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Rivista di filosofia
del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione
dell’Università di Bologna
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Sommario
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Profili dell’ombra
a cura di Annarita Angelini
7
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27
Annarita Angelini, Presentazione
Baldine Saint Girons, Lo stadio dell’ombra
Annarita Angelini, Ombre dei sensi e ombre del pensiero. Dal raggio ombroso alle
lezioni di tenebre
Raffaele Danna, L’«ombra del beato regno». Presenze umbratili nel Purgatorio di Dante
Marco Matteoli, Giordano Bruno e l’ombra della conoscenza
Florence Malhomme, Ombra e musica. La musica che siamo
Giuseppe Longo, L’infinito matematico “in prospettiva” e l’ombra dei possibili
Apparato iconografico
61
91
117
149
167
181
183
203
223
229
279
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319
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339
Saggi
Diego Donna, Norma, segno, autorità. Spinoza interprete dei profeti
Beatrice Collina, Il rapporto tra economia ed etica nel dibattito austro-tedesco del
XIX secolo
Davide Spagnoli, Introduzione a Matematica ed ideologia: la politica degli infinitesimali
Joseph W. Dauben, Matematica ed ideologia: la politica degli infinitesimali
Diego Melegari, La verità di questo mondo. Rileggendo Tran-Duc-Thao
Riccardo Fedriga, Possibilità, scelta critica e impegno: Mario Dal Pra storico della filosofia
Daniela Marchitto, Sensazione di libertà e libertà senza azione: aspetti del dibattito contemporaneo
367
Note e discussioni
Jonathan Molinari, “Collaborative paradigm” e pratica della complessità: sulla
nuova edizione inglese dell’Oratio pichiana
Gennaro Imbriano, Tra teoria della storia, iconologia e “ippologia politica”. Sulle
tracce del Nachlass di Reinhart Koselleck
Luca Scuccimarra, Nelle tenebre del Novecento. Una ricerca collettiva sulla violenza di massa
Valerio Portacci, Bioetica e diritto penale. Prospettive dell’autonomia
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Recensioni
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Possibilità, scelta critica e impegno:
Mario Dal Pra storico della filosofia
Riccardo Fedriga*
In honour of the century of the birth of one of the most important historians of philosophy, professor and civil servant of the Italian democracy
against any fascism and dogmatism, the aim of this paper is to investigate
Mario Dal Pra’s first strategies of research in the medieval philosophy.
The paper will show the role and the theoretical reasons that moved Dal
Pra to study and revaluate some “non orthodox” authors like, for instance,
John of Salibury and Nicola of Autrecourt. Dal Pra reads these authors as
historical exemple of antidogmatic and independent use of the reason,
against any form of metaphysics. Dal Pra’s criticism of the deterministic
and arid philological use of the historical reconstruction, shows the limits
of any purely academic conception of the history of philosophy. On the
contrary, his strict and rigorous analysis of the texts and the accuracy of
the reconstruction of the historical context, is always linked to the ethical
and civil example of his teaching.
Keywords: Mario Dal Pra, History of historiography, Philosphy of History, Medieval Philosophy, Criticism.
Caratteristica che accomuna buona parte della ricerca storiografica nell’Italia del primo dopoguerra è il rifiuto di ogni semplificazione in senso lineare e continuista del processo storiografico. A questo rifiuto si accompagna il conseguente desiderio di opporsi alle ricostruzioni intese come sequenze precostituite che imprigionino una filosofia nel limite di una sola
* Nel 2014 ricorre il centenario della nascita di Mario Dal Pra. Questo contributo vuole essere un omaggio alla memoria e alla tradizione di studi e di impegno etico e civile di
un maestro, professore e partigiano.
«Dianoia», 19 (2014)
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Riccardo Fedriga
verità. In quegli anni «tutti i migliori storici della filosofia» scrive Paolo
Rossi «tentarono una reintegrazione della storia della filosofia in un “tempo empirico” e concordamente rifiutarono il compito di “rifinitore dei particolari” del quadro unitario dello svolgimento del pensiero tracciato dagli
idealisti; l’identificazione della storia della filosofia con la storia dell’essenziale» e con una specie di «atemporale esplorazione geografica delle
regioni dello spirito»1. Tra i contributi più rilevanti a questo rinnovamento, che va di pari passo con l’impegno per la ricostruzione civile del paese
sulle macerie del fascismo, vi è senza dubbio quello di Mario Dal Pra2.
Punto di partenza della metodologia storiografica di Dal Pra è la ridefinizione della nozione stessa di “criticità”. Essa viene intesa come dispositivo cardine per la ricomprensione della prassi, a partire dall’assunzione
di responsabilità che comporta la libera scelta di mettere in luce un ambito di ricerca – e la relativa consapevolezza di lasciarne in ombra altri. Una
criticità libera, secondo Dal Pra, è infatti possibile solo come rinuncia consapevole ad un fondamento pregiudiziale3. L’esigenza di affermare questa
1
P. Rossi, Introduzione, in E. Donaggio, E. Pasini (a cura di), Cinquant’anni di storiografia filosofica in Italia. Omaggio a Carlo Augusto Viano, Bologna, il Mulino, 2000, p. 22.
