Pluralismo religioso e società multietniche di Stefano Allievi Introduzione: migrazioni e pluralità religiosa La presenza di percentuali sempre più significative di immigrati nel paesaggio sociale europeo non è solo un fatto quantitativo, che incide per così dire “pro quota” sulle dinamiche sociali, facendo crescere taluni indicatori (economici, sociali, di disagio, ecc. – questi, almeno, quelli più comunemente percepiti). Essa in un certo senso produce e crea nuove problematiche, innesca processi di relazione, mette in evidenza aspetti altrimenti rimasti in ombra dell’articolazione sociale. Ma quando parliamo di movimenti migratori, a cosa ci riferiamo esattamente? Quale è il fenomeno che indaghiamo? Proviamo a ragionare su alcuni elementi. Parliamo di un fatto ordinario, in primo luogo, tutto tranne che inedito: l’uomo è un essere che cammina. Un fatto ordinario – il movimento degli umani – al cui interno possiamo tuttavia distinguere degli eventi straordinari (ad esempio, per l’Europa odierna l’evento straordinario non sono i flussi in sé, ma l’inversione delle direzioni, la differenziazione delle provenienze, ecc.). Possiamo ugualmente distinguere fasi storiche e di sviluppo: l’uomo nasce nomade, ma vi è tuttavia un momento in cui tende a sedentarizzarsi, a “sedersi”: un atto non privo di conseguenze “fondative” di un certo peso1. Tuttavia l’uomo non ha mai smesso di muoversi, di viaggiare: lo testimoniano le conquiste militari, le invasioni, le esplorazioni, gli scambi economici, i pellegrinaggi… E oggi forse, conquistata la sicurezza della “sede”, ma anche prigioniero di una vita “sedentaria”, ricomincia a muoversi, in forme anche collettive e massificate (i sabati sera, i week-end, il turismo interno e internazionale di massa, ivi compreso quello religioso, come ci sollecita a ricordarci con rinnovato interesse il giubileo). Ma il problema del movimento umano, all’interno del quale le migrazioni si collocano, è più ampio e nello stesso tempo più quotidiano: al punto che, avendolo continuamente sotto gli occhi, non ci accorgiamo più nemmeno quanto determini la nostra vita, quanto la guidi, quanto la stravolga2. Cosa c’entra tutto ciò con il tema che vogliamo approfondire? Ci aiuta a contestualizzarlo, innanzitutto: a ricordarci che è parte di un processo di “mobilizzazione” più ampio. Le 1! Carl Schmitt, in Il nomos della terra, ha insistito sul fatto che la stessa radice linguistica da cui deriva nomade abbia dato origine, successivamente, al nomos, alla legge. Proviamo a riassumerla così: colui che erra per mutare pascolo, nomas appunto, fermandosi, darà poi origine all’“equa ripartizione del pascolo” stesso, su cui ha ragionato Schmitt, da cui deriverebbe il significato attuale di nomos. 2! Basti pensare alle metropoli. Vivo in una città, Milano, che ufficialmente ha 1.300.000 abitanti residenti, ma che come molte altre conosce ogni giorno tre cicli differenziati di “invasione”: quella “per lavoro” da parte dei pendolari classici; quella “per consumi” e shopping, un po’ più tardi; e quella serale e notturna per divertimenti, leisure e “vizi privati”; a cui bisogna aggiungere gli arrivi per eventi speciali (fiere, mostre, concerti, eventi sportivi), e il turismo classico, che in alcune città costituisce un flusso a sé di notevolissima entità. Abbiamo poi naturalmente i cicli di cambiamento, con gli spostamenti dal centro verso le periferie e l’hinterland, i nuovi cicli di occupazione di aree non appetibili da parte degli immigrati e di altri occupanti temporanei, l’occupazione degli spazi interstiziali e abbandonati, ecc. migrazioni costituiscono infatti solo l’elemento più visibile (non a caso se ne parla come di un “sesto continente”) di un processo più ampio, che qualcuno ha definito come “rivoluzione mobiletica”, che coinvolge il movimento di informazioni, merci, denaro, idee, oltre che uomini e donne3. Un processo, sempre più veloce, che è parte a sua volta del più noto e concettualizzato processo di globalizzazione. Fine della premessa. Vediamo ora le conseguenze di questo fenomeno di mobilizzazione: tra cui quello che qui ci interessa, la com-presenza su un medesimo territorio di una pluralità culturale e religiosa sempre più ampia4. Il paesaggio religioso che abitiamo e a cui siamo abituati sta cambiando in gran fretta. Insieme alle religioni tradizionali della vecchia Europa (le varie famiglie cristiane, la presenza ebraica, qualche sopravvivenza che una volta si sarebbe definita pagana), troviamo infatti: i nuovi movimenti religiosi che in Europa nascono o che vengono importati da altri fiorenti produttori (gli Stati Uniti, ma anche non pochi paesi asiatici: dall’India al Giappone alla Corea, e altri); un’ampia produzione di spiritualità new age; sette religiose più o meno legate, magari anche solo per opposizione, al vecchio ceppo cristiano; nobili tradizioni altrui da noi importate per iniziativa soprattutto di occidentali e a modo loro (è il caso del buddhismo). In più, con l’arrivo di nuove popolazioni immigrate quello che in sociologia è invalso chiamare (da Poulat e poi Bourdieu in avanti), con una metafora di derivazione economica forse discutibile ma efficacemente descrittiva, il mercato dei beni religiosi, si è “complessificato”. L’offerta di beni religiosi, già ampia, ha trovato un’ulteriore, feconda nicchia di mercato in cui espandersi, ma anche nuovi imprenditori sociali del sacro, diverse modalità di consumo, e si sono aperti nuovi canali di import-export religioso. Nel concreto, significa che vi è una sempre più marcata presenza di tradizioni religiose vecchie e nuove che sono arrivate insieme agli immigrati: dall’induismo all’islam, passando per le religioni “etniche” (lo shinto, i sikh, ecc.), l’animismo, forme sincretiche come le cosiddette “nuove chiese” africane, ecc., oltre che a nuovi membri, allogeni, di tradizioni religiose già presenti, percepite come indigene (cattolici, denominazioni protestanti, ortodossi, ebrei, ma anche membri stranieri di comunità religiose recenti, come i testimoni di Geova, ecc.). Si tratta di un mondo variegato e complesso, che non ha solo degli aspetti sociali: richiama anche ad alcune rimeditazioni in chiave spirituale, apre degli interrogativi teologici, e pone dei seri problemi ecclesiali – in tutte le chiese. E più in generale richiama a una profonda e articolata riflessione sui “fondamentali”. Ne citiamo solo alcuni, senza poterli approfondire: i presupposti etici del patto sociale, e la sua stessa necessaria ridefinizione in una situazione di mobilità e dunque di mutamento che diventa caratteristica fisiologica e 3! Un movimento che, peraltro, non riguarda solo fasce marginali e sostanzialmente sottoprivilegiate di popolazione, come si tende normalmente a pensare (è questa l’immagine “media” di immigrato che abbiamo in testa). Al contrario, anche se ci si riflette pochissimo, sono sempre più importanti e probabilmente, in percentuale, anche più incisive, quelle che potremmo chiamare migrazioni di élite. Gli appartenenti a quelle che sono state chiamate le “classi parlanti”, per esempio, e in generale i ceti di riferimento dello sviluppo economico e culturale: lo testimoniano, tra l’altro, il mondo dell’economia – e tanto più quanto più è alto il livello e di conseguenza maggiore il grado di internazionalizzazione –, della finanza, il mondo scientifico, quello accademico, i settori trainanti della moda, dello sport, dello spettacolo, ecc. Un fenomeno che starebbe inducendo, in quelle che una volta si chiamavano classi dirigenti (ma, oggi, di che?), a seguito del sempre minore livello di radicamento, il diffondersi di quella che Lasch (1995) ha chiamato una visione “turistica” anche delle norme morali. 