29 novembre 2015 - L`Agenzia Culturale

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Milano - Basilica di Sant’Ambrogio
con il patrocinio di
La
n
Rassegna
Stampa
29 novembre 2015
A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano”
Con sede in Milano, via Locatelli, 4
www.agenziaculturale.it
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Estratti da:
Ciclostilato in proprio
20/11/2015
Anatema del Papa: maledetto
chi opera per guerra e armi
L'omelia più dolente di Bergoglio a Santa Marta
Duro con i cinici che amano la pace solo a parole
di GRAZIA MARIA COLETTI
«Questo mondo non riconosce lastrada della
pace ma vive per fare la guerra, con il cinismo di
dire di non farla». «Coloro che operano per la
guerra e fanno le guerre sono maledetti, sono
delinquenti». E ancora: «Una guerra si può
"giustificare", sia detto fra virgolette, con tante
ragioni. Ma quando tutto il mondo, come è oggi,
è in guerra, una guerra mondiale a pezzi,
dappertutto, non c'è giustificazione».
Anatema contro le guerre e i sepolcri imbiancati
nell'omelia di Papa Francesco, ieri mattina, nella
messa celebrata a Santa Marta, la sua omelia
«più dolente» così l'ha definita Radio Vaticana.
«Anche oggi Gesù piange - ha detto il Pontefice .Perché noi abbiamo preferito la strada delle
guerre, la strada dell'odio, la strada delle
inimicizie. Siamo vicini al Natale - ha ricordato
mentre in piazza San Pietro veniva issato il
maestoso abete a due punte proveniente dalla
Bavierra - ci saranno luci, ci saranno feste, alberi
luminosi, anche presepi...tutto truccato: il mondo
continua a fare la guerra, a fare le guerre. Il
mondo non ha compreso la strada della pace».
«Cosa rimane dopo una guerra? » , si è
domandato Bergoglio ricordando poi le recenti
commemorazioni sulla seconda Guerra mondiale
e sulle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e
Nagasaki e richiamando il giudizio già espresso
da Papa Benedetto nel definirle «stragi inutili».
«Rovine - è stata la sua risposta - migliaia di
bambini senza educazione, tanti morti innocenti:
tanti!, e tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di
armi». Poile parole di Gesù. «Una volta, Gesù ha
detto: "Non si può servire due padroni: o Dio, ole
ricchezze". La guerra è proprio la scelta per le
ricchezze: "Facciamo armi, così l'economia si
bilancia un po', e andiamo avanti con il nostro
interesse". C'è una parola brutta del Signore:
"Maledetti!". Perché Lui ha detto: "Benedetti gli
operatori di pace!".
Questi che operano la guerra, che fanno le
guerre, sono maledetti, sono delinquenti. Una
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015
guerra si può giustificare - fra virgolettecontante, tante ragioni. Ma quando tutto il
mondo, come è oggi, è in guerra, tutto il mondo!:
è una guerra mondiale a pezzi: qui, là, là,
dappertutto..., non c'è giustificazione. E Dio
piange. Gesù piange». «E mentre i trafficanti di
armi fanno il loro lavoro - ha proseguito Papa
Francesco - ci sono i poveri operatori di pace che
soltanto per aiutare una persona, un'altra,
un'altra, un'altra, danno la vita».
E ieri sugli attacchi di Parigi e la massima allerta
sul nostro Paese in vista dell'Anno Santo della
Misericordia ha parlato il segretario della Cei,
Nunzio Galantino. «Di certo il Giubileo non sarà
una nuova occasione per chi colpisce attraverso la
violenza, altrimenti scriverei una lettera già
stasera a Papa Francesco» ha detto Galantino.
«Il problema - ha continuato - non è il Giubileo
così come non lo si rivolve non andando più al
ristorante o vietando i concerti. Bisogna capi
recosa sta nella testa e nel cuo re di questi uomini
che non hanno bisogno di una occasione per
colpire», ha aggiunto.
«Abbiamo visto lo sconquasso avvenuto a Parigi
ma 24 ore dopo sono stati uccisi 140 ragazzi in una
scuola in Nigeria e non so se la notizia sia stata
data - ha continuato - Bisogna alzare il livello di
conoscenza e prevenzione e l'Italia sta
dimostrando di fare».
E papa Francesco non indosserà il giubbetto
antiproiettile nel suo viaggio in Africa dal 25al 30
novembre. In tutte le tappe del suo viaggio in
Africa, compresa quella di Bangui, capitale del
Centrafrica dove è in atto una guerra civile,
«Papa Francesco utilizzerà delle jeep bianche
scoperte, non le papa-mobili blindate» ha
precisato il portavoce della Santa Sede, padre
Federico Lombardi, conversando con i giornalisti.
Quanto all'ipotesi che Bergoglio possa essere
convinto ad indossare un giubbotto
antiproiettile, Lombardi ha aggiunto: «è la prima
volta che sento tale ipotesi. Sarebbe curioso
andare su un mezzo non protetto e poi indossare
il giubbotto. Non l'ho mai sentita e non ci credo».
pagina 2
19/11/2015
24/11/2015
LA GIUSTIZIA NON È MAI
FURIA DI VENDETTA
In nome della tolleranza, per via di una travisata
forma di rispetto, l'Italia sta rinunciando ai suoi
simboli culturali legati alla tradizione cattolica
di LORENZO DELLAI (*)
L'esempio della lettera di uno sposo e padre parigino
Caro direttore, «Non avrete il mio odio e neppure
quello di mio figlio». Lo ha scritto Antoine Leiris,
rivolgendosi ai terroristi che venerdì scorso a Parigi gli
hanno ucciso la moglie, lasciandolo solo con il
figlioletto di 17 mesi e col suo dolore. Dovremmo tutti
leggerla, questa lettera straordinaria. Dovrebbero
leggerla e meditarla soprattutto quei politici che
sparano paroloni, quelli che - più che alla rabbia della
gente - danno voce alla propria incapacità di leggere
quello che sta succedendo e di reagire come compete
ad una vera classe dirigente. Serve la forza implacabile
della giustizia, non la furia indiscriminata della
vendetta. Servono lucidità e nervi saldi, per
distinguere i nemici dagli amici; le reazioni doverose e
risolutive da quelle isteriche e inconcludenti. Ma
prima di tutto serve capire bene quello che sta
succedendo. Non siamo affatto di fronte a uno scontro
tra civiltà. Semmai viviamo un attacco ai valori
universali della civiltà umana. E in modo più
particolare assistiamo a uno scontro mortale dentro il
mondo islamico: le drammatiche azioni terroristiche
che insanguinano l'Europa sono funzionali alla
affermazione di un dominio assoluto del cosiddetto
Stato Islamico nell'area corrispondente all'antica
Mesopotamia. Questo dominio utilizza le parole
d'ordine della religione per interessi politici e di
potere; si nutre degli errori dell'Occidente (che ha
spianato ad esso la strada con azioni militari prive di
strategia politica, che hanno demolito o indebolito i
regimi precedenti senza avere disegni alternativi); si
alimenta con aiuti finanziari e logistici da parte di
nazioni arabe formalmente alleate dell'Occidente; fa
leva sulla fragilità psicologica di migliaia di giovani e
giovanissimi che vivono nelle periferie fisiche ed
esistenziali in Occidente e in Medio Oriente, troppo a
lungo lasciate a se stesse. Quelle periferie dalle quali,
non a caso, ci esorta sempre a ripartire papa Francesco.
Guai se la democrazia è imbelle. Ma guai anche se
rinuncia a capire, a discernere, a usare la forza secondo
ragione e giustizia. Sarebbe la vittoria finale altrimenti impossibile, nonostante le dure prove che
abbiamo superato e dovremo superare - dei profeti di
morte che usano il nome del loro Dio, bestemmiandolo, mandando a morire - e a uccidere - giovani burattini
disperati che odiano se stessi e l'intera umanità.