Sempre di Rossi, in merito alle critiche allo storicismo e alla storiografia idealista, si veda
Storia e filosofia. Saggi di storiografia filosofica, Torino, Einaudi, 1969, pp. 18-29. Le discussioni sul ruolo e la funzione critica della storiografia si svilupparono a partire dal riesame delle posizioni di Antonio Banfi – a partire da Concetto e sviluppo della storiografia
filosofica, già in «Civiltà moderna», 5 (1933), pp. 392-427 e 522-566 (ora in La ricerca
della realtà, Firenze, Vallecchi, 1959, pp. 101-167, ried., Bologna 1996). Per il contributo
decisivo di Banfi alla storiografia critica si veda anche Osservazioni sul naturalismo antico, in Problemi di storiografia filosofica, Milano, Bocca, 1951. Sul rifiuto di alcune tipiche
categorie dell’idealismo e sulla necessità di una riflessione «sul concetto critico della ragione filosofica e ne mostrano l’efficacia come criterio per le ricerche storiografiche» (Banfi), trovarono un accordo pieno, negli anni Cinquanta, posizioni filosofiche e storiografiche
molto lontane. Cfr. i contributi di M. Dal Pra, G. Preti e P. Rossi in La crisi dell’uso dogmatico della ragione, A. Banfi (a cura di), Milano, Bocca, 1953. Sulle critiche coeve alle
categorie idealiste e il congresso del 1956 decisivo è il numero 11 (1956) della «Rivista
Critica di Filosofia» (ora «Rivista di Storia della Filosofia»). Si veda inoltre di A. Santucci, la parte seconda del vol. X della Storia della Filosofia diretta da M. Dal Pra, Padova, Vallardi, 1978, in particolare pp. 334-339; e il contributo di M. Ferrari al vol. XI, I, all’edizione della Storia della filosofia rivista da G. Paganini (Padova, Vallardi, 1998), pp. 84-102.
Per un racconto storico narrato da uno dei protagonisti degli incontri, cfr. Carlo Augusto Viano, Stagioni filosofiche, Bologna, il Mulino, 2007.
2 M. Dal Pra, La guerra partigiana in Italia, D. Borso (a cura di), Firenze, Giunti, 2009.
3
M. Dal Pra, Sul concetto di criticità, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», VIII
(1953), pp. 1-13. Cfr. anche La storia della filosofia come sapere critico. Studi offerti a Ma-
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prospettiva deriva dall’opposizione a posizioni, tipiche della tradizione
idealistica e neoscolastica, per cui, a partire da una sorta di idealizzazione
dell’origine di un tema o un problema, si comprende un singolo accadimento o si dona senso a una serie di fatti storici solo attraverso un principio sovrastorico che li comprenda e li orienti in modo unitario. Fare storia
della filosofia, in quest’ottica, non significa seguire i percorsi di un’indagine che è aperta alla propria concreta dimensione storica, ma forzare questo o quel filosofo all’interno di categorie precostituite. In esse, come scrive un altro protagonista della scena filosofica del dopoguerra italiano, Giulio Preti, il pensiero dei filosofi del passato viene «cacciato per forza dentro, ci stia o no: e il povero pensatore (che essendo morto non può protestare) deve dire quello che è conforme allo schema, anche se non l’ha mai
detto o l’ha detto dando alle espressioni un senso tutto diverso. Le differenze tra un pensatore e l’altro (e spesso è da tali differenze che dipendono quelle conseguenze che interessano lo schema paradigmatico) vengono
del tutto obliterate; l’empirismo di Hume assomiglia a quello del “saggio”
Locke come un leone a un gatto – però, visto che Hume ha tratto conseguenze scettiche dal suo empirismo, queste dovevano derivare dall’empirismo di Locke. […] Uno storicista deve essere per forza razionalista (tipo
Hegel); un pragmatista deve essere per forza un irrazionalista (tipo James)
– quindi non si può essere insieme storicisti e pragmatisti». Così, per non
turbare i sogni dei costruttori di sintesi unitarie, un filosofo viene escluso
dall’elenco di ciò che è tipicamente filosofico o considerato solo negli
aspetti, peraltro accidentali e formali – ma questo non pare costituire problema – che lo legano agli sviluppi di un problema metastorico. Ancora
Preti: «Secondo alcuni, nella storia della filosofia c’è un elemento costante (capace quindi di costituire una base reale di continuità) e sono i problemi. Le soluzioni variano, si dice: le posizioni pure variano, e variamente si intrecciano – ma i problemi rimangono, sono costantemente gli stessi […] le soluzioni sono la materia diveniente, fenomenica, della storia della filosofia, i problemi il substrato permanente; il destino umano è quello
di trovarseli di fronte. Ma forse non corrisponde troppo alla realtà storica:
è un po’ arrischiato dire che “i problemi” della filosofia di Talete milesio
sono uguali a quelli di Emanuele Kant. Anche qui il solito pericolo. I problemi della filosofia sono A, B, C…; se in un pensatore essi mancano, non
rio Dal Pra, M.A. Del Torre (a cura di), Milano, Franco Angeli, 1984 (cfr. in particolare il
contributo di E. Garin).
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Riccardo Fedriga
è un filosofo; se ne mancano alcuni è un filosofo incompleto; se ne pone
altri, bene, ma non sono problemi filosofici. Che è un modo di ottenere vittoria sulla realtà un po’ troppo a buon mercato. […] Ma anche ammesso che
i problemi restino gli stessi, è pur sempre vero che, nel corso della storia
della filosofia, essi, se mai, restano identici solo formalmente. È indubbio
che tanto Platone quanto Kant si interessino del problema morale. […] E
tuttavia, le due impostazioni sono tanto diverse, che a mala pena si può dire che si tratti dello stesso problema».4
La polemica è chiaramente rivolta all’idealismo, alla sua ricerca storica intesa come sintesi unitaria che emerge dalla molteplicità, al metodo dei
precorrimenti e del superamento. La storiografia idealista, costruita sulla
base di queste categorie, ha infatti troppo spesso servito alla giustificazione di fondamenti metafisici: in essa i fatti sono stati arbitrariamente inquadrati in maniera che si risolvessero del tutto negli schemi presupposti5.
