si manifestano fenomenologicamente dando luogo ai diversi aspetti associati alle varie emozioni. L’espressività della musica dipende prevalentemente da una somiglianza che percepiamo tra il carattere dinamico della musica e il movimento dell’uomo: andatura, comportamento, atteggiamento. In questa particolare caratterizzazione del principio di somiglianza, Davies, consapevole che tale posizione può essere troppo facilmente riconducibile a quella già sostenuta da Kivy, puntualizza che in realtà egli non è affatto propenso a considerare l’idea, sostenuta dal collega, che la somiglianza fondamentale sia quella che la musica, per via di elementi come la cadenza, l’intonazione, la frase, il timbro, il tono e la tessitura, intrattiene con la voce umana (considerata nel suo aspetto fenomenico, ovvero indipendentemente dal contenuto di un eventuale atto comunicativo verbale). Scrive Davies a riguardo: «dal momento che la musica è un’arte del suono, si potrebbe pensare che la musica presenti le caratteristiche proprie delle emozioni per via della somiglianza con alcune proprietà che si manifestano nell’espressione vocale delle emozioni occorrenti. Tale concezione è difesa in Kivy (1980), e non vi è dubbio che in essa vi sia qualche verità, sebbene io pensi che tale somiglianza spieghi solo una piccola parte dell’espressività. Per le mie orecchie, la somiglianza tra la musica e la voce è tenue. Allo stesso modo, trovo ci sia poca somiglianza tra la musica e il volto umano, sebbene i volti siano tra i principali elementi che presentano non solo le espressioni di emozioni vissute ma anche di caratteristiche esteriori delle emozioni» 294 . In realtà, secondo Davies, nell’ascoltare la musica noi percepiamo il movimento, e tale movimento presenta delle somiglianze con i movimenti che conferiscono a una persona il suo portamento o la sua andatura, e che sono a loro volta le manifestazioni esteriori di determinati sentimenti e stati d’animo. In realtà, secondo Davies, nell’ascoltare la musica noi percepiamo un movimento, e tale movimento presenta delle somiglianze con i movimenti che conferiscono a una persona il suo portamento o la sua andatura, e che sono a loro volta le manifestazioni esteriori di determinati sentimenti e stati d’animo. Pertanto, l’espressività della musica dipende prevalentemente da 294 S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., pag. 229. 203 una somiglianza che percepiamo tra il carattere dinamico della musica e il movimento dell’uomo − la sua andatura, il suo portamento, il suo atteggiamento, e così via. Una siffatta definizione di espressività richiede degli ulteriori chiarimenti. In primo luogo, ci si potrebbe chiedere: in che senso possiamo parlare di movimento nella musica? Se non si vuole ricorrere a spiegazioni metaforiche (che, come si è visto, presentano non pochi problemi, primo fra tutti quello di identificare cos’è che, nello spazio musicale, si muove da una posizione a un’altra), come quella offerta da Scruton, è necessario cercare altre ipotesi esplicative. La soluzione di Davies è, in sintesi, la seguente: si può parlare di movimento non solo in riferimento a elementi che occupano posizioni nello spazio e che si spostano da una posizione all’altra, ma anche in riferimento a processi puramente temporali, in cui non c’è nessun individuo che cambia la sua posizione nello spazio, e non c’è nulla che si muove da uno posto ad un altro. Che l’uso dei termini che denotano movimento sia legittimo anche per tali processi, è confermato dal fatto che il tempo stesso è frequentemente descritto in termini spaziali: c’è lo scorrere del tempo; c’è il passare del tempo; il tempo si evolve; le cose accadono a tempo debito. Analogamente, diciamo che un fiume è in costante movimento, o che ci possono essere movimenti politici per la guerra nel Medio Oriente, o ancora, che l’indice del Dow Jones reagisce (a un certo evento) scendendo verso il basso. Tali usi sono secondari ma del tutto frequenti e legittimi, e, cosa importante, per nulla metaforici, in quanto legati all’idea di processi temporali. Ora, essendo la musica un’arte del processo temporale, ad essa possiamo applicare la stessa nozione di movimento: Un tema è costituito dal movimento nel modo in cui il progresso dell’indice del Dow Jones lo è. Il progresso dell’indice del Dow Jones può essere rappresentato con un grafico, ma le coordinate attraverso cui il movimento è registrato non sono nello spazio reale (anche se la rappresentazione grafica lo è; si confronti questa rappresentazione grafica con la notazione musicale). L’indice del Dow Jones può essere contrapposto all’indice del New Zealand di Barclay dello stesso periodo; molti processi temporali sono intrecciati tra loro in molteplici modi (si confronti questo con l’armonia e la polifonia). L’uso dei termini relativi alla posizione e al movimento concernenti la musica è forse secondario, ma questo non implica che tali termini operano come metafore vive. Lo stesso uso secondario è comunemente diffuso al di fuori del contesto musicale, come ho indicato, e il dire che una nota è più alta di un’altra nota non è più metaforico, a mio avviso, del dire che l’indice Dow Jones è in rialzo. Il movimento musicale differisce dal paradigma (dello spostamento spaziale) introdotto sopra perché il movimento è quello di un processo nel tempo, non perché il movimento musicale è aberrante o di tipo speciale. Nei casi che riguardano la musica, è possibile negare l’appropriatezza di tale carat204 terizzazione, o negare l’oggettività del fenomeno esperito, solo rimettendo in discussione le descrizioni e le esperienze, assai diffuse e consuete, di fenomeni non-musicali. Inoltre, la descrizione della musica in tali termini non sembra essere eliminabile; dubito che qualcuno possa parlare della tonalità, o della chiusa finale di una sinfonia di Beethoven, ad esempio, senza far ricorso alle nozioni di spazio o di movimento 295 . In secondo luogo, rimane da spiegare per quale speciale criterio la somiglianza rilevante ai fini dell’attribuzione di proprietà espressive alla musica sia quella tra il movimento musicale e le caratteristiche esteriori del movimento umano. La tesi di Davies è che vi siano delle proprietà del movimento musicale che aiutano ad attirare la nostra attenzione sulle somiglianze con la vita emotiva. Nello specifico, l’idea è che il movimento musicale attira la nostra attenzione sull’espressività perché, come l’azione e il comportamento umani (e diversamente dai processi causali), esso esibisce ordine e finalismo. Il movimento musicale, in questo senso, è rivestito di umanità (ovvero, presenta sembianze umane) non semplicemente perché la musica è creata ed eseguita da esseri umani, bensì perché essa fornisce un senso di unità e di conformità a scopo. Noi riconosciamo, nel procedere della musica, una logica tale che ciò che segue deriva naturalmente, senza essere determinata, da ciò che precede; in questo, il movimento musicale è più simile all’azione umana che al movimento casuale o ai movimenti totalmente determinati di un meccanismo non-umano. Questa proprietà della musica, ritiene Davies, deriva dal carattere degli stessi materiali musicali, e non solamente dal riconoscimento del fatto che le mani umane plasmano questi materiali − in particolare, egli sottolinea l’importanza della tonalità nel conferire al movimento musicale il suo carattere teleologico 296 . Detto in altri termini, l’idea dell’espressività anche per Davies passa indubbiamente, come abbiamo visto anche per Kivy, Budd, da una fenomenologia propria della struttura musicale, qui presentata come dimensione acustica dello spazio e 295 Ivi, pp. 235-6. “Nella musica tonale, la tonica è percepita nell’ascolto come centro, ovvero come un punto di riposo. Le note che non costituiscono la tonica sono percepite nell’ascolto come attratte verso di essa, e la forza dell’attrazione dipende dalla posizione della nota nella scala, dalla sua “distanza” dalla tonica. Per esempio, nella scala maggiore, melodicamente la nota principale è quella più fortemente attratta verso la tonica. Gli accordi sono comparativamente tesi o rilassati (discordanti o concordanti) in relazione all’accordo tonico; la dissonanza tende verso una risoluzione. Di conseguenza, l’andamento della musica, il suo movimento, corrisponde a un’esperienza di aumento o di diminuzione della tensione, di spinta e di trazione, di impulso e di decadimento, ed esso giunge al termine con l’arrivo della tonica finale.” (Ivi, p. 236). Davies riconosce tuttavia che possono esistere dei modi di organizzare i materiali musicali, diversi da quelli tradizionalmente tonali che dominano la musica classica occidentale, e tali da poter essere usati per creare delle strutture musicali che siano percepibili come coerenti − altrimenti gran parte della musica contemporanea occidentale (perlomeno quella atonale) e molte tradizioni musicali non-occidentali non avrebbero alcun senso, il che è alquanto improbabile. 296 205 del movimento musicali 297 . Anzi è proprio in questa direzione – non ci sembra indebito evidenziare – che i post-formalisti odierni cercano di conciliare i tratti di un arido formalismo con la dimensione espressiva che gli stessi hanno riconosciuto alla musica. Vogliamo evidenziare inoltre che questa idea del movimento in relazione alla musica ricorre frequentemente nella letteratura odierna e non, interessanti soprattutto la caratterizzazione di spazio e del movimento musicale come “ideali” (da Edmund Gurney) oppure “virtuali” (in Langer), oppure “metaforici” (in Pratt). Un ultimo chiarimento ci preme effettuare, per completare il quadro della teoria dell’espressività musicale delineata da Davies. Le caratteristiche esteriori delle emozioni sono, come abbiamo visto, del tutto slegate da pensieri, credenze o desideri; esse esprimono la componente fenomenologica e non-intenzionale delle emozioni (pur non essendo necessariamente la loro conseguenza diretta), e possiamo riconoscere tali espressioni (ad esempio la gioia) in soggetti che non conosciamo affatto (ad esempio osservando una persona che ride di gusto, pur ignorando il motivo della sua risata). Ciò ha delle importanti conseguenze, in quanto delimita considerevolmente il campo delle emozioni che possiedono delle manifestazioni esteriori specifiche; di certo non vi rientrano emozioni “elevate” come la speranza, l’imbarazzo, la perplessità, l’irritazione, o l’invidia (per l’identificazione delle quali abbiamo bisogno non solo di determinate manifestazioni esteriori, ma anche della conoscenza degli oggetti a cui esse sono rivolte). Vi rientrano invece emozioni meno raffinate come la tristezza e la felicità, considerate però genericamente e non nelle loro forme particolari (come la depressione, la malinconia, l’avvilimento da un lato, o il godimento, l’euforia, il buon umore dall’altro), le quali sono distinguibili solo in relazione alla natura dei loro oggetti formali. Ciò significa che, tornando alla teoria dell’espressività musicale di Davies, la gamma di emozioni che la musica, quando viene ascoltata, presenta nella maniera appena esposta, e di cui quindi può essere espressiva, è ristretta a quelle emozioni o stati d’animo aventi espressioni comportamentali caratteristiche, ovvero la tristezza o la felicità considerate in generale (il che si accorda, secondo Davies, in maniera piuttosto precisa con la nostra esperienza dell’espressività musicale, dal momento che tale esperienza consiste, a suo avviso, nel trovare l’espressività all’interno del brano e nel considerare il carattere di tale espressività solitamente come alquanto generale). In conclusione ci preme rilevare che l’analogia avvalorata da Davies risiede nella maniera in cui queste somiglianze sono esperite, piuttosto che essere fondata su una 297 Ivi, pp. 229-240. 