La forza vitale come fondamento

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La Forza Vitale come fondamento
nella filosofia africana
di Roberta Rosini
Laboratorio Montessori
Nuova Serie
Marzo 2012
ISSN 1974-8787
Introduzione
Fratello d’occidente
Il mondo non si ferma alla soglia della tua porta
Né nel fiume alla frontiera del tuo paese
Né nel mare
Nella cui distesa tu credi talvolta
Aver inteso il senso dell’infinito
Poeta del Monzambico
A partire dall’inizio del XX secolo l’esistenza della filosofia africana o Bantu 1 è stata
oggetto di un ampio dibattito, che continua ancora oggi, da parte di filosofi occidentali e di
filosofi africani stessi. Nel primo paragrafo – di carattere introduttivo – del primo capitolo
ho appunto esposto le linee principali di tale dibattito filosofico. Si vedrà come la maggior
parte dei pensatori e filosofi occidentali abbia negato e neghi l’esistenza di una filosofia
africana. È centrale a questo riguardo la figura del filosofo ed etnologo francese Lucien
Lévy-Bruhl (1857-1939), il quale elabora la teoria del “prelogismo” dei “primitivi”, secondo
cui la “mentalità primitiva” sarebbe “prelogica” o “alogica”. In base a questa teoria, infatti, i
“primitivi” mancherebbero di logica ovvero sarebbero caratterizzati da una struttura psichica
che ignora e in cui non vigono i principi di identità, di non contraddizione e di causalità e in
virtù della quale la loro mentalità è differente da quella occidentale. Non si rileva dunque
possibile stabilire un qualche collegamento tra la mentalità africana così caratterizzata –
ovvero collocata nelle categorie del “prelogico”, del “mistico” o dell’ “aconcettuale” – e i
sistemi speculativi europei: si teorizza così l’impossibilità dell’esistenza di una filosofia
africana.
Si è poi analizzata la posizione di quei pensatori e filosofi che, al contrario, hanno
sostenuto e sostengono la tesi dell’esistenza di una filosofia africana. In questo contesto è
stata rilevata come fondamentale l’opera Filosofia bantu (1944-45) del francescano belga
Placide Tempels (1906-1977): questa opera costituisce la prima dimostrazione dell’esistenza
di un pensiero filosofico all’interno del popolo Bantu e la prima trattazione sistematica di
esso. Tempels infatti in questo suo celebre libro realizza la prima sintesi filosofica ed espone
i fondamenti del pensiero Bantu. L’opera di Tempels ha dato origine ad un ampio dibattito
1
Con il termine ‘Bantu’, che può essere tradotto in italiano con ‘gente’, ‘popolo’, vengono identificate
molte stirpi dell’Africa Nera ovvero quella compresa tra il deserto del Sahara e il deserto del Kalahari e
tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano (cfr. § I.1 Sull’esistenza della filosofia africana o Bantu).
filosofico: alcuni hanno concordato con le tesi presentate dal Tempels, altri invece le hanno
fortemente contestate. Tra questi ultimi vanno annoverati quelli che ritengono che riguardo
alla cultura africana non si possa parlare di filosofia, ma al massimo di ‘etno-filosofia’;
questa infatti, fondata essenzialmente su del materiale descrittivo del comportamento di un
popolo, non è propriamente filosofia. L’opera di Tempels dunque, da alcuni accettata e da
altri criticata, ha aperto in Africa una strada nuova: da allora numerosi pensatori – di cui
appunto si è fatta menzione in questo paragrafo – hanno riflettuto e riflettono tuttora sulla
cultura africana, arricchendo con i loro scritti il patrimonio filosofico dell’Africa. Di
particolare interesse è risultata la posizione – che in questo lavoro appunto è stata assunta –
del filosofo angolano Pedro F. Miguel, il quale teorizza l’esistenza della filosofia africana,
ma senza stabilire per questo una connessione tra la mentalità africana e i sistemi speculativi
europei: senza intendere cioè, come invece facevano Tempels e altri pensatori africani e
non, che esiste un pensiero Bantu coerente e logico, riducibile agli schemi razionalistici
occidentali. Al contrario Miguel rivendica l’esistenza della filosofia africana nella sua
peculiarità, ovvero di una filosofia africana caratterizzata appunto da alogicità,
aconcettualità, misticismo, irrazionalità, istintualità, la cosiddetta “emozione nera” dei poeti
della négritude2 come valore culturale dell’Africa Nera, contrapposta alla Ragione coerente,
logica e astratta della filosofia occidentale.
Dopo il primo paragrafo introduttivo sull’esistenza della filosofia africana, sono entrata
nel cuore della concezione filosofica Bantu, presentando ed esponendo – nel secondo
paragrafo del primo capitolo – il principio primordiale su cui tale concezione si fonda.