In questo contesto, la nozione di critica costituisce per Dal Pra una premessa metodologica. Essa infatti è condizione di possibilità di ogni genuina indagine che trovi senso solo a partire dal suo storicizzarsi. Nell’ambito della ricostruzione storiografica, in particolare, la nozione di criticità
serve per scardinare e demolire le presupposizioni metafisiche delle categorie tradizionali. In questo senso lo studio del passato assume un grande
rilievo teorico e normativo. L’indagine critica permette sia di evitare l’appiattimento della ricerca sulla semplice collezione di dati, sia di sfuggire alle secche di una filologia fine a se stessa che coltivi la speranza, altrettanto ideologica, di scambiare uno strumento di lavoro con una ricostruzione
obbiettiva e inconfutabile. In questo, a nostro avviso, risiede il senso che
Dal Pra attribuisce al “trascendentalismo della prassi”: una nozione che risulta impossibile da comprendere se non la si lega a quella di criticità intesa come premessa metodologica alla ricerca storica6.
4
G. Preti, Continuità e discontinuità nella storia della filosofia, in Problemi di storiografia filosofica, Milano, Bocca, 1951 (ora in G. Preti, Saggi filosofici, II, Storia della logica e storiografia medievale [ed. consultata], Firenze, La Nuova Italia, 1976, pp. 221; 223224. Sul rapporto tra Dal Pra e Preti, cfr. R. Pettoello, La verità sta davanti a noi, «Doctor
Virtualis», 4 (2005), p. 173.
5 M. Dal Pra, Premessa a «Rivista Critica di Storia della Filosofia», I (1946), pp. 1-3.
6 Cfr. E.I. Rambaldi, Il permanere della formazione cristiana nel percorso da Gentile
a Preti, «Doctor Virtualis», 4 (2005), p. 52: «Che cos’è dunque il trascendentalismo della
prassi, questo punto di vista teorico? A mio parere, esso è caratterizzato, innanzitutto, dal
tentativo di costruire una logica dell’agire contro una logica del pensiero astratto, il teoricismo, criticato per l’identificazione tra la nostra conoscenza e l’essere della descrizione
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1. Scelte storiografiche e scetticismo
In questo contesto, l’indagine di Dal Pra sullo scetticismo risponde a due
esigenze: da un lato, approfondire i confini di un modello di razionalità
critico verso posizioni metafisiche; dall’altro, riconoscere il valore di correnti e autori sacrificati dalle storiografie lineari. È il caso dello scetticismo,
e di quello medievale in particolare, considerato dalla tradizione storiografica idealista solo come il segnale di un’epoca di crisi e decadenza e per
questo giudicato filosoficamente non rilevante.
contemplativa. A me sembra che Dal Pra cerchi di risolvere completamente l’aspetto teorico all’interno del momento della prassi. Che cos’è per lui questo momento della prassi?
Non certo il momento di una qualche prassi politica impegnata; in quella fase, l’aspetto di
produzione della teoria veniva evidenziato come attività. Si trattava dunque di una riflessione
trascendentale sulla produttività della teoria, e questo è un fortissimo elemento kantiano all’interno del circolo gentiliano. Vi è inoltre un elemento propositivo certamente di carattere fichtiano. Ma se consideriamo il dibattito di allora, l’aspetto decisivo di Dal Pra fu il crocianesimo, nel senso che Dal Pra interpretò questa azione di una teoria produttiva in senso
trascendentale in senso antifascista. Abbiamo a questo proposito la stupenda descrizione
fornita da Miri, suo allievo di quegli anni, di Dal Pra che insegna al liceo Pigafetta e commenta La storia come pensiero e come azione di Croce, e durante le lezioni si infervora e
passa da una posizione ancora legata al cristianesimo ad una posizione profondamente legata all’immanentismo di Perché non possiamo non dirci cristiani. L’elemento che certamente lo spingeva era la prassi come azione, e ciò in quel momento aveva un significato politico ben preciso. Infatti un anno dopo egli non sarà più lì ad insegnare: nel settembre scompare in clandestinità». Per una posizione differente in merito all’influenza del pensiero di
Croce, Gentile e soprattutto del circolo di filosofia e storia della filosofia, Giorgio Lanaro
preferisce parlare, più che di circolo, del tentativo di realizzare un «costante equilibrio tra
ricerca storiografica e impegno filosofico-teoretico». Cfr. G. Lanaro, Dal Pra e la storia
della filosofia come impegno teorico, «Doctor Virtualis», 4 (2005): pp. 45-46: «non si può
attribuire semplicemente a un’ascendenza gentiliana quello che è in realtà un dato comune
a larga parte della cultura filosofica continentale – tedesca, francese, italiana – post-hegeliana (discorso diverso bisognerebbe fare per la filosofia britannica). In Dal Pra poi il carattere militante, in senso alto, della sua storiografia ha anche referenti teorici molto precisi; l’interesse per Scoto Eriugena e per la filosofia medievale nasce nel contesto di una formazione cristiana, spiritualistica. Nella fase ulteriore, quella del trascendentalismo della
prassi, interviene l’altra figura importante per Dal Pra che è Andrea Vasa. Infine occorre ricordare che è presente fin dalla metà degli anni Quaranta, ma fa sentire maggiormente la sua
presenza in un periodo successivo, Giulio Preti con il suo empirismo critico, secondo la definizione di Dal Pra, contrapposto non solo ad un empirismo dogmatico, ma in particolare,
in quanto empirismo critico attivo, ad un empirismo passivo, dal momento che si tratta di
un empirismo riletto alla luce di Kant e degli sviluppi del kantismo, in cui cioè si innestano elementi del criticismo della filosofia trascendentale».