4! Potremmo riferirci solo alla prima, con l’aiuto dell’etimologia, se non avessimo dimenticato che cultura e culto derivano dopo tutto dalla medesima radice. non più patologica delle comunità umane; il discorso sul rapporto tra individuo e comunità, e tra queste e territorio (discorso che è già parte integrante della riflessione su comunitarismo e neo-comunitarismo, ma che andrebbe in qualche modo radicalizzato se prendessimo ancora più sul serio il fenomeno di …sradicamento cui sempre più assistiamo); problemi politici non da poco: quale, per esempio, il nesso tra il concetto di democrazia cui ci riferiamo e il territorio? e come cambia, dunque, la prima, in situazione di parziale progressiva de-territorializzazione di parti significative della popolazione?; problemi giuridici conseguenti altrettanto significativi: quale il senso, in questa situazione, dei riferimenti tradizionali allo jus soli o allo jus sanguinis (e qualcuno comincia a parlare già oggi di jus religionis, in un sorprendente ritorno di categorie interpretative del passato: cuius regio…)?; e ancora: quali “paletti” mettere all’applicazione dei diritti (quali diritti per chi, insomma), quale rapporto tra universalizzazione dei diritti e particolarizzazione (e, in parte, comunitarizzazione) degli stessi; problemi filosofici di fondo, che poi sono immediatamente culturali e relazionali, non da poco: quale il rapporto tra ego e alter in una situazione di condivisione di alcuni ambiti (per esempio il territorio, problematicamente anche il sistema giuridico, la produzione di reddito e il welfare system), ma non di altri (la razza, la religione, la cittadinanza)? e dove sono o dove si ricollocano i confini identitari? Sono, letteralmente, cum-finis, ciò che dopo tutto ho in comune con l’altro, oppure ciò che separa? e dove la linea di separazione quando si moltiplicano le situazioni di mixité (matrimoniale, ma non solo) e di meticciato, nel senso più lato possibile del termine? E si potrebbe continuare a lungo, a porre domande: tutte, ancora, senza risposta. Questa presenza non è, insomma, neutra. E non ha conseguenze solo per se stessa: la presenza di questi nuovi ‘inquilini’ è suscettibile di influenzare, e di fatto sta già influenzando (e per certi aspetti sarebbe auspicabile che molto di più influenzasse), anche i vecchi “padroni di casa”: le istituzioni, i sistemi sociali, e appunto, cosa su cui si riflette molto meno, le religioni. Un passo indietro: l’attuale momento religioso d’occidente Per comprendere meglio questi fenomeni ci sembra tuttavia utile fare, per il momento, un passo indietro, che ci consenta, prendendola alla lontana, uno sguardo più ampio e, letteralmente, comprensivo. Dagli anni Sessanta in avanti una pubblicistica diffusa, con un insieme di diagnosi che si sarebbero rivelate il men che si possa dire premature, annunciava le varie modalità della “morte sociale di Dio” nelle società dette avanzate (la sua morte personale, reale o presunta che sia, pur essendo attività praticata anche da qualche sociologo, non rientra tra le competenze disciplinari della sociologia). Più recentemente una vasta letteratura, quantitativamente forse anche più impressionante, sembra testimoniarne una rigogliosa rinascita, seppure sovente sotto forme a torto o a ragione considerate inedite. A posteriori ci pare possibile riassumere che non c’è stata in passato una “eclissi del sacro” come non c’è ora una “rivincita di Dio”, per riprendere due titoli tra loro molto diversi ma ugualmente fortunati, pubblicati a trent’anni giusti di distanza l’uno dall’altro, in epoche che sembrano tra loro più lontane di quanto non siano in realtà (ormai i decenni da questo punto di vista sembrano diventati decenni-luce)5. 5 ! Il riferimento è ovviamente ai ‘testi sacri’ di Acquaviva (1961) e Kepel (1991). Tuttavia è indubbio che assistiamo oggi non solo a significative modificazioni nelle forme del sacro, ma anche a diverse forme di appropriazione del medesimo, a diverse modalità soggettive di viverlo: - dal punto di vista della domanda, cambia il suo peso specifico nella vita individuale dei soggetti, cambia il suo ruolo nel determinarne l’identità personale, si modificano le modalità di appartenenza religiosa; - dal punto di vista dell’offerta, che qui maggiormente ci interessa, queste stesse modalità di appartenenza religiosa si ampliano, mediante l’ingresso sul mercato dei beni religiosi di nuovi attori sociali, di nuovi imprenditori sociali del sacro. Ci pare dunque particolarmente rilevante sottolineare come caratteristico dell’attuale “momento religioso”6 vissuto dall’occidente la significatività del processo di pluralizzazione religiosa, e gli effetti che questo comporta anche nelle possibilità di fruizione del religioso7. Il posto della religione nella società e nella teoria sociologica: una premessa teorica In generale le definizioni e le analisi della religione che ci vengono dai classici della sociologia (ma anche da altre discipline, e in particolare, per un evidente interesse “di parte”, dalle stesse teologie) sembrano accentuare le dimensioni della stabilità, della continuità, della sua funzione integratrice della società, in un’assunzione implicita di un postulato di unicità e di globalità sostanziale (salvo da parte delle teorie riduzioniste che negavano semplicemente il ruolo della religione, riducendola al rango di mero residuo). Nota per esempio Berger (1967, 60 in nota) che «uno dei punti principali della teoria sociologica della religione proposta da Durkheim sta nella difficoltà di interpretare entro il suo schema i fenomeni religiosi che non raggiungono l’ampiezza della società, cioè, nei termini qui usati, nella difficoltà di affrontare in termini durkheimiani le strutture di plausibilità subsociali». E questo anche perché il problema centrale di Durkheim è proprio «il problema del rapporto fra solidarietà interindividuale, ordine morale e struttura sociale» (Ferrarotti 1985, 19); un problema “macro” per definizione. Solo in tempi più recenti (e in questo è stato decisivo il contributo dello stesso Berger) la teoria ha cominciato ad assumere la pluralità religiosa come un tema caratterizzante in sé, anche se non sempre ne ha dedotte tutte le possibile conseguenze. In particolare, la pluralità stessa viene spesso assunta, un po’ paradossalmente, come “rigida”. Ora, la caratteristica principale che essa implica è proprio la flessibilità; non solo e non tanto in termini organizzativi, ciò che appare dubbio e in ogni caso meno interessante e significativo, quanto in termini di flessibilità soggettiva possibile: ovvero, la pluralità la si vive, ci si entra e ci esce per così dire, o meglio, all’interno di essa, si cambia. Ora, poche teorie della religione sembrano in grado di spiegare davvero il cambiamento religioso, anche se alcune descrivono almeno le condizioni che lo consentono. Come ha osservato sinteticamente Beckford (1989, 64): «malgrado tutta la loro enfasi sul cambiamento e l’adattamento, i sociologi classici e i loro successori immediati preferivano operare con concezioni statiche della religione». Sfuggono quindi, in buona parte, le modalità soggettive, sempre più diffuse, di vivere nella (o di partecipare alla) sfera religiosa. Oltre alla modalità di appartenenza classica, quella 6 ! L’espressione è di Simmel (1989, 181). 