*Presidente dei deputati Per l'Italia-Centro
Democratico
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L'altra istruzione. Se il
Corano non vuole Peppa
Pig, Natale e il Crocifisso
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015
di LUCA ROCCA
Il presepe a scuola? Offende l'Islam. La carne di maiale
servita agli alunni? Maometto non vuole. L'amata Peppa
Pig? Sempre di porcellino si tratta, perciò via anche quella.
Magari un po' di musica? Macché, per il Corano è peccato.
Almeno possiamo lasciare il Crocifisso? Ovviamente no,
disturba gli islamici. Insomma, per via di una travisata
forma di rispetto, un'idea di tolleranza che tale non è, anche
l'Italia sta rinunciando ai suoi simboli culturali,
inevitabilmente legati alla tradizione cristiana. Proprio ieri il
leader della Lega Nord Matteo Salvini ha reso noto che «in
una scuola in provincia di Bergamo la dirigenza ha chiesto
alla banda di non suonare «Adeste Fideles perché troppo
cristiana» e nel bresciano «vorrebbero che, per lo stesso
motivo, non si festeggiasse Santa Lucia». Ed è di pochi giorni
fa la protesta, a Torino, di due famiglie musulmane contro
un progetto musicale scolastico che offenderebbe il Corano.
In una scuola materna alla periferia di Milano a farne le
spese è stata Peppa Pig, messa da parte dagli insegnanti
per le pressioni esercitate da alcune famiglie islamiche,
mentre nell'aprile scorso, per via della presenza di alunni
musulmani, la preside di una scuola di Decimoputzu
(Cagliari) ha vietato al parroco di benedire le aule. Stesso
episodio due anni prima in un istituto elementare di Varese.
Anni fa, in una scuola materna di Bolzano, persino una
canzoncina contenente un verso su Gesù è stata eliminata
per «non offendere la sensibilità degli alunni islamici»,
mentre all'istituto scolastico di Monticelli d'Ongina di
Piacenza, in quello De Amicis di Bergamo e in una scuola di
Leinì, nel torinese, a soccombere è stato il presepe, vietato
perché esplicito riferimento a temi religiosi. L'anno scorso
nelle mense scolastiche delle scuole materne ed elementari
di Pescara sono state vietate le bistecche di maiale, mentre
in un istituto del distretto Pianura Est del bolognese ad
alcuni alunni non musulmani sono state imposte lezioni di
Islam. Quanto al crocifisso, tutto è iniziato con Adel Smith, ex
presidente dell'Unione musulmani morto di recente, che nel
2003 avviò la sua battaglia contro la presenza di simboli
sacri in scuole, aule giudiziarie, ospedali e seggi elettorali.
Una «guerra ideologica» che ha fatto proseliti. Niente Cristo
in croce, ad esempio, per rispetto della multiculturalità e per
via della presenza di bambini di confessioni religiose diverse,
nelle aule della scuola Bombicci di Bologna.
E pochi giorni fa, infine, i ragazzi della scuola primaria
«Matteotti» di Firenze sono stati persino costretti a
rinunciare alla mostra «Bellezza divina». Motivo? Fra i
dipinti esposti c'era anche la «Crocifissione bianca» di
Chagall. «Non volevamo urtare la sensibilità dei non
cattolici», hanno spiegato, convinti di essere nel giusto, i
membri del consiglio interclasse.
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24/11/2015
LO STERMINIO DEI CRISTIANI. COME
REAGIRE A UNA TRAGEDIA MODERNA
Il fondamentalismo di matrice islamista ha accresciuto le dimensioni di un'emergenza
planetaria. È il momento della lotta senza quartiere. Il capo dello stato scrive al Foglio
di Sergio Mattarella
grave ed esteso di quello dei primi anni del Cristianesimo. È una denuncia
che non può lasciare indifferenti. La comunità internazionale, dopo anni di
È un momento tragico per l'Europa e il mondo. Un fanatismo barbaro e
disattenzione e di silenzi, sta finalmente cominciando a prendere coscienza
disumano ha colpito Parigi, nel cuore del nostro continente e della nostra
della gravità del fenomeno che è una minaccia non solo alla libertà religiosa
civiltà. Quella del terrorismo fondamentalista è una minaccia ai valori di
dei singoli, ma come ci insegnano i due attentati di Parigi alla democrazia e
libertà, democrazia, solidarietà e convivenza civile. La strategia, folle e
alla convivenza per tutta la comunità internazionale. La pace religiosa, la
lucida allo stesso tempo, dell'estremismo è chiara: cercare di insinuare
tolleranza, la collaborazione tra le diverse fedi è, di converso, un fattore
nella nostra società sentimenti come la paura, la disgregazione, la
determinante di benessere, di equilibrio sociale e di sviluppo economico.
tentazione di chiudersi, l'odio. E la strage dei ragazzi di Parigi ha posto in
Sono appena tornato da un viaggio in oriente, che mi ha portato anche in
modo brutale l'opinione pubblica davanti alla questione, drammatica e
Indonesia. In quel paese, che sta conoscendo una grande crescita
cruciale, della violenza a sfondo integralista che mira a cancellare la nostra
economica e d'influenza politica, vige fin dalla sua fondazione una
cultura, la nostra storia, i nostri valori. Il problema, in realtà, è purtroppo
Costituzione democratica che riconosce l'eguaglianza, il rispetto, la libertà
molto più antico. E riguarda strettamente il rispetto, nella comunità
per tutte le religioni. L'Indonesia, con 205 milioni di fedeli musulmani, è il
internazionale, dei diritti universali dell'uomo, oscurati, oltraggiati e negati
più grande stato del mondo a maggioranza islamica. In quel paese, il cui
in tante parti del globo. La persecuzione a carattere religioso, infatti, non è
modello dovrebbe essere conosciuto e promosso, gli esponenti delle
mai a se stante, ma è parte della violazione, feroce e sistematica, delle
diverse religioni non solo collaborano tra loro, contribuendo allo sviluppo
libertà fondamentali dell'uomo, di cui il diritto a professare, a predicare,
sociale, culturale ed economico dello stato, ma hanno rapporti di vera e
persino a cambiare la propria fede religiosa, senza dover subire
fraterna amicizia. I leader delle comunità musulmane che ho incontrato
discriminazioni o addirittura violenze, è elemento fondamentale. La strage
hanno sempre tenuto a sottolineare la natura liberale e moderata dell'islam
di Parigi, sarebbe irragionevole non ammetterlo, è il diretto risultato della
indonesiano e la ferma condanna dell'estremismo e della violenza religiosa.
predicazione dell'odio contro il diverso e delle persecuzioni che le
Nel considerare ogni uomo come figlio di Dio, si riconosce in lui la comune
minoranze religiose e, in particolare, i cristiani, soffrono nel mondo. Certo,
radice e, per questo, diventa portatore di uguali diritti e di pari dignità.
non sono solo i cristiani, nelle loro diverse articolazioni, a patire
Sono, questi, princìpi universali, gli unici che possono condurre la comunità
oppressione e soprusi, ma tanti altri gruppi religiosi, culturali ed etnici.
internazionale verso un futuro di pace, sviluppo e benessere. Per questo va
Vittime di pregiudizi, di ostilità, di discriminazioni, di vere e proprie violenze,
respinta con decisione la sfida del terrorismo fondamentalista che spesso
da parte di gruppi terroristici, maggioranze aggressive o di stati e
maschera con pretesti religiosi la sua voglia di dominio e di sopraffazione.