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L’interesse di Dal Pra per lo scetticismo risale al periodo della sua formazione e trova espressione concreta negli anni Cinquanta (1949-1951),
quando i suoi studi si indirizzano, oltre che alle indagini su David Hume
(prima edizione: 1949), sullo scetticismo greco, sulla filosofia antica e sullo scetticismo medievale con l’analisi delle dottrine di autori quali Giovanni di Salisbury, Nicola d’Autrecourt e Amalrico di Bène. Sono anni in
cui Dal Pra lavora, sia sul piano teorico sia su quello storico, al tentativo di
legare una posizione filosofica alla ricostruzione della storia del pensiero
che a essa si ispira: «La vicenda dello scetticismo», scrive Dal Pra, «mi ha
interessato come rinnovato tentativo di riaprire lo spirito critico dopo rilevanti tentativi di chiusure metafisiche; l’insofferenza dello scetticismo per
l’assolutezza delle presunzioni della conoscenza mi ha attirato anche in
quanto essa si collega all’esigenza di evitare la banale contraddizione di
negare, con tono di asseveranza metafisica, la verità della metafisica»7. La
ripresa di posizioni scettiche non era cosa semplice. Dal Pra stesso parla di
drastiche condanne che in quegli stessi anni venivano emanate nei confronti dello scetticismo, visto con sospetto e addirittura con “timor panico”
in un ambiente filosofico – nel quale egli stesso si era pur formato – permeato dalla metafisica classica e dal suo realismo: «allora lo scetticismo era
da me inteso come il rovesciamento soggettivo del realismo e quindi era
fuggito come la peste. E infatti lo scetticismo, in un certo senso, è proprio
la “peste” del pensiero metafisico realista poiché ne rappresenta l’altra faccia della medaglia, il riflesso speculativo inevitabile, contro cui vanno ad
infrangersi ogni sogno ed ogni illusione metafisica assoluta e totalizzante»8.
Dal Pra concentra i propri interessi su quello che definisce “scetticismo
critico”. Egli infatti individua due forme di scepsi: la prima è quella che afferma la non esistenza della verità o del significato assoluto del reale, e che
ha dunque un carattere a sua volta dogmatico, poiché pone come principio
dell’essere la mancanza di ogni principio9. L’altra forma, quella cosiddetta critica, non conferisce alcun valore positivo alla propria dottrina, ma si
limita a sospendere il giudizio: alla negazione che esista un significato dell’essere si rifiuta di dare un senso che sarebbe comprensivo appunto del si7
M. Dal Pra, Appunti sullo sviluppo del mio pensiero, «Rivista Critica di Storia della
Filosofia», 4 (2000), pp. 665-670.
8 M. Dal Pra e F. Minazzi, Ragione e Storia. Mezzo secolo di filosofia italiana, Milano,
Rusconi, 1992, p. 96.
9 M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Milano, Bocca, 1950, p. 8. Cfr. anche, sempre di Dal
Pra, La storiografia filosofica greca, Milano, Bocca, 1950 (introduzione).
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gnificato dell’essere stesso10. Allo scetticismo critico, a sua volta, si presentano due possibilità: o il ritorno alla prima forma, quella dogmatica, oppure l’affidarsi “immediatistico” ai dati della ricerca e dell’azione, rinunciando a ogni indagine che si proponga di giustificare la coerenza e le ragioni del proprio agire. Nelle parole di Dal Pra, in quest’ultimo caso il dogmatismo dell’assoluto è sullo stesso piano del dogmatismo della vita nella sua immediatezza: «alla fede nella verità della teoresi si è sostituita quella nella verità dell’immediato»11. Le tesi scettiche, allora, non sono relative e circoscritte al pensiero antico, che pure le ha viste nascere; ma, come
nell’antichità esse si sono contrapposte a forme varie di dogmatismo filosofico, così è avvenuto per il medioevo e per l’età moderna. Insomma lo
scetticismo non deve essere relegato fra le cose che sono scomparse per
non tornare mai più12. Esso si ritrova nelle risposte, infinitamente varie, che
ogni volta vengono opposte ai tentativi dogmatici e intellettualistici, per
dirla con Dal Pra, di indicare un senso dell’essere come unico e definitivo.
Né il dogmatismo né la ragione scettica riescono tuttavia ad avere mai completamente ragione l’uno sull’altro: «così dal dogmatismo si giungerà allo
scetticismo, per tornare poi dal secondo al primo e quindi ricominciare il
ciclo. La critica che il dogmatismo fa dello scetticismo è appunto tale che
da essa è possibile allo scetticismo di rinascere; e l’opposizione che lo scetticismo fa al dogmatismo è tale che da essa il dogmatismo riesca sempre a
riprendersi»13. Studiare le risposte che, in modo diverso ma storicamente
determinato, sono state date nel passato può dunque essere utile per affrontare le questioni teoriche del presente. La filosofia, in particolare, garantisce l’autonomia e l’eliminazione di ogni elemento metafisico nell’interpretazione della storia mentre, contemporaneamente e in modo speculare, la consapevolezza storiografica crea una filosofia realmente storica14.
Le scelte storiografiche divengono l’ambito critico in cui trova spazio il
senso della ricerca storica. Anzi, alla storiografia viene riconosciuto il ruolo di fondamento teorico e metodologico della ricerca stessa. Ben si capisce, quindi, perché al di là di un certo richiamo al circolo di filosofia e storia della filosofia – forse più normalmente da intendere nel quadro di un
10
Ibidem.
Ivi, p. 11.
12 Ivi, p. 438.
13 Ivi, p. 447.
14 M. Dal Pra, Cinque anni di vita, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», VI (1951),
p. 1.