206 qualche inferenza che cerchi di stabilire una relazione simbolica tra alcune componenti specifiche della musica e alcuni particolari frammenti del comportamento dell’uomo. Somiglianze cioè che si danno percettivamente nell’immediatezza. Quando si ascolta la musica, le emozioni cioè sono percepite come appartenenti ad essa, così come gli aspetti esteriori delle emozioni sono presenti nel comportamento, nell’atteggiamento e nell’andatura dei nostri simili e di altre creature viventi. La tristezza della musica è una proprietà dei suoni dei brani musicali. Ecco perché non c’è, secondo Davies, alcun bisogno di descrizione, o di rappresentazione, o di simbolizzazione, o di altri tipi di denotazione che connettano l’espressività musicale a delle emozioni occorrenti, poiché il carattere espressivo della musica risiede all’interno della sua propria natura. In tal senso possiamo anche adesso comprendere meglio la polemica di Davies con Goodman, per il quale ciò che è espresso da un’opera d’arte è metaforicamente esemplificato. Ciò che esprime tristezza è metaforicamente triste. E ciò che è metaforicamente triste è realmente ma non letteralmente triste, cade cioè sotto un’applicazione trasferita di qualche etichetta coestensiva a triste. Inoltre, da questo punto di vista, dal momento che l’espressione, come la rappresentazione, è una forma di simbolizzazione, le proprietà espresse, non sono solo possedute metaforicamente, ma anche fatte oggetto di riferimento, esibite, emblematizzate, indicate. In sintesi, la teoria dell’espressione di Goodman è questa: X esprime Y se e solo se X possiede Y metaforicamente e X esemplifica Y. Sebbene X non denota realmente Y, la denotazione è presente all’interno di questa relazione – che va da “Y” (il predicato) a X. Un’opera d’arte è espressiva quando possiede metaforicamente una proprietà che essa esemplifica. Goodman, come avevamo anticipato, propone questa analisi come un’analisi generale dell’espressione nelle arti, che si può applicare alla pittura, per esempio, come alla musica. Un brano musicale è triste solo nel caso in cui esso ha la proprietà metaforica dell’essere triste e questa proprietà è esemplificata. Davies precisa che l’obiezione alla quale la teoria di Goodman va naturalmente incontro è questa: l’esemplificazione implica l’uso di una proprietà già posseduta dall’opera d’arte, un uso che (nella spiegazione di Goodman) garantisce la denotazione. Ma se l’opera possiede già la proprietà dell’essere triste, ad esempio, allora l’espressività ha a che fare con il possesso piuttosto che con l’esemplificazione. Questo evidenzia, sostiene Davies, che la preoccupazione di Goodman è rivolta all’uso simbolico dell’espressività artistica, ovvero a un discorso che fa uso di quell’espressività, ma l’opera potrebbe possedere la proprietà espressiva senza che venga usata per denotare 207 la proprietà che possiede (cioè, senza che la proprietà venga esemplificata). L’espressività, infatti, non è per Davies una questione di esemplificazione; l’esemplificazione è una condizione necessaria non per l’espressività in quanto tale ma per il riferimento, tramite l’uso della proprietà rilevante. Davies spiega infatti che, come a giusta ragione ha evidenziato Beardsley 298 , le proprietà esemplificate sono degne di nota o di valore indipendentemente dal fatto che ad esse sia stata attribuita una funzione esemplificatoria, e perciò non dobbiamo concentrarci troppo sul fatto che esse siano esemplificate; piuttosto, dovremmo focalizzarci sulle proprietà in questione, e non sul loro riferirsi ad altro; il brano musicale non ha bisogno di denotare alcunché, poiché il semplice esibire/presentare le proprie qualità rilevanti da un punto di vista estetico permette ad esso (ovvero al brano) di fare la propria parte nell’aiutarci a comprendere il mondo e a relazionarci con questo. Da questo punto di vista è dunque chiaro che, l’analisi di Goodman presuppone, piuttosto che spiegare, l’espressività nell’arte, poiché si ritiene che la sua preoccupazione è rivolta infine piuttosto all’uso referenziale a cui l’espressività dell’arte stessa si presta. Inoltre, Davies manifesta una certa insofferenza anche riguardo alla spiegazione di Goodman per il quale semplicemente funzionando come carattere entro un sistema simbolico, l’opera utilizza le proprie proprietà per conseguire la denotazione e, quindi, l’esemplificazione. Le arti infatti secondo Goodman hanno in comune alcune proprietà che riflettono la loro natura simbolica generale – la denotazione, in particolare – ma esse sono distinguibili da altri sistemi simbolici per il loro tendere all’opacità, dal momento che dirigono la loro funzione simbolica verso se stesse. Da questo punto di vista, l’opera seleziona le sue proprietà per l’esemplificazione, proprio nello stesso modo in cui possiamo dire che una superficie colorata seleziona la luce che rifletterà. L’ipotesi qui in gioco è che la denotazione non presuppone un uso intenzionale e quindi nemmeno l’esemplificazione lo presuppone. Goodman infatti non parla degli usi che vengono fatti delle opere d’arte; in realtà, egli non discute né di artisti né del modo in cui questi ultimi applicano e dunque utilizzano gli schemi simbolici da lui descritti. Goodman ritiene infatti che la funzione dei simboli può essere studiata senza tener conto delle credenze o dei motivi di un qualche soggetto/agente i quali potrebbero aver provocato le relazioni coinvolte (nel funzionamento del simbolo). Egli dice che, ad esempio, non c’è bisogno di chiedersi chi ha lanciato la palla, o se è solo rotolata dallo scaffale, per conoscere il modo in cui la palla rimbalza. Detto in altri termini, l’ipotesi qui accreditata 298 Cfr. M. C. Beardsley, On Understanding Music, In Price, ed., 55-73, 1981. 208 da Goodman è che laddove le convenzioni di un sistema simbolico sono stabilite, esse operano (ovvero, fanno il loro lavoro) indipendentemente dal loro essere usate intenzionalmente. Il significato emerge e viene prodotto al’interno del contesto di un sistema simbolico, indipendentemente dal fatto se ci sia o meno qualcuno che crea o dirige intenzionalmente l’attenzione su tale portata significativa. A tale proposito, Joseph Margolis obietta che la noncuranza, da parte di Goodman, nei confronti del ruolo dell’artista nel processo di simbolizzazione, ha la sfortunata conseguenza di antropomorfizzare l’opera, come se essa da sola riuscisse ad esemplificare qualcuna delle sue proprietà 299 . Un’idea pienamente condivisa da Davies, il quale per quanto d’accordo con l’idea che le convenzioni (o, se si preferisce, i ruoli e le pratiche in cui un sistema di simboli è strutturato) svolgono la loro funzione di conferire significato anche nei casi in cui esse non siano usate per fare questo, tuttavia non può avallare l’ipotesi che questo giustifichi la liquidazione delle intenzioni, degli usi, o delle pratiche come irrilevanti al fine di stabilire il contesto per l’esemplificazione goodmaniana. Scrive Davies a tale proposito: «Dal fatto che in certe circostanze possiamo occuparci del contenuto simbolico senza fare riferimento alle intenzioni, non segue che potremmo sempre agire in questa maniera. Il fatto che noi possiamo considerare un contenuto simbolico senza far riferimento all’uso intenzionale non mostra che un sistema di simboli, come quelli che Goodman ha in mente, potrebbe produrre un significato esemplificatorio senza che esso (il sistema di simboli) sia mai stato usato, oppure (sia mai stato) compreso correttamente come usato, per effettuare una comunicazione. L’analogia di Goodman della palla che rimbalza è fuorviante; le palle rimbalzano indipendentemente dall’uso che ne facciamo, mentre i sistemi simbolici goodmaniani non esisterebbero a meno che non vi fosse una connessione tra il loro uso intenzionale e il loro significato pubblico garantito da quell’uso. I sistemi simbolici sono stabiliti e sorretti solo attraverso il loro utilizzo intenzionale – in generale, se non in ogni occasione» 300 . La polemica con Goodman sembra ricondurre dunque alla domanda se nell’apprezzamento estetico di un’opera d’arte possa darsi un sistema simbolico proprio, ovvero, che nei suoi riferimenti prescinda dall’univocità normativa del linguaggio letterale per conseguire la denotazione non per mezzo di un uso intenzionale, ma automaticamente attraverso le operazioni proprie di quel sistema, ovvero a prescindere dall’elemento umano. Da quanto detto, è chiaro che la risposta di Davies non può quin299 J. Margolis, What Is When? When is What? Two Questions for Nelson Goodman, Journal of Aesthetics and Art Criticism, 39, 266-268. 300 S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., pp. 142-143. 209 di che essere negativa, poiché – egli sostiene – che i sistemi simbolici sono stabiliti e sorretti solo attraverso il loro utilizzo intenzionale, e la circostanza (non impossibile) che un’opera possa esemplificare per effetto della sua appartenenza a un sistema simbolico, un significato per il quale non era stata concepita, rappresenta un’eccezione rispetto all’intima connessione che lega inscindibilmente l’esemplificazione e l’uso. In questo percorso di minuziosa analisi Davies non trascura infine di evidenziare che problematica (nonché oscura) risulta per lui anche l’idea che le proprietà esemplificate dall’opera d’arte siano metaforiche. A tale proposito, secondo Davies, Goodman ha ragione nel pensare che sia necessario fare una distinzione tra il fatto che una proprietà musicale sia metaforica e il fatto che una proprietà musicale sia descritta metaforicamente, tuttavia non è comprensibile cosa significhi per la musica, non quindi per le descrizioni della musica, essere metaforica, visto che, in ultimo Goodman nega la concezione che la musica debba essere paragonata al linguaggio per ciò che concerne il suo significato 301 . 