legislazioni totalitari. Ma il fondamentalismo e il radicalismo di matrice
Scendere sul loro terreno, che è quello dello scontro di civiltà o di religione,
islamista, esplosi di recente e alimentati all'interno di vaste regioni
sarebbe un grave errore, dalle conseguenze difficilmente valutabili. Quella
dell'Africa e del medioriente, hanno tragicamente accresciuto le dimensioni
contro il terrorismo fondamentalista che rappresenta oggi e probabilmente
di questa vera e propria emergenza planetaria. E spicca, tra tutti, il dato
negli anni a venire la più grave minaccia alla pace del mondo sarà una lotta
numerico che riguarda le comunità cristiane, in termini assoluti le più
impegnativa e complessa che va condotta in ogni luogo e senza quartiere
perseguitate e con il maggior numero di vittime. Comunità fiorenti, antiche e
non solo con le necessarie azioni di forza e con il rafforzamento della
radicate, abituate alla convivenza, al dialogo e alla pace, sono state
sicurezza, a cui ogni cittadino ha diritto, ma anche con le armi della cultura,
completamente cancellate in diverse aree del mondo o ridotte a sparuti
del dialogo, del diritto. E con un dispiego d'intelligenza e di lungimiranza che
gruppi, minacciati e vessati. Cristiani in ogni latitudine decapitati, crocefissi,
devono essere almeno pari alla indispensabile intransigenza. Molti errori di
bruciati vivi, interpellano la coscienza di ogni uomo. Papa Francesco ha
valutazione sono stati compiuti nel nostro recente passato. Ora non si può
lanciato alto il suo grido di dolore, parlando di un martirio enormemente più
più sbagliare.
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015
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24/11/2015
A TAVOLA! Per essere più umani
di ENZO BIANCHI
«Il desco è il luogo del faccia a faccia, della
comunione; cenando insieme s'impara ad ascoltare e a
intervenire in libertà e nella convivialità Invece oggi
ciascuno guarda il suo tablet o lo smartphone: come
siamo imbarbariti...»
La tavola, questo mobile sacro che un tempo regnava al
centro delle grandi cucine, la tavola di legno massiccio
capace di accogliere una decina di commensali (non un
tavolino, confinato in un angolo di un cuocivivande!)
era eloquente di ciò che si voleva vivere insieme come
famiglia o come amici.
La tavola, alla quale 'passiamo', non da soli ma con
altri, va abitata.
A tavola si dovrebbe convergere per mangiare da
uomini, non da animali. Per questo la tavola e sempre
stata percepita come l'emblema dell'umanizzazione, il
luogo per eccellenza in cui ci si umanizza lungo tutta la
vita, da quando da piccoli si e ammessi alla tavola
ancora sul seggiolone, fino alla vecchiaia. Anche in
queste due fasi estreme della vita stiamo a tavola,
magari aiutati da altri, ma stiamo pur sempre a tavola.
Il nostro stare a tavola dice la nostra libertà: libertà di
figli in famiglia, libertà di amici che si invitano, libertà
di chi serve e qualità «signoriale » di chi è servito. Ma a
tavola si sperimenta anche l'uguaglianza,
un'uguaglianza ordinata: tutti sono chiamati a
mangiare con gli stessi diritti, vecchi e bambini, adulti
e giovani; tutti possono prendere la parola, domandare
e rispondere. A tavola si impara a parlare oltre che a
mangiare, si impara ad ascoltare e a intervenire nella
convivialità. La tavola ha un magistero decisivo per
noi e per ogni essere umano che viene al mondo: ne
siamo consapevoli?
Sì, la tavola richiede a ciascuno di noi di esserci con
tutta la propria persona, con il corpo ma anche con lo
spirito. Sappiamo quanto sia spiacevole per i
commensali qualcuno che sta fisicamente a tavola, ma
in realtà è altrove. Appena ieri si stava a tavola con il
giornale aperto accanto al piatto o la televisione accesa
davanti a noi, oggi ciascuno guarda il proprio tablet o
lo smartphone: come siamo imbarbariti...
La tavola, luogo di comunione, del faccia a faccia,
dello scambio della parola, in alcuni casi è diventata il
luogo della massima estraneità. È vero che
normalmente si mangia con gli stessi commensali; è
vero che in una famiglia, oggi ridotta a due o al
massimo a tre persone, sembra che non ci siano parole
da scambiare: ma allora è meglio il silenzio che
l'assordante televisione che cattura i nostri sguardi, la
nostra attenzione, e a poco a poco ci rende non più
desiderosi dell'ascolto di chi ci sta davanti.
Stare a tavola, abitarla, è un'arte ma è innanzitutto il
quotidiano volto contro volto dell'amato/a, del
fratello/sorella, dell'amico/ a, dell'altro/a che
mangiando con me vive un'azione di comunione
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015
straordinaria. Si vive dello stesso cibo, ci si nutre
nutrendo le relazioni.
La condivisione del cibo è inerente alla nostra
condizione di ospiti sulla terra. Omnia sunt communia:
le cose e soprattutto i frutti della terra sono di tutti. E la
tavola, luogo dove gli uomini e le donne non si pascono
ma mangiano, non può che essere il luogo della
condivisione. Certo, si tratta di dare da mangiare agli
affamati e da bere agli assetati, perché questa è la
responsabilità di ogni persona verso chi non ha né pane
né acqua per vivere; ma si tratta anche di avere a tavola
l'urgenza, il sentimento di «fare comunione » di ciò che
si ha davanti.
Qui si mostra l'ethos eucaristico di cui ciascuno è
capace: basta infatti tendere la mano e prendere la mela
più grande e bella, lasciando le meno belle agli altri,
per dichiarare la propria non volontà di condivisione.
Ognuno può consumare ciò che gli spetta, dopo aver
condiviso ciò che vi è sulla tavola, altrimenti toglie agli
altri, in qualità o quantità, ciò che è destinato a tutti.
Non è un caso che i primi cristiani «spezzando il pane
nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di
cuore» (At 2,46). Solo se c'è condivisione, ci possono
essere banchetto e festa; solo se la tavola non è chiusa
ma aperta a chi bussa, allo straniero, al pellegrino, al
povero, è una tavola veramente umana. Si può anche
mangiare poco, anche solo pane e vino, ma se lo si
condivide è grande festa, è vera comunione!
Infine, proprio perché la tavola è fonte di piacere, il
mangiare e il bere procurano gioia, allegria.
Quando vogliamo rallegrarci, fare festa, sentiamo il
bisogno di celebrare la vita con un pasto, invitando altri
alla nostra tavola. Per la nascita di un figlio o di una
figlia, per segnare le tappe del loro crescere, per
festeggiare un traguardo da loro raggiunto, per
celebrare l'amore, per rallegrarsi con un amico
ritrovato, si imbandisce la tavola e si fa un banchetto. E
più si vuole festeggiare, più il banchetto è abbondante.
Anche Gesú, quando voleva consegnare un'immagine
eloquente della vita del regno di Dio, dove non ci
saranno più la morte né il lutto né il pianto, ricorreva
all'immagine della tavola e del banchetto.
Un tempo, per gente che pativa la fame, la tavola era un
sogno; oggi, che si può mangiare con abbondanza,
dentro di noi non vi è spazio per un'immagine più
evocativa del banchetto, per esprimere una vita bella,
buona, felice, una vita piena.
La tavola è l'anticamera dell'amore, un luogo e un
momento che non assomiglia a nessun altro, una realtà
affettiva e simbolica antica come l'umanità, la
possibilità di una comunicazione privilegiata e di una
trasfigurazione del quotidiano. Certo, ci vuole
sapienza per vivere la tavola, ma la tavola e il cibo
hanno la capacità magisteriale di insegnarcela.
Mettiamoci alla loro scuola.