L’esistenza di una filosofia africana può essere infatti sostenuta appunto in virtù
dell’esistenza di fondamenti o principi alla base del pensiero e della cultura Bantu. Per
l’individuazione e la caratterizzazione del fondamento della filosofia africana si è fatto
dunque riferimento all’opera fondamentale di P. Tempels Filosofia bantu, che rappresenta
2
La Négritude è un movimento letterario e politico, sviluppatosi negli anni trenta, di cui fecero parte
diversi scrittori neri francofoni. Il termine fu coniato da Aimé Césaire nel 1935 nel terzo numero della
rivista L’Etudiant Noir. Egli rivendicava l'identità e la cultura nera contro quella francese percepita come
strumento di oppressione da parte dell'amministrazione coloniale (Discours sur le colonialisme, Cahier
d’un retour au pays natal). L'idea fu poi ripresa da Léopold Sédar Senghor che l'arricchì opponendo la
‘ragione ellenica’ all' ‘emozione nera’. La nascita di questo concetto e della rivista Présence Africaine,
che apparve nel 1947 contemporaneamente sia a Dakar che a Parigi, ebbe l'effetto di una deflagrazione:
essa, infatti, riuniva i Neri d'ogni nazione, così come gli intellettuali francesi, tra i quali Sartre.
Quest'ultimo definì allora la Négritude come “la negazione della negazione dell’uomo nero”. Dopo
Senghor, la négritude diventa l'insieme dei valori culturali dell'Africa Nera. Per Césaire, questa parola
designa in primo luogo il rifiuto: rifiuto dell'assimilazione culturale; rifiuto di una certa immagine del
nero incapace di costruire una civiltà (cfr. nota n. 29).
appunto la prima trattazione del pensiero filosofico Bantu. Tempels pone al centro della sua
elaborazione la ‘Forza Vitale’ quale nucleo teoretico e fondamento della filosofia africana.
Si è analizzata dunque nello specifico la posizione di due autori contemporanei, il teologo
Igino Tubaldo e il filosofo angolano Pedro F. Miguel, i quali rintracciano entrambi –
concordando con Tempels – il principio su cui si fonda la filosofia africana nella ‘Forza
Vitale’. Il teologo Tubaldo nel suo libro Filosofia in bianco e nero (1995), dopo una
premessa sulla legittimità di una filosofia incentrata sulla ‘Vita’, definisce ed espone tale
fondamento precipuo della teoria filosofica Bantu. Spiega innanzitutto che nella concezione
Bantu i concetti di ‘Vita’ e di ‘Forza Vitale’ coincidono, per cui si può parlare dell’elemento
‘Vita - Forza Vitale’ quale appunto caratteristica di fondo del pensiero africano. Tale
elemento primordiale viene definito dall’autore come l’ “impulso determinante
dell’esistenza e della vita”3. Anche il filosofo Miguel nella sua opera Kijila. Per una
filosofia Bantu (1985) rivendica il valore di principio della nozione di ‘Forza Vitale’
all’interno della filosofia Bantu. Secondo il filosofo angolano infatti la Forza Vitale, la Vita
si configura come il valore supremo della filosofia Bantu: essa costituisce il Fondamento, la
Fonte, l’Origine, la Sorgente, l’Archetipo, il Principio primordiale generatore della realtà, da
cui tutto ha origine e vita. Miguel poi per una definizione della ‘Forza Vitale’ fa riferimento
al poema politico rivoluzionario Sagrada Esperança (1977) dell’angolano Agostinho Neto
(1922-1979)4, che identifica tale principio con la speranza del popolo angolano, soggetto da
cinque secoli al dominio coloniale portoghese, nella lotta per l’indipendenza. Miguel spiega
infine il ruolo primario della Forza Vitale nel pensiero e nella vita dei Bantu, evidenziando
la sua centralità nelle manifestazioni socio-religiose di questo popolo.
Nel secondo capitolo ho dapprima mostrato, in un primo paragrafo dedicato alla filosofia
occidentale, come essa si riveli e si caratterizzi essenzialmente come una concezione
metafisico-razionalistica, ovvero come una Metafisica dell’Essere. La filosofia occidentale
3
4
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, p. 123.
Agostinho Neto nasce il 17 settembre 1922 a Kaxikane, nella provincia di Icolo e Bengo, in Angola.
Dopo gli studi liceali a Luanda, parte per il Portogallo, dove si iscrive alla Facoltà di Medicina di
Coimbra, laureandosi qualche anno dopo a Lisbona. Impegnato nei movimenti antifascisti ed
anticolonialisti, viene incarcerato nel 1951 e, successivamente, dal 1955 al 1957; in questi anni inizia a
scrivere i componimenti che verranno poi raccolti nella Sagrada Esperança. Tornato in Angola, fonda il
MPLA, Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola; viene quindi nuovamente arrestato ed
esiliato nella colonia penale di Capo Verde. Viene liberato nel 1962, anche grazie alle pressioni degli
intellettuali europei, e costretto agli arresti domiciliari in Portogallo. Riesce a fuggire e a tornare in
Africa, dove organizza la guerriglia che conduce l’Angola all’indipendenza l’11 novembre 1975. E’
presidente della Repubblica Popolare dell’Angola, fino alla sua morte, avvenuta l’11 settembre 1979 (cfr.
nota n. 53).