301 Interessante aprire una parentesi qui per evidenziare, come fa Davies, che Goodman non è il primo e l’unico ad avere avanzato l’ipotesi che la musica stessa sia metaforica. Un precedente significativo è quello di Donald Ferguson, il quale suggeriva che la musica ha una pressoché unica predisposizione all’espressione metaforica. Dal suo punto di vista, nello specifico, una metafora è un’inflessione (il tono della voce nel discorso, ovvero l’espressione verbale) che aggiunge un “incremento poetico” al significato standard di una parola. In questo caso, Davies evidenzia che anche laddove ci si spingesse ad accettare questa strana spiegazione, non è affatto certo che Ferguson possa giustificare l’affermazione secondo cui la musica è adatta all’espressione metaforica. Le sue osservazioni secondo cui la musica riguarda per lo più l’inflessione della voce non costituiscono delle basi solide per fondare tale affermazione, poiché non è chiaro come tali inflessioni aggiungano un “incremento poetico” al “significato standard” di un’unita (musicale) corrispondente alla parola. Daniel Putnam (1989) è un altro autore che ha scritto a proposito della musica come metafora. L’altezza e la bassezza delle note, e il movimento musicale, sono caratteristiche metaforiche dei brani musicali. Egli suggerisce che, quando la musica diventa una metafora morta, le persone iniziano ad ascoltare non la musica ma una successione di suoni. E anche in questo caso, puntuale e pertinente è l’osservazione di Davies che: nella misura in cui questi autori aderiscono a un modello che fa dipendere la metafora dalle proprietà semantiche/sintattiche proprie dei linguaggi naturali, le loro affermazioni sulla musica rendono più confusa, anziché più chiara, la distinzione tra l’essere metaforico della musica e l’uso della metafora nella descrizione della musica, dato che non viene spiegato in che modo le considerazioni fatte a proposito di un tipo di metafora (ovvero quella letteraria) debbono essere interpretate quando vengono applicate all’altro tipo di metafora (ovvero quella musicale). La difficoltà che qualsiasi tentativo di caratterizzare la musica come metaforica partendo da un modello letterario della metafora si trova a dover fronteggiare è rilevata da Steven Krantz (1987), il quale proietta alcune delle più importanti teorie della metafora sul caso musicale. Le conclusioni di Krantz sono in gran parte negative. Egli stabilisce che solo facendo capo a una teoria interattiva della metafora, e solo riguardo a quella musica che poggia su associazioni culturali che garantiscono un qualche riferimento − ad esempio, (in quei passaggi musicali) dove le trombe connotano il potere – si può rintracciare qualche somiglianza con la metafora (linguistica). La teoria interattiva descrive la metafora come derivante dall’interazione tra i significati delle parti di una frase, come i soggetti e i predicati. Ora, anche tale descrizione per Davies non ha ragione di sussistere, poiché egli è dell’idea che gli elementi musicali non hanno funzioni semantiche/sintattiche paragonabili (a quelle possedute dalle parti di una frase). Se si tengono presenti queste circostanze, dire che la musica è metaforica (in quanto è simile alla metafora linguistica) equivale semplicemente ad adoperare una metafora che non chiarisce affatto i termini della questione. Cfr. D. Ferguson, Music as Metaphor: The Elements of Expression, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1960; D. A. Putnam, Some Distinctions on the Role of Metaphor in Music, Journal 210 La concezione di Davies, che identifica nell’aspetto convenzionale il valore della significazione simbolica (semantica), è convocata ugualmente contro l’altro principale modello teorico in questione: quello di Langer. Davies, appoggiando le critiche già mosse da Budd, sostiene che Langer avrebbe frainteso la “forma logica” della teoria wittgensteniana alla quale dichiara di ispirarsi, perché nel momento in cui pretende di sostituire alla forma logico-discorsiva un’analoga forma presentazionale ne avrà di fatto snaturato il senso. Ma la questione è estremamente complessa. Lo stesso Wittgenstein, dopo il 1930, mostra grandi ripensamenti rispetto alla sua stessa teoria atomica delle proposizioni semplici esposta nel Tractatus, e questo potrebbe essere variamente interpretato tanto a favore di Langer che (all’opposto) dei suoi detrattori. Né Langer 302 , però, né tantomeno Davies sembrano considerare che l’apertura del secondo Wittgenstein ad un possibile orizzonte extra-linguistico è una consapevolezza che si rivela già alla fine del Tractatus e che anticipando le Ricerche suggerisce che se da un lato i limiti del linguaggio sono i limiti del nostro mondo e pertanto di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere, dall’altro il nostro mondo non esaurisce il confine del mondo che si estende anche oltre i limiti imposti alla conoscenza delle nostre stesse caratterizzazioni linguistico-concettuali. E, tale svolta, vogliamo precisare, potrebbe essere interpretata come un’apertura di senso che introduce il problema dell’indicibile. Ma lo scontro concettuale tra Davies e Langer sembra concentrarsi unicamente sui temi del Tractatus. L’impressione che se ne ricava è che dietro i ripetuti riferimenti all’autorità del pensiero wittgensteniano, operi il tentativo di avvalorare le proprie tesi, a volte in modo alquanto semplicistico senza tenere conto della complessità del suo pensiero, problematicamente in bilico tra l’atomismo delle proposizioni logiche e la referenzialità dei giochi linguistici, tra significati denotativi e connotativi, tra logica scientifica e aperture al mistico. Ed è proprio sul piano dell’ineffabilità delle esperienze emozionali, e dunque sulla presunta inadeguatezza del linguaggio che si consuma il centro della polemica, of Aesthetic Education, 23, 2, 103-106, 1989; S. C. Krantz, Metaphor in Music, Journal of Aesthetics and Art Criticism, 45, 351-360. 302 Garry Hagberg acutamente così riassume la posizione di Langer, catturando così il modo in cui la sua concezione differisce da quella di Wittgenstein: su ciò di cui non si può parlare, si deve comporre, dipingere, scrivere, scolpire, e così via. Cfr. G. Hagberg, Art and Unsayable: Langer’s Tractarian Aesthetics, “The British Journal of Aesthetics”, 24, 325-340. È certo che in questi termini si possa riassumere la concezione di Langer, visto che, dal nostro punto di vista, la sua è un’interpretazione che potremmo dire letterale della celebre chiusa del Tractatus. L’idea di Wittgenstein infatti non era quella di una perpetua chiusura ai “mondi possibili”, per usare la terminologia leibniziana, ma se proprio di chiusura si vuol parlare questa era certamente riferita alle possibilità della significazione linguistica. 211 poiché una simile ammissione invaliderebbe la tesi, difesa da Davies, dell’insostituibilità dei termini emotivi nelle descrizioni della musica. Se infatti il linguaggio dovesse rivelarsi insoddisfacente a dare conto della molteplicità e complessità delle emozioni, allora si potrebbe insinuare l’idea di una incommensurabilità tra l’universo delle emozioni e le parole usate per descriverle, e concludere conseguentemente che solo il ricorso a una teoria metaforica potrebbe gettare luce su ciò che il linguaggio non riesce ad illuminare. Davies riconosce che un certo grado di ineffabilità è sempre presente nelle cose, e dunque l’esperienza musicale non costituisce in tal senso un problema a sé, poiché le esperienze che proviamo in prima persona sono sempre e necessariamente più ricche e dense di significati di quel linguaggio che usiamo per descriverle, ma questo aspetto non inficia in alcun modo la loro piena comunicabilità, e d’altra parte il linguaggio è un sistema simbolico, il suo compito è quello di ridurre (per semplificare) la complessità della realtà ovvero il nostro rapporto col mondo, e non già di riprodurla punto per punto, poiché in tal caso non sarebbe più un sistema simbolico ma copia iconica della realtà e dunque inutilizzabile per la comunicazione. Se infatti, in virtù di una qualche particolare esperienza privata o per effetto di un’ostensione fossimo in grado di superare i limiti dell’indicibile e guardare nella natura delle cose, questa nostra conoscenza non avrebbe alcun uso intelligibile, rimarrebbe cioè incomunicabile. Come già rilevato in Budd, il segno più significativo della riflessione di Davies ci sembra essere rappresentato proprio dalla difesa del valore referenziale del linguaggio: l’insostituibilità dei termini emotivi nella descrizione della musica, più volte riaffermata, è funzionale al principale compito del linguaggio di consentire l’interscambio dei significati e delle esperienze. Un linguaggio che presentasse un’analogia punto per punto dei molteplici aspetti e delle svariate sfumature delle emozioni connesse all’esperienza musicale (così come a ogni altro tipo di esperienza) non sarebbe più un linguaggio, ovvero non ci consentirebbe di maneggiare le cose del mondo e di fatto la comunicazione risulterebbe impedita. Pertanto, il fatto di verificare o intuire alcune eccedenze della realtà rispetto alle possibilità discorsive, non sarebbe un problema del linguaggio, ma delle false aspettative riposte in esso. Ovvero di una fraintesa valutazione dei suoi compiti e dei suoi limiti. L’avversione di Davies per le teorie metaforiche che pretendono di sopperire alle lacune del linguaggio, va dunque intesa più proficuamente sotto questo punto di vista, e in questo senso va inteso il primato del linguag- 212 gio letterale al di là delle sterili polemiche sulla parafrasabilità o meno delle espressioni metaforiche 303 . Tali insistite contrapposizioni intese a definire lo schieramento di opposte fazioni e a consolidarle in quanto tali, costituiscono a nostro avviso un ostacolo alla chiarificazione delle cose. Lo stesso Davies che pur ci pare colga esattamente nel segno riaffermando la pura convenzionalità linguistica dei discorsi sulla musica non si sottrae alla tentazione di difendere l’insostituibilità dei termini espressivi schierandosi almeno formalmente tra i detrattori della metafora. Avrebbe forse potuto rilevare più proficuamente come tali sostituzioni non siano in definitiva né necessarie né sufficienti e comunque non rimuoverebbero tutti i dubbi circa il significato del nome, poiché il nome (che sia usato letteralmente o metaforicamente) non rimanda comunque ad alcun tipo di verità o di falsità di natura, ma il suo significato dipende unicamente dal contesto e solo all’interno di esso l’enunciato può essere considerato vero. Pertanto una descrizione come “la musica è triste” può essere (è) vera all’interno di un discorso in cui i parlanti siano consapevoli della referenzialità e dei modi e delle regole in cui il termine triste viene usato. Al di fuori della referenzialità dei discorsi sull’espressività della musica, è evidentemente insensato chiedersi se sia vero o falso che la musica è triste, ugualmente insensato sarebbe credere che un uso metaforico possa conseguire un risultato migliore. In conclusione avanziamo la proposta che parlare di insostituibilità dei termini emotivi, può essere fuorviante, più opportunamente si potrebbe dire che una tale operazione sarebbe superflua o non necessaria. 