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pagina 5
25/11/2015
La conferenza di Parigi sul clima
Sì all'interesse comune
No a logiche nazionali
di Ban Ki-moon
Nei miei ormai nove anni di mandato come Segretario
generale, visitando i luoghi nel mondo che sono tra i più
esposti al cambiamento climatico, ho segnalato
continuamente a governanti mondiali, imprenditori, comuni
cittadini la necessità di un'urgente risposta globale.
Perché questo tema mi sta tanto a cuore? Innanzitutto, come
qualunque nonno, voglio che i miei nipoti si godano la
bellezza di un pianeta in salute. E come qualsiasi essere
umano, mi duole dover constatare che inondazioni, siccità,
incendi facciano sempre più danni, che stati insulari stiano
scomparendo e che un incalcolabile numero di specie sia
destinato a estinguersi. Come Sua Santità papa Francesco e
altri leader religiosi ci hanno ricordato, abbiamo il dovere
morale di agire in solidarietà con i poveri e i più vulnerabili, che
, pur tra i minori responsabili delle cause del cambiamento
climatico, saranno però i più esposti ai suoi effetti deleteri.
In secondo luogo, come Segretario generale delle Nazioni
Unite, ho dato priorità al cambiamento climatico, consapevole
che nessun Paese possa affrontare questa sfida da solo. Il
cambiamento climatico non ha passaporto; le emissioni
nocive non conoscono confini, e concorrono a peggiorare il
problema dovunque. L'esistenza, così come interi sistemi di
vita, sono minacciati dovunque. Una minaccia che riguarda
anche stabilità economica e sicurezza delle nazioni.
Il processo negoziale, per quanto lento e complicato, ha dato
alcuni risultati. In risposta all'appello dell'Onu, più di 166
Paesi, che in totale rappresentano più del 90% delle emissioni
globali, hanno ora presentato piani climatici nazionali con
obiettivi precisi. Se attuati con successo, questi piani
potranno ridurre la curva delle emissioni a un aumento
globale della temperatura che si attesterebbe intorno ai tre
gradi Celsius entro la fine del secolo.
Progresso significativo. Ma non sufficiente. La sfida è ora di
muoversi in fretta e spingersi oltre per ridurre le emissioni
globali in modo da poter mantenere l'innalzamento della
temperatura globale sotto due gradi Celsius. Al tempo stesso,
occorre aiutare gli Stati a adattarsi alle conseguenze
inevitabili, che peraltro già incombono su di noi.
Prima si agisce, prima se ne vedranno i benefici, per tutti:
stabilità e sicurezza accresciute; una crescita economica più
forte e sostenibile; una maggiore capacità di adattamento a
possibili eventi traumatici; aria e acqua più pulite; migliori
condizioni di salute. Non ci arriveremo subito. La conferenza
di Parigi non è il punto di arrivo. Il suo obiettivo è quello di
definire le condizioni di base, non l'apice delle nostre
ambizioni. Essa deve rappresentare il punto di svolta verso un
futuro a basse emissioni e climaticamente sostenibile.
L'atmosfera generale è propizia. Città, mondo
imprenditoriale, investitori, leader religiosi e cittadini stanno
agendo per ridurre le emissioni. Sta ora ai governi la
responsabilità di raggiungere a Parigi un accordo significativo
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015
e vincolante, che identifichi regole chiare per un cammino che
rafforzi le ambizioni globali. Per questo, i negoziatori hanno
bisogno di linee guida chiare dai responsabili politici. Credo
che ciò possa avvenire. I leader del G20, che ho incontrato di
recente a Antalya in Turchia, hanno mostrato grande impegno
ad agire sulla questione. Inoltre, più di 120 capi di Stato e di
governo hanno confermato la loro partecipazione a Parigi,
malgrado le accresciute preoccupazioni in materia di
sicurezza dopo gli attacchi terroristici.
Quattro sono a mio avviso gli elementi essenziali per fare di
Parigi un successo: durata, flessibilità, solidarietà e
credibilità. Il primo attiene alla necessità che Parigi esprima
una visione di lungo termine compatibile con l'obiettivo di
meno di due gradi di innalzamento e che mandi ai mercati il
chiaro segnale che la trasformazione dell'economia globale in
questo senso sia inevitabile, positiva e che sia anzi già
avviata.
L'accordo deve poi garantire flessibilità, in modo da non dover
essere continuamente rinegoziato. Deve cioè poter
incorporare i cambiamenti che avvengono nell'economia
globale e stabilire un compromesso tra il ruolo guida dei Paesi
industrializzati e le crescenti responsabilità dei Paesi in via di
sviluppo. In terzo luogo, l'accordo deve dimostrare
solidarietà, per esempio attraverso la finanza e il
trasferimento di tecnologia in favore dei Paesi in via di
sviluppo. I Paesi industrializzati devono rispettare l'impegno a
stanziare cento miliardi di dollari all'anno di qui al 2020 per
finanziare spese di adattamento e mitigazione. Infine,
l'accordo deve fare mostra di credibilità nel rispondere al
rapido prodursi degli effetti del cambiamento climatico. Deve
quindi includere un ciclo regolare quinquennale di valutazione
da parte dei governi, che possano eventualmente rafforzare i
propri piani nazionali in linea con le esigenze indicate dalla
scienza. Parigi deve inoltre includere meccanismi solidi e
trasparenti di misurazione, monitoraggio e analisi dei
progressi compiuti.
Le Nazioni Unite sono pronte a sostenere i Paesi
nell'attuazione di un tale accordo. Un accordo a Parigi sul
clima che sia davvero significativo sarà la premessa per un
miglior presente, e un miglior futuro. Ci aiuterà a porre fine alla
povertà. A pulire la nostra aria e proteggere i nostri oceani. A
creare nuovi posti di lavoro e catalizzare l'innovazione verde.
Ad accelerare il progresso verso il conseguimento di tutti gli
obiettivi di sviluppo sostenibile. Ecco perché il cambiamento
climatico mi sta tanto a cuore.
Il mio messaggio ai leader mondiali è chiaro: il successo a
Parigi dipende da voi. Ora è tempo di buon senso,
compromesso e consenso. È ora di guardare al di là degli
orizzonti nazionali e di mettere l'interesse comune davanti a
ogni altra cosa. I popoli del mondo e le generazioni future
contano sul fatto che voi abbiate la visione e il coraggio di
cogliere questa occasione storica.
pagina 6
25/11/2015
UN GIORNO LUNGO UN ANNO
PER IL CORAGGIO DELLE DONNE
di MICHELA MARZANO
Da quando, nel 1999, l'Assemblea Generale
delle Nazioni Unite ha istituito la "Giornata
internazionale per l'eliminazione della violenze
contro le donne", ogni 25 novembre le
iniziative volte a sensibilizzare l'opinione
pubblica nei confronti di questo dramma sono
moltissime.
Incontri, convegni, concerti ed eventi di ogni
sorta sono organizzati in tutto il mondo. Tutti
sembrano unanimi nel condannare questo
fenomeno che continua a mietere vittime
innocenti - quasi sette milioni secondo gli
ultimi dati Istat. Tutti sembrano disposti a
impegnarsi e a moltiplicare gli sforzi per
contrastare e ridurre le violenze di genere e le
discriminazioni. Come però ha recentemente
dichiarato Michelle Bachelet, vice segretario
generale e direttore esecutivo di "UN Women",
finché ci si limiterà a punire i colpevoli senza
impegnarsi anche in serie politiche di
prevenzione, non si riuscirà ad affrontare il
problema con i dovuti strumenti. «Occorrono
cambiamenti culturali per smettere di
guardare alle donne come cittadine di seconda
classe», ha ricordato Michelle Bachelet,
insistendo anche sull'importanza dei modelli
femminili proposti alle più giovani e ai più
giovani. Ma come si fa a insegnare il rispetto di
tutte e di tutti quando si continua a vivere in
una società in cui le differenze vengono ancora
percepite come difetti e in cui ci si illude che la
dignità di ognuno dipenda da quello che si
realizza o meno nella vita e non da quello che si
è, ossia "persone", tutte uguali e tutte degne
indipendentemente dal sesso, dal genere e
dall'orientamento sessuale? Quando si capirà
che, senza la promozione di una cultura della
tolleranza e dell'accettazione reciproca, la
violenza non sarà mai arginata?