11
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equilibrio tra ricerca storiografica e scelte teoriche – Dal Pra si muova su
un piano di stretta e continua interrelazione tra scelte teoriche degli ambiti di ricerca e la ricerca stessa15. Tuttavia la circolarità rimane, e potrebbe
sorgere la domanda se non si sia in presenza della riproposizione di una linearità storiografica solo cambiata di segno, dal negativo al positivo. In realtà il metodo critico, nell’interpretazione di Dal Pra, non intende eliminare le categorie storiografiche quanto svuotarle di ogni loro presupposizione metafisica. L’apertura verso una comprensione critica del pensiero storico ne ridefinisce la funzione come etichette convenzionali, puramente
normative, e definite in seguito ai risultati dell’indagine. Lo storico della filosofia non deve rinunciare alla classificazione ma essere consapevole di ritagliare una interpretazione possibile: una scelta di cui si assume la responsabilità in sede teorica. A questo sono infatti indirizzati gli studi su
una categoria sino ad allora negata, o considerata solo come emblema della crisi della Scolastica, e cioè lo scetticismo medievale.
2. Lo scetticismo medievale come sapere critico: Giovanni di Salisbury e
Nicola di Autrecourt
Dal Pra ritrova la tensione tra ragione scettica e dogmatismo nell’analisi del
pensiero di Giovanni di Salisbury e di Nicola d’Autrecourt16. Nella mono15
Uno degli ambiti di studi privilegiati è la storia della filosofia medievale. Il perché non
è difficile da individuare: per la neoscolastica la filosofia medievale – che vede la propria
vetta nel pensiero di Tommaso – “serve” per imporre, dinnanzi alle legittime pretese metodologiche di fondamento interno ai discorsi scientifici, un ruolo di fondamento teorico a
quella dottrina, il neotomismo appunto, che si pone come la naturale continuazione del pensiero tomista. In particolare, attraverso un ottimo esempio di sintesi dottrinale unitaria, viene fatta valere l’“analogia” tra la subalternità della filosofia nei confronti della teologia in
Tommaso e la presunta – direi scontata viste le premesse – ancillarità del sapere novecentesco al progetto neotomista. Alla base di questa concezione sta il presupposto che esista una
filosofia perenne, atemporale, che s’incarna in alcune forme storiche. In tal modo, grazie al
gioco analogico, la pluralità delle indagini contemporanee si ritrova naturalmente sotto le
insegne della filosofia cristiana (oppure non è razionale, scientifica, veramente filosofica ma
scettica, relativista etc.). La storia della filosofia, in quest’ottica, non è altro che un gioco
di precorrimenti, continuità lineari e sintesi essenziali da cui vengono escluse quelle filosofie che si è stabilito non rientrino in parametri prestabiliti. Sull’influenza gentiliana e il
circolo tra filosofia e storia della filosofia rimando alle posizioni qui riprese di Rambaldi e
Lanaro.
16 Cfr. M. Dal Pra, Giovanni di Salisbury, Milano, Bocca, 1951; Nicola di Autrecourt,
Milano, Bocca, 1951.
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grafia sul primo, egli mette in evidenza alcuni aspetti del pensiero, allo scopo di rivederne l’immagine pregiudiziale diffusa nella storiografia. In particolare, Dal Pra si rivolge all’opera di Karl Prantl, Storia della logica in occidente, che molti interpreti (tra i quali, per esempio, lo stesso Gilson) avevano di fatto accettato come una sorta di autorità nello studio della storia
della logica. Secondo Prantl, Giovanni di Salisbury sarebbe un eclettico,
che procede assolutamente senza scorta di principi, tale che sarebbe tanto
poco filosofo quanto Cicerone, con il quale si trova in intimo accordo17.
Contro l’immagine di Giovanni di Salisbury come mero retore, Dal Pra
sottolinea il valore di quel pensiero contro le pretese dogmatiche della ragione: «la parte più rilevante della sua produzione mi sembra infatti proprio
quella nella quale sviluppa una discussione generale intorno al valore della filosofia, intorno alla conoscenza probabile, al suo fondamento, alla
sua estensione, nonché ai limiti della conoscenza assolutamente valida e
vera18.
Dal Pra rileva come nel Metalogicon, Giovanni si opponga al formalismo logico, imperante a suo dire nelle scuole del tempo, e si preoccupi di
stabilire i confini entro i quali deve, viceversa, essere mantenuta la dialettica; parimenti, egli indirizza la sua critica anche a quanti volevano trarre
spunto dalla constatazione dell’insufficienza della logica presa per se stessa, per giungere a una radicale svalutazione della cultura letteraria e retorica. Ed è proprio nello spazio tra queste due posizioni che Giovanni situa
la peculiarità della sua indagine filosofica. La seconda linea evidenzia che,
avendo definito la logica come ricerca della verità (in scrutinio veritatis),
Giovanni intende sottolineare la necessità di mantenere un presupposto co-
17
K. Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande (1855), trad. it. a cura di L. Limentani, Storia della logica in occidente. Età medievale, Parte prima. Dal secolo VII al secolo
XII, Firenze, La Nuova Italia, 1937, pp. 420-463. Per il giudizio di Gilson su Giovanni di
Salisbury cfr. E. Gilson, La philosophie au Moyen Age, ed. di riferimento con trad. it. a cura di M.A. Del Torre, La filosofia nel medioevo, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 332336 (nuova edizione con prefazione di Mt. Fumagalli Beonio Brocchieri, Milano, Bur,
2011).
18 M. Dal Pra, F. Minazzi, Ragione e Storia. Mezzo secolo di filosofia italiana, Milano,
Rusconi, 1992, p. 96. Cfr. anche p. 258: «La riflessione di Giovanni, anche se risulta estremamente appartata e ben lontana dal clamore e dal frastuono delle varie scuole, rimette infatti in discussione tutta la metafisica classica aprendo alla ricerca filosofica orizzonti impensati e nuove possibilità. L’esiguità e la frammentarietà, in positivo, della sua proposta
metafisica non devono farci perdere di vista l’enorme importanza del suo lavoro di scavo
critico».
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noscitivo19. Questo lo spinge a indagare i limiti della conoscenza umana e
ad aprire il campo alla probabilità; e se da una parte egli dichiara di voler
seguire il probabilismo accademico, dall’altra deve confrontarsi proprio
con le posizioni di scetticismo radicale che non può accettare.