7 ! Per un approfondimento di queste argomentazioni rinviamo a Allievi (1998c, 1999a e 1999b). tradizionale (sono di una certa religione, sostanzialmente, perché ci sono nato, perché lo erano i miei genitori), sono infatti sempre più diffusi comportamenti che riassumiamo in altre tre modalità principali. La prima: non essendoci disponibile, anche se l’affermazione va in parte stemperata, «nessun modello obbligatorio di religione» (Luckmann 1963, 146), il “supermercato” dei beni religiosi può permettersi di offrire quello che Luckmann definisce come un sempre più vasto «assortimento di significati ‘ultimi’», gestito sul lato dell’offerta, sostengono altrove Berger e Luckmann (1964, 190), da una molteplicità di «agenzie di marketing dell’identità». E’ uno dei modi di accesso al mercato in questione (quello che Roof e McKinney, nel loro American Mainline Religion, hanno definito pick and choose), particolarmente visibile ad esempio nel mondo new age – ma non è il solo. Una seconda e diversa modalità di presenza è quella definibile attraverso i concetti di “inclusione” e di “contaminazioni cognitive” (tra gli altri Campiche 1993): il processo di inclusione (distinto rispetto al concetto di sincretismo), avviene a partire dalle credenze tradizionali, integrandole con nuove “sensibilità” o con altre credenze, anche contraddittorie con il sistema di appartenenza e/o di riferimento (esempio particolarmente significativo: la sempre più frequente credenza nella reincarnazione misurata da diverse ricerche tra praticanti cristiani). Contrariamente alle apparenze, questa tendenza può farci parlare appunto di contaminazioni cognitive, ma non necessariamente di dissonanze cognitive. Esse infatti, che pure risaltano all’osservazione razionale, diciamo oggettiva (per esempio quella della teologia, che in questo senso ha un’attitudine “sistematica”), non sono percepite come tali nella sfera soggettiva, che è in grado di sfidare con successo e senza ripercussioni apparenti il principio di non contraddizione (del resto sfidato spesso anche dalla stessa teologia…). L’esperienza dei convertiti mostra una terza e ulteriore modalità di presenza sul mercato: attraverso la scelta non solo di singoli temi tra loro incoerenti, ma di interi sistemi di significato, al loro interno più o meno coerenti (in ogni caso percepiti come tali), che vengono assunti con tutte (o con parte del-) le loro conseguenze pratiche, quotidiane. Anche se vi sono pure conversioni temporanee, intermittenti, part-time, e pluriconversioni, al punto che qualche autore ha potuto parlare di conversion careers, riprendendo senza tematizzarlo il concetto di “carriere morali” elaborato da Goffman. E altri hanno parlato di religious hopping, qualcuno addirittura definendo quella attuale una age of conversion: tema peraltro ripreso anche da Marcel Gauchet, che sottolinea (1985, 300) come «ci sono eccellenti ragioni perché gli uomini del dopo-religione abbiano la tentazione di convertirsi in tutte le direzioni (tous azimuts). E ce ne sono di ancora migliori perché le loro conversioni non siano né molto solide né molto durevoli, poiché essi non sono capaci di rinunciare alle ragioni che li spingono a convertirsi...». Pluralità di offerta, dunque, pluralità di modalità di accesso, ma anche pluralità e reversibilità dei percorsi soggettivi. L’importante è comunque tenere presente che ci troviamo in una fase storica di progressiva soggettivizzazione del rapporto con la religione, in conseguenza dei processi di secolarizzazione, privatizzazione e dunque pluralizzazione: processi tra loro collegati, che fanno sentire le loro conseguenze anche sul fenomeno oggetto del nostro studio. Come ci siamo arrivati? Secolarizzazione, privatizzazione, pluralizzazione Non potendo approfondire i concetti (l’abbiamo fatto altrove, Allievi 1998c), ci limitiamo qui a enunciarli rapidamente. Il primo, la secolarizzazione. Uno degli esponenti più radicali della teoria della secolarizzazione la definisce come «il processo per mezzo del quale il pensiero, la pratica e le istituzioni religiose perdono significanza sociale» (Wilson 1966, xiv), e lo considera anche un fenomeno, oltre che irreversibile, onnipervasivo, che informa tutta la società e non solo i suoi aspetti religiosi: «la secolarizzazione non indica solo un cambiamento che avviene nella società, ma anche un cambiamento della società» (Wilson 1982, 177). Stark e Bainbridge hanno tuttavia sottolineato l’aspetto auto-limitante del processo di secolarizzazione. Brown ha sottolineato l’ambiguità delle tendenze in corso, che mostrano sia un declino del significato sociale della religione (secularization) che una crescita delle religioni (religionization) (per queste ed altre posizioni critiche, Bruce 1992). Beckford (1989, 136) sostiene che sia nella natura stessa della società secolare di generare quella che chiama «la rinascita paradossale della religione». Bell, in polemica diretta con Wilson a cui contesta una lettura riduzionista e portata a troppo estreme conseguenze della teoria weberiana della ‘gabbia d’acciaio’, fa notare che «il termine secolarizzazione è un tale imbroglio perché mischia due tipi molto differenti di fenomeni, il sociale e il culturale, e due processi molto differenti che non sono congruenti l’uno con l’altro» (1977, 426). Ai nostri fini è meno importante sottolineare che «la secolarizzazione si presenta come conseguenza dell’alto grado di differenziazione raggiunto dalla società moderna» (Luhmann 1982, 219) -cioè la secolarizzazione come conseguenza di un processo- quanto il fatto che essa produce a sua volta differenziazione -la secolarizzazione come causa-: in particolare il fatto che, a causa del processo di differenziazione, nella società industriale non c’è più bisogno di un’istituzione particolare, a carattere religioso, che rappresenti l’unità e la legittimità dell’intero sistema. Come aveva già notato Fenn, cui del resto Luhmann fa esplicito riferimento, «la secolarizzazione non spinge via la religione dalla società moderna, ma piuttosto incoraggia un tipo di religione che non possiede alcuna funzione importante per l’intera società» (Fenn 1972, 31). L’altra pre-condizione cruciale ai nostri fini è il processo di privatizzazione che accompagna e allo stesso tempo è potenziato dalla secolarizzazione. Non si tratta in un certo senso di una novità storica. Già Durkheim sottolineava che, almeno nei paesi a dominante cristiana, il processo è in corso da tempo perché si troverebbe all’origine stessa del cristianesimo8. E Berger più compiutamente di altri ne ha tirato le conseguenze: la secolarizzazione stessa nascerebbe con e grazie al cristianesimo e alla sua scelta di separare la sfera di Cesare da quella di Dio. Tuttavia è indubitabile che il processo si è notevolmente ampliato e ha trovato nuova forza nel processo stesso di secolarizzazione, che renderebbe oggi possibile un believing without belonging (Davie 1990), ripiegato su se stesso e sul proprio guicciardiniano particulare, privato, insomma. E questo a dispetto di una pur persistente presenza religiosa, che sia essa “diffusa”, “implicita” o definitivamente “invisibile”. 