Il problema delle violenze di genere non è solo
un'urgenza, qualcosa di cui ricordarsi solo
quando si è di fronte all'ennesimo dramma o in
occasione del 25 novembre. È anche e
soprattutto un fenomeno strutturale, la
conseguenza immediata della profonda crisi
identitaria che, al giorno d'oggi, riguarda non
solo gli uomini e le donne, ma anche e
soprattutto le relazioni intersoggettive. Per
cultura e per tradizione, alcuni uomini pensano
ancora di potersi comportare come "padroni" e
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non sopportano che le donne, "oggetti di
possesso", possano diventare autonome; in
parte insicuri e incapaci di sapere "chi sono", le
accusano di mettere in discussione la propria
superiorità; in parte narcisisticamente
fratturati, pretendono che le donne li aiutino a
riparare le proprie ferite. Un problema
identitario, quindi, che si trasforma poi in un
problema relazionale e che, ancora troppo
spesso, sfocia nell'odio e nella violenza. Un odio
e una violenza che non si potranno combattere
efficacemente fino a quando non si capirà che il
problema comincia nelle famiglie e nelle scuole
e che, per affrontarlo seriamente, si deve
ripartire dall'educazione dei più piccoli. Le
donne non sono "inferiori", "sottomesse" e
"irrazionali" per natura, esattamente come gli
uomini non sono "superiori", "padroni" o
"razionali". Le donne e gli uomini sono certo
diversi, ma la diversità non è mai sinonimo di
disuguaglianza. Anzi. È sempre e solo nella
diversità che l'uguaglianza e il rispetto
reciproco possono essere promossi.
Ormai siamo consapevoli che l'aggressività e il
senso del possesso sono parte della natura
umana. Sappiamo che nessuno di noi è immune
dall'odio e dall'invidia e che non si potrà mai
definitivamente eliminare l'ambiguità
profonda che ogni essere umano si porta
dentro. Ma abbiamo anche capito che la
violenza, se non la si può cancellare, la si può
almeno contenere e prevenire. Avendo il
coraggio di fare a pezzi i pregiudizi, gli errori, i
compromessi, le scuse e le banalità di cui,
ancora oggi, sono impastati i rapporti tra gli
uomini e le donne. Decostruendo e
ricostruendo la grammatica delle relazioni
affettive. Distinguendo l'amore - che regala ad
ognuno di noi la libertà di essere noi stessi dalla gelosia possessiva che obbliga l'altra
persona ad occupare esattamente quel posto
lì, quello che le abbiamo preparato, quello che
non può disertare, nemmeno quando ha deciso
di andarsene via.
È solo imparando a convivere con la
frustrazione e la mancanza che si potrà poi
insegnare ai più piccoli che le donne non sono
né "oggetti" a disposizione per colmare il
proprio vuoto né "cose" di cui ci si possa
impossessare e talvolta distruggere.
©RIPRODUZIONE RISERVATA.
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PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Roma - Piazza San Pietro
22 novembre 2015
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
In questa ultima domenica dell’anno liturgico, celebriamo la solennità di
Cristo Re. E il Vangelo di oggi ci fa contemplare Gesù mentre si presenta a
Pilato come re di un regno che «non è di questo mondo» (Gv 18,36). Questo
non significa che Cristo sia re di un altro mondo, ma che è re in un altro modo,
eppure è re in questo mondo. Si tratta di una contrapposizione tra due
logiche. La logica mondana poggia sull’ambizione, sulla competizione,
combatte con le armi della paura, del ricatto e della manipolazione delle
coscienze. La logica del Vangelo, cioè la logica di Gesù, invece si esprime
nell’umiltà e nella gratuità, si afferma silenziosamente ma efficacemente con
la forza della verità. I regni di questo mondo a volte si reggono su prepotenze,
rivalità, oppressioni; il regno di Cristo è un «regno di giustizia, di amore e di
pace» (Prefazio).
Gesù si è rivelato re quando? Nell’evento della Croce! Chi guarda la Croce
di Cristo non può non vedere la sorprendente gratuità dell’amore. Qualcuno
di voi può dire: “Ma, Padre, questo è stato un fallimento!”. E’ proprio nel
fallimento del peccato - il peccato è un fallimento - nel fallimento delle
ambizioni umane, lì c’è il trionfo della Croce, c’è la gratuità dell’amore. Nel
fallimento della Croce si vede l’amore, questo amore che è gratuito, che Gesù
ci dà. Parlare di potenza e di forza, per il cristiano, significa fare riferimento
alla potenza della Croce e alla forza dell’amore di Gesù: un amore che
rimane saldo e integro, anche di fronte al rifiuto, e che appare come il
compimento di una vita spesa nella totale offerta di sé in favore dell’umanità.
Sul Calvario, i passanti e i capi deridono Gesù inchiodato alla croce, e gli
lanciano la sfida: «Salva te stesso scendendo dalla croce!» (Mc 15,30).
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“Salva te stesso!”. Ma paradossalmente la verità di Gesù è proprio quella
che in tono di scherno gli scagliano addosso i suoi avversari: «Non può
salvare sé stesso!» (v. 31). Se Gesù fosse sceso dalla croce, avrebbe ceduto
alla tentazione del principe di questo mondo; invece Lui non può salvare sé
stesso proprio per poter salvare gli altri, proprio perché ha dato la sua vita
per noi, per ognuno di noi. Dire: “Gesù ha dato la vita per il mondo” è vero,
ma è più bello dire: “Gesù ha dato la sua vita per me”. E oggi in piazza,
ognuno di noi, dica nel suo cuore: “Ha dato la sua vita per me”, per poter
salvare ognuno di noi dai nostri peccati.
E questo chi lo ha capito? Lo ha capito bene uno dei due malfattori che sono
crocifissi con Lui, detto il “buon ladrone”, che Lo supplica: «Gesù, ricordati
di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). Ma questo era un
malfattore, era un corrotto ed era lì condannato a morte proprio per tutte le
brutalità che aveva fatto nella sua vita. Ma ha visto nell’atteggiamento di
Gesù, nella mitezza di Gesù l’amore. E questa è la forza del regno di Cristo: è
l’amore. Per questo la regalità di Gesù non ci opprime, ma ci libera dalle
nostre debolezze e miserie, incoraggiandoci a percorrere le strade del bene,
della riconciliazione e del perdono. Guardiamo la Croce di Gesù, guardiamo
il buon ladrone e diciamo tutti insieme quello che ha detto il buon ladrone:
«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Tutti insieme: «Gesù,
ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Chiedere a Gesù, quando noi
ci vediamo deboli, peccatori, sconfitti, di guardarci e dire: “Tu sei lì. Non ti
dimenticare di me!”.
Di fronte alle tante lacerazioni nel mondo e alle troppe ferite nella carne
degli uomini, chiediamo alla Vergine Maria di sostenerci nel nostro impegno
di imitare Gesù, nostro re, rendendo presente il suo regno con gesti di
tenerezza, di comprensione e di misericordia.
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28 novembre 2015
LA DOTTRINA SCIITA DELL'IMAMATO E
DELLO STATO ISLAMICO INTEGRALE
Giovanni Sale S.I.
