La nuova sociologia economica GIORGIO MORGANTI La nuova sociologia economica Le trasformazioni del modello fordista hanno stimolato lo sviluppo di una nuova sociologia economica a livello micro, volta ad approfondire le forme di organizzazione produttiva flessibili. Accanto a questo filone di studi, più influenzato dalla ricerca empirica, si è fatto strada nell’ultimo ventennio anche un altro approccio maggiormente legato al dibattito teorico, legato all’analisi della crescente varietà dei modelli di organizzazione economica. La nuova sociologia economica Le dimensioni delle imprese, la scelta tra produrre all’interno o acquistare beni sui mercato, il ricorso a forme di collaborazione di varia natura, sono tutti aspetti, infatti, che sembrano richiedere spiegazioni più complesse di quelle tecnologiche, alle quali l’economia aveva in passato prevalentemente rimandato. Alla scelta razionale delle soluzioni istituzionali più efficienti viene così contrapposta una visione delle forme di organizzazione che sottolinea il ruolo autonomo dei fattori culturali e delle reti di relazioni sociali IL NEOISTITUZIONALISMO ECONOMICO A partire dagli anni 70 si sviluppa un’«economia istituzionale» che mette in discussione l’idea dell’impresa come funzione di produzione, cioè come un’entità produttiva i cui confini sono sostanzialmente definiti dalla tecnologia. Lo studio del mercato non è, infatti, sufficiente a spiegare perché alcune «transazioni» (scambi di beni e servizi) avvengano nel mercato e altre vengano internalizzate nell’impresa, o perché in alcuni casi l’impresa cresce mentre in altri resta di piccole dimensioni. IL NEOISTITUZIONALISMO ECONOMICO Il nuovo approccio ipotizza in tal senso l’esistenza di «costi di transazione» variabili, dovuti a condizioni di incertezza e a carenza di informazioni, che possono creare spazi più o meno grandi per comportamenti opportunistici. Le organizzazioni tendono dunque a differenziarsi per trovare, a seconda delle diverse situazioni di scambio economico, la maggiore efficienza delle transazioni. L’ANALISI DEI COSTI DI TRANSAZIONE La natura contrattuale delle istituzioni è l’elemento principale che accomuna gli studi riconducibili al neo–istituzionalismo economico. Tra questi, particolare importanza riveste l’«ECONOMIA DEI COSTI DI TRANSAZIONE» di Williamson: Sul versante economico – per comprendere i costi di transazione non è sufficiente riferirsi ai «fattori ambientali», (in particolare ai caratteri del mercato), ma occorre prendere in considerazione anche i «fattori umani». Da questo punto di vista, Williamson individua nel concetto di «razionalità limitata», formulato da Simon, lo strumento essenziale per caratterizzare in forma più realistica le decisioni dei soggetti economici. In pratica è impossibile conoscere tutte le alternative e tutte le loro possibili conseguenze, quando si deve prendere una decisione. La razionalità è quindi sempre limitata e mira a ottenere risultati soddisfacenti piuttosto che ottimali, basandosi sulla selezione di un ristretto numero di informazioni. L’ANALISI DEI COSTI DI TRANSAZIONE Nel definire meglio l’azione economica, è inoltre necessario tener conto dell’umana tendenza all’«opportunismo» negli scambi, che può portare al perseguimento del proprio interesse con l’inganno. Lo spazio per questi fattori umani, cresce quando tra i fattori ambientali prevalgono condizioni di incertezza nel futuro e/o di dipendenza (es. mancanza di concorrenza per monopoli o oligopoli). In queste condizioni, proprio per la difficoltà di definire anteriormente, e di eseguire successivamente, un contratto per una specifica transazione, fa sì che si manifestino dei «costi di transazione», per ridurre i quali si sceglie di aumentare l’efficienza internalizzando una determinata attività coordinandola per via gerarchica. L’ANALISI DEI COSTI DI TRANSAZIONE In altre parole, a parità di costi di produzione, quanto maggiori saranno i costi di transazione più si farà ricorso all’impresa invece che al mercato. Tra i fattori ambientali, l’attenzione si concentra sulla «specificità delle risorse» (= grado di specializzazione degli investimenti che caratterizzano una determinata transazione): quanto più le risorse coinvolte sono specializzate, tanto più la relazione si