303 Budd, si è visto, sostiene che le metafore debbano essere parafrasabili letteralmente; Davies è un po’ più morbido, e sostiene che una metafora sia chiarificabile anche facendo ricorso ad altre metafore. Entrambi sono comunque d’accordo sulla necessità di spiegare il senso delle metafore; senso che essi non ravvedono nelle descrizioni della musica in termini emotivi. Tali termini sono, secondo i due autori, insostituibili, ma non in quanto descrizioni metaforiche ineliminabili di una verità ineffabile, bensì in quanto descrizioni letterali di proprietà espressive che sono nella musica, e che affondano le loro radici in un certo tipo di isomorfismo. 213 7. Jerrold Levinson: isomorfismo dell’esperienza vs isomorfismo descrittivo L’ultimo autore che prenderemo in esame nel nostro lavoro è Jerrold Levinson. Non si tratta di una scelta casuale: la teoria di Levinson sull’espressività musicale, come vedremo tra poco, si presenta infatti, e ciò è evidente anche nelle intenzioni esplicite dell’autore, come una sorta di grande sintesi delle riflessioni fin qui esposte, sebbene tale sintesi sfoci in una posizione alquanto originale e che non ha mancato di destare perplessità in altri autori di ambito analitico. Il saggio a cui faremo principalmente riferimento è Musical Expressiveness (1996), dove Levinson porta a compimento le idee elaborate in forma ancora sperimentale in Music and Negative Emotion (1990) e Hope in ‘the Hebrides’ (1990) sul tema dell’espressività musicale. Egli esordisce chiarendo che il suo obiettivo primario è quello di dire esattamente che cos’è l’espressività musicale, ovvero di fornire un’analisi compiuta di cosa significhi dire che un passaggio musicale P è espressivo di un’emozione E o di un qualche altro stato psicologico; il che significa che poco spazio sarà dedicato allo studio delle cause o dei fondamenti dell’espressività musicale, o del valore dell’espressività nella musica. Per meglio chiarire che cosa egli intenda con espressività musicale, Levinson fa i seguenti esempi “non convenzionali” di musica espressiva: “l’apertura dell’Ottavo Quartetto di Shostakovich, la quale esprime tristezza e disperazione; l’Ottetto di Mendelssohn, il quale esprime una soave esuberanza; il finale della Musica da Camera N. 1 di Hindemith, il quale esprime una insolente impudenza; l’apertura del Don Giovanni di Strauss, la quale esprime uno stato mentale giovanile, energico ed eroico” 304 . Questi sono i tipi di attribuzioni di cui egli cerca di illuminare il contenuto. Lo schema seguito da Levinson nel saggio Musical Expressiveness è abbastanza lineare, come nella tipica tradizione analitica. Il primo passo è costituito dal presentare una lista di desiderata che un’adeguata spiegazione dell’espressività musicale dovrebbe soddisfare. Dopodiché l’autore passa in rassegna un numero di proposte recenti relative a come si debba concepire l’espressività musicale, evidenziando le virtù e i vizi di ciascuna, e concludendo con quelle che sembrano essere le più adeguate. È solo a questo punto che Levinson avanza la sua proposta, mostrando come essa soddisfi (meglio delle posizioni rivali) i desiderata elencati all’inizio, e difendendola infine dalle obiezioni a cui essa va inevitabilmente incontro. 304 J. Levinson, Musical Expressiveness, cit., p. 90. 214 Ecco dunque quelli che, secondo Levinson, sono i desiderata che un’analisi accettabile dell’espressività musicale deve cercare di soddisfare: L’espressività musicale dovrebbe essere vista come parallela o analoga all’espressione nel suo senso più letterale, ovvero, dovrebbe essere vista come il manifestarsi di stati psicologici attraverso segni esterni, in particolare attraverso il comportamento (requisito dell’“analogia”). II. L’espressività musicale dovrebbe essere vista come collegata in modo intelligibile all’espressività nelle altre arti, o perché essa è chiaramente una specie dell’espressività artistica considerata in generale, in accordo con una qualche plausibile concezione di quest’ultima, o perché essa è un parente stretto dell’espressività esibita nelle altre arti, laddove la divergenza è spiegabile in termini delle differenze salienti nei media utilizzati (requisito dell’“estendibilità”). III. L’espressività musicale dovrebbe essere vista come appartenente inequivocabilmente alla musica − ovvero come un sua proprietà o un suo aspetto − e non all’ascoltatore o all’esecutore o al compositore (requisito dell’ “esternalità”). IV. L’espressività musicale dovrebbe essere qualcosa che un ascoltatore sensibile esperisce o percepisce direttamente, piuttosto che pervenirvi intellettualmente, attraverso il ragionamento o la dimostrazione, almeno nei casi principali, ovvero in quelli concernenti l’espressione semplice (requisito dell’ “immediatezza”). V. L’espressività musicale può essere concepibile come relativa a stati troppo specifici per essere tradotti in parole, ma deve comprendere anche, e principalmente, stati psicologici familiari considerati in generale (requisito della “generalità”). VI. L’espressività musicale dovrebbe essere tale che, quando venisse percepita o rilevata da un ascoltatore, ne deriverebbe naturalmente, se non inevitabilmente, l’evocazione di un sentimento o di uno stato affettivo, oppure l’immaginazione di un sentimento (requisito dell’ “affettività”). VII. L’espressività musicale dovrebbe essere tale che l’esperienza di essa dovrebbe accompagnarsi al riconoscimento di un valore, contribuendo ad accrescere, perlomeno di norma, il valore dei brani che la possiedono (requisito dell’ “avere valore”) 305 . I. Il secondo passo, come detto, consiste nell’elencare quelle che egli identifica come le principali posizioni che nel dibattito analitico si sono contraddistinte relativamente al tema dell’espressività musicale. Levinson traccia a tal fine la seguente “mappa”: 305 Ivi, pp. 91-92. 215 In primo luogo, vi sono le concezioni basate sull’evocazione (o sull’eccitazione), le quali si differenziano in disposizionalista (Nolt), dell’appropriata risposta (Matravers) e auto-espressiva (Ridley). In secondo luogo, ci sono le concezioni basate sulla finzione, le quali si differenziano in introspezionalista (Walton), impersonalista (Budd), e rappresentazionalista (Callen). In terzo luogo, ci sono le concezioni basate sulla metafora, le quali si differenziano in esemplificazionalista (Goodman) e proiettivista (Scruton). In quarto luogo, ci sono le concezioni basate sul giudizio (o sull’inferenza), le quali si differenziano in teoria della corrispondenza (Wollheim), dell’adeguatezza (Barwell) e spiegazionista (Vermazen). In quinto e ultimo luogo, ci sono le concezioni basate sull’aspettodell’espressione, le quali si differenziano in vocalista (Elliott), fisiognomista (Davies) e animazionista (Kivy) 306 . Levinson anticipa che è in quest’ultimo gruppo che la sua teoria si colloca, sebbene le somiglianze e le differenze emergeranno solo in un secondo momento, ovvero dopo la disamina delle principali teorie appena menzionate. Piuttosto che ripercorrere per intero tale disamina, ci concentreremo qui su quelle teorie alle quali abbiamo dedicato più spazio all’interno del nostro lavoro, e che rivestono una particolare importanza nel dibattito analitico sulla questione dell’espressività musicale. Iniziamo dalla teoria di Malcolm Budd, la quale, come detto, può essere vista come una variante della tesi di Walton (riletta alla luce del modello isomorfico). Ciò che Budd in sintesi propone è questo: un passaggio P è espressivo di E se e solo se è finzionalmente vero che E viene esperito, sebbene non necessariamente dall’ascoltatore, e questa verità è generata da P nel modo corretto. Budd è arrivato a questa forma più impersonale di espressività-come-emozionefinzionale in quanto egli pensa, giustamente, che “non è auspicabile rappresentare la mia esperienza del sentire (un passaggio) come angosciato in un modo tale che il mio ascoltare (tale passaggio) debba essere considerato come il mio esperire (finzionalmente) l’angoscia. … Poiché sebbene ciò possa essere vero, non è necessario che le cose vadano in questa maniera: invero, la musica angosciata non sempre richiede che l’ascoltatore che riconosce l’angoscia (nella musica) sia finzionalmente angosciato (ovvero, si immagini di essere angosciato in virtù dell’ascolto della musica)” 307 . Ma Budd ammette che in realtà non sa bene come l’espressione “nel modo corretto”, contenuta nella formulazione precedente, debba essere intesa, ed egli è comprensibilmente scettico di fronte alla possibilità di delucidare tale espressione facendo ricorso a regole 306 307 Ivi, pp. 92-3. M. Budd, Music and the Communication of Emotion, cit., p. 135. 216 convenzionali della finzione che determinino il funzionamento dell’espressione musicale. In effetti, sembra che l’unica maniera plausibile di chiarire in che modo la verità finzionale che E viene esperito debba essere generata affinché P esprima E sia quella di postulare che un ascoltatore è spinto, nell’ascoltare P, a percepirlo come E, il che renderebbe inutile l’attribuire un qualsivoglia ruolo più elaborato alla finzione. In effetti, Budd sembra concludere che forse si debba conservare “solo l’idea sottesa all’approccio finzionale”, ovvero “l’idea che la musica emozionalmente espressiva è (una musica) concepita per spronare l’ascoltatore ad immaginarsi il sopraggiungere di esperienze emotive”, il che lascia aperta la questione di come ciò realmente avvenga. Ridotta a questa idea di base, osserva Levinson, probabilmente non vi è alcun conflitto tra l’approccio finzionale e quello da lui stesso raccomandato: secondo la sua prospettiva, infatti, la musica espressiva è una musica che invita l’ascoltatore ad immaginare delle emozioni, ma solo e specificatamente nel senso che l’ascoltatore è propenso ad immaginare che la musica sia un particolare tipo di manifestazione esteriore di una qualche emozione − ovvero (come vedremo meglio poi) nel senso che l’ascoltatore è propenso a percepire la musica, nell’ascoltarla, come un’espressione personale, sui generis, di tale emozione da parte di un non meglio specificato individuo. Passando alla quinta classe di teorie precedentemente individuate − ovvero le concezioni basate sull’aspetto dell’espressione −, vediamo cosa Levinson ha da dire sulla teoria proposta da Stephen Davies, riassunta nella seguente maniera: P è espressivo di E se e solo se P presenta alcune caratteristiche sonore esteriori delle emozioni associate ad E − ovvero, presenta un aspetto sonoro analogo alle caratteristiche esteriori comportamentali dell’emozione E. L’idea di fondo che muove la riflessione di Davies, e su cui egli fonda la propria teoria, è che l’espressività musicale “dipende prevalentemente da una somiglianza che percepiamo tra il carattere dinamico della musica e il movimento, l’andatura, il comportamento o l’atteggiamento dell’uomo” 308 . Pertanto, “quando si ascolta la musica, le emozioni sono percepite come appartenenti ad essa, proprio come gli aspetti esteriori delle emozioni sono presenti nel comportamento, nell’atteggiamento e nell’andatura dei nostri simili e di altre creature viventi. La gamma di emozioni che la musica, quando viene ascoltata, presenta nella maniera appena esposta, è ristretta, come pure è vero degli aspetti dell’uomo (ovvero del suo compor- 308 S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., p. 229. 