8 ! Nel saggio su L’individualisme et les intellectuels, del 1898 (cit. in Bellah 1970a, 260), scrive: «è un errore singolare presentare la moralità individualista come antagonista della morale cristiana; al contrario essa è derivata da quella». Il cristianesimo, a differenza delle città stato, avrebbe spostato il centro della vita morale dall’esterno all’interno dell’individuo. Solo che poi la moralità individuale si sarebbe sviluppata autonomamente e, non sentendo più il bisogno del rivestimento simbolico del cristianesimo, si sarebbe liberata della sua tutela. E’ ancora Luhmann (1982, 227) a notare che «mentre prima l’incredulità era un affare privato, adesso lo diventa la fede», ormai relegata nell’ambito del tempo libero, da esso limitata e in esso soffocata da altre priorità. Tale processo di privatizzazione, che l’autore non considera tuttavia individuale («la privatizzazione non è un affare privato») ma al contrario esso stesso una struttura sociale (e non un fenomeno che concerne la religione, ma un fenomeno che concerne la struttura del sistema sociale, che a sua volta influisce sulla religione), consente di sottrarsi a molte forme di controllo sociale di tipo religioso, e ad aprirsi a possibilità di scelta differenziate. Terza importante pre-condizione è quella del pluralismo, potremmo dire del politeismo potenziale che secolarizzazione e privatizzazione offrono all’individuo (Maffesoli 1988 parla di “policulturalismo” e di “politeismo popolare”). La pluralizzazione delle offerte, dei gruppi, dei “mondi vitali” almeno potenzialmente a disposizione (qualcuno -Possenti 1996- ha parlato di “pluri-verso etico”) costituisce la declinazione concreta di una secolarizzazione che, altrimenti, potrebbe consentire solo la scelta tra fede e appartenenza ascritta e suo rifiuto. Tale situazione implicitamente antimonopolistica è ben descritta, nella sua dimensione caotica, da un frammento di dialogo di uno scrittore contemporaneo, che sembra mettere ironicamente in scena la dubbiosa possibilità di scelta dell’uomo contemporaneo: «- Se la tirano tanto in lungo, quei franchi muratori finiranno per metter su una mahomeria. - Perché non un buddistero? o un batti-lao-tsero? o un confucionale?»9. In forma diversa il pensiero filosofico ha sintetizzato questo situazione nella celebre formula di Lyotard sulla fine delle «grandi narrazioni della modernità» che sarebbe caratteristica della postmodernità. La teoria sociologica ha trovato in Berger il suo più insistito sostenitore, che ha sempre considerato la pluralizzazione una sorta di fenomeno gemello della secolarizzazione (Berger e Luckmann 1966b), ma anche più di quest’ultima una caratteristica peculiare della modernità (Berger, Berger e Kellner 1973), che incide in entrambe le sfere, la pubblica e la privata, entrambe pluralizzatesi, ed è entrata a far parte in quanto tale del processo stesso di socializzazione primaria e dunque della formazione del sé. La pluralizzazione (questo il nome che dà al fenomeno più generale, di cui il pluralismo religioso non è che una delle molte varianti; Berger 1992, 41) ha come effetto quello di moltiplicare ma nello stesso tempo di rendere più precarie le “strutture di plausibilità”, ivi comprese quelle religiose, che diventano un prodotto dell’attività umana. Una delle conseguenze di questo processo è la possibilità di “migrazione” tra i diversi mondi religiosi e le loro relative strutture di plausibilità. Questo è quello che potremmo definire l’aspetto soggettivo della pluralizzazione, che sembra far sì che anche a livello sociale, “di massa” per così dire, sia data sempre più per acquisita una accettazione di fatto della situazione di pluralità (ciò che probabilmente non sarebbe stato vissuto allo stesso modo, con la stessa “naturalezza”, anche solo una o due generazioni fa). L’aspetto oggettivo della medesima questione è misurabile nel fatto, e ci limitiamo a citare il caso più macroscopico, che oggi in Europa occidentale, Italia inclusa (Allievi e Dassetto 1993), l’islam sia divenuto la seconda religione per numero di praticanti (Dassetto 1996), e dunque l’Europa una ‘nuova frontiera’ dell’islam (Dassetto e Bastenier 1991). Una svolta anch’essa non prevedibile anche solo una generazione fa: che, 9 ! R.Queneau, I fiori blu, Torino, Einaudi, 1967, p.5, trad. di Italo Calvino. dato il vissuto storico di confronto-scontro tra le due rive, anche religiose, del Mediterraneo, non è eccessivo qualificare come storica (Allievi 1996a), e assai ricca di implicazioni (anche, incidentalmente, per la ricerca sociale; cf. Allievi 1999c). Taluni insistono sul fatto che una delle conseguenze del processo di pluralizzazione sarebbe una sorta di relativismo. Tale concetto (per come viene riempito di contenuto) ci pare tuttavia più morale che sociologico, più giudicante che euristico. La visione bergeriana ci sembra in questo senso più sobria. Per parte nostra ci è sufficiente notare che questa stessa situazione, e quella che più globalmente potremmo chiamare la società plurale, permette non solo una maggiore facilità e frequenza delle scelte “diverse”, ma anche una loro de-drammatizzazione: non c’è più un’inquisizione che può consentire o impedire non solo una “partenza”, ma anche un “ritorno”, come accadeva invece, per esempio, ai “cristiani di Allah” del passato (Bennassar 1989). Le trasformazioni dell’identità Le trasformazioni oggettive, nella e della realtà sociale, inducono o comunque sono accompagnate da quelle soggettive, nella e della identità personale. Ci limitiamo qui a constatare che sempre più essa va considerata, e può essere letta e interpretata, «non già come una “cosa”, come l’unità monolitica di un soggetto, ma come un sistema di relazioni e di rappresentazioni» (Melucci 1982, 68). E, aggiungiamo, di autopercezioni, e di percezioni di quella che W.I.Thomas ha chiamato “definizione della situazione”, ma anche di sé nella situazione. «La definizione dell’identità -ha notato altrove Melucci (1993)- si sposta dal contenuto al processo, dal dato al potenziale e coincide sempre più con la capacità degli individui di identificarsi e di differenziarsi dagli altri: è dunque un processo continuo di identizzazione». Un cammino progressivo, il cui dato di partenza, come ha notato