teorizza infatti un’indipendenza, un’eterogeneità, una scissione, una separazione, un
dualismo, una distinzione e demarcazione netta tra l’Essere ovvero Dio o la Ragione – quale
elemento o entità esterna, superiore, sovrannaturale, trascendente e ideale – e il Non Essere
ovvero la Natura o l’insieme dei sentimenti, passioni, emozioni, desideri, impulsi, pulsioni,
istinti, sensazioni e percezioni – quale elemento terreno, naturale, finito, corporeo e
materiale. Tale dicotomia si configura dunque come una vera e propria opposizione,
antagonismo, conflitto, contrapposizione ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore
è assegnata appunto all’Essere supremo e superiore. Si teorizza infatti il ruolo centrale e
prioritario, l’esaltazione, il privilegio, la supremazia e la superiorità di tale elemento
sovrannaturale e trascendente, mentre quello naturale e materiale viene considerato inferiore
e negativo, rappresenta il lato oscuro, l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Secondo questa
concezione metafisico-razionalistica gli esseri sono ordinati secondo una struttura
gerarchico-piramidale che riguarda l’intero universo e che vede al livello più basso i
minerali, le piante e gli animali, mentre al livello superiore l’uomo in quanto essere
razionale e l’Essere Supremo. Si ha così, secondo questa concezione, la negazione, rifiuto e
repressione dell’elemento naturale, terreno e istintuale ovvero dell’Altro, del Diverso –
appunto in quanto risulta negativo e malvagio – da parte dell’Essere superiore o della
ragione.
Dopo il primo paragrafo dedicato alla filosofia occidentale, nel secondo capitolo ho
trattato specificamente le interpretazioni tra loro contrapposte ed antitetiche che il teologo I.
Tubaldo e il filosofo angolano P.F. Miguel forniscono della filosofia africana. Questi
pensatori infatti, pur rintracciando entrambi nella Forza Vitale il fondamento della filosofia
Bantu, presentano poi due caratterizzazioni di tale principio che sono agli antipodi. Tubaldo
infatti – nel suo libro Filosofia in bianco e nero – accoglie e riprende la posizione di
Tempels, caratterizzata dall’identificazione tra Forza Vitale ed Essere. Il teologo infatti –
dopo aver esposto ed illustrato la nozione di Essere, quale fondamento della filosofia
occidentale – identifica la Forza Vitale, quale principio primordiale secondo la filosofia
Bantu, appunto con l’Essere della tradizione filosofica occidentale. Tubaldo, pur
rintracciando la presenza di questa identificazione tra Vita ed Essere anche all’interno della
filosofia occidentale stessa in Tommaso d’Aquino (1221-1274) (che nella Summa
Theologica cita l’asserzione aristotelica “vivere viventibus est esse”: “per il vivente vivere è
essere”5), spiega che essa costituisce il tratto peculiare e precipuo della filosofia africana.
Così – secondo l’interpretazione che il teologo propone della filosofia africana – la nozione
di ‘Vita-Forza Vitale’ coincide dunque con quella di ‘Essere’, ‘Essenza’ o ‘Sostanza’ e si
contrappone a quella di ‘esistenza’ e ‘accidente’. Si ritrova dunque nella filosofia africana,
secondo questo autore, un dualismo ontologico e una contrapposizione antitetica tra ‘Vita’ e
‘vite’ analoga a quella, propria della tradizione filosofica occidentale, tra ‘Essere’ ed ‘esseri’
o ‘enti’ ovvero tra Essere e Natura. Il concetto di ‘Vita’ viene infatti ad essere identificato
con quello di ‘Essere’, quale principio trascendente, sovrannaturale, eterno, superiore ed
assoluto in contrapposizione alle ‘vite’ dei singoli ‘esseri’ o ‘enti’, collocati nella natura o
realtà finita, determinata, molteplice e peritura. Secondo l’interpretazione che Tubaldo offre
della filosofia africana, in linea con quella proposta da Tempels, con ‘Vita-Forza Vitale’ si
intende allora un ‘vitale’ allargato, supremo, superiore e trascendente e l’uomo (il Muntu) si
caratterizza in termini di ragione. Tubaldo fornisce dunque una spiegazione del concetto di
Forza Vitale – principio primordiale su cui si fonda la filosofia africana – in termini
essenzialistici, religiosi e metafisici.
Si è visto anche come, secondo Tubaldo, questa visione africana della Forza Vitale come
Essere costituisca anche la risposta che la filosofia Bantu offre riguardo al problema
filosofico-teoretico della Verità. L’Essere-Verità si configura come ‘Mistero’, ‘Simbolo’ ed
‘Arcano’: vi è infatti l’idea che gli esseri o enti posseggano una propria “interiorità”
intrinseca, una sorta di “velamento protettivo” 6, rappresentato appunto dalla Verità. ‘Verità’
può anche significare ‘coerenza’ nel senso di “fedeltà alla tradizione”, che si caratterizza
nella cultura africana come ‘sapienza’ e ‘saggezza’. Si ritrova, anche a proposito del tema
della verità, la dualità tra la Verità unica ed assoluta dell’Essere contrapposta alle verità
molteplici degli esseri o enti finiti e determinati. La Vita o Forza Vitale dunque, nella
filosofia Bantu, rappresenta l’espressione più “manifestativa” della Verità, la sua
estrinsecazione superiore, suprema ed assoluta.