217 tamento), a quelle emozioni o stati d’animo aventi espressioni comportamentali caratteristiche” 309 . Secondo Levinson lo spirito di questa teoria è affine a quello della teoria che lui stesso difende; ciò che non lo convince è tuttavia la nozione principale attorno alla quale tale teoria ruota, vale a dire la nozione di ‘caratteristica esteriore musicale’ delle emozioni. Il problema, di cui Davies è consapevole, è che l’aspetto di un passaggio musicale non è precisamente quello di una persona, o del viso o del corpo di una persona, in qualunque condizione, o del comportamento di una persona, in qualunque momento. Si tratta piuttosto, quando un passaggio musicale presenta un modo di apparire dell’emozione attraverso delle sequenze di suoni, di un modo di apparire analogo (o simile) a quello manifestato da una persona in una certa condizione. Ma allora, dato che ogni cosa è analoga (o simile) a qualsiasi altra cosa in qualche grado, il problema diventa quello di stabilire quanto grande deve essere l’analogia tra tale modo e quello manifestato dal comportamento umano affinché esso possa costituire una caratteristica esteriore sonora dell’emozione in questione, o anche quanto grande deve essere l’analogia tra l’esperienza (come Davies stesso talvolta, più cautamente, sostiene) del movimento musicale e quella del comportamento umano affinché il modo di apparire di tale movimento costituisca una caratteristica esteriore sonora dell’emozione in questione. È chiaro, secondo Levinson, che non si può rispondere a tale questione, se non facendo appello alla nostra disposizione a percepire, nell’ascolto, tale emozione − piuttosto che un’altra, o nessuna − nella musica, ovvero, facendo appello alla nostra disposizione a interpretare la musica come un’istanza fonetica di un’espressione personale, cioè a percepire gli aspetti umani in quelli musicali: la nostra disposizione, in breve, ad animare i suoni in una certa maniera. Solamente se avviene ciò, la musica possiede l’espressività in questione, indipendentemente dal grado oggettivo di analogia o somiglianza tra certi aspetti della musica e alcuni aspetti dell’uomo, come “la sua andatura, il suo comportamento o il suo atteggiamento”, in relazione ai quali essa è in ultimo espressiva. Non vi è infatti alcuna regola che ci permetta di tradurre le caratteristiche comportamentali esteriori in caratteristiche musicali esteriori; solamente l’atto del percepire, nella musica, i lineamenti del primo tipo di caratteristiche dà luogo alle seconde come tali. L’accusa che Levinson fa alla concezione di Davies è che, sostanzialmente, essa ha la colpa di mettere il carro − l’aspetto espressivo che risulta presente in un pas309 Ivi, p. 239. 218 saggio (musicale), il quale viene identificato come espressivo di E − davanti ai buoi − l’esperienza del percepire E nel passaggio che viene ascoltato. Sebbene sia abbastanza chiaro che Davies non vuole appoggiare la tesi secondo cui l’espressività musicale consiste in un’analogia, o somiglianza, con il comportamento letteralmente espressivo, il suo fare appello alle caratteristiche sonore delle emozioni in quanto poggianti su tale analogia o somiglianza ed emergenti su di essa suggerisce perlomeno che tali caratteristiche abbiano delle identità specificabili indipendentemente dalle esperienze del percepire l’espressione delle emozioni nella musica, e che esse probabilmente siano in ultimo ricavabili e classificabili di per se stesse, nello stesso modo in cui lo sono le caratteristiche esteriori comportamentali delle emozioni direttamente associate con le emozioni vissute − ad esempio, il carattere tipico di una faccia allegra, di uno sguardo triste, o di un gesto arrabbiato. Ma che ciò sia realmente possibile, ovvero che sia possibile identificare una particolare specie di aspetto caratteristico della musica “triste”, nello stesso modo in cui è possibile individuare le caratteristiche esteriori che le persone tristi nella vita reale normalmente manifestano, è secondo Levinson alquanto dubbio. Detto di Davies, vediamo come Levinson considera la proposta di Roger Scruton. Innanzitutto egli chiarisce che, sebbene tale concezione sia stata dallo stesso Levinson classificata tra quelle basate sulla metafora, essa potrebbe rientrare anche nell’ambito delle teorie basate sull’aspetto delle emozioni. Per quanto sia difficile formulare una proposta specifica sull’espressività sulla base di quanto affermato da Scruton − una delle ragioni di ciò è che egli è più interessato a dire che cosa significhi ascoltare, e penetrare in, tale espressività, piuttosto che a offrirne un’analisi −, Levinson ritiene che si possa interpretare la posizione di Scruton traducendola nella seguente formula: un passaggio musicale P è espressivo di un’emozione E nella misura in cui esso viene esperito come se presentasse o contenesse dei gesti caratteristici dell’espressione di E. Se le cose stanno in questa maniera, allora la teoria di Scruton è credibile, sebbene Levinson non possa esimersi dal confessare due riserve al riguardo. La prima riguarda il fatto che essa poggia sull’idea di metafora. Levinson, come anche altri autori già menzionati (si pensi soprattutto a Budd), pensa che il fare appello alla metafora in generale tende ad oscurare, piuttosto che illuminare, la questione dell’espressività. Una seconda, anche se più piccola, riserva, riguarda il fatto che il requisito dell’esperibilità dei gesti caratteristici di una particolare emozione, anziché dell’espressione esteriore 219 dell’emozione, in una qualche maniera, è, probabilmente, inutilmente limitante. Ma Scruton ha sicuramente ragione, precisa Levinson, a dire che l’esperienza dell’espressione nella musica assume principalmente la forma del percepire, nell’ascolto del movimento musicale, i gesti compiuti da un individuo che esprime un’emozione; su questo punto le rispettive teorie giocano sullo stesso terreno. L’ultima spiegazione dell’espressività musicale che Levinson prende in considerazione è quella fornita da Peter Kivy in The Corded Shell. Nel testo di Kivy, Levinson rintraccia tre distinte proposte relative al tema in questione. Una è che un passaggio musicale P è espressivo dell’emozione E se e solo se P viene interpretato come somigliante, nel suo profilo, al comportamento caratteristico di E; la seconda è che P è espressivo di E se e solo se P è collegato a E per mezzo di una somiglianza nei profili o di un’associazione convenzionale o di entrambe le cose; e la terza è che un passaggio musicale P è espressivo dell’emozione E se e solo se gli ascoltatori sono disposti ad ‘animare’ P attribuendogli l’emozione E. Le prime due proposte, che il testo di Kivy (implicitamente) suggerisce, sostituiscono fatalmente una lista delle cause e dei fondamenti primari dell’espressività musicale con l’analisi del concetto dell’espressività musicale stessa. La prima proposta, inoltre, ha l’ulteriore difetto di escludere pregiudizialmente l’elemento convenzionale dell’espressività, il che chiaramente non è nelle intenzioni di Kivy. Ma, per ciò che riguarda la terza proposta, essa è, a giudizio di Levinson, sostanzialmente corretta. L’unico problema è, a suo avviso, che essa rimane in qualche maniera oscura, dato che la nozione di animazione richiede una delucidazione tanto quanto la richiede la nozione di espressività. È proprio qui che può innestarsi la proposta di Levinson, in quanto egli crede che l’ascoltare la musica come, o come se fosse, un’espressione personale, catturi ciò che Kivy vuol dire con l’espressione ‘animare i suoni’. Ciò è confermato da quanto Kivy stesso altrove esplicitamente afferma: “Noi dobbiamo vedere uno schema visivo come un veicolo di espressione − un volto o una figura − prima di poter vedere la sua espressività. Analogamente, noi dobbiamo ascoltare uno schema sonoro come un veicolo di espressione − una enunciazione o un gesto − prima di poter ascoltare la sua espressività” 310 . A questo punto, Levinson è pronto a introdurre la propria concezione dell’espressività musicale, che egli formula nella seguente maniera: 310 P. Kivy, Sound Sentiment, cit., p. 59. 220 un passaggio musicale P è espressivo di un’emozione o di un’altra condizione psichica E se e solo se P, in un certo contesto, è prontamente e appropriatamente percepito nell’ascolto, da un ascoltatore adeguatamente informato, come l’espressione di E, effettuata in una maniera sui generis e “musicale” da parte di un agente indefinito, il personaggio della musica 311 . In questa proposta vi sono delle chiare affinità con le precedenti proposte relative all’argomento in questione; il merito che Levinson si riconosce è di aver offerto nel modo più esplicito possibile, attraverso la formulazione appena fornita, il nucleo essenziale dell’espressività musicale − la pronta-percettibilità-come-espressione − a cui un consistente numero di autori si è approssimato, insieme eliminando tutto ciò che è inessenziale o che risponde ad altri aspetti del fenomeno dell’espressività nell’arte, come quello relativo a quali strutture o convenzioni servono a garantirne il funzionamento (ovvero alle cause dell’espressività), o a quali tipi diversi di risposta ad essa potrebbero esserci (ovvero agli effetti dell’espressività). La formula esposta da Levinson non è però pienamente comprensibile se non si fanno alcune precisazioni, che l’autore stesso ha esplicitato. Innanzitutto, egli specifica che per “contesto” intende sia il contesto interno all’opera − quello costituito dai passaggi musicali tra i quali quello dato si inserisce e con i quali si relaziona − sia il contesto esterno all’opera − quello costituito dallo stile individuale e generale entro cui la composizione data si inserisce, così come dall’ambiente che circonda i brani musicali di tale compositore e di altri compositori. Con l’avverbio “adeguatamente”, egli sottolinea il fatto che gli ascoltatori in questione devono aver familiarità con lo stile della musica e con la gamma espressiva ad esso inerente, con la natura e con le potenzialità degli strumenti adoperati, con gli scopi generali dei compositori di quel periodo, con le norme strutturali e estetiche del genere musicale a cui il brano dato appartiene, e così via. Inoltre essi devono anche essere in grado di dar prova di possedere le abilità, le capacità discriminatorie, e le capacità di reazione comportamentale necessarie all’elaborazione di un giudizio estetico credibile312 . Levinson chiarisce anche il perché egli ha denominato la maniera “musicale”, utilizzando le virgolette: lo scopo è quello di indicare che il personaggio della musica non deve essere concepito come una persona che esprime la propria emozione attraverso dei mezzi musicali. Vale a dire, non si 311 J. Levinson, Musical Expressiveness, cit., p. 107. Il fatto che i “giudici” siano in grado di dar pubblicamente prova di tali abilità, e il riscontro di una convergenza dei loro giudizi circa brani musicali diversi da quello in questione, fanno sì, secondo Levinson, che la sua definizione non incorra in un circolo vizioso. 