Il «risveglio sciita» è uno degli aspetti più importanti della politica internazionale
della seconda metà del Novecento; ancora oggi questa tendenza continua a occupare lo
scenario politico in diversi Paesi del Medio Oriente. Tutto iniziò con la rivoluzione
iraniana del 1979, che «risvegliò» il mondo sciita, che fino agli inizi del XX secolo aveva
professato in materia politica dottrine quietiste. E ciò in riferimento alla tradizionale
dottrina sull'imamato Sciita (anche se del ramo «dissidente» degli alauiti) è, dalla metà
degli anni Sessanta del secolo scorso, la dirigenza siriana e, dopo la seconda guerra del
Golfo (2003), lo è anche gran parte della leadership irachena. Di confessione sciita è
anche il «partito di Dio», nato in Libano negli anni Ottanta, cioè l'Hezbollah, che ha
avuto un ruolo non secondario nello sviluppo della dottrina martiriale anche nel mondo
sunnita.
Gli sciiti sono, insieme ai sunniti, una delle principali ramificazioni dell'islam
«ortodosso». Al loro interno si suddividono in diverse osservanze: gli imamiti (o
duodecimani), che sono la maggioranza, e gli ismailiti (o settimani), a loro volta divisi in
drusi, alauiti e nizari, per citare solo i gruppi principali. Queste ramificazioni, pur
professando dottrine religiose in parte differenti, sono tutte concordi su alcuni punti
sostanziali: 1) nel sostenere il diritto della famiglia del profeta alla guida religiosa e
politica della comunità; 2) nell'attesa di un imam escatologico, generalmente indicato
come mahdì (messia), alla fine dei tempi.
Oltre ad alcune differenze di ordine dottrinale, ciò che maggiormente distingue i due
gruppi religiosi è la dottrina sull'imamato, che ha un influsso rilevante anche sul piano
politico. In questo articolo si tratterà nella prima parte di tale dottrina in riferimento sia
agli imamiti sia agli ismailiti, nella seconda della teoria dello Stato islamico sciita.
La dottrina sciita dell'imamato
Per quanto riguarda la dottrina sull'imamato in generale, possiamo dire che lo
sciismo, a differenza del sunnismo, ritiene che esista un'autorità suprema, stabilita da
Dio, responsabile delle questioni religiose e temporali. Durante la sua vita, questo
compito fu svolto da Maometto; dopo la sua morte, essendo venuto meno l'ultimo
interprete del messaggio divino, nella comunità dei credenti si avvertì la necessità di
trovare un'altra guida «autorizzata». La mente umana, infatti, è fallibile, spesso non si
orienta secondo la volontà di Dio e non opera secondo il giusto. «Non è sufficiente scrive Paul Walker - che gli uomini si limitino a riscoprire o recuperare l'esatta forma e
l'esatto contenuto dell'insegnamento del profeta in ogni circostanza specifica. Deve
anche mantenersi, per sanzione divina, almeno un anello della catena che lega dalle
origini l'uomo a Dio. In altre parole, in ogni epoca deve esistere un individuo
profeticamente ispirato», appartenente alla famiglia del profeta e quindi successore del
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primo imam Alì. Da ciò segue che la designazione e la successione degli imam sono
frutto di una precisa volontà divina e riguardano tutti gli aspetti - religiosi e temporali della vita della comunità dei credenti.
La dottrina sull'imamato degli sciiti duodecimani è stata messa a punto, in un lungo
arco di tempo, da due grandi statisti e giuristi, cioè dallo sceicco al-Mufid, morto nel
1022, e da Hasan Ibn al-Mutahhar al-Hilli, morto nel 1325. Definendo questa dottrina, il
primo scrisse: «La denominazione di "imamiti" si applica a coloro che professano la
necessità dell'imamato, che affermano la sua esistenza in ogni epoca della storia, che
considerano necessaria per ogni imam una designazione testuale chiara, l'impeccabilità e
la perfezione, e che limitano l'imamato alla discendenza di Hussein, figlio di Alì e fanno
passare questa linea perAlì Ibn Musa al-Rida».
Questa sentenza, breve ma precisa, indica i quattro requisiti fondamentali che i
duodecimani pongono per l'imamato: 1) necessità della sua esistenza storica; 2)
designazione ispirata della sua carica; 3) perfezione morale della sua persona e dei suoi
atti; 4) sua discendenza dalla famiglia del profeta. «Gli imamiti - continua al-Mufid sono dell'opinione che gli imam perfetti siano i migliori fra tutti i loro contemporanei
nelle rispettive epoche, e in tutti i campi della loro attività, nella conoscenza e nelle
capacità intellettuali. Essi non conoscono l'ignoto, ma conoscono le intenzioni degli
uomini a causa di un'ispirazione elargita da Dio».
In particolare, mentre nella dottrina sunnita il califfo è frutto della libera scelta della
comunità (ikhtiyar), sulla base del principio di consultazione, l'imam sciita è scelto sulla
base di una precisa «designazione testuale» (nass), cioè attraverso un testo sacro o
attraverso la decisione del precedente imam. Inoltre, mentre il primo è sostanzialmente
un uomo fallibile, anche se dotato di alcune qualità morali, il secondo, essendo
mediatore tra Dio e gli uomini e appartenendo alla sacra famiglia del profeta, è dotato di
infallibilità nelle questioni sia spirituali sia temporali, e di «impeccabilità».
Secondo la tradizione imamita, dopo l'epoca dei profeti, che si è conclusa con
Maometto, gli imam continuano la loro missione profetica, ma senza portare una nuova
scrittura. Questa tradizione, inoltre, pone una chiara distinzione tra il ruolo di Maometto
e quello dell'imam: il primo è il portavoce della rivelazione divina, il secondo è
l'esecutore del messaggio, colui che, interpretandolo, deve metterlo in pratica. La
comunità, da parte sua, è obbligata a seguire le decisioni della sua guida carismatica:
disobbedire all'imam è come disobbedire al profeta.
Queste teorie furono mantenute e ampliate da al-Hilli, detto il «sapientissimo», il
quale, sviluppando il pensiero del suo maestro al-Tusi, pose i capisaldi della dottrina
sciita attuale. Circa l'interpretazione dei testi sacri, ritenne che ogni studioso abbia la
facoltà di «speculare su quelle questioni della legge che sono soggette a congetture»,
ampliando così lo spazio di autonomia riconosciuto al giurista. Questo principio ha
posto le basi, nel mondo sciita, per lo sviluppo di un «clero» capace di intervenire con
autorevolezza, attraverso il criterio della libera interpretazione della legge, nelle
questioni religiose o politiche.
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Una sentenza successiva afferma che nessun mujtahid di per sé è infallibile, ma i loro
responsi, presi nel loro insieme, certamente lo sono. A tale riguardo, lo studioso Heinz
Halm afferma che al-Hilli «fornì un supporto teoretico al principio sino allora
indisputato per cui il ragionamento legale è basato sullo sforzo intellettuale individuale.
Con l'applicazione di questo principio, che ritiene l'intelletto raziocinante del giurista in
grado di formulare giudizi anche su questioni religiose, egli preparò la strada al
successivo ruolo - anche politico - degli studiosi sciiti, i mullah e gli ayatollah».
Sulla base di questi presupposti, nelle correnti più estremiste, la figura dell'imam si
andò «sacralizzando», diventando una sorta di messaggero celeste, secondo soltanto a
Maometto e ad Alì. In alcune tradizioni ismailite egli addirittura fu considerato alla
stregua di Maometto o anche di più. In questi casi lo sciismo andò acquistando una
dimensione cosmica: «L'imam, infatti, superò le qualifiche puramente umane di
sostituto del Profeta, e venne collocato al centro di un complesso sistema in cui tutte le
manifestazioni del mondo sono teofania e le vicende della profezia e dell'imamato
diventano ierostoria».