ancora Berger nel suo saggio su Musil (1984, 26), è «un “sé” plurale», che non può se non cercare di inventarsi quella “semplicità dell’ordine narrativo”, in quanto ordinata successione di eventi, che non esiste nella realtà ma che ognuno cerca di reinventare nella propria biografia, come ha notato lo stesso Musil. Il mondo, come gli stili di cui parla Schutz, che Berger cita, è vero “fino a nuovo ordine”. Si assiste a una crescente de-istituzionalizzazione dei corsi di vita, a una progressiva maggiore “leggerezza” dell’attore sociale nel varcare le frontiere, e dunque a continui processi di socializzazione e risocializzazione, e quindi di rinegoziazione dei rapporti (Crespi 1983). Tuttavia non è lecito lasciarsi andare a troppo facili e troppo intellettualistiche generalizzazioni su un’identità concepita come una sorta di puzzle insensato infinitamente modificantesi: molto letterarie - già Shakesperare diceva che la vita non è che «una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla» (Macbeth, atto V, scena V) - e molto colte (dunque anche molto accademiche), ma non sempre rispondenti alla realtà e ai desiderata degli uomini e delle donne che abitano la realtà sociale. L’uomo, in ogni caso, cerca la continuità, il senso, il ‘filo del racconto’ di cui parlava Musil. Anche nelle rotture, e nelle spiegazioni che si da’ delle stesse: non c’è come ascoltare i racconti di conversione per rendersene conto. Non è quindi un caso se Simmel, nel suo Excursus sulla fedeltà e sulla gratitudine, sottolineando il carattere integrativo che la fedeltà ha per l’autoconservazione dell’ordine sociale, porta come esempio apparentemente paradossale di fedeltà proprio i rinnegati, e specificamente i giannizzeri nella Turchia dei secoli XVI e XVII. Immigrati e religioni Perché abbiamo insistito su quest’analisi di sfondo, che riguarda l’occidente a prescindere dagli immigrati? Per una ragione molto semplice: perché essa è proprio ciò che consente e financo favorisce la presenza di nuove religioni, che non viene più percepita né come scandalosa né come traumatica, e al limite può ammantarsi di una patina di esotismo perfino attraente, alla moda. E’ questa situazione che fa sì che oggi, in occidente, sia possibile e largamente facilitato un processo di ingresso e radicamento di nuove religioni che in altre epoche, più religiosamente monolitiche (o forse sarebbe più esatto dire monopolistiche), sarebbe stato semplicemente impensabile. La sua conseguenza immediata è che l’Europa è diventata una sorta di patchwork religioso alquanto complesso e in continua evoluzione. Forse l’immagine migliore per definirlo non è quella, spesso usata ma troppo rigida, del mosaico, ma quella dinamica del caleidoscopio in continuo movimento: certo, con qualche “pezzo” più grosso degli altri. La presenza di immigrati non è infatti culturalmente né religiosamente neutra. Gli immigrati non arrivano “nudi”: portano con sé, nel loro bagaglio, anche visioni del mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali, immagini e simboli. E prima o poi sentono il bisogno, se mai l’hanno perduto, di richiamarsi ad esse come ad indispensabili nuclei di identità; se non per identificazione, almeno per opposizione. Essi spesso giustificano e confermano una specificità e anche una sensibilità religiosa, che una modernità superficiale nelle apparenze e nello stesso tempo profonda e radicale nella sua capacità di scalfire gli stili di vita tradizionali e i convincimenti su cui si basano, apparentemente fa di tutto per cancellare. In una parola, la religione, e ancora di più la religione vissuta collettivamente e comunitariamente, ha un suo spazio e un suo ruolo nella costruzione dell’identità individuale e collettiva di nuclei significativi di immigrati. Questo processo provoca un cambiamento radicale – di paradigma, a mio parere, e proprio nel senso forte che ad esso ha dato Kuhn – nel nostro criterio interpretativo e, ancora prima, nella nostra percezione, nel nostro vissuto relativo al rapporto tra religione-popoloterritorio. Per dirla nel modo più semplice possibile, noi siamo abituati a immaginare, del tutto intuitivamente, che, grosso modo, ad un territorio corrisponda un popolo con una religione dominante, e con l’eventuale corollario di qualche presenza minoritaria (tale era anche la percezione implicita dei classici della sociologia, a cominciare da Durkheim – pure, dopo tutto, figlio di un rabbino). Oggi la com-presenza di svariate entità religiose, resa ancora più visibile e in un certo senso drammatizzata dalla presenza di cospicue comunità di immigrati che si richiamano a religioni più o meno estranee alla storia europea, o almeno percepite come tali, ci costringe a fare i conti con quella che mi sembra pertinente chiamare, mutuando l’espressione dal dibattito filosofico recente, una diversa “geo-religione”. Non c’è più, insomma (semmai c’è stata in maniera così totale: in realtà anche questa unitarietà è un mito di origine romantica), un popolo con una propria fede che abita un determinato territorio; ma assistiamo al progressivo prodursi di una realtà molto più articolata, in cui su un medesimo territorio si mischiano (o non si mischiano, ma comunque co-abitano) popoli, religioni ed altro ancora. La pluralità, insomma, da patologia che era si è fatta fisiologia: è diventata, o sta diventando, “normale”. Un effetto anche questo, e tra i meno percepiti, della globalizzazione. Per inciso, è proprio questo processo che rende inconsistenti e improponibili tesi come quella del clash of civilizations, popolarizzata da Huntington (1996). Tale tesi presuppone che le civiltà, spesso da Huntington identificate con il nome delle rispettive religioni dominanti in una determinata area, siano una “qui” e una “là”, separate, impermeabili, radicate con precisione in territori delimitabili. Proprio ciò che non è o non è più, e non solo in Europa, ma in vaste parti del mondo. Ciò che, naturalmente, non esclude affatto gli scontri, ma li reinterpreta in chiave diversa: al limite, azzarderei (pur senza entrare nel campo – alla lettera, minato – delle teorie politologiche e polemologiche), proprio come effetto del contatto e dell’interconnessione. Qualche esempio potrà aiutarci a chiarire la situazione, almeno per quel che concerne casa nostra. Qualche esempio Ci pare utile a questo punto proporre qualche esempio di questo processo di ridefinizione di quella che abbiamo chiamato la nuova configurazione geo-religiosa dell’Europa. Con la presenza delle nuove immigrazioni, infatti, la pluralizzazione religiosa dell’Europa si è fatta ancora più articolata, e il processo non accenna a diminuire: al contrario, queste stesse religioni, inizialmente presenti in forma più o meno “clandestina” e comunque individuale o al massimo familiare, man mano che si fa più ampia la “soglia etnica” (in questo caso più correttamente definibile “soglia religiosa”) di riferimento, si “comunitarizzano”, tendono a diventare fatto sociale duro, incontrovertibile, e a rendersi visibili anche nello spazio pubblico, e dunque ad essere percepite come tali dalla popolazione