Marketing NBA: un modello di benchmark per il basket e lo sport italiano di Antonio Pagano 46 Ha un'esperienza consolidata nel marketing dei beni di largo consumo, nella pratica sportiva e in scienza della nutrizione. Marketing and Communication Manager del Montepaschi Viadana Rugby Club dal 2004 al 2008. Ha introdotto il marketing nel mondo del rugby italiano, rendendolo uno strumento di crescita e d'immagine. Ideatore di Performanager®, l'innovativo metodo di formazione manageriale basato sui principi e i valori del rugby, adottato con successo da molte aziende italiane e multinazionali. Diego Dominguez, leggenda del rugby, lo ha scelto per seguire da un punto di vista marketing e comunicazione importanti progetti tra cui i suoi Camp estivi. Lo sport è in crisi? Mancano i soldi? Il marketing è la cura, quando non è troppo tardi. Che lo sport sia oltre che un fenomeno sociale tra i più radicati ed estesi al mondo, anche un business colossale lo si è sempre saputo. Basti ricordare che l’indotto nei paesi più industrializzati muove qualche punto del PIL. Lo sport italiano nel suo complesso produce oggi circa il 3% del Prodotto Interno Lordo, è tra le prime dieci aziende italiane per fatturato, dà lavoro a più di un milione di persone fra professionisti e dilettanti. Che in Italia, e non solo lo sport, sia in questo momento in situazione critica e segua a ruota la crisi economica che sta attanagliando il pianeta, è anche questo facile da capirsi. Le maggiori società sportive di calcio (l’indiscusso main sport italiano) hanno fatto registrare riduzioni delle entrate notevoli con ritardi nei pagamenti degli stipendi dei giocatori in media di due o tre mesi e per lo staff fino ad un anno (dati forniti dall’Associazione Italiana Calciatori). In serie B due casi limite: quello del Treviso e dell’Avellino che sono fermi con i pagamenti degli stipendi addirittura a settembre e novembre dello scorso anno. In serie C invece il 30% dei giocatori è al minimo salariale, situazione mai fatta registrare fino ad oggi. Che la situazione sia critica anche su altri versanti sportivi come il basket è anche questo cosa risaputa da tempo. Infatti importanti realtà di casa nostra come Rieti, Fortitudo Bologna e Avellino sono in forte difficoltà mentre società storiche come Napoli e Capo D’Orlando sono addirittura basket state escluse dal campionato per problemi economici. Un caso limite nel basket femminile, dove alla Virtus Basket Viterbo (squadra retrocessa dalla A1) il responsabile marketing era Remo Bertini, un giovane ed aitante settantasettenne, che oltre questo delicato incarico ricopriva anche quello di custode del fatiscente palazzetto e di addetto alle pulizie, quando c’erano i soldi per i detersivi. Adesso i soldi non ci sono più ed è tutto chiuso, compreso il palazzetto. Quest’ultimo episodio è emblematico e senza voler fare di tutta l’erba un fascio, (ci sono infatti realtà nel basket come Siena, Roma, Milano, Virtus Bologna, ecc, che sono solide e lavorano benissimo con addirittura esempi di eccellenza come la Men Sana Siena) ci fa capire due cose: la prima è che il marketing è considerato tanto importante e strategico per le società da affibbiarlo, sulla carta, a chiunque capiti (tutto rispetto per l’arzillo vecchietto intendiamoci), la seconda ben più preoccupante è che c’è talmente tanta crisi in giro che anche al vertice manca l’essenziale per sopravvivere e continuare. Gli esempi negativi relativi al basket (ma non solo) e ai club in crisi potrebbero continuare anche in altri paesi come la Russia, l’Ucraina, la Spagna, la Lituania, la Croazia, dove c’è aria di crisi profonda. Proprio in Russia, ad esempio, dopo un boom dovuto a forti disponibilità economiche locali, il basket sta avendo un vero e proprio tracollo. L’ex Dynamo Mosca Region ha addirittura cambiato il nome in Tryumph per evitare la bancarotta, in cattive acque si ritrovano anche il Khimky e il famoso CSKA che ha dovuto congelare momentaneamente gli stipendi dei giocatori. I paperoni russi si stanno ritirando ora che hanno meno disponibilità di capitali e capiscono che non ci sono sbocchi a breve. Il problema sta