...Poiché dall'antico nasce il nuovo...
La presentazione di Gesù al tempio di Gerusalemme (Lc 2:25-32)
1. Luca interprete delle tradizioni ebraiche
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Come già abbiamo avuto modo di vedere, vi sono episodi relativi alla vita di Gesù
che vengono menzionati da uno solo dei quattro vangeli: è il caso del brano su cui
rifletteremo insieme quest'oggi, che fa parte di quello che tradizionalmente viene
chiamato materiale lucano, ovverosia specifico dell'evangelo secondo Luca, che è
l'unico a riportare l'episodio che leggeremo e studieremo.
I cosiddetti “racconti dell'infanzia” di Gesù, come abbiamo visto, figurano soltanto
nei vangeli di Luca e di Matteo, i quali però, a loro volta, danno di tale infanzia un
resoconto distinto. Solitamente gli esegeti segnalano il fatto che la prospettiva entro
cui li inquadra Matteo è più legata all'ebraismo di quanto non lo sia quella lucana.
Oggi proveremo a sfatare questo diffuso convincimento, secondo cui l'evangelo
lucano si presenta come più “slegato” dalla tradizione ebraica: per quanto sia
indubitabilmente vero, infatti, che in Luca si trovino aperture considerevoli al
mondo “gentile” (di lingua e cultura greco-ellenistica), dovremmo abituarci a
considerare lo stesso ebraismo alla stregua di ogni altro fenomeno religioso e
culturale, ovverosia come un universo complesso, articolato e plurale. Dovremmo
incominciare a parlare più correttamente di ebraismi anziché di “ebraismo”.
All'interno di una di queste possibili interpretazioni della fede e della cultura
ebraiche possiamo provare ad intendere il racconto lucano della presentazione di
Gesù al tempio di Gerusalemme. Incominciamo, come sempre, dalla lettura del
brano in questione.
Traduzione di Lc 2:25-32
25 Ed ecco: vi era un uomo, in Gerusalemme, chiamato Simeone. Quest’uomo era giusto e
pio e attendeva la consolazione d’Israele; e lo Spirito Santo era su di lui.
26 A costui era stato rivelato dallo Spirito Santo che non avrebbe visto la morte prima di
vedere l'unto del Signore.
27a E andò per mezzo dello Spirito nel Tempio.
27b E mentre i genitori vi introducevano il bambino Gesù, per fare riguardo a lui secondo la
consuetudine della legge,
28 egli lo prese fra le braccia, benedisse Dio e disse:
29 “Ora lascia che il Tuo servo vada in pace, Signore, secondo la Tua Parola:
30 perché hanno visto gli occhi miei la Tua salvezza
31 che hai preparato dinanzi a tutti i popoli
32a Luce di rivelazione per le genti
32b e gloria del popolo Tuo Israele”.
2. I “veri protagonisti”
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Cerchiamo ora di vedere come sia possibile ricavare la teologia adoperata da Luca a
partire dall'analisi del brano, dalla sua esegesi (ovverosia, dalla sua interpretazione):
ogni teologia andrebbe sempre ricavata dai testi letti e meditati, per risultare il più
possibile biblica e per testimoniare il fatto che, come abbiamo già spesso
evidenziato nel corso dei nostri studi precedenti, anche di teologie bibliche
bisognerebbe imparare a parlare al plurale.
Per farlo, vorrei partire da una domanda che, a prima vista, potrebbe apparire
insolita e suscitare perplessità: chi sono, in realtà, i “veri protagonisti” del racconto
lucano che abbiamo letto? Per provare a scorgerli, dividiamo il testo in tre sezioni:
A) vv. 25-27a: In questi primi versetti, il protagonista sembra essere assai più lo
Spirito Santo che non Simeone. Possiamo ricavare questo dato dal testo, poiché lo
Spirito è menzionato per ben tre volte in appena due versetti e mezzo (vv. 25, 26a e
27a) e, in un primo momento, viene detto che aveva rivelato qualcosa a Simeone (v.
26), poi sarà sempre questo stesso Spirito a indurre Simeone a muoversi (v. 27).
Simone è sì il “soggetto” che agisce concretamente nel nostro passo, però lo fa
“spinto da”, in maniera ricettiva: il nome Simeone infatti, in lingua ebraica, significa
“Colui che ascolta” (dal verbo ebraico ‫ שםע‬- shamah -, “ascoltare”). Questo nome,
in maniera assai significativa, lo troviamo per la prima volta nella storia relativa alla
genealogia di Giacobbe/Israele (cfr. Genesi 29:33), con la quale lo stesso Gesù
viene visto in continuità. Di Simeone viene detto che “era giusto e pio” (v. 25): e lo
era proprio in virtù del fatto che ascoltava.