trasforma in un rapporto bilaterale tra i contraenti con rischi di sfruttamento opportunistico (e conseguente aumento dei costi di transazione). I rischi crescono inoltre con il ripetersi nel tempo delle transazioni. Cosi, per esempio, se i rapporti tra un’azienda committente e un’atra sub–fornitrice implicano la necessità di un elevato investimento da parte di quest’ultima in macchinario che non può essere facilmente riutilizzato per la fornitura di beni ad altre imprese committenti, la transazione in questione sarà caratterizzata da un’elevata specificità delle risorse. La figura permette di cogliere quali meccanismi di governo tendano a essere selezionati in relazione al grado di frequenza e di specificità delle transazioni. L’ANALISI 1. 2. 3. 4. DEI COSTI DI TRANSAZIONE Sono possibili le seguenti osservazioni: Per transazioni che comportano bassa specificità delle risorse (es. l’acquisto ricorrente di prodotti standardizzati) tende a prevalere il tradizionale scambio di mercato; Per transazioni occasionali a più elevata specificità (es. l’acquisto di macchine speciali o la costruzione di un impianto) si farà ancora ricorso al mercato, ma per ridurre i costi di transazione ci si vale dell’assistenza di terze parti in qualità di arbitri o mediatori (es. liberi professionisti); Per transazioni frequenti ad elevata specificità (es. rapporti di subfornitura per componenti di alta qualità), ci si affida ad accordi di lunga durata, joint ventures, ecc., ovvero a forme di governo intermedie tra il mercato e la gerarchia (c.d. relational contracting); Al crescere ulteriore della specificità delle risorse, la soluzione più efficiente per limitare i costi di transazione diventa la gerarchia. L’ANALISI DEI COSTI DI TRANSAZIONE Nella realtà concreta, però, anche transazioni con elevata specificità delle risorse potrebbero, per esempio, non essere internalizzate, se il contesto istituzionale limitasse l’opportunismo e rafforzasse i legami fiduciari. Questa teoria di Williamson, lascia irrisolti due problemi sotto il punto di vista istituzionale: Da un lato, trascura l’influenza dei fattori culturali e politici, e delle reti sociali, per le origini dei modelli di organizzazione economica che si affermano nei vari contesti; Dall’altro, tende a sottovalutare la persistenza di assetti organizzativi anche meno efficienti, che possono ugualmente riprodursi proprio per i legami con il contesto istituzionale. È su entrambi questi aspetti, collegati alla considerazione di Williamson dei fattori umani come propensioni psicologiche date, che si sviluppa la critica della sociologia economica. LA NUOVA SOCIOLOGIA ECONOMICA Nella nuova sociologia economica confluiscono approcci diversi, tra i quali, in particolare, quello centrato sulle reti sociali e quello che si può definire più specificamente come neoistituzionalismo sociologico. Questi due diversi filoni sono, insieme, uniti e distinti dal neoistituzionalismo economico. Entrambi, infatti, fanno riferimento a due aspetti tra loro collegati: la teoria dell’azione e le conseguenze che ne discendono per la spiegazione della varietà delle forme di organizzazione economica. TEORIA DELL’AZIONE: tipica della sociologia economica, vede l’azione come socialmente orientata (al contrario dell’economia istituzionale che vede come prevalente, come motivazioni all’azione, l’atomismo e l’utilitarismo). La nuova sociologia economica prende le distanze anche da una visione in cui il comportamento dei soggetti è fortemente condizionato dalla cultura e dalle norme sociali; L’ANALISI DEI COSTI DI TRANSAZIONE Nonostante queste differenze, entrambe le posizioni condividono la critica all’economia istituzionale per quel che riguarda le ORIGINI DELLE VARIE FORME DI ORGANIZZAZIONE ECONOMICA. Queste ultime non appaiono, infatti, riducibili alla ricerca razionale di soluzioni efficienti per minimizzare i costi di transazione, ma risentono del radicamento sociale dell’azione economica. Questo vuol dire: Per i sostenitori dell’approccio strutturale, che non è possibile comprendere l’organizzazione economica senza collegarla all’influenza autonoma esercitata dalle reti in cui i soggetti sono inseriti; Per i neo–istituzionalisti che bisogna fare invece riferimento all’embeddedness (v. Polaniy) cognitiva e