proprio qui, ovvero nella mancanza di una strategia, di investimenti fatti per dare il massimo del rendimento negli anni e non operazioni “one shot” proprie alle speculazioni borsistiche piuttosto che non alla gestione di una società sportiva. E in Spagna cosa succede? Dopo il tracollo del Girona, una delle squadre più importanti, ci 47 Marketing 48 si è rimboccati le maniche organizzando il torneo (probabilmente il più prestigioso del vecchio continente) con una squadra in meno e in numero dispari. Pazienza, show must go on. Che invece in tempi di crisi in Europa e negli Stati Uniti i conti dei maggiori club sportivi -di quelli che lavora meglio dal mio punto di vista - siano positivi, è una cosa che potrebbe sorprendere. Ritenendo comunemente che lo sport sia qualcosa di voluttuario e le sponsorizzazioni una tra le prime voci aziendali da “tagliare”. A guardarci bene le cose sono un po’ più complicate e infatti i club (di qualsiasi sport) che hanno costruito una strategia, investito nell’immagine, nel marketing, nella comunicazione oltre che ovviamente sull’area sportiva vincono, vanno bene, crescono. Chi invece ha sempre “campato alla giornata”, limitando la propria sfera di operatività alla sola componente agonistica/sportiva (quella che è più immediata, più alla luce dei riflettori a breve) arranca, fa fatica, perde posizioni, non cresce. In una parola è in crisi, seguendo il trend dell’economia mondiale. “Mutatis mutandis” lo stesso discorso vale per lo sviluppo dei settori giovanili, per formare nuove leve rispetto all’acquisto di stelle o giocatori già formati all’estero. La crisi finanziaria non sta avendo un impatto negativo, come dicevamo, sul valore e sui business dei principali football club mondiali. Secondo l’ultima indagine dell’autorevole rivista americana Forbes, i “top 25” hanno un valore medio di 597 milioni di dollari, l’8% in più dello scorso anno. Questi club nella stagione 2007/08 hanno avuto guadagni medi per 42 milioni di Usd. Sono 5 i top team il cui valore è di almeno 1 miliardo di Usd. Si tratta del Manchester United (il primo della classifica stilata da Forbes con 1.87 mld), del Real Madrid (n.2 con 1.35 miliardi) dell’Arsenal (n.3 con un valore di 1.2 mld), del Bayern Monaco (al 4° posto con 1.1 mld) e del Liverpool (al 5° con 1 mld). Tra le italiane da segnalare il Milan al 6° posto (990 milioni di valore) e la Juventus al 9° (600 mln di valore). Fuori dai top 10 l’Inter di Moratti con 370 mln (14° posto) preceduta addirittura dalla Roma di Totti e Spalletti il cui valore è stimato in 381 mln di Usd. Calcio a parte e seguendo gli esempi positivi, mi ha molto colpito un’intervista a David Stern, Commissioner dal 1984 della NBA (National Basketball Association) pubblicata dal Sole 24 ore il 2 aprile a firma di Giuliano Balestreri. L’articolo parte dalla comparazione fra top basket americano e calcio italiano (Serie A) e sui differenti impatti sociali ed economici sul contesto globale. Spettacolo a parte “non ci sono davvero paragoni” soprattutto dal punto di vista economico, con l’NBA che spadroneggia su tutti i fronti. Io direi di più, la differenza sta non solo nei volumi generati, nell’appeal mediatico e di pubblico, nei trend di crescita, ma nella capacità e volontà di pianificazione strategica degli obiettivi da parte di una organizzazione che riunisce i top team americani (NBA) delineando le linee guida, valorizzando il prodotto, creando iniziative e progetti, vendendo al meglio ed essendo tutti insieme più forti. La differenza sta nel fatto che all’NBA (ma eguale discorso può essere fatto per la NFL, per l’ NHL ecc.) si fa e da tempo del Marketing, quello con la “M” maiuscola, mentre in Italia no, o quasi mai: Milan, Inter e Juventus sono felici ma inespresse eccezioni e si potrebbe discutere sulla differenza di valore con le squadre inglesi o spagnole, con il Milan prima delle italiane che vale esattamente la metà del Manchester United. Interessi politici, favoritismi, mancanza di professionalità, divisioni e differenti visioni sono alla base di questa enorme disfunzione e il problema italiano più grave è che neppure ci si rende conto di