Differenze fra la Rivoluzione americana e quella francese

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RUSSELL KIRK
DUE RIVOLUZIONI
MOLTO DIVERSE: L'AMERICANA
E LA FRANCESE
F o n t e : h t t p : / / w w w . a l l e a n z a c a t t o l i c a . o r g / t e m i / r i v ol u z i o n e _ f r a n c es e
/ k i rk r . h t m
Duecento anni fa, l'Assemblea Nazionale francese proclamava la Dichiarazione dei
Diritti dell'Uomo e del Cittadino: la Rivoluzione in Francia si muove progressivamente
verso la catastrofe. Due secoli fa, George Washington viene insediato come primo
presidente degli Stati Uniti e viene convocato per la prima volta il Congresso degli Stati
Uniti sotto l'egida della Costituzione.
A cominciare dal 1789 la Francia ha sofferto a causa delle successive rivoluzioni,
mettendo da parte la Costituzione. Sempre dal 1789, gli Stati Uniti d'America hanno
sperimentato soltanto un unico periodo selvaggio di disunione, dal 1861 al 1865, e la
Costituzione americana del 1787 rimane ancora la legge fondamentale del paese. Dalla
riva sinistra della Senna — la Rive Gauche — le dottrine rivoluzionarie ancora si
propagano verso la Cambogia, l'Etiopia, l'America Latina; dalla città di Washington
hanno origine i princîpi conservatori, che vengono disseminati in tutto il mondo.
Chiaramente la Rivoluzione in Francia e la Rivoluzione nel Nord America brita nnico
producono notevoli conseguenze differenti, entrambe durante l'ultimo decennio del
XVIII secolo e più oltre. Osserviamo le ragioni del motivo per cui viene stabilita
l'esistenza di un grande abisso fra l'esperienza americana durante gli anni dal 1775 al
1789 e quella francese dal 1789 al 1812.
La prima spiegazione ben argomentata del carattere differente delle Rivoluzioni
americana e francese viene pubblicata nel 1800 da un emergente letterato prussiano,
Friedrich von Gentz (1), che più tardi sarebbe diventato uno dei principali architetti
della ricostruzione d'Europa dopo la caduta di Napoleone. Il saggio di Friedrich von
Gentz viene tradotto in inglese da John Quincy Adams, poi ministro statunitense in
Prussia e successivamente eletto sesto presidente degli Stati Uniti, con il titolo The
American and French Revolutions Compared (2).
Friedrich von Gentz aveva studiato sotto la guida di Immanuel Kant; ma le Riflessioni
sulla Rivoluzione francese di Edmund Burke avevano convertito il giovane Friedrich
von Gentz ai princîpi conservatori (3). Aborrendo le teorie e le conseguenze della
Rivoluzione francese, Friedrich von Gentz traduce l'opera di Edmund Burke in tedesco
(4). La follia dell'intera Rivoluzione — al contrario di ciò che era stata la Guerra
d'Indipendenza americana — sarà il grande tema del pensiero e dell'azione di Friedrich
von Gentz dal 1791 fino al termine della sua vita.
Gentz sostiene l'esistenza di quattro grandi differenze fra la Rivoluzione francese e
quella americana. La prima di queste è che la Rivoluzione americana si fondava
principalmente su chiari princîpi: cioè che le lamentele degli americani erano
autentiche, ed essi si appellavano giustamente alla legge e alla tradizione inglese. La
Rivoluzione francese, al contrario, era fondata su princîpi fallaci e passò di errore in
errore.
La seconda differenza essenziale fra le due Rivoluzioni del XVIII secolo, secondo
Friedrich von Gentz, riguarda un problema di aggressività: "la Rivoluzione americana
fu, per gli americani, dall'inizio alla fine soltanto una rivoluzione difensiva; quella
francese fu, dall'inizio alla fine, nel senso più pieno del termine, una rivoluzione
offensiva" (5).
La terza grande distinzione, scrive Friedrich von Gentz, consiste nel fatto che la
Rivoluzione americana"ebbe un obiettivo fissato e definito, e si mosse all'interno di
limiti definiti, e in una direzione definita verso quell'obiettivo. La Rivoluzione francese
non ebbe mai un obiettivo definito, e correva in un migliaio di diverse direzioni,
continuamente intersecantesi fra loro, nello spazio sconfinato di una volontà
arbitraria e fantastica e di un'anarchia senza fondo" (6).