Così si è mostrato come, sebbene il concetto di Forza Vitale o Vita costituisca il tratto
originale e peculiare della filosofia africana rispetto a quella occidentale, tuttavia la
concezione filosofica africana (secondo la lettura di Tubaldo), identificando tale Forza
Vitale con l’Essere, si riduca ad una concezione metafisica analoga quella occidentale.
5
6
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 132.
Ivi, p. 134.
Infatti, secondo il teologo, come per la filosofia occidentale si può parlare di ‘Metafisica
dell’Essere’, così per quella africana si può parlare di ‘Metafisica della Vita’ (l’autore
sottolinea appunto che “non si tratta di due metafisiche alternative, quanto piuttosto
complementari”7, proprio perché Vita ed Essere si identificano). Tubaldo propone dunque
un’interpretazione della filosofia africana in termini essenzialistici, sostanziali ed ontologici.
Secondo la sua spiegazione infatti la Forza Vitale – quale principio primordiale posto a
fondamento della realtà nella filosofia Bantu – identificandosi con l’Essere della filosofia
occidentale, si colloca all’interno di un quadro e un orizzonte essenzialistico e metafisico.
Nell’interpretazione fornita da Tubaldo dunque la concezione africana, caratterizzata da
connotazioni e tendenze ontologizzanti ed essenzialistiche, viene ridotta ad una “ontologia
‘pura’ ”, ad un “astrattismo”8, ovvero ad una concezione ontologico-metafisica, analoga a
quella propria della tradizione filosofica occidentale.
Nel terzo paragrafo del secondo capitolo ho mostrato come nella posizione di Tubaldo
emerga un’incongruenza o contraddizione interna. All’interno del testo dello stesso Tubaldo
possono infatti essere rintracciati dei passi – che ho appunto in questo paragrafo riportato –
in cui il principio della Forza Vitale non viene identificato con l’Essere, ma al contrario con
la Natura, quale elemento – come si è visto – invece antitetico all’Essere. Si tratta dunque di
una inverosimiglianza, incongruenza o contraddizione interna alla posizione di Tubaldo:
infatti la tesi principale del teologo consiste nella caratterizzazione della filosofia africana in
termini essenzialistici e metafisici, mentre in alcuni passi della sua trattazione l’autore
sembra ammettere una caratterizzazione di tale filosofia in termini naturalistici ed
immanentistici.
Ho poi esposto ed analizzato l’interpretazione che della filosofia africana fornisce il
filosofo angolano P.F. Miguel nel suo libro Kijila. Per una filosofia Bantu, interpretazione
che si configura come antitetica a quella proposta dal teologo Tubaldo. Infatti mentre la
concezione filosofica Bantu viene da Tubaldo concepita come una concezione ontologicometafisica, secondo Miguel essa si caratterizza piuttosto come una concezione naturalistica
ed immanentistica. Il primo identifica infatti – riprendendo Tempels – il principio della
Forza Vitale con l’Essere, sostanza o forma ovvero l’elemento trascendente e
sovrannaturale, il secondo al contrario lo identifica con la Natura, Non Essere o accidente
7
8
Ivi, p. 137.
Ivi, pp. 136-137.
ovvero la realtà terrena, finita, immanente e materiale. Il filosofo angolano dunque, pur
concordando con Tempels e Tubaldo nel riconoscere la Forza Vitale come principio e
“valore supremo” della filosofia Bantu, nega tuttavia che tale principio coincida con
l’Essere della filosofia occidentale. Miguel fornisce dunque un’interpretazione della
filosofia africana antitetica a quella di Tempels e Tubaldo: secondo il filosofo angolano la
filosofia africana si caratterizza infatti non come una metafisica – come invece volevano
questi – ma piuttosto come una forma di naturalismo, immanentismo, panteismo, animismo
o vitalismo.
Si è visto allora come la filosofia africana intesa come una teoria filosofica naturalistica
o immanentistica si pone agli antipodi e in antitesi rispetto alla concezione metafisica, attua
il ribaltamento e rovesciamento di essa. Anche secondo questo modello infatti – come nella
concezione metafisico-razionalistica – si definiscono due sfere e realtà indipendenti,
ontologicamente separate e distinte, quali appunto l’Essere, sostanza, Dio o Ragione –
ovvero l’elemento esterno, superiore, sovrannaturale, trascendente ed ideale – e il Non
Essere, la Natura o accidente – ovvero l’elemento terreno, finito, materiale e corporeo, che
nell’uomo è rappresentato dall’elemento sentimentale, passionale ed istintivo. Si stabilisce
così un dualismo filosofico che si configura anche qui come un antagonismo, una dicotomia
e una contrapposizione antitetica. Ma nel naturalismo o immanentismo vi è un ribaltamento
e un rovesciamento di questa dicotomia, teorizzata dalla concezione metafisicorazionalistica. Infatti nel naturalismo immanentistico la positività, la priorità di valore viene
assegnata non più all’entità suprema e superiore, ma al contrario proprio all’elemento
terreno, finito, naturale (che rappresenta appunto l’Alterità, l’Altro da Sé, il Diverso), di cui
si teorizza l’esaltazione, la superiorità e il ruolo centrale e prioritario. Questo modello
filosofico rifiuta allora la concezione metafisico-razionalistica secondo cui l’elemento
naturale, materiale e terreno è inferiore e subalterno rispetto ad un Essere superiore, astratto,
ideale e sovrannaturale. In questa concezione si ha dunque il rifiuto, la negazione e la
confutazione della tesi secondo cui principio primario e fondamentale della realtà va
ricercato in un Essere metafisico e trascendente e l’affermazione di un’interpretazione
secondo cui tale fondamento va rintracciato nella Natura, immanente e materiale.
