Con il termine Bach-Renaissance si indica il processo che nel XIX secolo portò non soltanto alla riscoperta delle opere di Johann Sebastian Bach e della sua figura di compositore, ma ad una celebrazione che ne fece il protagonista assoluto della sua epoca, collocandolo nell’Olimpo dei geni immortali la cui immagine è rimasta intatta fino ad oggi. Questa celebrazione del genio ha indotto a fare delle opere di Bach un monumento che ha messo in ombra la gran parte dei compositori del suo tempo, soprattutto tedeschi. Le opere per tastiera di Bach, ad esempio, sono diventate (e tutt’ora lo sono) studio obbligato per gli studenti pianisti – e non è sbagliato che sia così, a mio avviso – i quali sovente le affrontano come uno scoglio su cui inerpicarsi, senza però giungere ad una loro vera comprensione e quindi senza gioirne veramente. Nella selezione dei “geni immortali” che costituiscono i pilastri della cultura musicale occidentale, su cui poggia la formazione di ogni studente di conservatorio (strumentista o cantante), figurano i compositori dell’Ottocento romantico, da Beethoven in poi, e i massimi esponenti del Novecento. Andando indietro nella storia della musica, ovvero verso il Classicismo e il tardo Settecento, Mozart occupa il posto più alto seguito da Haydn. Seguitando a ritroso, la popolazione dei geni immortali si dirada sempre più, e vi troviamo Johann Sebastian Bach, solitario astro della prima metà del secolo XVIII, dietro il quale fanno capolino Händel e qualche pelo della parrucca di Domenico Scarlatti. Il resto è confinato nei capitoli delle storie della musica. Ecco perché, semplificando un discorso troppo ampio che la redazione di una nota di sala per un concerto non consente di affrontare se non lacunosamente, molti compositori della massima importanza, come Georg Philipp Telemann, o come Gian Battista Sammatini, Johann Adolf Hasse, Carl Philipp Emanuel Bach e tantissimi altri che hanno spinto la storia della musica verso direzioni rivoluzionarie, sono menzionati nei corsi di storia della musica senza che, ancora oggi, siano stati collocati sul piedistallo che la figura del grande Bach occupa – intendiamoci, a buon diritto - e senza diventare repertorio basilare di formazione accademica. Se la Bach-Renaissance è stato dunque un fenomeno iniziato nel 1802, con la pubblicazione della biografia scritta da Johann Nikolaus Forkel e protratto fino alla contemporaneità, una TelemannRenaissance ha avuto luogo solo nella seconda metà del Novecento e in fondo solo parzialmente, in quanto avvenuta all’interno del più ampio e rivoluzionario momento di riscoperta di ciò che generalmente si indica con l’inappropriata e generica espressione di “musica antica” (Early Music Renaissance), ovvero il grande repertorio antico e l’utilizzo degli strumenti storici. Ed è un paradosso che spinge chi scrive a braccio queste poche note al nostro concerto di musiche di Telemann a menzionare ancora una volta Bach prima di parlare dello stesso Telemann! Noi musicisti, lontani dalla cultura e dalla formazione accademica dei musicologi, siamo portati a trarre le nostre considerazioni, oltre che dallo studio e dalle esperienze culturali che abbiamo accumulato negli anni della nostra vita artistica, dalla stessa musica che suoniamo, la quale ci suggerisce i riferimenti stilistici, i rimandi ad altre opere, i collegamenti di linguaggi comuni a musiche apparentemente lontane, le affinità evidenti con le altre arti “sorelle”. Nella musica di Telemann, che è indubitabilmente meravigliosa, noi siamo spesso portati a ritrovare l’eco di composizioni di Johann Sebastian Bach ed esclamiamo ammirati: “che meraviglia, ma questo pezzo sembra Bach!”