Per quanto riguarda la quarta linea di demarcazione, la Guerra d'Indipendenza
americana, incontrando una resistenza relativamente limitata, poté essere conclusa con
meno difficoltà di quella francese e i suoi successi poterono essere consolidati;
mentre "la Rivoluzione francese sfidò quasi ogni sentimento umano e ogni passione
umana alla resistenza più veemente, e poté dunque soltanto forzare il proprio
cammino con crimini e violenze" (7).
Friedrich von Gentz sostiene questa analisi con retorica persuasiva. Come Edmund
Burke, come gli Adams che saranno presidenti degli Stati Uniti, Friedrich von Gentz
percepisce che dalle fallaci teorie di Jean-Jacques Rousseau, Turgot, Condorcet e
Thomas Paine sarebbe venuto inevitabilmente il disastro. Egli sostiene che la
Rivoluzione americana fu "una Rivoluzione non fatta ma impedita" (8), utilizzando
l'espressione con cui i Whigs inglesi definiscono apologeticamente la Glorious
Revolution del 1688 in Inghilterra. Gli americani erano insorti per i loro diritti
fondamentali; le loro richieste e le loro attese erano moderate e fondate su una giusta
percezione della natura umana e della legge naturale; le loro costituzioni erano
conservatrici. Invece, i rivoluzionari francesi, sperando di riplasmare la natura umana e
la società, rompevano con il passato, sfidavano la storia, abbracciavano dogmi astratti, e
così cadono sotto il dominio crudele di una ideologia mostruosa. I passi degli americani
sono guidati dalla prudenza e dalla consuetudine, che semplicemente preservano e
continuano la tradizione inglese del governo rappresentativo e dei diritti privati, mentre
il fanatismo e le vane attese guidano i francesi verso la propria distruzione. Edmund
Burke, all'inizio della Rivoluzione americana, dichiarava che le colonie stavano
tentando di conservare, non di distruggere: esse cercavano di mantenere quelle libertà
ottenute attraverso l'esperienza storica e non di pretendere chimerici diritti evocati nei
circoli filosofici. I coloni erano — secondo le parole di Edmund Burke — "non solo
devoti alla libertà, ma alla libertà intesa secondo idee e princîpi inglesi. La libertà in
astratto, come tante altre astrazioni, non esiste. La libertà abita in qualche oggetto
sensibile" (9).
Continuamente Friedrich von Gentz ribadisce le profonde differenze fra i princîpi della
Rivoluzione americana e di quella francese, una disputa sufficientemente illustrata dai
torbidi avvenimenti del secolo XX. Egli mette in contrasto, per esempio, la chiara
comprensione che gli americani avevano della legge naturale con l'illusione francese
degli astratti "diritti dell'uomo". La Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del
Cittadino— sottolinea Friedrich von Gentz — "è una sorta di formula magica che
dissolve, a poco a poco, tutti i legami delle nazioni e dell'umanità" (10). Questa è
l'eresia francese della vox populi, vox Dei. Il preteso diritto del "popolo" di fare tutto ciò
che vuole — insiste Friedrich von Gentz — avrebbe divorato tutti gli antichi, preziosi e
duramente guadagnati diritti dei gruppi e dei singoli.
E così è stato. Gli americani avevano cercato la sicurezza; i francesi, con la loro dottrina
agguerrita, avevano cercato il potere in modo irresponsabile e assoluto. Friedrich von
Gentz scrive: "Dato che la Rivoluzione americana fu una rivoluzione difensiva, terminò
ben presto, nel momento in cui respinse l'attacco che l'aveva originata. La Rivoluzione
francese, fedele alle caratteristiche di una rivoluzione offensiva molto violenta, non
poté che continuare fino a quando fossero esistiti obiettivi da attaccare, conservando
forza per l'offensiva" (11).
I miei studi mi hanno convinto che le quattro distinzioni fra le due rivoluzio ni indicate
da Friedrich von Gentz sono valide. Ma Friedrich von Gentz non tratta della più grande
delle differenze: l'ostilità dei rivoluzionari francesi nei confronti della religione
cristiana, e invece il forte attaccamento degli americani alle Chiese e alla morale
cristiana.