Giovanni specifica ulteriormente il carattere della logica: non si tratta
della logica dimostrativa – che obbedisce alla necessità, prescinde dalla
considerazione dell’assenso e mira all’assolutezza della verità – e nemmeno della logica sofistica – che tende solamente a ingannare l’interlocutore
– bensì della logica probabile e della dialettica, che ne è la forma più notevole. Essa ambisce a presentare un punto di vista verosimile; tende cioè
al conseguimento della verità mediante la persuasione, a esaminare insomma la verità prompta et mediocri probabilitate. La volontà di Giovanni di collocare quel tipo di logica in un punto ben preciso dell’ordinamento generale del sapere, sottolineandone il ruolo strumentale, è dettata proprio dall’esigenza di evitare che essa divenga fine a se stessa20. In questo
modo Giovanni prende di mira proprio quel formalismo logico dei puri
philosophi che egli constatava essersi diffuso nelle scuole. La critica di
Giovanni, come Dal Pra mette in evidenza, è dunque rivolta contro una logica ridotta a formalismo astratto; essa infatti non viene applicata al mondo degli interessi umani, ma presa per se stessa. Per Giovanni, tuttavia, il
formalismo può essere superato facendo agire la logica nei concreti atteggiamenti in cui gli uomini si vengono a trovare nella vita quotidiana, in
quella religiosa dei chiostri, nell’ambito delle corti, nella vita pubblica. Risulta necessario quindi artis officium explere proprio attraverso il passaggio dalle parole ai fatti. Il criterio, secondo Dal Pra, attraverso il quale Giovanni valuta il sapere è pertanto: quid ad usum vitae conferat?21 Se la sapienza è l’atteggiamento che conduce alla salvezza, essa stessa comprende in sé anche un aspetto conoscitivo, la scientia. Siamo quindi di fronte a
quello che Dal Pra, con una frase che sembra rivolta al proprio intento teo-
19
Giovanni intende per logica non la ratio disserendi in senso stretto, ma anche lo studio della ratiocinandi via. Cfr. Giovanni di Salisbury, Metalogicon, C.C.J. Webb (a cura
di), Oxford, Clarendon Press, 1929, II, 1.
20
Giovanni di Salisbury, Metalogicon, cit., II, 3. Cfr. M. Dal Pra, Giovanni di Salisbury, Milano, Bocca, 1951, p. 47: «egli tiene dunque la via di mezzo tra la pretesa di giungere alla verità assoluta e il totale disinteresse per la verità che viene mostrato da chi si applica
soltanto a mostrare, nelle proprie argomentazioni, una qualche apparenza di verosimiglianza
o di verità, per aver vittoria sull’avversario».
21
Ivi, p. 51.
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rico, indica come impegno, che va inteso come approfondimento della conoscenza mediante l’azione e approfondimento dell’azione mediante la conoscenza.22 Giovanni, e con lui anche Dal Pra, si trova quindi a ripensare
il rapporto tra teoria e prassi.
Come chiarisce Dal Pra, egli pensa dunque di salvarsi dall’«attivismo
immediatistico» proprio erigendo sul processo dell’azione umana un orizzonte teorico che le indichi il senso valido del suo svolgimento23. Mantenere la dipendenza dell’agire dal conoscere, quello che Dal Pra definisce ancora un “sostanziale teoricismo”, porta Giovanni a compiere un ulteriore passaggio, spostando la sua analisi sui limiti della conoscenza e
sul suo fondamento. Nell’indagine generale intorno al valore e ai confini della conoscenza umana, Giovanni dichiara di voler seguire il probabilismo accademico, che ha le sue fonti in Cicerone, e si colloca dalla
parte di coloro che si sforzano di raggiungere una conclusione probabile
intorno al non-evidente. Egli, come osserva Dal Pra, aprendo il campo
alla probabilità, deve prendere in esame le pretese di coloro che, manifestando una fiducia illimitata nelle possibilità della conoscenza umana,
sono vincolati dalla necessità. Bisogna guardarsi bene dalla pretesa evidenza di una verità che non risulta affatto evidente e, quindi, è preferibile attenersi al probabile (ciò che appare frequentissime), ma senza la pretesa di esprimere giudizi di verità assoluta. Ove si ha probabilità, infatti,
resta sempre un margine di possibilità di errore: essa non può mai conseguire il dominio completo della totalità dell’essere24. Ciò è invece quanto aspirano a fare quelli che Giovanni, nel Metalogicon, chiama “matematici”. Essi pretendono di arrivare a una indiscutibile previsione del futuro sulla base di una conoscenza pienamente razionale della natura delle cose. Il matematico, così facendo, non rispetta i limiti della conoscenza e si perde nell’astrattezza, giungendo persino a negare la libertà dell’iniziativa umana. Essi impongono una struttura necessaria all’essere,
facendola derivare dalla provvidenza e prescienza di Dio. In tal modo,
portano gli uomini alla convinzione di un’impotenza rispetto agli eventi
necessariamente stabiliti.
22
Giovanni di Salisbury, Metalogicon, cit., I, 22 ss. M. Dal Pra, Giovanni di Salisbury,
cit., p. 61.
23 M. Dal Pra, Giovanni di Salisbury, Bocca, Milano 1951, p. 54-55.
24
Ivi, p. 73: «Proprio ciò che resta fuori del suo orizzonte e che sfugge alla sua presa,
dà luogo alla dialettizzazione; il discorso che si può fare contro una determinata affermazione è l’indice dei limiti entro cui ogni affermazione probabile si muove».