312 221 sta qui suggerendo che ci immaginiamo che il personaggio in questione suoni il piano, o la tromba, oppure canti; piuttosto, si intende dire che il personaggio, in una qualche maniera non meglio specificata, sta manifestando l’emozione attraverso la creazione musicale, ma non nella maniera in cui le persone dotate di abilità musicali normalmente fanno. Infine, un’ultima precisazione dovrà riguardare il fulcro della definizione dell’espressività musicale offerta da Levinson, vale a dire “Il personaggio della musica”, il quale, spiega l’autore, dovrebbe essere inteso come il soggetto dell’atto espressivo immaginario che percepiamo immediatamente nell’ascolto. L’ascolto espressivo di una porzione di musica piuttosto estesa, in quanto opposta a un particolare passaggio, può ovviamente coinvolgere una serie di personaggi, piuttosto che uno solo. Levinson sostiene che sia possibile pervenire alla posizione alla quale egli è pervenuto relativamente al problema dell’espressività musicale, non solo cercando le affinità tra le diverse concezioni fin qui proposte da altri autori, ma anche partendo da quella che, probabilmente, va considerata come l’idea principale di base riguardo all’espressività nella musica, ovvero l’idea che un passaggio musicale P è espressivo di E se, per un ascoltatore normale e dotato di una certa esperienza, esso suona come E. Tale idea è sfociata nel famoso detto di Carroll Pratt, più volte citato anche nel corso del nostro lavoro: “La musica suona nel modo in cui le emozioni sono provate”. Tuttavia questa idea, posta in tali termini, non è secondo Levinson accettabile, poiché non possediamo alcuna concezione intelligibile di cosa potrebbe voler dire, in astratto, il suonare come una qualsivoglia cosa. Si potrebbe allora perfezionare l’idea di base proponendo che, quando è espressivo, il passaggio viene piuttosto percepito come risuonante in maniera analoga all’esperienza che qualcuno ha di E. Questo è di sicuro un miglioramento, poiché fornisce perlomeno un qualcosa di particolare e di personale al quale il passaggio musicale può essere collegato foneticamente. Ma non siamo ancora arrivati a una soluzione soddisfacente, poiché rimane altrettanto difficile da comprendere cosa significhi che l’esperienza personale di un’emozione suoni come una qualsivoglia cosa. Il passo successivo nel processo di perfezionamento dell’idea di base non può che essere allora, secondo Levinson, il postulare che P viene percepito come risuonante in maniera analoga all’espressione di E da parte di un qualche individuo − un individuo che sta manifestando esternamente la propria esperienza di E. Il fatto che la musica debba suonare in maniera analoga ad una manifestazione esteriore di un’emozione è perfettamente intelligibile, sostiene l’autore, ed è, in effetti, un fatto letteralmente vero, in relazione a certe espressioni comportamentali, vocali e non, delle 222 emozioni. In più, è facile e abbastanza naturale per noi immaginare l’esistenza di un modo di esprimere le emozioni alternativo e “specificatamente” musicale. Pertanto, riadattando il detto di Pratt alla luce di queste riflessioni, potremmo giungere ad affermare qualcosa del tipo: “La musica suona nel modo in cui una persona che esperisce e manifesta esternamente certe emozioni è” 313 ; il che è un altro modo per affermare la definizione dell’espressività musicale precedentemente fornita da Levinson, la quale, è evidente, soddisfa il fondamentale requisito dell’esternalità (terzo desideratum). Nel saggio che stiamo principalmente prendendo in esame, vale a dire Musical Expressiveness, Levinson dichiara all’inizio, come detto, di non voler discutere né di quelle che sono le cause dell’espressività musicale, né dei suoi possibili effetti o conseguenze sull’ascoltatore, in quanto entrambi sono elementi inessenziali rispetto alla descrizione del significato intrinseco dell’espressività stessa. Tuttavia, una volta esplicitata la sua teoria della ‘persona musicale’, egli ritiene che un esame, seppur breve, dei suddetti elementi possa aiutarci a comprendere meglio alcuni importanti risvolti della teoria appena menzionata. Per ciò che concerne le cause dell’espressività musicale, Levinson ritiene che la somiglianza isomorfica tra musica e emozioni sia un fattore fondamentale per l’attribuzione di proprietà emotive alla musica, ma non sia l’unica. Altri fattori importati, che l’isomorfismo tende colpevolmente a ignorare, sono costituiti innanzitutto da quelle che lui chiama “risposte sub-emotive”, o “micro-sentimenti” − i quali comprendono “scosse, fremiti, pelle d’oca, soffocamenti; fitte, spasimi, sussulti, brividi; aumenti di tensione e rilassamenti, accelerazione e rallentamento del respiro, tensione e rilassamento dei muscoli; stati di aspettativa, apprensione, eccitazione, calma, soddisfazione, frustrazione; sentimenti di sorpresa, di conclusione, di incertezza; aumenti e cali di attenzione” 314 − che accompagnano il nostro ascolto dei brani musicali. Un’accelerazione del tempo o una suddivisione del battito può ad esempio produrre un aumento del battito cardiaco; un aumento costante di frequenza può generare ansia; la dolcezza di un accordo o di un vocalizzo può provocare una certa quantità di piacere; la risoluzione di una sospensione può portare a una sensazione di carattere misto; una dissonanza stridente può produrre un leggero dolore; una modulazione inattesa genera disorientamento; un cambiamento di direzione particolarmente attraente di una frase musicale suscita il desiderio che esso venga ripetuto o variato. Ora, Levinson sostiene che, sebbene non costituiscano l’intera componente esperienziale delle emozioni ordinarie, tali reazioni intrattengono evidentemente molte relazioni di affinità con le emo313 314 Ivi, p. 116. Ivi, p. 113. 223 zioni e con altri stati intenzionali pienamente sviluppati; esse sono gli ingredienti di tali stati, e sono evocativi degli stessi, sebbene di per se stesse tali reazioni non siano in grado di indicare in maniera univoca nessuno di questi stati 315 . Non bisogna poi dimenticare il ruolo giocato da fattori di carattere convenzionale − pensiamo ad esempio al timbro del trombone, che solitamente tende (in assenza di elementi contrastanti) a rendere un passaggio musicale, per usare la terminologia levinsoniana, più prontamente ascoltabile come l’espressione comportamentale umana della solennità. Ad ogni modo, rimane il fatto che, in osservanza del requisito dell’analogia (primo desideratum), la proposta avanzata da Levinson preservi un ruolo primario al fattore della somiglianza tra la musica e i modi d’espressione umani, in particolare di quelli riguardanti il suo comportamento, il suo gesticolare, il modo di camminare o parlare, e via dicendo. L’isomorfismo non è dunque l’unico fattore percepito responsabile dell’espressività (pur essendo quello principale); inoltre ciò che soprattutto distingue la proposta di Levinson da quelle di Pratt, Budd, Scruton o Davies, è che il primo chiama in causa, come elemento necessario all’attribuzione di proprietà espressive alla musica, la nostra predisposizione non solo a percepire tali fattori, ma anche a immaginare, a partire da essi, l’esistenza, attraverso la musica, di un individuo che agisce in una maniera in qualche modo simile a quella seguita dagli esseri umani quando manifestano le loro emozioni, pur utilizzando risorse diverse da quelle a cui questi ultimi attingono − ovvero risorse che sono analoghe al gesticolare, all’esprimersi con la voce, al muoversi in maniera espressiva, tipici dell’uomo, in tutte le loro forme, compresa la danza, ma che vanno al di là di queste. Quando la musica è espressiva, essa ci predispone a interpretarla come se essa fosse, o accogliesse in sé, un individuo che manifesta esternamente la sua vita interiore, attraverso delle modalità nuove e dotate di una potenza senza precedenti 316 . Passando invece agli effetti dell’espressività (come peraltro richiesto dal sesto desideratum, ovvero dal requisito dell’affettività), Levinson sostiene che vi possono essere almeno tre diverse maniere in cui un passaggio musicale espressivo può produrre uno stato affettivo in un ascoltatore. La prima implica che l’ascoltatore riconosca e identifichi, consapevolmente, il fatto che tale passaggio sia caratterizzato dall’emozione 315 Sull’importanza delle reazioni fisiche suscitate dall’ascolto della musica, si veda anche J. Levinson, Musical Chills, in Id., Contemplating Art, cit., pp. 220-36. 316 A proposito, Levinson suggerisce anche che ascoltare un passaggio musicale come espressivo di E possa equivalere ad “ascoltarlo come, o a immaginarlo come se fosse, una persona che parla a noi in un linguaggio nuovo − un linguaggio che ci sembra di comprendere a un livello emotivo, sebbene non abbiamo familiarità con esso − e che attraverso tale linguaggio esprime ciò che sta provando”. (J. Levinson, Musical Expressiveness, cit., pp. 115-6). 