All'inizio della Rivoluzione in Francia, certamente, il basso clero o una gran parte di
esso era favorevole a radicali mutamenti sia nello Stato che nella Chiesa. Il governatore
Morris — lo statista americano che aveva scritto il testo finale della Costituzione degli
Stati Uniti — giunge a Parigi nel febbraio del 1789 per motivi d'affari; il suo diario,
riguardante i tre anni successivi, è la nostra principale fonte di conoscenza a proposito
della Rivoluzione francese. Morris, quanto prima, sarà designato come rappresentante
americano in Francia e sarà l'unico ambasciatore che rimane a Parigi durante il Terrore.
Nella lettera di questo coraggioso statista a George Washington del 29 aprile del 1789,
Morris così commenta le azioni rivoluzionarie del basso clero in tutta la Francia: "La
grande massa della gente comune non ha altra religione che i propri preti, non ha
altra legge che i suoi superiori, non ha altra morale che i propri interessi. Queste sono
le creature che, guidate da curati invasati, stanno percorrendo la solenne strada verso
la "Libertà" e il primo uso che ne faranno sarà di fomentare insurrezioni ovunque
scarseggi il pane" (12).
L'Assemblea Nazionale procede alla confisca dei terreni ecclesiastici e alla
promulgazione della Costituzione Civile del clero, favorevolmente accolta da sacerdoti e
da molti vescovi. Ma giunge presto il tempo in cui i sacerdoti vengono imprigionati e
assassinati, il tempo in cui una prostituta sarebbe stata posta sul trono come Dea
Ragione. L'ateismo militante di Diderot e di D'Alembert esce
dall'Enciclopedia scatenandosi sulle cattedrali e l'Essere Supremo di Maximilien de
Robespierre approva l'impiego quotidiano della ghigliottina. La distruzione della
monarchia segue la distruzione della Chiesa. Una volta che la misura morale
dell'insegnamento cristiano viene gettata nel fuoco rivoluzionario, ogni atrocità può
essere giustificata nel nome del popolo: e ogni atrocità viene compiuta.
In America, al contrario, nessun colpo viene portato contro la fede cristiana. Fra gli
uomini che firmano laDichiarazione d'Indipendenza, la grande maggioranza è composta
da cristiani praticanti dell'una o dell'altra confessione; dei cinquantacinque delegati alla
Convenzione Costituzionale, tranne tre o quattro, tutt i sono membri di una Chiesa. Con
il primo emendamento alla Costituzione, al Congresso viene proibito di interferire con il
libero esercizio della religione. Così, durante la Rivoluzione americana nessuno viene
perseguitato per la sua fede religiosa e il dogma cristiano della fratellanza in Cristo
dissuade anche i più feroci partigiani su ciascun fronte della Guerra d'Indipendenza dal
praticare la tortura o il massacro, con poche eccezioni.
Nei loro princîpi morali e politici, i rivoluzionari francesi sono gli ardenti discepoli di
Jean-Jacques Rousseau, definiti da Edmund Burke "i folli Socrate dell'Assemblea
Nazionale" (13). Ma in America il nome di Jean-Jacques Rousseau è poco conosciuto e i
suoi insegnamenti non hanno seguito: persino Thomas Jefferson non legge il pensatore
ginevrino fino a dopo la positiva conclusione della lotta rivoluzionaria.
Quei leader americani che hanno letto letteratura francese di solito aborriscono le
opere di Jean-Jacques Rousseau. Il governatore Morris, subito dopo che il re e la regina
vengono trascinati da Versailles a Parigi, fa un riferimento sardonico alla scuola di
Jean-Jacques Rousseau. "Dovete considerare compiuta la Rivoluzione—scrive da Parigi
—. L'autorità del re e della nobiltà non esiste più, tutto il potere è concentrato nella
mani dell'Assemblea Nazionale. Io tremo, comunque, per la Costituzione; tutti sono
imbevuti di quelle teorie romantiche di governo dalle quali in America siamo stati
felicemente guariti prima che fosse troppo tardi"(14).
Durante quegli anni, quando i sentimenti di Jean-Jacques Rousseau dominano il
pensiero francese, la più potente influenza intellettuale nel Nord America britannico è
quella del rigido calvinismo di Jonathan Edwards. Il ginevrino insegna la naturale bontà
del genere umano, mentre il teologo calvinista americano insegna la depravazione della
natura umana. Gli orrori della Rivoluzione in Francia dimostreranno la solidità dei
sermoni agostiniani di Jonathan Edwards.