normativa dell’azione, e quindi al ruolo autonomo della cultura. L’APPROCCIO STRUTTURALE E LE RETI SOCIALI Per gli autori riconducibili all’approccio strutturale l’azione è sempre socialmente orientata e non può essere spiegata soltanto sulla base di motivazioni individuali. Si assume cioè che l’azione sia fondamentalmente influenzata dalla collocazione dei singoli soggetti nelle reti di relazioni sociali in cui sono coinvolti. Reti stabili di relazioni sociali costituiscono appunto delle strutture che è necessario ricostruire per valutarne gli effetti sul comportamento economico. Tra i diversi autori riconducibili a questo filone, vale la pena di soffermarsi su MARK GRANOVETTER (scuola strutturalista) L’APPROCCIO STRUTTURALE E LE RETI SOCIALI Granovetter non trova soddisfacenti, né la teoria di Williamson, sul peso dell’opportunismo, né quello che le diverse teorie ritengano essere il modo in cui esso può essere tenuto sotto controllo. Per l’autore, è, infatti, l’inserimento dei soggetti in stabili reti di relazioni personali che permette di diffondere le informazioni e di tenere sotto controllo il comportamento, generando fiducia e isolando rapidamente coloro che non la meritano. Per gli strutturalisti, quindi, le istituzioni non nascono come soluzioni che emergono automaticamente per far fronte a determinati problemi, ma sono socialmente costruite, nel senso che riflettono i condizionamenti derivanti dall’esistenza e dai caratteri delle reti di relazioni sulle scelte dei soggetti. Attraverso il controllo di istituzioni efficienti, che hanno appunto lo scopo di minimizzare i costi di transazione o per la presenza diffusa di una «moralità generalizzata», cioè di norme di comportamento che vengono internalizzate dai soggetti. L’APPROCCIO STRUTTURALE E LE RETI SOCIALI Secondo Granovetter, Williamson sopravvaluta le capacità della gerarchia e dell’impresa di gestire transazioni complesse, e sottovaluta invece quelle del mercato. In realtà, transazioni complesse e potenzialmente rischiose possono essere condotte attraverso il mercato (se esistono reti di relazioni fiduciarie tra le imprese coinvolte che abbassano i costi di transazione) e, all’opposto, transazioni semplici che si svolgono in mercati concorrenziali tendono ad assumere spesso un carattere stabile e ripetuto perché si radicano in reti di relazioni personali tra fornitori e clienti. Non è detto poi che la gerarchia interna sia sempre efficace (specie se mancano quelle relazioni sociali che generano fiducia e un clima di cooperazione all’interno dell’impresa). Il ricorso al mercato, alla gerarchia o a forme intermedie sarà dunque autonomamente influenzato dall’esistenza e dai caratteri delle reti sociali; Il rilievo dei reticoli sociali consente inoltre di spiegare la persistenza di soluzioni meno efficienti (che non dovrebbero esistere per la spiegazione funzionalista), che riescono, almeno in parte, a riprodursi nel tempo proprio perché sostenute da reti sociali consolidate. IL CAPITALE SOCIALE L’approccio strutturale sottolinea dunque l’influenza delle reti sociali sul comportamento economico in ambiti diversi: dalle dimensioni delle imprese ai rapporti tra imprese, dal mercato del lavoro a quello dei beni e dei servizi. In alcuni casi le informazioni e la fiducia che circolano attraverso i rapporti personali possono limitare l’opportunismo e facilitare la cooperazione tra i soggetti nei mercati. Le reti possono però anche essere uno strumento che aggira o elude la concorrenza, e quindi può ridurre l’efficienza attraverso forme di collusione, più o meno legali, tra i soggetti. Quest’apertura delle reti sociali a esiti diversi sul piano delle attività economiche è ben esemplificata anche dal concetto di «CAPITALE SOCIALE». IL CAPITALE SOCIALE Il capitale sociale creatosi per l’esistenza di reti di relazioni sociali, ha quindi conseguenze positive per lo sviluppo economico, anche se non è possibile definire a priori i suoi effetti del capitale sociale. Solo un’analisi sociale molto dettagliata e storicamente orientata può aiutare a chiarire come variabili di tipo culturale, politico e economico, interagendo tra loro, non solo favoriscono o ostacolano il capitale sociale, ma condizionano le conseguenze che il suo impiego può avere per lo sviluppo