Le vicende dell'ultimo imam riconosciuto - sia esso il settimo, il dodicesimo, o un
altro ancora, all'interno della tradizione sciita - determinarono lungo i secoli insanabili
scissioni. Ogni volta che la successione imamale, per vari motivi, si arrestava (wuquf), si
riteneva che l'imam scomparso fosse entrato in «occultamento». Ciò creava nella
comunità un vuoto, spirituale e temporale, che doveva essere in qualche modo riempito.
«Certo, l'ultimo imam - si affermava - ritornerà come Messia, come Mahdi, a ristabilire il
regno di Dio sulla terra». La sua assenza generava insieme attesa e incertezza. Nel
frattempo ogni altro potere costituito era considerato per sua natura illegittimo, e chi lo
esercitava veniva considerato come un usurpatore.
In questo tempo di attesa, che poteva essere anche molto lungo, si poneva però la
necessità di guidare la comunità e di indirizzarla verso il bene e la giustizia. A tale
proposito, i duodecimani svilupparono la dottrina secondo la quale, nell'assenza
dell'imam, il potere di guidare la comunità sarebbe spettato ai suoi vicari o
rappresentanti, scelti tra i più saggi, pii e influenti del loro tempo. Secondo una
tradizione antica, questa autorità sarebbe stata trasferita dall'imam Ga'far al-Sadiq ai
giuristi, che, in assenza dell'imam, ricevevano l'autorità dall'«imam nascosto» o dal
Mahdi.
Secondo il giurista Hasan al-Tusi, morto nel 1067, l'imam poteva autorizzare gli
ulema del suo partito a rappresentarlo durante la sua assenza. In questo modo nella
dottrina sciita veniva prefigurata la cosiddetta «autorità del giusrisperito» (velayat-e
faqih), a cui nei tempi moderni l'ayatollah Khomeini ha fatto riferimento per legittimare
il suo potere. «Si stabiliva una nuova catena di trasmissione del sapere e del potere
formata da Profeta-imam-rappresentanti dell'imam. Emerge così nel corso della storia
sciita una nuova gerarchia dell'autorità religiosa, un clero formato da ulema e mujtahid
che va occupando il vuoto causato dall'occultamento dell'ultimo imam».
La tesi dell'imam nascosto ma spiritualmente presente nella comunità è seguita dagli
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sciiti duodecimani. Secondo loro, il tempo dell'assenza si divide in due parti: il periodo
del cosiddetto «occultamento minore» (al-Ghayha al-Sughra), durato fino al 941, e
quello dell'«occultamento maggiore» (al-Ghayba al-Kubra), che continua ancora.
Durante il primo periodo l'imam era in contatto con la comunità attraverso quattro
successivi agenti (le cosiddette «quattro porte») che fungevano da mediatori qualificati.
Il dodicesimo imam è anche il Mahdi, che uscirà dall'occultamento nel tempo in cui
l'oppressione e l'ingiustizia del mondo saranno al culmine. Egli, in quanto Messia,
distruggerà il male e stabilirà il regno della giustizia secondo la legge divina, e rivelerà
l'unità sostanziale delle religioni monoteiste. Il Mahdi preparerà la seconda venuta del
profeta Cristo, che porrà fine alla storia dell'umanità. Tutti gli sciiti pregano per la
seconda venuta di Cristo. Questa dottrina escatologico-apocalittica sulla fine dei tempi è
in parte condivisa anche dai sunniti, ma dagli interpreti della legge è considerata soltanto
facoltativa. Per gli sciiti, questa dottrina dell'attesa dell'imam nascosto è molto
importante: informa tutto l'ethos della vita religiosa e influenza tutte le manifestazioni
della vita collettiva.
La teoria dello Stato islamico sciita
L'artefice della «reinterpretazione» della dottrina sciita dello Stato islamico fu il
grande ayatollah Ruhollah Khomeini, il quale si formò nel più importante centro
teologico dell'Iran (nella città santa di Qom), dove successivamente fu anche docente.
Negli anni del regno di Reza Pahlavi questa scuola fu anche il maggiore centro di
resistenza al progetto di «modernizzazione autoritaria», intrapreso a partire dagli anni
Sessanta dal regime.
La figura di Khomeini emerse sul piano pubblico soprattutto in seguito ai fatti del
1963, quando egli si oppose con forza a tutta una serie di riforme promulgate dal
Governo di Teheran (la cosiddetta «rivoluzione bianca»). Queste riforme, ispirate a
modelli filooccidentali, riguardavano la materia economica e la società civile,
modificando modelli tradizionali da sempre controllati dal clero.
Tra le altre cose, si prevedeva la concessione del voto alle donne (valorizzando il
ruolo femminile nella società come fattore di modernizzazione) e la loro partecipazione
al mondo del lavoro, nonché la proibizione di portare il velo nei pubblici uffici. Quasi
tutte queste riforme furono avversate dal clero sciita, in quanto considerate antiislamiche e modellate su stili di vita occidentali.
In occasione delle tradizionali festività religiose, le processioni degenerarono in
manifestazioni contro il regime, dando luogo a scontri violenti tra manifestanti e polizia.
La repressione colpì duramente tutti gli oppositori politici - comunisti, liberali e anche
diversi esponenti del clero -, i quali poco alla volta abbandonarono il loro tradizionale
atteggiamento quietista (e di sostegno all'autorità pubblica «illegittima») per divenire
combattenti. Khomeini fu più volte arrestato dalla polizia dello shah e alla fine costretto
all'esilio, prima in Turchia e poi nella città santa di Najaf, in Iraq, dove rimase fino al
1978. Durante il soggiorno nella città santa irachena il grande ayatollah assunse la
leadership spirituale e politica del movimento di ribellione al regime dello shah,
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divenuto sempre più oppressivo e poliziesco.
Inoltre, fu proprio durante gli anni dell'esilio che Khomeini elaborò la sua teoria
sullo Stato islamico, apportando nella dottrina sciita sui rapporti tra religione e politica
un vero e proprio cambiamento di rotta. Questa teoria fu divulgata attraverso una serie di
lezioni, poi raccolte nel libro intitolato Velayat-e faqih. Hokumat e-islami («L'autorità
del giurisperita. Il governo islamico»), che fu diffuso in tutto il mondo islamico. Le tesi
sostenute nel volume erano certamente dirompenti sul piano dottrinale: veniva
apertamente condannata la teoria tradizionale del «quietismo politico», e si sosteneva
che era compito dell'autorità religiosa, in particolare dei giurisperiti, assumere un ruolo
guida nell'ambito politico (come avevano fatto Maometto e i suoi immediati successori);
inoltre si attaccava l'istituzione della monarchia, definita come istituto non islamico, e si
auspicava la creazione di una Repubblica popolare islamica, diretta e gestita dal
giurisperito religioso, in quanto vero conoscitore della legge islamica.
Queste tesi di Khomeini sul «governo islamico» costituivano una vera e propria
rottura con la tradizione religiosa sciita. Esse proponevano la ricostruzione di un'autorità
politica legittima in assenza dell'imam. Per Khomeini, infatti, era impensabile che Dio
avesse abbandonato gli uomini a se stessi dopo la scomparsa del dodicesimo imam, o che
avesse voluto lasciare la comunità dei veri credenti in mano ai nemici della fede. «I
sapienti del clero, che conoscono la Legge e possiedono senso di giustizia, devono
dunque raccogliere quell'eredità e governare con piena autorità. Tra loro sarà scelto il
"Giusto faqih", leader politico e religioso che non ha la stessa autorità dell'imam, ma ne
esercita la funzione». In questa figura il grande ayatollah ricomponeva il rapporto tra
religione e politica, da secoli spezzato in seguito alla dottrina dell'occultamento.