"Così è la Francia, esaurita dai digiuni sotto la monarchia, inebriata dalla cattiva
acquavite del Contratto sociale e da altre bevande adulterate o corrosive, e aggredita
infine da una improvvisa paralisi cerebrale: di colpo, il funzionamento delle sue
membra viene sconvolto dalle spinte contraddittorie e dall'azione incoerente dei suoi
organi discordi" (15): con queste parole Hippolythe Taine conclude il primo volume
della sua famosa analisi della Rivoluzione francese.
Le cose vanno diversamente nelle tredici colonie che si estendono lungo la costa
atlantica dal Canada alla Florida. I francesi entusiasti proclamano la loro passione nello
spazzare via tutto ciò che fosse antico, mentre i patrioti americani si dichiarano i
campioni di tutte le cose migliori da lungo tempo stabilite nel Nord America britannico.
Essi affermano di stare resistendo alle pericolose innovazioni di re Giorgio III
d'Inghilterra e dei suoi amici; affermano che stanno difendendo ciò che Edmund Burke
definisce "i diritti costitutivi degli inglesi" (16). Nell'antico significato dell'incerto
termine "rivoluzione", essi stavano cercando di evitare piuttosto che di fare una
rivoluzione. O questo è stato l'intento dei patrioti americani fino a quando, nel 1776,
l'alleanza con la Francia diventa indispensabile. Le tesi che i patrioti non avessero
intenzioni di radicale rottura con il passato — così che si definivano conservatori
piuttosto che innovatori — non è peculiare soltanto a chi scrive. È ora dominante fra i
più insigni storici della politica americana. Daniel J. Boorstin, fino a poco tempo fa
bibliotecario del Congresso, afferma ciò succintamente nel suo breve volume The Genius
of American Politics, del 1953: "La più ovvia peculiarità della nostra Rivoluzione
americana è che, nel senso moderno ed europeo del termine, essa non fu affatto una
rivoluzione" (17). The Daughyers of American Revolution, che sono state
comprensibilmente sensibili a questo tema, hanno sempre insistito nei loro scritti sul
fatto che la Rivoluzione americana non fu una rivoluzione ma soltanto una ribellione
delle colonie. Più ho fatto ricerche sul tema, più mi sono convinto della saggezza della
loro interpretazione. "La condizione sociale e la Costituzione degli americani sono
democratici — aveva osservato Alexis de Tocqueville —, ma essi non hanno avuto una
rivoluzione democratica" (18). Questo fatto è certamente uno dei più importanti della
nostra storia.
Questo punto viene sottolineato con uguale forza da Clinton Rossiter nella sua
opera Seedtime of the Republic: The Origin of the American Tradition of Political
Liberty, del 1953 (19). Nel corso della sua discussione con Richard Bland, Clinton
Rossiter sottolinea che "durante il periodo coloniale e fino agli ultimi mesi prima
della Dichiarazione d'Indipendenza, gli americani politicamente coscienti guardavano
alla Costituzione inglese piuttosto che alla legge naturale come baluardo delle loro
conclamate libertà. Il pensiero politico pratico nell'America del secolo XVIII fu
dominato da due postulati: che la Costituzione britannica era la migliore e la più felice
di tutte le forme di governo, e che i coloni, discendenti dei liberi inglesi, godevano la
felicità derivante da questa Costituzione nella misura più grande, conformemente con
un ambiente selvaggio" (20).
Si guardi lo studio di H. Trevor Colbourn, The Lamp of Experience: Whig History and
the Intellectual Origins of the American Revolution, del 1963 (21). Egli
scrive: "Insistendo sui diritti che la loro storia mostrava profondamente radicati
nell'antichità, i rivoluzionari americani sostenevano che la loro posizione era
essenzialmente conservatrice; era la corrotta madre patria che stava perseguendo
radicali e pressanti innovazioni e abusi sulle sue colonie, già da lungo tempo
sofferenti. L'indipendenza fu in larga misura il prodotto delle concezioni storiche degli
uomini che la fecero, uomini che fornirono a una nuova nazione la guida intellettuale e
politica" (22).