autoctona. Tale presenza produce l’effetto di metterci in contatto con altre realtà, non solo sincronicamente, ma anche diacronicamente. In un certo senso è il nostro passato che ritorna: un fatto particolarmente visibile nelle presenze immigrate cristiane, ma per certi versi, in una accezione più “teologica”, nei musulmani, che del resto Massignon aveva una volta definito «i nostri antenati contemporanei». Qualche esempio, cominciando proprio dalle presenze cristiane. Con gli immigrati sono arrivati per esempio i cattolici filippini, ed altre presenze asiatiche, africane e centro e sudamericane: un cattolicesimo spesso più simile al cattolicesimo popolare italiano degli anni ‘50, soprattutto meridionale, non avaro di venature superstiziose e molto attaccato al culto dei santi, per esempio, che al volto pubblico, ufficiale, attuale del cattolicesimo italiano. Un cattolicesimo, oltre tutto, spesso più conservatore e paternalistico di quello nostrano (non sono quasi mai le teologie della liberazione ad arrivare da noi, se non attraverso la presenza di rari testimoni privilegiati): che, in maniera forse troppo generica, possiamo globalmente qualificare di tradizionale, e in qualche caso di tradizionalista. Nello stesso tempo un cattolicesimo che si esprime con linguaggi (liturgici, ad esempio) e che manifesta esigenze (per esempio comunitarie) che possono costituire un interessante elemento di novità e di rottura. Se nel caso cattolico non possiamo parlare di diversità o di alterità religiosa rispetto a quella che normalmente si definisce la maggioranza, e che io chiamerei piuttosto, facendo i conti anche con la secolarizzazione, “minoranza dominante”, dobbiamo constatare che talvolta non vi siamo neanche così radicalmente lontani. Nel mondo protestante assistiamo ad analoghi problemi: anche se le sue modeste dimensioni, e la proporzionalmente più grande presenza di immigrati rispetto al mondo cattolico, fanno sì che la sensibilità al tema, e le concrete esperienze di integrazione, siano più diffuse e visibili all’interno delle chiese. Tuttavia le non piccole presenze protestanti provenienti soprattutto dall’Asia e dall’Africa, ma anche da altrove, portano con sé teologie più conservatrici e decisamente meno liberal di quelle rappresentate dal protestantesimo europeo, per esempio su temi come il divorzio, l’aborto, le donne pastore, o anche le tematiche ecumeniche. Il che porta le chiese protestanti a doversi confrontare ad inediti problemi ecclesiali, paradossalmente aggravati dalla loro struttura democratica, che fa sì che queste presenze, in tutti i sensi, “contino”: e questo, in presenza di comunità immigrate qualche volta cospicue in proporzione alle dimensioni delle comunità ospiti, può mettere in crisi equilibri sedimentati, oltre che costituire lo stimolo a percorrere strade non ancora battute. Entrambi dunque, cattolici e protestanti, si ritrovano confrontati con il loro stesso passato, e coinvolti in un processo di negoziazione o semplicemente di discussione che ha per oggetto innanzitutto i luoghi di culto, le liturgie, le lingue utilizzate, i rapporti con le comunità ospitanti, ma anche modi diversi di essere chiesa e addirittura, come si è visto, le rispettive teologie. E analoghi processi, seppure in termini numericamente meno incisivi, stanno vivendo anche le chiese ortodosse10. Diverso il caso delle nuove chiese africane (mi riferisco a quelle autocefale, non legate alle chiese storiche, cattoliche o protestanti che siano), ospitate talvolta dagli uni o dagli altri, ma che mantengono spesso una struttura propria, che non è solo culturale, etnica e/o linguistica, ma anche propriamente ecclesiologica – loro sì, a differenza delle precedenti che si ritrovano inserite in un complesso gioco di interazione con le rispettive chiese, autonome e di fatto incapsulate nella realtà sociale ed ecclesiale. Ma oltre alle presenze cristiane, e tendenzialmente sempre più cospicue, sono arrivate con l’immigrazione anche religioni più radicalmente “altre”, sostanzialmente estranee alla storia culturale europea o come tali a torto o a ragione percepite, oggetto in passato più di studi antropologici “esterni” che di osservazione sociologica “interna”. Penso all’induismo, al buddhismo (quello popolare, incarnato anche in culture e comportamenti collettivi, non quello à la page e ridotto a vaghe e poco impegnative tecniche di meditazione di soubrettes e calciatori, che certamente non vive di quella dimensione e di quel “respiro” tradizionale e comunitario cui ci stiamo riferendo), ma anche a mondi religiosi antichi e poco conosciuti (si pensi all’animismo di varie popolazioni africane), e a religioni identificabili con precisi gruppi etnici (dallo shintoismo ai sikh), per finire, ultimo e più importante, con l’islam. Quest’ultimo merita una sottolineatura particolare per un fatto semplice ma decisivo: perché in pochi anni, di fatto nell’arco di una generazione, da nemico numero uno della cristianità europea che era, comunque un soggetto altro ed esterno, oltre che estraneo, è diventato la seconda presenza religiosa in Europa, Italia inclusa, dopo quella cristiana globalmente intesa: e si tratta di un presenza ormai considerabile definitiva e irreversibile. Una svolta che, come ho già rilevato, non esito a definire storica. Un processo che per un sottile paradosso della storia, al tempo stesso ironia e nemesi, è stato innescato dall’arrivo in occidente di gruppi via via più cospicui di immigrati. L’ironia è data proprio dal fatto che laddove, in quattordici secoli di storia comune, di incontri e soprattutto di scontri, non erano riusciti gli eserciti e le invasioni, sta riuscendo, senza nemmeno averlo voluto, quasi come conseguenza casuale e certamente non pianificata 10 ! A titolo di esempio: una recente ricerca da me svolta a Livorno, a partire da un’esigenza molto concreta come la ridefinizione del piano regolatore a partire anche dall’articolazione plurale, in senso lato, della realtà urbana (La città plurale, pubblicata solo tra gli atti che hanno portato all’approvazione, per l’appunto, del nuovo piano regolatore, Comune di Livorno, 1998), mi ha posto sotto gli occhi con un’evidenza palmare quanto la pluralità attuale sia anche un formidabile mezzo per riportare in vita le “pluralità addormentate” tradizionali, rimettendo in circolo il patrimonio storico e persino artistico della città, nonché ri-vitalizzando, dando loro letteralmente nuova vita, le presenze religiose e i mondi associativi collegati – offrendo, in particolare, occasioni di ripensamento alla pluralità stessa come concetto e come pratica sociale. della sua presenza, l’“esercito industriale di riserva” dei nuovi immigrati. L’islam penetra in Europa non sulla punta della spada, ma per le conseguenze impreviste (di tutto si tratta tranne che di un deliberato disegno, anche se la fantasia propagandistica di alcuni vorrebbe farcelo credere) di fenomeni sociali che nulla, di per sé, hanno a che fare con la religione. Un islam che tuttavia, al contrario del nostro immaginario (mediatico, ma anche colto, accademico), è tutt’altro che statico, e