. Eppure, ad un esame più approfondito, noi scopriamo che la grande “star” dell’universo musicale tedesco del loro tempo fu Telemann e non Bach. Era la musica di Telemann che circolava, ammirata e suonata, per tutta l’Europa musicale; era di Telemann la musica indicata a modello di perfezione stilistica ed espressiva da Johann Joachim Quantz nel suo importantissimo trattato. Fu Telemann, che aveva la titolarità di Maestro ad Amburgo, Eisenach e Bayreuth allo stesso tempo, ad essere eletto all’unanimità dal consiglio municipale di Lipsia (città in cui Telemann aveva lavorato e fondato, già molti anni prima, il Collegium Musicum) come Thomaskantor nella chiesa di San Tommaso l'11 agosto 1722, dopo l’esame della sua candidatura. Telemann ricevette l'investitura formale il giorno 13 in municipio ma il giorno dopo ritornò per un mese ad Amburgo, lasciando nell'incertezza le autorità di Lipsia. Il 25 settembre ritornò a Lipsia e vi restò due settimane, con lo scopo però di chiedere alle autorità di Amburgo, con una specie di ricatto, di aumentargli lo stipendio. Se questo non fosse avvenuto lui avrebbe definitivamente accettato l’incarico a Lispia. L'espediente funzionò e Telemann ottenne l'aumento richiesto. Ritornò ad Amburgo rendendo nuovamente vacante la carica a Lipsia che, dopo la forzata rinunzia da parte del nuovo prescelto, Johann Christoph Graupner, venne finalmente affidata a Johann Sebastian Bach; decisione questa che offrì all’umanità il dono incommensurabile di tutte le opere che Bach ha composto e che ci ha lasciato in qualità di Thomaskantor della chiesa di san Tommaso, nonché il vasto patrimonio di musiche che Telemann poté comporre nei quarantasei anni di attività musicale ad Amburgo. Questo aneddoto, determinante nelle biografie e di Bach e di Telemann e segno della “modernità” nella gestione della professione di artista di grido ai quei tempi, lascia ben intendere la diversa posizione professionale dei due musicisti e il prestigio di cui Telemann godeva. Ma non si tratta solo di prestigio professionale: la personalità artistica di Telemann era indiscussa poiché il suo stile e la sua inventiva erano e restano ineguagliabili. Telemann incarna il Settecento dei paesaggisti e quel gusto già sentimentale che giunge a vertici di espressività anche nelle composizioni cameristiche più semplici. Nella sua musica il gusto italiano e quello francese (soggiornò a Parigi nel 1707, dopo aver già studiato e assimilato quello stile attraverso lo studio delle opere di Jean Baptiste Lully) si uniscono perfettamente in uno stile che a più riprese anticipa quello galante. La sua inventiva melodica è stupefacente; il gusto con cui egli sfrutta le caratteristiche idiomatiche degli strumenti più disparati è unico. Dovremmo quindi azzardare un commento diverso, e stupirci cioè di quanto Telemann risuoni in molte composizioni di Johann Sebastian Bach. In queste belle pagine cameristiche è infatti facile ravvisare accenti tipici del linguaggio bachiano: quello delle Passioni e nelle cantate soprattutto. Ma il punto di vista nostro può adesso cambiare se immaginiamo come Bach, in quel meraviglioso processo creativo di assimilazione e di elaborazione delle diverse esperienze e dei diversi stili che fa di ogni compositore una sintesi personalissima, abbia mutuato anche lo stile del collega di Amburgo, facendolo proprio e rendendolo riconoscibile nelle sue opere. Le composizioni che abbiamo scelto di proporvi in questo secondo concerto di Barocco in san Rocco provengono da due diverse fonti: la prima è un importante corpus di manoscritti conservati presso la Universitäts– und Landesbobliothek di Darmstadt che comprende molte composizioni cameristiche e orchestrali di Telemann, la seconda è la raccolta a stampa “Essercizi Musici”, realizzata dallo stesso compositore tra il 1739 e il 1740. E’ a mio avviso importante che i concerti vengano presentati offrendo delle semplici informazioni, sotto forma di note di sala, che noi interpreti riteniamo significative e che nella loro brevità possano essere per il nostro pubblico la chiave per comprendere alcuni aspetti delle musiche che eseguiamo e per conoscerne i compositori. Mi rendo conto tuttavia dell’incompletezza di queste informazioni che trattando di biografie e di generi musicali (entrambi sono argomenti vasti) devono trovare nella sintesi la loro virtù. Se dunque la scelta di restringere il campo a pochi aspetti particolari dimostrano la natura lacunosa di queste note, spero nondimeno che possano esprimere il nostro punto di vista di musicisti e le suggestioni provate da chi suona, come se, in un certo senso, il pubblico potesse con queste partecipare al nostro lavoro di appassionante ricerca e di riscoperta. Roberto Gini