Ecco l'autorevole e famosa espressione di Patrick Henry, il più coraggioso ed eloquente
dei leader patriottici, nel 1775: "Non ho che un lume con il quale guidare i miei passi ed
è il lume dell'esperienza. Non conosco altro mezzo per giudicare il futuro se non
mediante il passato" (23). Il richiamo persino dei più appassionati e coraggiosi capi
dell'emergente America contro le innovazioni del re, si rivolge verso gli usi antichi e non
verso utopiche visioni.
Gli uomini che fecero la Rivoluzione americana, insomma, avevano poca intenzione di
rifondare la propria società. Fino a quando restasse anche la più pi ccola possibilità, essi
si mostrarono tutt'altro che entusiasti persino di separarsi dall'Inghilterra. Benjamin
Franklin, a Londra, disse a Edmund Burke che "l'America non avrebbe mai più visto
giorni così felici dopo avere abbandonato la protezione dell'Inghilterra" (24).
Benjamin Franklin osservava "che il nostro fu il solo esempio di un grande impero nel
quale i luoghi e le persone più distanti erano stati governati così bene come le
metropoli e le zone limitrofe, ma che gli americani stavano perdendo i mezzi che
avevano assicurato loro questo raro e prezioso vantaggio" (25).
Queste erano le parole e le convinzioni dei patrioti americani, come evidenzia Clinton
Rossiter, "fino agli ultimi mesi prima della Dichiarazione d'Indipendenza" (26). Ora
che dobbiamo farne del linguaggio altamente teorico e astratto della prima parte
della Dichiarazione d'Indipendenza, con il suo richiamo a "le leggi della natura e al Dio
della natura", alle verità evidenti, al diritto di abolire qualsiasi forma di governo?
Perché il Parlamento non è neppure menzionato nella Dichiarazione d'Indipendenza?
Cos'era successo della Costituzione inglese, della menzione delle consuetudini inglesi,
dei riferimenti al re Giacomo II e alla Glorious Revolution del 1688?
Queste allarmanti inclusioni e omissioni sono discusse e dibattute in maniera
penetrante da Carl Becker nella sua opera The declaration of Indipendence: A Study in
the History of Political Ideas, pubblicato per la prima volta nel 1922 (27). In verità, il
linguaggio di gran parte della Dichiarazione d'Indipendenza è il linguaggio
dell'illuminismo francese, come notava Friedrich von Gentz, e, più precisamente, il
linguaggio del Thomas Jefferson del 1776, piuttosto che il tono e la moderazione dei
tipici membri del Congresso Continentale di quell'anno.
"Non senza ragione, Jefferson si sentiva quasi a casa propria a Parigi — scrive Carl
Becker —, per la qualità del suo pensiero e per il suo temperamento, egli apparteneva
realmente alla scuola filosofica degli Enciclopedisti, quelle anime generose che
amavano il genere umano in virtù del fatto che non conoscevano molto gli uomini, che
adoravano la ragione con una fede irragionevole, che compivano studi sulla Natura
mentre coltivavano una studiata avversione per "l'entusiasmo" e la forte emozione
religiosa. Come loro Jefferson, specialmente nei suoi primi anni, stupisce perché si
professa espressamente un radicale. Noi spesso sentiamo che egli difende alcune
pratiche e idee, che denuncia alcuni costumi e istituzioni non tanto per riflessione
autonoma o convinzione profonda circa la particolare posta in gioco, quanto perché in
generale questi sono temi che un filosofo o un uomo virtuoso deve naturalmente
difendere o denunciare" (28).
Il francofilo Thomas Jefferson, in altre parole, era un uomo atipico rispetto agli uomini
imbevuti deiCommentaries on the Laws of England di sir William Blackstone (29), che
sedevano nel Congresso Continentale. Tuttavia il Congresso aveva accettato la st esura
della dichiarazione redatta da Thomas Jefferson senza proteste. Perché?
Perché l'aiuto francese era divenuto un'urgente necessità per la causa patriottica. Le
frasi dellaDichiarazione d'Indipendenza, congeniali ai philosophe e alla corte francese,
sono calcolate per risvegliare forti simpatie nel clima e nell'opinione culturale della
Francia e, come enfatizza Carl Becker, queste frasi raggiungono precisamente il
risultato desiderato. Non sarebbe stato soltanto inutile, ma controproducente, chiedere
l'assistenza francese sulla base degli antichi diritti degli inglesi: i francesi non volevano
un gran bene agli inglesi.