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Tuttavia, l’introduzione della possibilità mette a rischio proprio la
scienza divina che Giovanni non può, naturalmente, ammettere sia mutevole. Per questo egli differenzia l’oggetto della conoscenza, che può
essere mutevole, dalla stessa conoscenza divina, che non viene quindi intaccata. Giovanni riesce così a tenere stabile la scienza divina, conservando al contempo il principio della possibilità come struttura dell’essere.
Agli occhi di Dal Pra, il percorso di Giovanni risulta chiaro: egli era
partito opponendosi sia al formalismo logico sia al rigorismo pragmatico-religioso con la volontà di ridefinire il rapporto tra teoria e prassi attraverso una mediazione che riaprisse al mondo dell’azione. Ciononostante egli non riesce ad abbandonare una fondazione ancora teorica dell’azione. Proprio questo aspetto teorico lo porta a indagare i limiti della conoscenza stessa e a contrapporsi a posizioni dogmatiche che pensano di poter giungere al fondo della conoscenza del reale, mostrando invece come all’uomo sia consentito raggiungere solamente una conoscenza probabile. Ma nel momento stesso in cui Giovanni dichiara la
sua posizione enunciata come solamente probabile e non necessaria –
valida quindi fino a quando non se ne trovi una migliore – ecco sorgere
lo spettro dello scetticismo radicale. Infatti, fondare la probabilità su se
stessa comporta l’impossibilità di porre gradi di differenza nella certezza e il rischio di trovarsi in un mondo esclusivamente probabile in cui
nulla possa essere provato. Giovanni è allora costretto, proprio per evitare l’assurdità dello scetticismo radicale, a indicare un fondamento diverso per la probabilità, e che egli identifica nell’infinita potenza di Dio.
È in questo, nel fatto che egli comunque si riduce a trovare in qualcosa
di indubitabile il fondamento della probabilità, che Dal Pra individua il
limite della riflessione di Giovanni: «egli abdica di fronte alla fede a
quell’insoddisfazione che l’aveva colto di fronte alle costruzioni metafisiche; aveva tolto fiducia alle costruzione assolutistiche della ragione
per liberare l’azione dell’uomo dai rigidi schemi presupposti; ma questa
azione di liberazione non poteva compiersi che nell’eliminazione radicale di ogni presupposto fideistico/dogmatico della stessa azione; ed è
appunto a questo risultato che Giovanni non perviene, trattenuto com’è
dall’orizzonte teoricistico della tradizione greca passato nel tessuto stesso della tradizione cristiana». Il presupposto fideistico, pur ridotto nei
suoi termini, viene mantenuto e Giovanni sembra accettare il mondo della fede in quella che Dal Pra definisce una «adesione immediatistica»
alla realtà storica, e cioè con lo stesso principio con cui gli scettici del
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II secolo d.C. accettavano la realtà del vivere quotidiano, ovvero perché
bisogna pur vivere e operare25.
Tra gli elementi che caratterizzano invece il pensiero di Nicola di Autrecourt vi è, secondo Dal Pra, la sua serrata opposizione a una dogmatica
adesione al modello aristotelico. La critica è volta contro una posizione ormai considerata come verità data e non più discutibile, che quindi basa la
propria autorità più sul passato che su una reale analisi del presente. Nella
sua battaglia, Nicola arriva a proporre una metafisica anti-aristotelica che
si pone sul terreno della semplice probabilità. Insomma, per Dal Pra Nicola
reagisce al dogmatismo aristotelico mettendo in rilievo l’impotenza della
ragione naturale a dimostrare alcune delle dottrine classiche della metafisica. In particolare, per Nicola occorreva stabilire i limiti della conoscenza, così da non perdersi in costruzioni metafisiche, come quella relativa alla nozione di causa, che venivano ridefinite sotto il segno della sola probabilità. Per giustificare poi tale critica, egli finisce col fare appello all’evidenza, il che lo porta però a un’indagine sul fondamento stesso di quella: dalla solidità di tale criterio dipende infatti, secondo Nicola, tutta la stabilità della sua critica ad Aristotele. In Nicola, sottolinea Dal Pra, troviamo
uno schietto approfondimento dello spirito critico che si giova di tutte le armi storicamente elaborate dallo scetticismo contro la metafisica. Egli tuttavia non è riuscito ad andare oltre il dogmatismo che stava criticando ed
è ricaduto, nelle parole di Dal Pra, in una forma di immediatismo fideistico. Infatti il suo pensiero si è mostrato critico rispetto alla verità naturale
ma dietro a essa si è profilata una verità sovrannaturale incriticabile26. Dal
25
M. Dal Pra, F. Minazzi, Ragione e Storia, cit., p. 258 «[...] gli scettici greci non erano riusciti a distaccarsi del tutto dalla loro tradizione etico-politica: l’avevano svuotata di
valore assoluto e così si erano pacificati con essa; Giovanni di Salisbury fa lo stesso nei
confronti della fede cristiana; tanto più la svuota di significato “scientifico”, tanto più fortemente e decisamente l’abbraccia nella vita quotidiana».
26
È nella Prima epistola ad Bernardum che Nicola discute l’atteggiamento di estremo
scetticismo di Bernardo e ne mette in luce le conseguenze in ordine alla conoscenza comune a in ordine alla fede. Nicola di Autrecourt, Exigit Ordo executionis (Tractatus universalis magistri Nicholai de Ultricuria ad videndum an sermones Peripateticorum fuerint
demonstrati), J.L. O’Donnell (a cura di), «Medieval Studies», 1 (1939), pp. 179-280 (trad.