224 E, e quindi reagisca a tale riconoscimento in maniera empatica, simpatetica, o antipatetica. La seconda implica che l’ascoltatore colga, in maniera sub-conscia, il fatto che tale passaggio sia caratterizzato da E, ad esempio riproducendone mentalmente i gesti, senza tuttavia che ciò sfoci nel riconoscimento intellettuale del tipo di emozione riprodotta. Il terzo, infine, implica che l’ascoltatore, col suo bagaglio di aspettative (musicali e percettive), semplicemente segua la progressione musicale del passaggio e provi un insieme variabile di reazioni di piccola scala e di micro-sentimenti del tipo precedentemente esemplificato che si sono in lui generati, i quali in modo naturale alimentano, in qualità di materiali di base, l’apprensione, conscia o sub-conscia, dell’espressività del passaggio in questione e influenzano quindi, in ultimo, ciò di cui il passaggio viene percepito, nell’ascolto, come espressivo. I sentimenti che proviamo in risposta alla musica non sempre, dunque, sono il risultato di un’identificazione volontaria con l’emozione del personaggio musicale che ci immaginiamo nell’ascolto. Altrettanto spesso, certi tipi di risposte emotive − le quali sono state denominate da Levinson sub-emotive − precederanno e alimenteranno una siffatta identificazione con un personaggio, così come influenzeranno il modo in cui l’emozione del personaggio verrà costruita, o il tipo di emozione. Inoltre, quando l’identificazione con la musica è la via principale per la stimolazione di uno stato affettivo, non si dovrebbe pensare che si tratta sempre di una vera identificazione con, e della condivisione de, l’emozione del personaggio in quanto compresa e classificata in una certa maniera. Talvolta è sicuramente così; ma spesso si tratta semplicemente dell’autoappropriazione dei gesti percepiti nell’ascolto della musica, o semplicemente dell’assecondare internamente il fluire della musica nel mentre la si ascolta comprendendola (si pensi ad esempio al silenzioso “cantare insieme alla musica”), nessuno dei quali (fenomeni) presuppone la percezione consapevole, da parte dell’ascoltatore, del personaggio che esperisce e esprime una qualche particolare emozione. Vediamo ora come Levinson affronta alcune delle obiezioni alle quali la concezione che spiega l’espressività musicale in termini di ascoltabilità-come-espressionepersonale può andare incontro. A tale concezione si potrebbe innanzitutto obiettare che l’immaginare un agente che stia esprimendo, attraverso ciò che avviene all’interno della musica, un’emozione E − al quale atto d’immaginazione potremmo equiparare il percepire la musica, nell’ascolto, come un’espressione di E − non può essere una condizione necessaria al riconoscimento del fatto che tale musica è espressiva di E, dal momento che un ascoltatore non ha bisogno di immaginare una siffatta cosa. La rispo225 sta di Levinson consiste nel precisare che l’ascoltare-come immaginativo che, secondo la sua teoria, solitamente ha luogo quando percepiamo tale espressività, non deve necessariamente essere posto molto in primo piano, né, come egli ha già precedentemente sottolineato, deve necessariamente essere determinato in maniera assai precisa per ciò che riguarda la natura e l’identità dell’agente che sta esprimendo l’emozione o i meccanismi attraverso cui il suddetto agente manifesta esteriormente le emozioni per mezzo della musica. In secondo luogo, si potrebbe obiettare alla concezione di Levinson che essa implica che l’apprensione dell’espressività musicale sia un processo più riflessivo e intellettuale di quanto non sembri essere nella realtà, il che le impedirebbe di soddisfare il quarto desideratum della lista fornita all’inizio (ovvero il cosiddetto ‘requisito dell’immediatezza’). Sembrerebbe infatti che, stando a quanto richiesto dalla teoria di Levinson, un ascoltatore che trovi un certo passaggio espressivo debba non solo percepire o ascoltare la musica come se fosse espressiva di un’emozione, ma debba anche inferire o giudicare che essa è stata prontamente e adeguatamente ascoltata in questa maniera da altre persone. Levinson risponde che, secondo la propria concezione, la percezione o l’apprensione dell’espressività musicale è davvero, di solito, immediata e non-inferenziale. Ovvero, un ascoltatore qualificato ascolta la musica come se (essa) fosse un atto di espressione emotiva, acquisendo così in maniera del tutto normale, e senza l’intervento della riflessione, la convinzione che la musica sia prontamente e adeguatamente ascoltata in questa maniera da altre persone. Con ciò non va confusa però la conoscenza del fatto che la musica è risultata essere espressiva di un determinato stato emozionale − il che andrebbe tenuto distinto dalla semplice percezione o apprensione, da parte dell’ascoltatore, di tale espressività −, la quale conoscenza potrebbe in effetti richiedere la conferma testimoniata dalle reazioni convergenti avute da altri ascoltatori qualificati, o la consultazione di critici riconosciuti, i quali hanno lasciato una testimonianza scritta delle loro esperienze di ascoltare-come. Se teniamo a mente tale distinzione, conclude Levinson, allora non c’è alcuna contraddizione tra l’affermazione secondo cui l’espressività musicale, nella formulazione che da lui ne viene data, è qualcosa che degli ascoltatori adeguatamente informati possono apprendere direttamente, e l’ammissione che essi con ciò possono non sapere se l’espressività in questione sia precisamente quella che risulta loro essere. Si potrebbe ancora obiettare alla concezione di Levinson che essa rischia di ridurre l’espressività nella musica a una forma, seppur particolare, di rappresentazione. 226 Qual è la differenza, ci si potrebbe chiedere, tra l’ascoltare un passaggio come il gioco delle onde nell’oceano, o come una battaglia, e l’ascoltare un passaggio come l’espressione sui generis di un’emozione da parte di una persona? In altre parole, è possibile evitare che l’espressività musicale collassi nella rappresentazione musicale, allorché adottiamo un modello dell’espressività musicale basato sull’ “ascoltare come se fosse un atto d’espressione”? 317 . La risposta, secondo Levinson, è affermativa; la sua teoria riesce a mantenere distinti i piani dell’espressione e della rappresentazione artistiche, sebbene queste siano in verità in una relazione più stretta di quanto solitamente si pensa (come presupposto dal secondo desideratum, ovvero dal requisito dell’estendibilità). Secondo la sua concezione, chiarisce Levinson, “un passaggio musicale P esprime E non rappresentando E, ma fornendo ciò che è musicalmente richiesto, anche solo virtualmente, per la rappresentazione o per le espressioni finzionali di E − senza con ciò tuttavia rappresentare realmente tali espressioni” 318 . Non vi è una siffatta rappresentazione, principalmente in quanto le condizioni intenzionali per la rappresentazione non sono soddisfatte; ovvero, i compositori in genere non hanno l’intenzione che gli ascoltatori percepiscano tali atti espressivi nella loro musica. Inoltre, dato che l’ascoltare-come qui coinvolto è una forma di ascoltare-come-se-fosse, l’esperienza che sta al centro dell’ascoltare la musica come espressiva è di un tipo tutto sommato differente da quello dell’ascoltare, nei casi paradigmatici della rappresentazione musicale, un oggetto o un evento udibile nella musica; il primo è un tipo più attenuato di ascoltare-come, in quanto è un ascoltare che sta sotto l’egida del pensiero di una determinata espressione. Un’ultima e particolarmente insidiosa obiezione che è stata indirizzata alla nozione di “modalità sui-generis” di espressione, su cui la concezione di Levinson si basa, può essere formulata nella seguente maniera: Stando alla concezione difesa da Levinson, la musica espressiva è una musica che viene ascoltata come l’espressione personale sui generis di un’emozione. La concezione sembra quindi richiedere che gli ascoltatori ascoltino la musica come se fosse una modalità naturale di espressione delle emozioni … ovvero “come il modo in cui una per317 In questa seconda tipologia di critiche può essere inserita, crediamo, anche la critica mossa da Silvia Vizzardelli, la quale rileva che, se è vero, come vuole Levinson, che nell’ascoltare una musica espressiva noi percepiamo le emozioni musicali “come se queste fossero espressione di un personaggio”, allora il nostro rapporto con la musica è assimilabile a quello che abbiamo con la letteratura, poiché in ambo i casi “ci immedesimo in un carattere”; con ciò negando la specificità di ciascuna di queste due forme di espressività. 318 J. Levinson, Musical Expressiveness, cit., p. 119. 227 sona che sta esperendo l’emozione esprimerebbe comportamentalmente la sua emozione, se le persone esprimessero naturalmente i loro comportamenti attraverso la musica”. L’idea di base dell’ascoltare la musica come espressiva dell’emozione E si suppone sia questa: “Se la musica fosse una modalità naturale di espressione, questo brano musicale sarebbe realizzato da una persona che sta esperendo E”. Tuttavia, se le percezioni espressive che gli ascoltatori hanno di questo brano musicale dipendono da questa considerazione controfattuale, allora essi devono sapere cosa significhi dire che la musica è una modalità naturale di espressione. Ma dato che questo non si verifica, e ciononostante essi sono comunque in grado di ascoltare la musica come espressiva di emozioni, la concezione (basata sulla nozione di modalità) sui generis, per come è stata esposta, non può essere corretta 319 . È possibile, secondo Levinson, replicare in due modi a tale obiezione. Il primo consiste nel continuare a sostenere che la modalità di espressione ascoltata nella musica deve essere del tipo sui generis appena indicato, aggiungendo tuttavia che gli ascoltatori non devono necessariamente sapere, in maniera dettagliata, cosa significa che la musica è una modalità naturale di espressione, ma devono solamente essere disposti a postulare, nell’immaginazione, che la musica sia una siffatta modalità. Se quest’ultima condizione viene soddisfatta, nulla ci impedisce di pensare che la musica, in virtù del suo particolare profilo sonoro, delle risposte sub-emozionali che essa stimola, o di fattori convenzionali di vario genere, possa essere in grado di spingere gli ascoltatori a percepirla, nell’ascolto, come una naturale e alternativa modalità di espressione. Il secondo modo di replicare fa maggiori concessioni all’obiezione appena esposta. Esso richiede che si faccia quasi del tutto a meno di considerare la modalità di espressione ascoltata nella musica espressiva come una modalità sui generis. Sebbene la somiglianza tra la musica e le modalità di espressione umane sia solo parziale, probabilmente quando percepiamo l’espressività della musica noi stiamo ascoltando in essa non un tipo di espressione straordinario e sui generis, ma piuttosto un tipo non specificato di espressione personale − o anche semplicemente l’espressione personale tout court. E nondimeno, l’espressione che ascoltiamo nella musica è tale che, se qualcuno esprimesse davvero le proprie emozioni in quella maniera, ovvero, attraverso quella che sembra essere una musica emessa spontaneamente, questo costituirebbe un tipo sui generis di espressione. Quale delle due formulazioni dell’esperienza che funge da criterio per l’espressività musicale, si chiede quindi Levinson, è logicamente e fenomenologicamente la più indicata: 1) l’ascoltatore ascolta P come l’espressione personale di E 319 Ivi, p. 120. 