B) vv. 28-29: Anche qui, l'autentico soggetto di questi versetti è assai più Dio che
non Simeone, poiché di Dio sono la promessa e la Parola che Simeone vede
realizzarsi. Un Dio “più grande del tempio”, il quale sceglie quale testimone di
quest'evento centrale per la fede d'Israele “un uomo giusto”, non un sacerdote.
c) vv. 30-32: In quest'ultima sezione, infine, vero protagonista è “il cristo”
(traduzione greca, come ormai sappiamo, dell'ebraico “messia”), “l'unto del
Signore”, che rappresenta proprio la realizzazione visibile della promessa di
salvezza fatta da Dio (ed il nome “Gesù” - “Yoshuah”, in lingua ebraica - significa
proprio il Signore salva/ha salvato)
3. Siamo cristiani solo se siamo ebrei
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Vero e proprio centro tematico del nostro brano di oggi è la presentazione di Gesù
al tempio di Gerusalemme “secondo la consuetudine della legge” (V. 2:27b): Gesù
cresce secondo la tradizione ebraica della quale è seguace, interprete ed innovatore.
Questo aspetto viene sottolineato da Luca, per il quale, infatti, Gesù:
1) E' il messia d'Israele, secondo quanto il nostro passo afferma sin dall'inizio (v.
25) e conferma in chiusura (v. 32b)
2) E' il messia annunciato dai profeti d'Israele: tutte le espressioni riferite a lui sono
infatti riprese letteralmente dal “secondo Isaia” (Isaia, capitoli 40-55), senza
conoscere il quale non possiamo comprendere la figura di Gesù nel suo significato
più pieno:
a) Consolazione d'Israele (Lc 2:25 e Is 40:1);
b) Luce di rivelazione per le genti (Lc 2:32a / Is 42:6 e 49:6);
c) Gloria del Tuo popolo Israele (Lc 2:32b e Is 46:13)
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Secondo questa rilettura delle tradizioni ebraiche alla luce della quale tutti e quattro
i vangeli vanno letti, accostati e compresi, Gesù rappresenta il compimento e
l'inveramento delle promesse che Dio aveva fatte al Suo popolo: “Colui che
ascolta”, infatti, non è soltanto Simeone, ma anche, e prima ancora, lo stesso Dio, il
quale manda al suo popolo Israele il messia da esso atteso e sperato.
Con queste premesse, pertanto, l'evento cristologico come evento/avvento
messianico va visto in continuità, non dimenticando mai che è la tradizione
cosiddetta cristiana a dipendere direttamente da quella ebraica, rispetto alla quale
essa rappresenta soltanto una delle sue possibili interpretazioni, uno dei suoi
sviluppi storici, esegetici e teologici.
La salvezza, infatti, nel nostro brano di oggi, è sì promessa “a tutte le genti” (Lc
2:31 e 2:32a) ma sempre e comunque attraverso Israele (Lc 2:32b): per cui,
l'alleanza ed il patto che, secondo le Scritture ebraiche, Dio aveva stretto con Israele,
Suo popolo, non decadono, ma, semplicemente, si confermano e si rinnovano.
4. Spunti per l'attualità
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In tempi in cui si fa un gran parlare di ecumenismo (peraltro inteso in maniera
sempre più divergente dal protestantesimo storico, da un lato, e dalle chiese cattolica
ed ortodossa dall'altro) e lo si mette poco in pratica, si mette ancora troppo poco in
luce la nostra comune radice ed il nostro debito verso il popolo d'Israele e la fede
ebraica. Dovrebbe invece essere nel nostro stesso interesse e per amore della verità
(che si sa, piace a pochi ascoltarla, meno ancora agli ortodossi di ogni confessione
cristiana) recuperare questa dimensione, poiché soltanto approfondendo la nostra
conoscenza delle tradizioni e della cultura ebraiche possiamo intendere più
autenticamente il significato della vita, della predicazione e della persona di Gesù,
ebreo di Galilea, figlio dei profeti d'Israele e della promessa di Dio, parabola del Dio
vivente d'Israele al quale ogni sua parola ed ogni suo atto hanno sempre inteso
rimandare e dirigere gli sguardi ed i cuori.