locale. IL CAPITALE SOCIALE Alla luce di queste considerazioni, è quindi opportuna una definizione di capitale sociale che sia sufficientemente aperta rispetto alle sue possibili conseguenze sul piano economico: Il CAPITALE SOCIALE si può allora considerare come l’insieme delle relazioni sociali di cui un soggetto individuale (per esempio un imprenditore o un lavoratore) o un soggetto collettivo (privato o pubblico) dispone in un determinato momento. IL CAPITALE SOCIALE Attraverso il capitale di relazioni si rendono disponibili risorse cognitive, come le INFORMAZIONI, o normative, come la FIDUCIA, che permettono agli attori di realizzare obiettivi che non sarebbero altrimenti raggiungibili, o lo sarebbero a costi molto più alti. Spostandosi dal livello individuale a quello aggregato, si potrà poi dire che un determinato contesto territoriale risulta più o meno ricco di capitale sociale a seconda che i soggetti individuali o collettivi che vi risiedono siano coinvolti in reti di relazioni più o meno diffuse. IL CAPITALE SOCIALE Il capitale sociale ha le caratteristiche di un bene collettivo: mentre il capitale finanziario e quello umano (conoscenze e abilità acquisite) sono appropriabili individualmente dai singoli soggetti (che sono incentivati ad investirvi risorse per averne successivi vantaggi, il capitale sociale appartiene all’insieme dei soggetti coinvolti nelle reti di relazioni; non è quindi divisibile, e i suoi vantaggi non sono appropriabili individualmente, ma vanno a tutti coloro che partecipano alla rete. Ma proprio per il fatto di essere un bene collettivo, i singoli attori hanno un minor incentivo a contribuire alla sua produzione (e questa caratteristica spiega perché la maggior parte delle forme di capitale sociale sono create o distrutte come sottoprodotto di altre attività). IL CAPITALE SOCIALE Naturalmente, ciò non esclude che ci possano essere sforzi consapevoli per creare reti produttive di capitale sociale per fini economici: ne sono un esempio la formazione le relazioni, informali o con accordi formalizzati, che nascono tra imprese, per far fronte a transazioni complesse (anche se, per lo sviluppo economico, è la disponibilità complessiva di capitale sociale in una particolare area ad essere rilevante). Si può comunque affermare che un’ampia dotazione di capitale sociale a livello aggregato tende ad essere in genere il sottoprodotto di relazioni sociali extra–economiche presenti in un territorio. IL CAPITALE SOCIALE Altre ricerche identificano il capitale sociale con una particolare cultura che favorisce la cooperazione, evidenziandone il suo carattere path-dependent, cioè il suo radicamento nella storia precedente di un territorio. Questa prospettiva comporta però due tipi di rischi. 1. Quello di scivolare in una spiegazione culturalista piuttosto generica delle origini del fenomeno, che trascura il ruolo, nei processi di sviluppo dei fattori politici (clientelismo, capitalismo politico dipendente dal controllo delle risorse pubbliche, o addirittura forme di capitale sociale di tipo mafioso); 2. Quello di non poter distinguere bene tra effetti positivi del capitale sociale per lo sviluppo locale e altri che hanno invece conseguenze negative. Le reti sono infatti anche uno strumento attraverso il quale informazioni e fiducia circolanti tra i soggetti coinvolti aumentano il loro potere rispetto ad altri attori esterni (es. collusione di reti di imprese che permettono loro di eludere la concorrenza, funzionando a spese dei consumatori o di altre imprese, o, ancora, reti che coinvolgono soggetti criminali – anche la mafia ha un suo capitale sociale) IL CAPITALE SOCIALE Per evitare questi rischi occorre ricercare non solo l’esistenza di reti di relazioni sociali legate a strutture familiari, parentali, comunitarie, etniche, religiose, ereditate dalla storia precedente, ma anche il modo in cui la politica ne favorisce la trasformazione in risorse positive – o negative – per lo sviluppo locale (in questo senso, il concetto di capitale sociale assume una prospettiva soprattutto ). In questo senso: Se le reti trovano un contesto politico modernizzato ed autonomo da interessi particolaristici, in grado di fornire beni collettivi essenziali per lo sviluppo economico (infrastrutture, servizi, sicurezza, certezza delle garanzie giuridiche, ecc,), le reti sociali possono funzionare come una risorsa per lo sviluppo locale e contribuiscono all’allargamento del mercato, favorendone il funzionamento fornendo informazioni e fiducia; Se ciò non avviene (ovvero se la politica non è modernizzata e relativamente autonoma), si formeranno reti che si sviluppano lungo una direttrice di quello che Weber chiamava capitalismo politico, cioè di avventura, di rapina, di uso predatorio delle risorse politiche. IL CAPITALE SOCIALE 1. 