it. Il Trattato, a cura di A. Musu – che corregge alcune parti dell’edizione O’ Donnell, a
partire dal titolo: Tractatus utilis – Pisa, Ets, 2009). Cfr. M. Dal Pra, Nicola di Autrecourt,
cit., pp. 38-39. Cfr. anche, sempre di M. Dal Pra, La fondazione dell’empirismo e le sue aporie nel pensiero di Nicola di Autrecourt, «Rivista Critica di Storia della Filosofia» 7 (1952),
p. 394: «L’esperienza sensibile, come quella che è fornita di intrinseca chiarezza, è rivelatrice della realtà e quello che in essa si presenta è del tutto vero: a questo risultato il nostro
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Pra parla di «luoghi di sospensione dell’indagine critica», spazi intoccabili che egli mette subito in relazione con la situazione contemporanea: «Oggi non possiamo scegliere come punti di sosta dell’indagine critica, né l’immediatismo fideistico né l’immediatismo empiristico, positivistico o neopositivistico. Per contro allo sforzo che da più parti si sta oggi compiendo
per sciogliersi da un uso puramente intellettualistico della ragione reca certamente conforto tutta l’indagine critica del maestro d’Autrecourt [...] la
filosofia contemporanea proseguendo su questa strada potrebbe portare a
più intensa maturazione quella storia del pensiero critico, alla quale l’età
medievale (nonostante tutte le apparenze in contrario) portò così largo contributo e nella quale Nicola occupa un posto che non gli può essere contestato»27.
3. Dal Pra e la storiografia come responsabilità e apertura al possibile
Sembra dunque che il grande limite dello scetticismo risieda, per Dal Pra,
nel non aver compiuto il passo decisivo per l’apertura di un nuovo orizzonte: esso non riesce a portare a conclusione la filosofia del conoscere e
a risolverla nella prassi, per il fatto stesso che vi rimane comunque attaccato tanto nella sua forma dogmatica, quanto, come mostrano le indagini
sullo scetticismo medievale, negli esiti fideistici e fenomenistici di quella
probabilistico-critica. Tuttavia proprio l’indagine storica ha permesso di
evidenziare due grandi meriti dello scetticismo: da un lato, ha mostrato
l’impossibilità di una fondazione teorica della filosofia, contribuendo a
smascherare la convinzione che il problema del valore dell’essere fosse, e
sia, risolvibile nella sola dimensione della teoresi; dall’altro lo scetticismo
ha smascherato l’arbitrarietà dell’assolutizzazione di ogni singolo dato, di
ogni tentativo di elevare un dato particolare a valore universale del reale.
Oggi, in tempi in cui si assiste a un ritorno a un realismo che nasconde
dietro un rassicurante syllabus formale ontologie dal forte sapore metafisico, la lezione che viene dagli studi di Mario Dal Pra sullo scetticismo antico e medievale disegna un metodo storiografico che, a partire dalla nogiunge, ancora e sempre in forza della necessità pragmatica di superare lo scetticismo e di
avere una base sicura di realtà e verità. Egli non sa vedere alcuna alternativa possibile fra
l’abbandono scettico della verità e l’assunzione dogmatica della verità dell’esperienza sensibile».
27 Ivi, p. 400.
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zione di critica, ritaglia una storiografia basata sulla “prassi”. Essa comporta l’assunzione della responsabilità della scelta – che Dal Pra legge come libera apertura teorica – di un ambito di indagine tra i molti possibili,
e per questo non reificata in una struttura ontologica che giustifichi la necessaria conferma di un’indagine predeterminata. Considerare una filosofia attuale come pietra di paragone assoluta comporta, invece, la chiusura
alle possibilità di scelta e, con esse, la svalutazione del passato se non, addirittura, la sua inutilità: esso è considerato solo nella misura in cui può
anticipare – in qualche modo stabilito da noi – il presente. Quindi questo
presente, che non è mai destinato a cambiare, è fuori da ogni storicità, chiuso in un presente eterno e metafisico. Ne deriva che il senso della storia e
degli accadimenti che vi s’inscrivono può essere dato una volta per tutte e
colto soltanto da una particolare filosofia: quella che si è eletta come forma filosofica vera, perenne e/o eternamente presente. In questa prospettiva, gli accadimenti selezionati coincidono con i fatti presupposti e questi
esauriscono il reale, oggetto di una verità assoluta al di là di ogni prospettiva temporale. Rispetto a questo dato che tende a un valore assoluto, ogni
scarto è relegato in un passato che non è tale, o che è “falso” perché inutile ai fini del lineare progresso filosofico. E ogni teoria che non prepari, o
preceda, l’avvento dell’essere o della Verità assoluta sarà posta fuori dalla
storia e bollata di volta in volta come relativista, scettica ecc. Le dottrine
del passato saranno parti di costanti dottrinali: vere perché costanti e costanti perché a-storiche.
Sono queste le ricostruzioni dogmatiche e metafisiche cui il progetto
storiografico di Dal Pra oppone la propria forza teorica. Perché «la storia»,
scrive Dal Pra, «è fatta di possibilità possibili e non garantite; proprio in
quanto tale; la storia rimane aperta all’integrazione dell’essere; la mancanza del presupposto come datità le consente di essere interamente storia,
cioè interamente libera. La storia implica il tempo; e il tempo implica la
possibilità, la chance, l’eventualità, il rischio, la scelta, la mancanza di radice nella preventiva garanzia, il calarsi completo dell’uomo nella scommessa sull’essere»28. L’inserimento della possibilità si integra con l’atteggiamento critico e apre dunque alla prassi, cioè al farsi della storicità nel
continuo e integrabile variare degli accadimenti, delle idee, delle tesi filosofiche e delle relative indagini, che proprio per questo risultano essere le
28 M. Dal Pra, Logica teorica e logica pratica nella storiografia filosofica, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», 6 (1961), p. 181.
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più rispettose delle dottrine indagate: «Dalla relazione tra l’apertura teorica e la molteplicità storica delle indagini nasce il significato, il senso e,
forse, anche la comprensione di un particolare sviluppo della filosofia»29.
29
M. Dal Pra, Ivi, p. 177.