Ora ritorniamo di nuovo al citato Daniel Boorstin, che differisce in qualche cosa da Carl
Becker. Non è allaDichiarazione d'Indipendenza che dovremmo guardare, suggerisce
Daniel Boorstin, se cerchiamo di capire le motivazioni degli uomini che realizzarono la
Rivoluzione americana; non, perlomeno, ai primi due paragrafi di essa. "Alcuni hanno
cercato di aggrapparsi alla formula "vita, libertà e ricerca della felicità", dimenticando
che per i due terzi essa è presa in prestito e, comunque, è solo parte di un preambolo —
scrive Daniel Boorstin —. Noi abbiamo ripetuto che "tutti gli uomini sono creati
uguali" senza tentare di scoprire che cosa effettivamente significasse e senza
comprendere che per nessuno degli uomini che ne parlavano essa significava quello
che noi avremmo voluto significasse" (30). In realtà, dice Daniel Boorstin, la
Rivoluzione era tutta incentrata sul problema "nessuna tassa senza rappresentanza
parlamentare" (31). "È mia opinione che l'esito maggiore della Rivoluzione americana
era la vera costituzione dell'Impero britannico, che è uno squisito problema tecnico legale" (32).
E con ciò è tutto. Edmund Burke, guardando l'orrendo spettacolo della Rivoluzione
francese, dichiara che nulla è più consumatamente malvagio del cuore di un metafisico
astratto, che aspira a governare una nazione con progetti utopici, senza riguardo alla
prudenza, all'esperienza storica, alle convenzioni, ai costumi, alle complessità del
compromesso politico e ai princîpi della moralità, consolidati nel tempo. Gli uomini che
fecero la Rivoluzione americana non erano rivoluzionari di tipo metafisico. Essi
avanzavano richieste pratiche e cercavano soluzioni pratiche. Non avendole ottenute,
avevano deciso per la separazione della Corona d'Inghilterra come una dura necessità. Il
loro atto non intendeva essere un ripudio del passato, ma un mezzo per evitare la
distruzione dei propri modelli politici da parte dell'arbitrario potere britannico, per il
quale, secondo le parole di Edmund Burke, "gli americani non avrebbero potuto avere
nessun tipo di sicurezza per le loro leggi o libertà" (33). Questo non è il pensiero dei
rivoluzionari del secolo XX.
L'attento studio della storia è cosa di alto valore, fra l'altro perché istruisce, a volte, sui
modi per affrontare i problemi odierni. Non voglio dire che la storia ripeta
semplicemente sé stessa o si ripeta con qualche variante, sebbene c'è qualcosa in quel
progetto — e particolarmente nella storia delle rivoluzioni che hanno per modello quella
francese — che tende a divorare i propri figli. Sto suggerendo, piuttosto, che la
mancanza di prospettiva storica porta ai rovinosi errori degli ideologi, definiti "i
terribili semplificatori" da Jacob Burckhardt (34), mentre una chiara consapevolezza
storica può vanificare l'aforisma di Georg Friedrich Hegel, secondo il quale "noi
impariamo dalla storia che dalla storia non vi è nulla da imparare" (35).
La storia di questo ambiguo termine "rivoluzione" è un tema da approfondire. I termini
politici hanno origini storiche. Se queste ultime non sono conosciute, se addirittura
sono ignorate da potenti statisti, gravi errori diventano probabili. Sarebbe come se si
confondesse il termine "legge", nella sua valenza giuridica, con lo stesso termine
considerato nel significato attribuitogli dalle scienze naturali. Se si parte dal
presupposto che il termine "rivoluzione" significa sempre lo stesso fenomeno, senza
riguardo per il retroterra storico, si possono sottovalutare le conseguenze, che
potrebbero essere gravi e addirittura fatali.
La Rivoluzione americana, o Guerra d'Indipendenza, è stato un movimento di
prevenzione, prevalentemente orientato a salvaguardare un'antica struttura
costituzionale. Raggiunti i suoi obiettivi limitati — come evidenzia Friedrich von Gentz
— l'ordine viene restaurato. Essa nasce per cause intimamente connesse con
l'esperienza coloniale e con la Costituzione inglese, ma con pochi legami con le cause
della Rivoluzione francese. Nella sua intenzione, almeno, la Rivoluzione americana è
stata una rivoluzione nel senso che a questo termine si dava generalmente durante il
secolo XVII e nella prima metà di quello successivo.