2. Una seconda condizione importante per la valorizzazione delle reti sociali per lo sviluppo locale è il mercato. La pressione della concorrenza di mercato limita infatti le possibili conseguenze negative del particolarismo, muovendosi su due fronti: Sanzionare comportamenti poco efficienti spingendo a porvi riparo; Mandando segnali che sollecitano ad aggiornare e ridefinire il capitale sociale (ad es., determinate relazioni a base parentale, inizialmente utili nella fase di avvio dello sviluppo, possono diventare un freno e richiedono di essere integrate da reti basate più sulla cooperazione tra soggetti collettivi quali organizzazioni di interessi o istituzioni pubbliche). Il fatto che questi segnali facciano emergere nuove soluzioni dipende dall’autonomia degli attori locali nell’interpretare la situazione e nel porvi rimedio; se la reazione non è adeguata o non si manifesta, possono emergere fenomeni di chiusura, di localismo regressivo e di blocco dello sviluppo (lock in). IL CAPITALE SOCIALE Il rapporto tra capitale sociale e sviluppo locale è dunque complesso e mutevole nel tempo, e non è riducibile al solo impatto positivo di una cultura favorevole alla cooperazione: ci deve, infatti, essere il ruolo cruciale di una politica relativamente modernizzata e autonoma, che medi il rapporto tra reti e mercato. IL NEOISTITUZIONALISMO SOCIOLOGICO Nell’approccio strutturale la collocazione nella rete di relazioni sociali prevale sulle motivazioni dei soggetti. Nell’ambito della nuova sociologia economica, la posizione dei neoistituzionalisti, si differenzia da quella degli strutturalisti perché essi vogliono invece mettere in evidenza il ruolo autonomo dei fattori culturali. Infatti, mentre per gli strutturalisti le reti determinano risorse e vincoli che condizionano il perseguimento razionale degli interessi da parte dei soggetti, per i neoistituzionalisti i fattori culturali contribuiscono a definire gli interessi stessi e le modalità attraverso le quali essi vengono perseguiti. IL NEOISTITUZIONALISMO SOCIOLOGICO La teoria dell’azione dei neoistituzionalisti è più ampia di quella degli strutturalisti e ha un carattere multidimensionale. Dà maggiore rilievo alle regole «costitutive» rispetto a quelle «regolative», mettendo in evidenza il ruolo delle regole routinarie, largamente date per scontate, nell’orientare il comportamento. Dalla teoria dell’azione del neoistituzionalismo per la spiegazione delle diverse forme di organizzazione economica ne discende che, di fronte alla carenza di informazioni e ai rischi delle transazioni, non è possibile seguire una rigorosa scelta razionale delle soluzioni più efficienti. In questo caso i soggetti (individuali o collettivi) si affidano non solo alle reti, ma anche a soluzioni che sono considerate più appropriate e legittime nella società in cui vivono. Ciò permette anche di spiegare l’inerzia degli assetti organizzativi e la loro persistenza anche quando perdono efficienza dal punto di vista economico. IL NEOISTITUZIONALISMO SOCIOLOGICO Una contributo sul piano applicativo dell’approccio dei neoistituzionalisti è costituito dall’«ISOMORFISMO» (= insieme degli attori rilevanti in un certo campo di attività), che cerca di spiegare l’omogeneità dei modelli all’interno di un determinato «campo organizzativo». La considerazione di questo complesso di unità, anche non direttamente interagenti tra loro, è importante per comprendere come si formino standard di comportamento ritenuti appropriati. Con riferimento all’economia, per esempio, esso si estende non solo alle imprese che competono in un determinato settore, ma anche a quelle che forniscono servizi, alle strutture pubbliche, alle organizzazioni sindacali e di categoria, ecc. IL