lo è ancora meno in emigrazione, per non parlare delle trasformazioni che subisce nel passaggio dalla prima alla seconda generazione, dall’islam dei padri all’islam dei figli: esso cambia, si evolve, non è più quello dei padri, senza per questo perdere necessariamente la propria identità, disperdendosi nel mare dell’indeterminato e dell’indifferenziato. Producendo anzi interessanti e ancora assai poco studiate conseguenze sul piano sociale, politico, giuridico, culturale, ma anche religioso e spirituale: per l’Europa, per il cristianesimo, ma anche per l’islam medesimo, ivi compreso quello dei paesi d’origine, attraverso effetti di feedback di cui si sa ancora molto poco, e le cui conseguenze saranno probabilmente più visibili nei prossimi anni11. Pluralità, incontro – dialogo? La com-presenza di soggetti religiosi non è fatta di identità giustapposte, tra loro impermeabili, non comunicanti. Questo può succedere, e può essere il caso soprattutto per alcuni gruppi religiosi del tipo “setta”, o molto caratterizzati etnicamente e/o linguisticamente, che finiscono per scegliere di “incapsularsi” nella società, al limite di fuggirla e di sfuggire ad essa. Ma non è necessariamente il destino comune. Al contrario, e tanto più se ci si riferisce alle religioni a vocazione universale o comunque caratterizzate da una presenza e una visibilità sociale, sempre più spesso si creano momenti 11 ! Citiamo alcuni temi rilevanti, tra gli altri, solo per titoli: - Per l’Europa: la pluralità religiosa sempre maggiore e più incisiva, più visibile (la mezzaluna e la croce, il minareto e il campanile che si stagliano sul profilo delle città, per usare immagini un po’ stereotipe ma efficaci); l’immagine dell’altro da ridefinire (reciprocamente); la ridefinizione dei rapporti tra le due sponde del Mediterraneo (in politica, economia, ecc.); le conseguenze sulle relazioni umane, interpersonali: contatti personali, quotidiani, matrimoni misti (e loro conseguenze su immagine e concetto di famiglia, di religione, ecc.); le conseguenze sul concetto stesso di Europa e di occidente, non più identificabile solo con la radice ebraico-cristiana (a più lungo termine), cioè sull’immagine che gli europei hanno di se stessi attualmente. - Per l’islam: la separazione dell’identificazione islam-mondo arabo; l’accettazione di fatto (e in prospettiva anche la teorizzazione e la “teologizzazione”) dello statuto di minoranza, del fatto di vivere come minoranza in una società non informata islamicamente (un fatto non scontato: l’ortodossia inviterebbe al ritorno in dar al-islam, nella “casa dell’islam”. Questo vuol dire un cambiamento enorme, che mi pare che la maggioranza anche degli intellettuali musulmani non percepisca o sul quale preferisca far finta di niente); il ruolo che gioca l’islam nel mondo non islamico, oggi che è anche un attore interno dei paesi non musulmani, di cui occorrerà sempre più tenere conto; il chiarimento, credo in buona sostanza tutto ancora da fare, dei rapporti (anche di forza, di subordinazione), dei canali di comunicazione, degli obiettivi (quali sono comuni e quali no) di questi vari pezzi della umma; quale livello di “europeizzazione” dell’islam è considerato accettabile senza perdere l’identità musulmana e al contempo senza chiuderla in un ghetto infecondo; quale ridefinizione del rapporto tra legge religiosa e legge civile (in fondo un rapporto, anche strumentale, con la legge civile e il potere che incorpora è già in atto, per esempio attraverso la procedura per l’Intesa. Piaccia o non piaccia, significa aver accettato almeno nei fatti il primato della legge civile. Non ci si potrà non interrogare sui fondamenti rispettivi delle due concezioni della legge, anche perché gli scontri, per ora contenuti, sono dietro l’angolo. Ne cito solo alcuni: il problema delle conversioni per matrimonio, comunque ci si voglia girare intorno, forzate o, il minimo che si possa dire, burocratizzate e prive di contenuto spirituale: non è una svilizzazione, anche per l’islam degli europei?; il problema dello statuto personale, la legislazione sulla famiglia ripudio, segregazione educativa, ecc. -, il ruolo della donna e i suoi diritti, ecc.); e p.e., teologicamente: quale rapporto con il testo fondatore, quali possibilità di traduzione e di modi di lettura del Corano - si potrà prescindere anche in futuro da un’esegesi, nel senso sostanzialmente ormai acquisito nella teologia cristiana? Detto in altri termini: si potrà chiedere ancora a lungo ai musulmani europei di essere solo musulmani, e di dimenticarsi di essere europei? si potrà chiedere loro, soprattutto alla seconda, alla terza generazione (e vale tanto per i figli di immigrati quanto per quelli di musulmani convertiti) di non far incontrare la loro «musulmanità» con la loro «europeità»? e situazioni di contatto, di incontro, e magari anche di frizione e di scontro, talvolta non indolore: con la società, tra i soggetti religiosi minoritari, e con le religioni maggioritarie delle rispettive società. Dalla pluralità nasce dunque l’incontro: quand’anche non volontario, in qualche modo obbligato, coatto. E dall’incontro, lo sguardo, l’osservazione reciproca, e infine lo “scambio della parola” – il dialogo appunto (centrale, del resto, per religioni che dopo tutto hanno al loro centro il logos, il Verbo, in diversa forma manifestato)12. Contrariamente all’uso comune in ambito religioso, la parola dialogo si rivela spesso più una aspirazione che una realtà, e viene usata in maniera eccessivamente ‘prematura’. Vero è che l’impresa dialogica ha per definizione una dimensione ‘titanica’: una sua significativa definizione ci avverte che essa è “intraprendere l’impossibile e accettare il provvisorio”. E’ forse più onesto limitarsi a parlare di incontri interreligiosi, e più in generale di rapporti interreligiosi o, come ri-comincia a fare, molto opportunamente, anche la teologia più recente, di “conversazioni” tra religioni. Del resto anche nei documenti vaticani (p.e. un documento fondativo dei rapporti interreligiosi quale è la dichiarazione conciliare Nostra Aetate) la parola dialogo traduce il latino colloquium, che evoca una dimensione più onestamente dimessa e quotidiana. E innanzi tutto quotidiana è la dimensione dialogica che osserviamo manifestarsi nelle relazioni sociali tra credenti di diversa appartenenza religiosa. Del resto, essa è influenzata dalla concretezza delle situazioni sociali in cui vive una religione. Un esempio? «Essere religiosi è essere interreligiosi», recita senza mezzi termini una dichiarazione dell’Associazione teologica indiana13. E le direttive per il dialogo interreligioso fornite dalla commissione per l’ecumenismo e il dialogo della conferenza dei vescovi cattolici dell’India spiegano con una certa “tranquillità”: «la pluralità delle religioni è una conseguenza della ricchezza della stessa creazione e della grazia multiforme di Dio. Anche se provengono tutti dalla stessa origine, i popoli hanno percepito l’universo ed articolato la loro consapevolezza del Mistero divino in molteplici modi, e Dio è stato sicuramente presente in queste