228 (realizzata) in una maniera “musicale” e sui generis; o 2) l’ascoltatore ascolta P semplicemente come l’espressione personale di E, ma (realizzata) in una maniera che, se si riflettesse su di essa, sarebbe considerata come sui generis? Non è così facile rispondere. Ad ogni modo, se adottassimo la risposta 1), l’obiezione verrebbe confutata; se adottassimo la risposta 2), l’obiezione verrebbe evitata. Ci si potrebbe ancora chiedere se la teoria dell’ascoltabilità-come-espressionepersonale proposta da Levinson sia in grado di dar conto di quelle forme complesse e pluri-stratificate dell’espressività musicale di cui normalmente facciamo esperienza. Si pensi al terzo movimento del Quartetto per archi n. 6 di Bartok, intitolato “Burletta”, dove vi sono delle parti che esprimono un certo umorismo, e tuttavia evocano in noi, di primo acchito, l’immagine di una persona ubriaca; oppure si pensi alla musica “goffa” e “zotica” (in particolar modo per le note suonate dal contrabbasso verso la fine del pezzo) della Suite di Pulcinella di Stravinsky, la quale tuttavia è espressiva di un “pacchiano buon umore”. Di nuovo, sostiene Levinson, la sua teoria fornisce un buon paradigma per interpretare il carattere espressivo complesso di questi brani. Infatti, la ragione per cui Bartok esprime umorismo e non ubriachezza, e per cui Stravinsky esprime buonumore e non goffaggine, è che nell’ascoltare il primo brano noi percepiamo, in ultima analisi, non una manifestazione (musicale) di ubriachezza, ma piuttosto l’esistenza di un agente immaginario che finge, in maniera disinteressata, di essere ubriaco; così come nell’ascoltare il secondo brano noi percepiamo un agente immaginario che fa una parodia della suddetta goffaggine. In ciascuno dei due casi la musica viene “prontamente” ascoltata, all’interno del rispettivo contesto stilistico, come la parodia di second’ordine del comportamento di prim’ordine che viene in un primo momento chiamato in mente dalla musica, e quindi esprime qualcosa come uno spirito burlesco piuttosto che uno stato di rozzezza, oppure la parodia di un uomo ubriaco piuttosto che uno stato di pura ubriachezza. Un’espressione complessa di tipo differente è illustrata dallo Scherzo del Quartetto in Do diesis minore Op. 131 di Beethoven. Esso sembra essere espressivo di gioia, ma di un tipo particolare − una gioia che potremmo descrivere come frenetica. Questa espressività è in parte una funzione dell’incedere proprio del brano, fatto di continue “fermate” e “ri-partenze”, di un’alternanza di segmenti ora lunghi e movimentati, ora brevi e calmi. Noi ascoltiamo la musica non semplicemente come l’espressione di gioia da parte di una persona, ma come l’espressione di gioia da parte di una persona frenetica, o di una gioia che viene esperita in maniera frenetica. È il modo in cui le diverse sezioni musicali sono collega229 te tra loro che è cruciale per la realizzazione di questo tipo più specifico di espressività, che non si lascia ridurre al carattere immediato proprio delle singole sezioni prese di per se stesse. Levinson suggerisce anche che in queste come in altre musiche noi percepiamo, in virtù della complessità della struttura compositiva, dei “personaggi musicali di ordine più elevato”, ovvero dotati di una personalità complessa (corrispondente al modo in cui le diverse unità della composizione sono intrecciate) che non si lascia ridurre a un singolo carattere (corrispondente a una particolare frase, melodia, cellula ritmiche, ecc). La concezione dell’espressività musicale difesa da Levinson si accorda anche, secondo l’autore, col fatto che alcuni, se non molti, passaggi musicali, pur essendo espressivi, non sono espressivi di stati emotivi a noi familiari e facilmente identificabili (dei quali la suddetta concezione, come visto, dà conto, in osservanza del quinto desideratum, ovvero del requisito della generalità). Ci possono essere diverse ragioni per questo, puntualmente rilevate da Levinson. Innanzitutto, un passaggio musicale, anche quando è molto interessante dal punto di vista musicale, può non essere affatto espressivo − ovvero, esso può non indurre degli ascoltatori adeguatamente informati a percepirlo, nell’ascolto, come se fosse un’espressione emozionale di un qualsivoglia genere 320 . (Si pensi, ad esempio, ad alcune delle Invenzioni a due voci di Bach, o a certe parti del balletto Apollo di Stravinsky, o al terzo movimento della quinta sonata per violoncello op. 105 di Beethoven). Oppure un passaggio potrebbe essere tale da indurre negli ascoltatori varie e fluttuanti esperienze di ascolto della musica in quanto espressione di emozioni, esperienze che non convergono stabilmente su una particolare emozione; in altre parole, la dimensione espressiva di tale musica è irriducibilmente ambigua o indeterminata. (Alcuni esempi potrebbero essere rappresentati dall’inizio altamente evocativo del primo quartetto d’archi di Janacek, o dal primo movimento dell’enigmatica Sonata per violoncello e pianoforte di Debussy). Oppure, il che è differente, un passaggio può essere tale da indurre, in ascoltatori adeguati, un’esperienza divisa o duplice, eppure stabile e convergente, di ascolto della musica come se fosse un’espressione di emozioni; in tali casi vi è l’espressione non di una particolare emozione ma di uno stato emozionale ibrido o misto, uno stato che probabilmente non incontriamo molto spesso in situazioni extramusicali. (Un esempio potrebbe essere il se320 Anche per Levinson, come per altri autori citati nel nostro lavoro (si pensi ad esempio a Budd), l’espressività, pur essendo un elemento importante della musica (oltre che dell’arte in genere), non è l’unica fonte di valore di un brano musicale, che può essere interessante sotto molti altri profili (ad esempio per la sua struttura formale, per il suo collegarsi ad altre opere, ecc.). Si veda a tal proposito J. Levinson, Evaluating Music (1998), ora in Id., Contemplating Art, cit., pp. 184 – 208). 230 condo tema del primo movimento del quartetto d’archi di Ravel, con la sua peculiare mescolanza di malinconia, sensualità e mistero). Infine, Levinson ci tiene a precisare in che modo la sua concezione soddisfa l’ultimo dei desiderata da lui stesso elencati all’inizio, quello che richiede che una spiegazione dell’espressività musicale debba riconoscere, e rendere intelligibile, il valore di tale espressività. In sintesi, egli sostiene che il valore che l’espressività musicale, intesa come la “pronta ascoltabilità della musica come espressione personale”, ha per chi la ascolta, è il valore insito nel confrontare “immagini dell’esperienza umana”; tale confronto, ovviamente, avviene anche nella nostra vita reale e quotidiana, ma quando ascoltiamo una musica espressiva noi ci formiamo immagini che sono costituite e intrecciate con la sostanza della musica, una sostanza in cui possiamo essere assorbiti così da vicino che è come se, per usare la famosa frase di T.S. Eliot, diventiamo noi stessi musica mentre la ascoltiamo, e partecipiamo così della vita mentale incarnata nella musica stessa. Una tale immedesimazione nella musica avviene in virtù del fatto che, e nella misura in cui, la musica in ultimo ci colpisce come se fosse davvero l’espressione di una certa emozione da parte di qualcuno. Una volta che ciò accade, “ci si apre la possibilità di identificarci con quell’atto immaginario di espressione e farlo nostro, a vari livelli, riproducendo interiormente i suoi gesti e sperimentando attraverso l’empatia i suoi aspetti più intimi − tutto ciò senza che si perda il contatto con le movenze specificatamente sonore che fanno sì che la musica sia esattamente ciò che è” 321 . Il motivo per cui abbiamo deciso di concludere il nostro lavoro di ricerca con l’analisi della teoria di Jerrold Levinson non è casuale. Sin dalle prime pagine del lavoro abbiamo infatti puntualizzato come fosse di primario interesse per noi l’evidenziare i punti di contatto riscontrabili tra le diverse posizioni che hanno animato il dibattito analitico sul tema dell’espressività musicale, piuttosto che schierarci con l’uno o con l’altro partito appoggiandone così l’apparente incompatibilità. Non sono mancati, certo, da parte dei vari autori qui esaminati, tentativi di mostrare delle affinità con quanto affermato da altri autori sullo stesso argomento. Tentativi che in Levinson assumono per la prima volta un aspetto sistematico. Egli presenta infatti la sua teoria come il naturale risultato del perfezionamento delle posizioni, pure per certi aspetti illuminanti, che lo hanno preceduto e con cui egli si è confrontato. Ora, ciò che qui in ultimo ci interessa non è tanto vedere se la teoria di Levinson ponga davvero la parola fine al dibattito sull’espressione delle emozioni in musica, 321 J. Levinson, Musical Expressiveness, cit., p. 125. 231 quanto prendere spunto dal metodo da lui seguito e puntualizzare quelli che, a nostro avviso, sono i presupposti che sembrano accomunare la maggior parte delle posizioni considerate. Non ci sembra azzardato riconoscere in un certo grado di isomorfismo tra musica e emozioni la base principale dell’attribuzione di proprietà espressive alla musica. Tale isomorfismo riguarda per lo più da un lato il movimento musicale, dall’altro la componente propriamente affettiva (ovvero non cognitiva) delle emozioni. La relazione di somiglianza isomorfica appena enunciata non è però qualcosa che viene passivamente recepita dal soggetto, il quale si avvale invece della facoltà dell’immaginazione, che gli permette di percepire, ascoltandolo, il movimento musicale nel suo procedere in sintonia con le dinamiche proprie della vita emotiva dell’uomo. A questo punto serve però un passaggio definitivo e coraggioso, vale a dire un vero e proprio salto da una nozione descrittiva di isomorfismo ad una nozione esperienziale. Non importa ciò che naturalmente registriamo come analogo strutturalmente o formalmente, ma ciò che ci appare tale all’interno della nostra esperienza. È nell’ambito complesso e multiforme della nostra esperienza che si costruiscono ponti, passaggi, conversioni sulla base della percezione diretta e in “prima persona” di isomorfismi. L’esperienza dell’espressività musicale è identificabile in questa attività percettiva; attività che, pur coinvolgendo l’immaginazione, non ha nulla a che fare con l’inferenza razionale, ma si dà immediatamente e spesso, sebbene non necessariamente, è accompagnata da una reazione emotiva significativa. Quella che abbiamo appena proposto è una sintesi personale dei risultati fin qui raggiunti dagli autori analitici che hanno dibattuto sul tema in questione. Volendo, potremmo anche noi estrapolare dalla sintesi appena compiuta alcuni requisiti, o desiderata, che brevemente potremmo chiamare: a) requisito dell’isomorfismo; b) requisito del movimento musicale; c) requisito del feeling component of emotion; d) requisito dell’immaginazione; e) requisito della risposta affettiva. A nostro avviso, essi possono essere un’utile guida per valutare le concezioni dell’espressività musicale che si fronteggiano in ambito analitico, e, crediamo, da essi difficilmente potrà prescindere chiunque voglia proporre nuove concezioni relativamente al problema dell’espressività musicale. 232 BIBLIOGRAFIA ADDIS, L. 1999 Of Mind and Music, Cornell University Press, New York. ALLEN, R. T. 1990 “The Arousal and Expression of Emotion by Music”, British Journal of Aesthetics, 30. BEARDSLEY, M. C. 1981 “On Understanding Music”, in Price, ed. BEEVER, A. 1998 “Arousal Theory Again”, British Journal of Aesthetics, 38. BERLIOZ, H. 1932 Memoirs, tr. da Ernest Newman, Tudor, New York. BERTINETTO, A. 2006 “Bach e il San Bernardo. La filosofia della musica di Peter Kivy”, in Estetica, 1. BLACK, M. 1954 “Metaphor”, Proceedings of the Aristotelian Society, 55; rist. in Black (1962); trad. it. 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