questo, quando basterebbe fare un salto oltre Manica e vedere come lavorano i club inglesi: questo si chiama tecnicamente benchmarking, ovvero guardare, studiare e assimilare cosa fanno i migliori per poi importare le “best practices” modificandole e adattandole alle esigenze specifiche. Come benchmark questa volta, però, stiamo considererando quello che avviene negli States e precisamente nel settore del basket professionistico. Certo, anche in casa Obama non sono tutte “rose e fiori” e anche oltre oceano ci sono problemi, tanto che molte franchigie pro NBA attingeranno per sollevarsi dai guai finanziari al prestito concesso da JP Morgan (Orlando, Indiana e Sacramento le più grosse), ma l’impressione generale è che, anche in questo settore, chi ha lavorato e bene negli anni alla fine è stato e sarà ripagato, crisi o non crisi. L’alleanza della NBA con il network televisivo ESPN (gruppo Walt Disney) e TNT (controllata dalla Time Warner) porta ben 900 milioni di dollari nelle casse. “La NBA è una vera e propria macchina da soldi, grazie alla vendita dei diritti tv, al merchandising e al lavoro di progressiva internazionalizzazione. In totale -ha dichiarato David Stern- il contratto concluso con TNT ed ESPN fino al 2016 sarà di 7,4 miliardi di dollari, il 21% in più rispetto all’ultimo accordo… e la cifra verrà divisa in modo equo tra le tutte le squadre. Non importa chi vinca o chi perda, ognuno incassa circa 28 milioni di dollari all’anno”. Vogliamo parlare del merchandising? Nell’ultimo anno i ricavi del solo merchandising estero del NBA sono arrivati a 430 milioni di euro (+40% solo in Europa). In pratica lavorando anche sull’immagine (con un brand forte e unico che copre, senza eclissare però, ad ombrello tutti i singoli club) e su proposte personalizzate (anche in tempi di crisi, lo ricordiamo) molte squadre di basket americane hanno bilanci attivi con un valore medio per franchigia di 379 milioni di dollari. Nell’ultima stagione l’utile medio operativo è salito a 10,8 milioni per club con entrate nell’ordine di 90 milioni per squadra: in media 32 milioni dal botteghino, 5 dal merchandising, 13 dalle tv locali, 10/15 dagli sponsor (30/40 per i Big Team) e 28 milioni dalle tv. In sintesi: quando c’è la malattia bisogna curarla con la medicina più adatta, ma la prevenzione resta sempre la miglior cura nella salute umana così come nella gestione di un’azienda o di un club sportivo. Occorre cominciare a lavorare seriamente sulle aree del marketing che sono, lo ripeto, assolutamente strategiche tanto quanto quelle agonistico/ sportive. Non ha senso continuare ad investire milioni, a volte centinaia di milioni di euro in giocatori e strutture senza preoccuparsi di pianificare gli obiettivi, stabilire le linee guida, comunicare e valorizzare il prodotto con professionalità e sistematicità. Le gestioni estemporanee ed improvvisate normalmente a medio e lungo termine non funzionano, a breve invece quando anche portano dei frutti lo fanno senza massimizzarne le potenzialità e comunque lasciando molto all’improvvisazione e al caso, con il risultato che non appena cambia qualcosa (a livello esterno o interno) il castello di carte crolla inesorabilmente, ritornando al punto di partenza o ancora peggio più indietro. Infine cosa può imparare lo sport di casa nostra, in particolare il basket, dalla lezione NBA, dove girano per definizione meno soldi che in altri contesti di alto livello? Può imparare tanto, anzi, tantissimo. In primis che bisogna impiegare il marketing con le sue leve per il “prodotto sport” allo stesso modo in cui lo si utilizza nelle aziende industriali o di servizi tradizionali. Il fatto che l’oggetto del business in questione sia un genere particolare di prodotto/servizio non cambia nulla, le leve saranno sempre le stesse, quello che cambia è il contesto, i competitors e le problematiche specifiche. Senza investimenti nel marketing (strategie, immagine comunicazione) ricordiamolo sempre, non si valorizzano nè si esprimono le potenzialità enormi dello sport e in tempo di crisi si rischia addirittura di sparire. Questa volta, e non è la prima, è l’NBA che “docet”. ■ 49