imprese storiche dei suoi figli. Tale pluralismo non va dunque affatto deplorato, bensì piuttosto riconosciuto esso stesso come un dono divino». Non stupisce che tali dichiarazioni provengano da paesi lontani, geograficamente ma anche religiosamente. Dal punto di vista sociologico la spiegazione ci pare semplice e immediata: non possono venire che da lì, perché è lì che le chiese cristiane, e in questo caso la chiesa cattolica, si trovano da tempo in interazione con altre religioni, e soprattutto si trovano, nei confronti di esse, in posizione minoritaria, talvolta subordinata, in ogni caso presenza relativamente recente rispetto alle tradizioni religiose di queste terre. Non si può, in queste situazioni, non rendersi conto che le altre tradizioni religiose esistono, si è obbligati a conoscerle, e conoscendole non si può non riconoscere il “loro” valore anche veritativo. Chi è maggioranza, e pago di esserlo, difficilmente ha la sensibilità per accorgersi degli altri, dei “piccoli”14: mentre i piccoli sono obbligati a conoscere il grande che li può schiacciare, e che in ogni caso è un vicino troppo ingombrante per non osservarlo con ! 12 Rinvio, su questi temi, a Allievi (1997, 1998a, 1998b). ! 13 cit. in J.Dupuis (1997), da cui riprendiamo altri riferimenti di seguito citati. ! 14 Non per caso padre Dupuis, per aver scritto queste cose, è stato censurato dalla Congregazione per la dottrina della fede, ex-Sant’Uffizio. attenzione, se non con preoccupazione. Non per caso, a contrario, è la stessa situazione che sta vivendo l’islam: è in Europa, dove si trova in condizione minoritaria e subordinata rispetto alle confessioni cristiane, e con poche speranze di rovesciare la situazione, che è costretto a elaborare, prima nella prassi e poi anche nella teoria, una propria teologia della pluralità, o, se non una ortodossia, quanto meno una ortoprassi che la contempli. Ed è questo, tra l’altro, uno dei motivi concreti della nostra incomprensione dell’islam trapiantato in Europa: lo interpretiamo con le categorie dell’islam dei paesi d’origine (un tutt’uno con lo stato e la società, forte, maggioritario, teologicamente solido e privo di confronti e di sfide religiose interne), mentre da noi si presenta attraverso minoranze slegate dalla società e non protette dallo stato (al contrario, talvolta anche stigmatizzate), con un radicamento sociale debole, prive dei riferimenti tradizionali, e confrontate a comunità religiose altre che sono maggioritarie, potenti, esse sì, dopo tutto, a dispetto di una sbandierata laicità dello stato, fortemente intrecciate con le istituzioni statuali dei rispettivi paesi. Conseguenze teologiche? La scoperta dell’altro è innanzitutto riscoperta di sé. Nel caso di ebrei e cristiani significa andare a cercare le radici bibliche del rapporto con l’altro. La prima sorpresa, così facendo, è innanzitutto quella di constatare un dato per nulla scontato: che il tema dello straniero (che tale è anche religiosamente), dell’altro-da-sé, può essere considerato una specie di filo rosso e diventare una chiave di lettura della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento insieme15 . E che questo forse significa qualcosa per l’occidente, per quel tanto che da questi testi deriva alcune delle sue impalcature fondamentali: anche per chi in essi, da un punto di vista religioso, non si riconosce. Significa scoprire che il testo di riferimento di due dei tre monoteismi abramitici (ma abbondantemente ripreso, con dovizia di riferimenti, anche nel terzo e nel suo testo) c’entra anche con gli altri, anche quelli che ad esso riferimento non fanno: ne parla, ne tiene conto, li interroga e si fa interrogare da essi. Il che impone oggi a coloro che a questi testi si richiamano e di cui rivendicano l’eredità di rapportarsi diversamente con gli altri concreti che queste religioni altre incarnano. E’ vero che c’è un’enfasi eccessiva, talvolta, in molte declinazioni di questa opzione dialogica. Tanto importante nel concreto e non priva di una dimensione profetica sul piano individuale, diventa in qualche caso una sorta di retorica ideologia buonista in molti ambiti in cui viene volentieri pubblicamente reiterata. E tanto più assume questa caratterizzazione quanto più è pubblicizzata. In questo senso «il “dialogo” può essere un alibi per quella forma di ciarlataneria, in cui tutti parlano con tutti e nessuno ha nulla da dire» (Berger, 1969). Un’irenismo puramente verbale, e come tale poco impegnativo. Anche per questo, ma non solo per questo, diventa fondante dimensione dialogica soprattutto quella personale, privata, incisivamente concreta, come quella vissuta da molti di coloro che hanno davvero, direttamente e non superficialmente a che fare, per esempio, con immigrati di altre religioni. In questo senso l’immigrazione si rivela anche un luogo teologico e profetico. Il più visibile, probabilmente: anche se non il solo. Più che il dialogo teologico, e quello diplomatico tra istituzioni religiose, pur necessari, sembra essere questa la dimensione del dialogo più interessante e ricca di conseguenze, e ! 15 Per quel che riguarda quest’ultimo, ho abbozzato qualche cenno interpretativo, del tutto introduttivo, in Allievi (1994). in definitiva più vera. Il dialogo vero è di carne, e non superficiale. «Vita dialogica non è quella in cui si ha a che fare con molti uomini, ma quella in cui si ha davvero a che fare con gli uomini con cui si ha a che fare», ha sottolineato Martin Buber (1923). Ed è dialogo sulle cose concrete, sui problemi, a partire dal vissuto quotidiano, non da problematiche astratte. Poi, certo, c’è anche il dialogo religioso vero e proprio: un punto d’arrivo, tuttavia, non un punto di partenza. Termine ultimo di un cammino che, in quanto tale, è lento per definizione, va conquistato tappa dopo tappa. E probabilmente non ha fine: voveo dialogum perpetuum recita, significativamente, una delle formule del voto gesuita. Solo come tale può diventare anche, in una visione profetica e pro-vocativa forte, come suggerisce Panikkar, dialogo intrareligioso. Perché dopo tutto, dalla prospettiva di Dio (per quanto ci è possibile assumerla…), non sappiamo «se il pluralismo delle religioni sia un fenomeno di fatto o non di principio» (E. Schillebeeckx). Bibliografia -Acquaviva, S. (1961), L’eclissi del sacro nella società industriale, Milano, Comunità -Allievi, S. (1994) Il libro dell’altro, Bologna, EDB -Allievi, S. (1996) Islam e occidente: lo specchio e l’immagine, in S.Allievi (a cura di), L’occidente di fronte all’islam, Franco Angeli, Milano -Allievi, S. (1997) I luoghi del dialogo, in I.Siggillino (a cura di), I luoghi del dialogo. Cristiani e musulmani in Italia, Melzo (Mi), Cens, 1997 -Allievi, S. (1998a) Pluralismo e dialogo interreligioso. Sfide e interrogativi dell’alterità, in «Orientamenti», n.1-2, 1998 (numero monografico su Ecumenismo e dialogo interreligioso) -Allievi, S. (1998b) Immigrazioni e fondamentalismi, in «Servitium», n.117, 1998 (numero monografico sui fondamentalismi) -Allievi, S. (1998c) Les convertis à l’islam. 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