NEOISTITUZIONALISMO SOCIOLOGICO La forma più ovvia di isomorfismo istituzionale è quella «COERCITIVA». La regolamentazione pubblica comporta vincoli che spesso portano ad assumere modelli simili; ma anche le relazioni industriali possono agire in questa direzione (vedi l’influenza coercitiva esercitata da organizzazioni forti – ad es. le imprese committenti – nei riguardi di altre da esse dipendenti – i subfornitori); L’«ISOMORFISMO NORMATIVO» è invece legato al ruolo delle università e delle scuole specialistiche nella formazione dei manager, o anche alle agenzie di consulenza. Questi ultimi diffondono idee e standard professionali di comportamento che assumono un’elevata legittimità e vengono quindi più facilmente seguiti dalle imprese; L’«ISOMORFISMO MIMETICO», è invece quello presente soprattutto in settori nei quali le unità organizzative sono piccole e dispongono di risorse limitate per valutare le soluzioni più efficienti. In questo caso, per ridurre l’incertezza, vengono seguiti i modelli che appaiono più appropriati (e quindi più legittimati nel campo organizzativo). IL NEOISTITUZIONALISMO SOCIOLOGICO MODELLI A CONFRONTO Come si vede, dunque, i neoistituzionalisti si concentrano sul ruolo dei fattori culturali e politici con una visione più ampia di quella degli strutturalisti, che si concentrano prevalentemente sulle reti personali. Anche se, nelle concrete esperienze di ricerca, queste differenze nell’ambito della sociologia economica si attenuano, si ripropone anche in questi studi a livello micro la tradizionale divergenza tra economia e sociologia economica che ha una lunga storia, e che già conosciamo. IL NEOISTITUZIONALISMO SOCIOLOGICO Così Williamson, consapevole delle complicazioni che il fattore umano (come socialmente condizionato) può determinare nel calcolo dei costi di transazione, aveva successivamente sottolineato l’influenza, sulle attitudini transazionali, del sistema socio-politico in cui gli scambi hanno luogo, ma non aveva approfondito l’argomento per concentrarsi sull’economia dei costi di transazione e costruire un modello analitico generalizzabile. Gli elementi relativi alla complessità-incertezza delle transazioni non sono però sufficienti a spiegare la varietà concreta delle forme organizzative. Per questi motivi, la NUOVA SOCIOLOGIA ECONOMICA è più orientata alla comparazione e alla messa a punto di modelli locali che possono rendere meglio conto della variabilità dei contesti. Naturalmente, anche per l’approccio della sociologia economica ci sono dei possibili svantaggi, primo fra tutti quello di andare troppo verso lo storicismo». Un secondo pericolo che si manifesta non di rado è quello di confondere le argomentazioni teoriche usate per sottolineare il radicamento sociale dell’azione economica con la spiegazione empirica dei fenomeni CULTURA E CONSUMI I nuovi sviluppi della sociologia economica a livello micro, sia nell’approccio strutturalista che in quello neoistituzionalista, sono rimasti concentrati sul versante delle attività produttive di beni e servizi. Non ha invece ricevuto particolare attenzione il tema dei consumi, nonostante il suo rilievo nella tradizione della sociologia economica. Si tratta di un limite rilevante, soprattutto se si tiene conto del ruolo che la trasformazione dei modelli di consumo sembra avere nel passaggio a forme di organizzazione produttiva flessibile, e più in generale nelle difficoltà incontrate dagli assetti sociali keynesiani. Vi è però stato, negli ultimi decenni, un filone di ricerca che ha messo soprattutto in luce l’influenza dei fattori culturali sui comportamenti di consumo. CULTURA E CONSUMI 1. 2. La tradizione della sociologia economica si differenzia, infatti, dall’approccio economico di tipo neoclassico per il fatto di sottolineare l’influenza di fattori socioculturali nella formazione delle preferenze, e nelle modalità con le quali i soggetti cercano di soddisfarle. Particolare rilievo è dato al valore simbolico dei beni, che sono scelti e consumati per il significato che essi assumono in relazione ad altri membri della società con i quali si interagisce. Il consumo è visto come una componente essenziale dei processi di identificazione con alcuni gruppi sociali, con i quali si condivide un determinato stile di vita, e al