Si è visto dunque come secondo la posizione di Miguel la concezione filosofica africana,
in quanto caratterizzata appunto dall’identificazione tra la Forza Vitale e la Natura quale
realtà immanente, terrena, materiale e finita, si configura come una concezione naturalistica
ed immanentistica ovvero come una forma di panteismo, animismo o vitalismo. Il filosofo
angolano cita altri pensatori che, come lui, hanno fatto e fanno coincidere il concetto di
Forza Vitale con quello di Natura e forniscono un’interpretazione della filosofia africana in
termini naturalistici ed immanentistici: Senghor, uno dei fondatori del movimento della
négritude (cfr. note n. 2 e 29), gli scrittori angolani contemporanei Boaventura Cardoso con
la sua opera Dizanga dia Muenhu (‘Mare di Forza Vitale’) e Oscar Ribas con il suo
romanzo Uanga (‘Feticcio’), l’angolano Agostinho Neto (cfr. note n. 4 e 53) con il suo
poema politico rivoluzionario Sagrada Esperança. Miguel stesso espone poi in cosa
consiste questo principio fondamentale della Forza Vitale intesa appunto come Natura: la
Forza Vitale è presente in tutte le cose ovvero nella natura, nella terra, negli animali, nelle
piante, nei minerali, nel clima e in tutti i fenomeni naturali – elementi che secondo la
concezione ontologico-metafisica si collocavano invece ai livelli più bassi della scala
gerarchica dell’Essere. Per questo si parla del concetto di ‘armonia cosmica’ come uno dei
tratti essenziali caratteristici del pensiero africano, secondo cui gli elementi della realtà non
sono concepibili separatamente gli uni dagli altri, ma sono intimamente connessi e congiunti
insieme a formare un unico Tutto. Secondo questa visione naturalistico-immanentistica
l’uomo (il Muntu) si caratterizza in termini di sentimenti, emozioni, passioni, pulsioni,
impulsi, percezioni e sensazioni (si parla infatti di muxima ovvero ‘cuore’, inteso come sede
appunto di sentimenti, emozioni, percezioni etc.), e non in termini di ragione, come vuole
invece la tradizione razionalistico-metafisica occidentale o l’interpretazione metafisica della
filosofia africana di autori quali Tempels e Tubaldo.
Ho mostrato poi come Miguel spiega questa coincidenza ed identificazione del principio
della Forza Vitale con la Natura nella cultura e nella filosofia Bantu attraverso l’analisi della
lingua Kimbundu. Il filosofo spiega che nella lingua Kimbundu la parola-uomo, parolaanimale o parola-oggetto possiedono una particella caratteristica che si ripropone all’interno
della frase: tale particella correlante rappresenta la loro Forza Vitale che si propaga e si
diffonde su tutti gli elementi del discorso con esse connessi. Secondo i Bantu Kimbundu se
si privassero le parole di queste particelle correlanti e ci si limitasse a mettere insieme nella
frase delle parole – proprio come avviene nelle lingue europee – la Forza Vitale rimarrebbe
allo stato latente e si interromperebbe il flusso della Forza Vitale che attraversa e dinamizza
il linguaggio. Dall’analisi della lingua Kimbundu svolta da Miguel emerge dunque la stretta
corrispondenza e connessione, nella cultura Bantu, tra il linguaggio e la realtà: il linguaggio
si configura infatti come una manifestazione ed estrinsecazione della Forza Vitale-Natura
quale principio e fondamento della realtà (e dunque anche come depositario della sapienza o
saggezza ancestrale e atavica, che si trasmette attraverso la tradizione).
Ho infine esposto la trattazione di Miguel dello statuto ontologico ed epistemologico
della Forza Vitale. Il filosofo dimostra che all’interno del pensiero Bantu non è plausibile
identificare la Forza Vitale con l’Essere, ma al contrario è necessario far coincidere tale
principio con la Natura ovvero con il Non Essere o Esserci. Miguel spiega infatti che mentre
nelle lingue europee il termine ‘essere’ (‘être’, ‘Sein’, etc.) ha significato, il termine
Kimbundu corrispondente ‘kala’ al contrario non ha alcun significato; acquista significato e
validità solo se è congiunto alla preposizione avverbiale ku, che indica la connotazione
spazio-temporale, movimento, dinamismo, situazione e storicità. Così il termine Kimbundu
kukala non corrisponde all’ ‘Essere’ della tradizione filosofica occidentale, ovvero non si
configura come “pura nozione”9, non si presenta in forma concettualizzata, statica ed
astratta; al contrario corrisponde all’ ‘Esserci’ (‘y être’, ‘Dasein’, etc.), ovvero si configura
come “tensione”10, si presenta appunto in forma storicizzata, situazionale, dinamica.