Questa teoria fu aspramente contestata dalla gerarchia tradizionale, che vi vide
l'empio tentativo - portato avanti da un religioso, per motivi di ambizione personale - di
sostituirsi illegittimamente all'autorità dell'imam nascosto. Ma, poco alla volta, il clero
sciita (in particolare quello medio), anche a motivo della dura repressione che dovette
subire da parte del regime, si orientò verso le teorie khomeiniste e parteggiò per
l'ayatollah Khomeini, esiliato nella città santa di Najaf e divenuto così «combattente»
per la causa rivoluzionaria.
Va ricordato che questo dibattito - tutt'altro che teorico - sul ruolo del clero imamita
nella società iraniana era iniziato già nei primi anni del XX secolo, sotto la dinastia dei
Cagiari, e successivamente, a partire dal 1924, sotto la dinastia dei Pahlavi. In quegli
anni si svolse una disputa religiosa tra due scuole o tendenze che in realtà sono
sopravvissute anche dopo la rivoluzione del 1979: quella degli akhbari, che sosteneva la
necessità di seguire, in modo stretto, la dottrina degli imam precedenti; e quella degli
usali, che invece lasciava ai mujtahid un ampio margine nell'interpretazione e
nell'aggiornamento della legge religiosa.
Il prevalere degli usali rafforzò sul plano politico il clero, che divenne la forza
trainante della società iraniana. Essi furono i principali oppositori dell'influenza degli
stranieri sulla vita politicoeconomica nazionale, cioè degli ottomani sunniti prima, e
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degli inglesi e dei russi dopo; rovesciarono la monarchia e instaurarono una Repubblica
costituzionale, che durò soltanto un breve periodo.
È nella prospettiva di questo lungo processo di revisione dottrinale, scrive Roberto
Gritti, «di autonomizzazione del potere politico, di difesa della tradizionale identità
nazionale, e di radicamento e rappresentanza sociale, che va collocata la rivoluzione del
1979 e il ruolo che vi svolsero l'ayatollah Khomeini e il clero duodecimano». La nascita
della Repubblica islamica sciita, da un lato impresse una svolta radicale nella millenaria
storia degli imamiti iraniani, dall'altro allertò il mondo sunnita, che a partire da quel
momento iniziò a guardare con sospetto le minoranze sciite presenti nei loro Paesi.
Questo è successo in Arabia Saudita, e soprattutto in Iraq, dove sono presenti i centri
religiosi più importanti dello sciismo. In questo Paese essi sono stati costretti da Saddam
Hussein al silenzio, alla passività e all'emarginazione politica. La caduta del dittatore di
Baghdad nel 2003 ad opera degli statunitensi è stata provvidenziale, soprattutto per gli
sciiti, che sono arrivati al potere attraverso libere elezioni, divenendo gli arbitri della
nuova situazione politica.
Questo nuovo corso non soltanto ha «elettrizzato» gli sciiti iracheni, ma ha anche
influenzato - scrive Giuseppe Anzera - le comunità imamite saudite, kuwaitiane, libanesi
e del Bahrein, «che, con le loro richieste di riconoscimento, tutela e rispetto dello
sciismo, hanno contribuito attivamente al revival». Inoltre, la possibilità di visitare
liberamente, dopo tanti anni, le città sante di Najaf e Kerbala e di venerare le tombe dei
martiri ha accresciuto notevolmente i legami pansciiti, specialmente tra la comunità
iraniana e quella irachena.
Va sottolineato che la teoria politico-religiosa di «Stato islamico» è del tutto
moderna. Di fatto durante i secoli essa non trovò mai realizzatori, perché nessuno Stato,
dopo l'esperienza medinese del profeta (e il breve periodo dell'imamato di Alì), è stato
effettivamente fondato sulla sharia; anche i grandi teorici medioevali parlavano, più che
di «Stato islamico», di «modelli islamici di Stato». La rivoluzione khomeinista, al
contrario, per la prima volta ha instaurato uno Stato totalmente islamico, dove religione e
politica sono intrinsecamente intrecciate anche a livello istituzionale, facendo parte
dello stesso ordine secolare voluto da Dio.
L'ideologia. khomeinista si diffuse ben presto in tutto il mondo islamico, e quindi
anche in quello sunnita. A questa diffusione contribuirono anche le opere scritte da due
intellettuali che in quel tempo ebbero grande successo: Jalal Al-e Ahmad, autore di uno
scritto molto popolare intitolato L'intossicazione dall'Occidente; e il sociologo Ali
Shariati, considerato il vero ideologo della rivoluzione iraniana (padre dell'«islam
rosso»). Essi rilanciarono il ruolo dell'islam come ideologia che deve guidare l'azione
politica e sociale, e come universo valoriale opposto e nello stesso tempo alternativo alle
dottrine politiche prodotte dal marxismo, dal nazionalismo e dalle democrazie
cosiddette «occidentali».
Per Ali Shariati, che morì a Londra nel 1977 in circostanze misteriose, la passività
sciita di fronte all'ingiustizia sociale è da addebitare al clero conservatore, che ha
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trasformato la sharia da «religione della giustizia» a «religione della sconfitta». Per lui,
l'attesa escatologica del Mahdi non deve portare alla passività o al rigetto del tempo
presente. Gli sciiti, al contrario, hanno l'obbligo di costruire uno Stato e una società
fondati sui valori dell'islam, e quindi devono operare per un mondo più giusto e
rispettoso dei diritti di tutti.
Nella dottrina khomeinista ha una grande importanza anche la figura del martire
(shaid), che nella tradizione sciita ha un ruolo tutto particolare sia per la vicenda epicosacrale di Hussein, figlio di Alì e nipote del profeta - il quale, per riaffermare i diritti di
Dio, si fece massacrare a Kerbala (680) insieme ai suoi compagni dall'esercito
dell'«usurparore» del potere califfale - sia per le sanguinose persecuzioni che nei secoli
passati gli sciiti hanno dovuto subire ad opera degli avversari religiosi e politici.
Per gli sciiti, i martiri sono innanzitutto gli imam, le cui tombe diventano mete di
pellegrinaggio: i riti di shura e di Muharram riattualizzano ogni anno il dramma di
Kerbala. Le lacrime versate dai fedeli sciiti presso i mausolei degli imam - scrive
Catherine Mayeur-Jaouen - danno forse un colore particolare alla pietà musulmana. Ma i
martiri celebrati sono quelli del passato; quindi non si tratta di rivivere simbolicamente
quelle esperienze, ma semplicemente di meditarle; non di imitarle, ma di venerarle,
invitando «a un modello politico quietista, ben lontano dall'appellarsi ad un attivismo
rivoluzionario».
Il secolo XX ha cambiato tutto questo. Per Khomeini, addirittura il martire non è solo
colui che accetta la morte per testimoniare la propria fede, come riteneva la tradizione
antica, ma anche colui che si immola per la giusta causa rivoluzionaria. Egli non è
soltanto espressione della santità e della sottomissione a Dio, ma anche del volontario
sacrificio per una giusta causa, per l'instaurazione dello Stato islamico e per la sua
diffusione. Il martirio, cioè, non è riservato esclusivamente agli imam e ai grandi
personaggi della storia sacra, ma a tutti quelli che si immolano per la giustizia e per la
causa rivoluzionaria.
Questo pensiero, come mostra l'esperienza degli ultimi decenni, ha avuto una grande
risonanza in tutto il mondo islamico - anche fuori del mondo sciita -, fondando
«teologicamente» la teoria della guerra santa (il jihad) contro gli infedeli interni ed
esterni dell'islam. Così l'«operazione martirio» (nonché tutta l'ideologia martiriale), nata
in un contesto culturale e religioso sciita, è stata ben presta recuperata dagli jihadisti
sunniti a proprio vantaggio, e alla fine - come è successo anche di recente in Arabia
Saudita e Kuwait City ad opera degli adepti del «califfo nero» di Mosul - utilizzata per
colpire gli «eretici» e idolatri sciiti.
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 234 del 29 novembre 2015
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