contempo di differenziazione da altri gruppi. Rispetto a questa tradizione, gli sviluppi più recenti si caratterizzano in una duplice direzione: Da un lato, prendono almeno in parte le distanze dal modello che lega il consumo alla competizione per lo status sociale; Dall’altro, si contrappongono alla subordinazione passiva dei consumatori alle scelte imposte dalle imprese e sostenute dai meccanismi della pubblicità e dei mezzi di comunicazione di massa. CULTURA E CONSUMI Per mettere in luce queste tendenze può essere utile distinguere tra un filone «neo–differenziazionista» e un altro più legato al ruolo della cultura nei fenomeni di consumo. 1 - l’APPROCCIO «NEODIFFERENZIAZIONISTA sottolinea il ruolo della competizione per lo status nei comportamenti di consumo [Baudrillard], soprattutto nelle società contemporanee, per il venir meno delle forme tradizionali di identificazione (legate a criteri ascrittivi, familiari, di ceto, ecc.). Dall’altra parte, i modelli di consumo sono sempre più mediati dai mezzi di comunicazione di massa, che sono costantemente impegnati in un’attività di manipolazione di tali oggetti per assegnare loro un valore simbolico di modello culturale appartenendo al quale i soggetti possono differenziarsi. I consumatori hanno l’illusione di scegliere liberamente tra questi modelli, ma in realtà sono fortemente condizionati dal sistema dei media che li impone. . CULTURA E CONSUMI Altro approccio è quello di Bourdieu, per il quale i comportamenti di consumo rispondono a una logica di competizione per lo status che spinge a identificarsi con gli stili di vita e i gusti di alcuni gruppi e a differenziarsi dagli altri, indipendentemente dall’azione dei media: i condizionamenti sono esercitati sugli individui dalla loro posizione nella stratificazione sociale. È dunque l’appartenenza a un medesimo gruppo sociale che favorisce l’insieme di disposizioni e orientamenti che si manifestano nello stile di vita e nei consumi come strumento essenziale di differenziazione sociale e di status. In entrambi gli approcci, quindi, i singoli soggetti sembrano però non disporre di margini di autonomia nella sfera dei consumi: nel primo caso sono i media a definire gli standard per la competizione di status; nell’altro sono i gruppi sociali di appartenenza (si potrebbe anche dire, con Weber, i ceti). CULTURA E CONSUMI 2- Un altro approccio, più vicino al NEOISTITUZIONALISMO, collega i consumi più al ruolo autonomo dei fattori culturali. In quest’approccio viene dato meno peso alla competizione per lo status, mentre i soggetti hanno un ruolo più attivo. In questa prospettiva, gli oggetti che sono scelti servono per costruire l’identità delle persone, per dare un senso alla loro esperienza e per comunicare con gli altri, non necessariamente per competere. Il consumatore ha quindi dei margini di autonomia rispetto ai condizionamenti del mercato e della moda. Un aspetto, quest’ultimo, particolarmente sottolineato da Miller, per il quale i consumatori possono mettere in atto «strategie» attive, basate su esperienze che permettono di contrapporsi ai condizionamenti della cultura dei consumi di massa e di contrastare la mercificazione dei rapporti sociali. CULTURA E CONSUMI In conclusione, quindi, possiamo notare come anche nella sfera del consumo si siano fatti strada negli ultimi anni degli orientamenti che non solo sottolineano il radicamento strutturale delle scelte (Bourdieu), ma insistono da diverse prospettive ed esperienze disciplinari nel mettere in evidenza il ruolo autonomo dei fattori culturali. Questi studi tendono anche a limitare la prevalenza che il modello della competizione per lo status, ereditato dalla tradizione dei classici, ha avuto in passato nella sociologia dei consumi. CULTURA E CONSUMI Le tendenze più recenti di sociologia del consumo attribuiscono un ruolo più attivo ai consumatori nel definire autonomamente le proprie scelte, e nel contrastare gli stimoli e i condizionamenti provenienti dal mercato, anche attraverso i media. Tale enfasi sembra congruente con quei processi di differenziazione qualitativa e quantitativa della domanda che sono stati sottolineati da coloro che hanno studiato l’emergenza di nuovi modelli di organizzazione flessibile proprio come risposta a questo fenomeno.