E’ dunque risultato evidente che l’interpretazione che il filosofo angolano Miguel
fornisce della filosofia africana si configura come antitetica a quella proposta da Tempels e
dal teologo Tubaldo. Infatti mentre questi identificano il principio della Forza Vitale con
l’Essere trascendente e sovrannaturale e concepiscono la visione Bantu come una
concezione ontologico-metafisica, Miguel al contrario fa coincidere la Forza Vitale con il
Non Essere, Esserci o Natura, quale realtà terrena, finita, immanente, e materiale, e
caratterizza la concezione filosofica Bantu come una concezione naturalistica,
immanentistica, panteistica, animistica e vitalistica.
I.
9
10
La Forza vitale come fondamento nella filosofia africana
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, p. 36.
Ibidem.
I.1
Sull’esistenza della filosofia africana o Bantu
Con ‘Bantu’, termine che può essere tradotto in italiano con ‘gente’, ‘popolo’, vengono
identificate molte stirpi dell’Africa Nera (che è quella che viene presa in considerazione in
questa tesina) – abitata nella maggior parte appunto da popolazioni di etnia Bantu – ovvero
quella compresa tra il deserto del Sahara e il deserto del Kalahari e tra l’Oceano Atlantico e
l’Oceano Indiano. E’ impossibile parlare di una “visione monolitica” 11 riguardo alle culture
presenti nell’Africa Nera. Così ‘Bantu’, come spiega il filosofo angolano Pedro Miguel, “ha
una risonanza vasta e varia, almeno quanto quella del termine ‘occidentale’ ”: “all’interno
dei ‘Bantu’ ” infatti “esistono notevoli differenze, spesso antagoniche” 12. Vi sono tuttavia
elementi comuni rintracciabili all’interno delle differenti culture delle molteplici stirpi di
etnia Bantu, che permettono di parlare di un pensiero o filosofia Bantu.
A partire dall’inizio del XX secolo l’esistenza della filosofia africana o Bantu è stata
oggetto di un ampio dibattito, che continua ancora oggi, da parte di filosofi occidentali e di
filosofi africani stessi13. La maggior parte dei pensatori e filosofi occidentali ha negato e
nega l’esistenza di una filosofia africana: all’interrogativo riguardo all’esistenza di una
filosofia africana essi hanno risposto e rispondono infatti con un netto rifiuto. Vi è, ad
esempio, chi scrive: “Ho girato l’Africa; mi sono interessato delle tradizioni africane, ma
non ho visto la cultura africana”14. Tanto meno, quindi, secondo questo autore, si può
parlare di ‘filosofia’ africana. Già il teologo e filosofo della religione Rudolf Otto (18961937) scriveva: “Non ci può essere filosofia dove il pensiero è ancora chiuso nella
cosiddetta sfera del numinoso, del pre-logico, del tutto inafferrabile alla comprensione
concettuale, col suo stravagante linguaggio del capriccio, cioè, dei simboli e dei miti”15. Il
filosofo ed etnologo francese Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939) elabora la teoria del
“prelogismo” dei “primitivi”, secondo cui la “mentalità primitiva” sarebbe “prelogica” o
“alogica”. In base alla teoria del “prelogismo” infatti i “primitivi” mancherebbero di logica:
11
12
13
14
15
P.F. Miguel, Muxima. Sintesi epistemologica di filosofia africana, p. 10.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 13.
Riguardo al dibattito filosofico sull’esistenza della filosofia africana cfr. P.F. Miguel, Kijila. Per una
filosofia Bantu, cit., pp. 16-22; I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., Prima parte: “Ex Africa
sempre aliquid novi”, cap.II Filosofia africana, § 1 Esiste?, pp. 63-69, § 2 Ci sono filosofi africani?, pp.
70-74; J. Jahn, Muntu. La civiltà africana moderna, pp. 103-107; F. Lopes, Filosofia intorno al fuoco. Il
pensiero africano contemporaneo fra memoria e futuro, cap. III Issiaka-Prosper Lalêye § 1 Sull’esistenza
della filosofia africana, pp. 75-81.
B. Bernardi, Uomo, cultura e società. Introduzione agli studi etno-antropologici, p. 26.
G. Penzo, R. Gibellini, Dio nella filosofia del novecento, p. 127.
essi sarebbero caratterizzati cioè da una struttura psichica che ignora e in cui non vigono i
principi di identità, di non contraddizione – ovvero una struttura psichica in cui “gli oggetti,
gli esseri, i fenomeni possono essere, in un modo per noi incomprensibile, se stessi e, nel
contempo, qualcosa d’altro”16 – e di causalità e in virtù della quale la loro mentalità è
differente da quella occidentale17. Non si rileva dunque possibile “stabilire un qualche
collegamento tra la mentalità africana” così caratterizzata – ovvero collocata nelle categorie
del “prelogico”, del “mistico” o dell’ “aconcettuale” – “e i sistemi speculativi europei” 18: si
teorizza così l’impossibilità dell’esistenza di una filosofia africana. Anche molti intellettuali
africani, come abbiamo accennato sopra, si sono posti la domanda sull’esistenza di una
filosofia africana. Issiaka-Prosper Lalêye, ad esempio, nel suo articolo La philosophie?