La Rivoluzione francese è stata un fenomeno molto diverso, come quella russa che la
seguì. Queste sono state rivoluzioni filosofiche o, come si usa dire oggi con grande
precisione, rivoluzioni ideologiche, sconvolgimenti catastrofici nel senso che il termine
assumerà successivamente. I loro obiettivi erano illimitati perché utopistici; le loro
conseguenze sono state proprio il contrario di ciò che i promotori originari si
aspettavano da esse. Per comprendere la Rivoluzione francese faremmo ancora bene a
considerare le analisi di Alexis de Tocqueville e di Hippolyte Taine; per la Rivoluzione
bolscevica vi sono gli studi recenti di Aleksandr Solzhenitsyn, di Igor R. Safarevic e di
altri. "Iniziare con la libertà illimitata — dice Fyodor Dostoievski — significa terminare
con il dispotismo illimitato" (36); o, come dice Edmund Burke, per potere essere
posseduta, la libertà deve essere limitata.
Una parte considerevole della popolazione sia dell'America che dell'Europa, dall'inizio
della Repubblica americana, ha teso a fantasticare che tutte le riv oluzioni del mondo
sono in qualche modo emulatrici della Guerra d'Indipendenza americana e devono
condurre a istituzioni democratiche simili. Gli ideologi rivoluzionari di molti paesi
hanno "giocato" con questa ingenuità con discreto successo, da L'Avana a Saigon.
Questa diffusa confusione intorno al termine "rivoluzione" ha portato soltanto al
sentimentalismo in politica nel modo di giudicare i movimenti marxisti o nazionalisti
nelle loro prime fasi, ma anche a infondate aspettative che qualche magica e improvvisa
"riforma democratica" — specialmente le libere elezioni — possa bastare a frenare ciò
che Edmund Burke chiamava "una dottrina armata" (37).
La conoscenza della storia non è perfetta salvaguardia contro tali errori. Essa non ha
salvato Woodrow Wilson, un bravo storico prima di essere eletto presidente degli Stati
Uniti, da calcoli sbagliati intorno alle conseguenze dell'"autodeterminazione"
nell'Europa Centrale. Non ha salvato il suo consigliere Herbert Hoover, anch'egli
conoscitore della storia, dal fantasticare che un'improbabile "restaurazione della
tirannia degli Asburgo" — sono parole di Herbert Hoover, non mie (38) — fosse una
minaccia più imminente rispetto al vivo e vegeto bolscevismo o alla recrudescenza delle
ambizioni nazionalistiche tedesche. Nondimeno, la conoscenza storica in generale e la
conoscenza delle origini storiche dei termini politici sono una sorta di assicurazione
contro l'infatuazione ideologica o contro gli slogan sentimentali.
Il disperato bisogno della nostra epoca è quello di allontanare le rivoluzioni e non di
moltiplicarle. Le rivoluzioni recenti hanno ridotto metà del mondo alla schiavitù del
corpo e della mente, e all'estrema povertà, in Etiopia e nello Zaire, i n Cambogia e a
Timor e in cinquanta altri paesi. Ciò che chiamiamo Rivoluzione americana ha avuto
conseguenze fortunate, poiché, in qualche modo, non è stata una rivoluzione fatta, ma
evitata. Coloro che fantasticano attorno al termine "rivoluzione permane nte" stanno in
realtà sostenendo, anche se inconsapevolmente, la miseria permanente. Il primo passo
per la difesa da questa confusione consiste nel comprendere che il termine "rivoluzione"
ha molteplici significati; che non tutte le rivoluzioni sono taglia te dalla stessa stoffa; che
la politica non può essere separata dalla storia e che la "rivoluzione" — nel senso che
comunemente le si attribuisce nel secolo XX — non è la strada privilegiata verso la vita,
la libertà e la ricerca della felicità.
Russell Kirk
Intervento al Convegno Internazionale Contro l'Ottantanove. Miti, interpretazioni e
prospettive (Roma, 25 e 26 febbraio 1989
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