Pourquoi en Afrique! (1973) si domanda appunto se esiste o no una filosofia africana; la
domanda sull’esistenza della filosofia africana, secondo questo pensatore, “presuppone
un’indagine, un esame di tutto il pensiero africano attualmente accessibile, che consente di
vedere se esso meriti o no di essere considerato filosofico” 19. Anche il filosofo angolano P.
Miguel parla di “coloro che disperano vi possa essere un’autentica filosofia africana,
finalmente libera di essere se stessa”20.
Vi sono stati e vi sono invece pensatori e filosofi che hanno sostenuto e sostengono la
tesi dell’esistenza di una filosofia africana. Già nel 1927 l’antropologo americano Paul
Radin (1883-1959) scrisse Primitive Man as a Philosopher. Ma la prima dimostrazione
dell’esistenza di un pensiero filosofico all’interno del popolo Bantu e la prima trattazione
sistematica di esso si deve al francescano belga Placide Tempels (1906-1977). Questi,
partito per il Congo (Zaire) nel 1933 per svolgere un’attività da missionario, tra il 1944 e il
1945 scrive la celebre opera Filosofia bantu, nella quale realizza appunto la prima sintesi
filosofica ed espone i fondamenti del pensiero Bantu. Tempels, in quanto studioso della
‘filosofia Bantu’, incontra notevoli difficoltà, in particolar modo da parte del suo vescovo,
mons. Jean Félix de Henptinne, vicario apostolico del Katanga. Tempels, riferendo in una
16
17
18
19
20
L. Lévy-Bruhl, Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures, p. 77.
Lévy-Bruhl verso la fine della sua vita ha abbandonato la teoria del “prelogismo”. “In alcune note
postume egli si domanda perfino come abbia mai potuto formulare una ipotesi così infondata” (J. Jahn,
Muntu. La civiltà africana moderna, p. 104) e giunge alla conclusione che “la struttura logica dello spirito
è identica in tutti gli uomini” (L. Lévy-Bruhl, Les carnets, p. 73).
J. Jahn, Muntu. La civiltà africana moderna, op. cit., p. 104.
F. Lopes, Filosofia intorno al fuoco. Il pensiero africano contemporaneo fra memoria e futuro, op. cit.,
pp. 76-77.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 16.
lettera ad un suo confratello (padre Gustaaf Hulstraert) l’incontro avuto con il vescovo,
scrive infatti che questi gli ha ricordato che “gli Apostoli, i Padri della Chiesa e i Santi non
persero il loro tempo a studiare i vizi e le turpitudini del paganesimo”. A causa della
pubblicazione del libro, Tempels è costretto a rientrare in Belgio in forzato esilio. L’opera di
Tempels si rivela fondamentale in quanto dimostra, contro le tesi di Lévi-Bruhl e della sua
scuola, che esiste una sapienza e un pensiero Bantu coerente e logico, riducibile a schemi
filosofici.
L’opera di Tempels ha dato origine ad un ampio dibattito filosofico: “alle tesi presentate
dal Tempels ci sono stati” infatti “consensi e anche forti contrasti” 21. C’è chi ha parlato
dell’opera come di una “scoperta capitale”, “un primo passo sulla riabilitazione delle culture
africane”. Altri invece hanno fortemente contestato l’opera di Tempels. Questi viene
accusato di aver scritto questo libro per ingraziarsi i colonizzatori bianchi, in quanto con l’
‘invenzione’ di una ‘filosofia Bantu’ ha giustificato la cosiddetta ‘missione civilizzatrice
degli europei’. “Si tratterebbe, quindi, di una filosofia esclusivamente ‘diversiva’, allo scopo
di distogliere e scaricare le tensioni indipendentiste degli africani, che già si facevano
sentire”22. Secondo alcuni poi l’opera di Tempels si rivela un’ “indagine carente” 23, in
quanto questi dall’esame di una tribù ha costruito e inventato un sistema filosofico. Altri
(soprattutto studiosi e filosofi africani quali Kagame, Towa, Boulaga ed altri) riscontrano
nell’opera di Tempels un “rilevante equivoco di fondo” 24: è l’autore che vede in queste
culture una ‘filosofia’, ma in realtà si tratta al massimo di ‘etno-filosofia’ o ‘pensiero
implicito’. Il filosofo belga Franz Crahay scrive infatti: “Tempels abusa delle parole
filosofia, ontologia metafisica […] perché non è possibile una filosofia basata
sull’irrazionale, sulla magia, sui miti, su sistemi prelogici; dovrebbe essere pacifico che
filosofia non è solo il linguaggio dell’esperienza, ma sull’esperienza. Tempels, e altri come
lui, hanno parlato di filosofia bantu anzi tempo, prima che ci fosse, nella speranza che ci sia
o chissà per quale altro motivo! Per avere una filosofia bantu occorre che in queste società
africane esistano dei riflettori pensanti, che invece non esistono. Da noi Aristotele si è
riflesso in Platone; Agostino in Platone; Tommaso in Aristotele, Kant in Hume, e così via.
Dove sono in Africa questi potenti riflettori? Dove gli scrutatori o gli speleologi dell’essere
21
22
23
24
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 71.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 72.
o soltanto i suoi ‘pastori’?” Si assume dunque che riguardo al mondo e alla cultura africana
non si possa parlare di filosofia. Al massimo allora si può parlare, secondo alcuni, appunto
di ‘etno-filosofia’, ovvero di una “valorizzazione in chiave filosofica degli studi
etnologici”25. Ma l’ ‘etno-filosofia’, fondata essenzialmente su del materiale descrittivo del
comportamento di un popolo (credenze sulle divinità e sugli antenati, miti, leggende,
proverbi, lingue, cerimonie, danze, etc.) non è ancora filosofia: non si può parlare di
filosofia se si resta chiusi nell’ambito dell’etnologia o dell’antropologia, basate sulla mera
raccolta di dati culturali26.
Vi è invece chi afferma e sostiene che una filosofia africana esiste, come K. C.
Anyanwu, che in The American Export and the Academic Market: A Comparative Study of
Cultural Philosophy (1983) sostiene che “esiste una filosofia dell’esperienza africana
mediata dalla cultura africana”27. E’ comunque innegabile che Tempels con la sua opera, da
alcuni accettata e da altri criticata, ha aperto in Africa una “strada nuova” 28: da allora
numerosi pensatori hanno riflettuto e riflettono tuttora sulla cultura africana, arricchendo
con i loro scritti il patrimonio filosofico dell’Africa. Basti pensare ai tre celeberrimi artistifilosofi fondatori negli anni trenta del movimento della négritude29 Leopold Sédar Senghor,
Aimé Césaire e Léon Contran Demas, portavoce appunto dell’idea della négritude come
forma di valorizzazione della cultura africana. Si può ricordare anche Léo Frobenius, autore
di Histoire de la Civilization Africaine (1936), il belga Franz Crahay, che in La decollage
conceptuel: condition d’une philosophie bantu (1965) espone a quali condizioni la filosofia
africana potrebbe avviarsi verso un ampio sviluppo, e Dismas A. Masolo con Some Aspects
and Perspectives of African Philosophy Today (1981). L’etnologo francese Marcel Griaule
Ivi, p. 66.
Cfr. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., pp. 66-68.
27
Ivi, p. 68.
28
Ivi, p. 72.
29
La Négritude è un movimento letterario e politico, sviluppatosi negli anni trenta, di cui fecero parte diversi
scrittori neri francofoni. Il termine fu coniato da Aimé Césaire nel 1935 nel terzo numero della rivista
L’Etudiant Noir. Egli rivendicava l'identità e la cultura nera contro quella francese percepita come strumento
di oppressione da parte dell'amministrazione coloniale (Discours sur le colonialisme, Cahier d’un retour au
pays natal). L'idea fu poi ripresa da Léopold Sédar Senghor che l'arricchì opponendo la ‘ragione ellenica’
all' ‘emozione nera’. La nascita di questo concetto e della rivista Présence Africaine, che apparve nel 1947
contemporaneamente sia a Dakar che a Parigi, ebbe l'effetto di una deflagrazione: essa, infatti, riuniva i Neri
d'ogni nazione, così come gli intellettuali francesi, tra i quali Sartre. Quest'ultimo definì allora la Négritude
come “la negazione della negazione dell’uomo nero”. Dopo Senghor, la négritude diventa l'insieme dei
valori culturali dell'Africa Nera. Per Césaire, questa parola designa in primo luogo il rifiuto: rifiuto
dell'assimilazione culturale; rifiuto di una certa immagine del nero incapace di costruire una civiltà (cfr. nota
n. 2).
25
26
ha studiato per molti anni i Dogon, popolazione che vive presso la grande curva del Niger.
Ogotemmeli, un vecchio saggio di questa popolazione, ha esposto all’etnologo in modo
sistematico, anche se ricorrendo ad un linguaggio poetico e figurato, in colloqui protrattisi
per trentuno giorni il sistema del mondo, la metafisica e la religione dei Dogon. Griaule ha
poi trascritto nel suo libro Dio d’acqua. Incontri con Ogotemmeli (1948) le concezioni di
questa popolazione: si tratta di “un sistema del mondo che, a conoscerlo, manda in aria tutte
le idee che ci si erano fatte sulla mentalità dei primitivi in genere e, in specie, su quella dei
negri”30. Una collaboratrice di Griaule, Germane Dieterlen, ha studiato ed esposto nel suo
libro Essai sur la religion bambara (1950) la religione della popolazione dei Bambara.
Maya Deren, un’attrice afro-americana degli Stati Uniti che nel 1947 si è recata a Haiti per
girare un film sul culto vodu, si è fatta iniziare a questa religione, che ha illustrato in
un’esposizione sistematica (Gli dei viventi di Haiti, 1953). Alexis Kagame, del Ruanda,
nella sua opera La philosophie Bantu-Rwandaise de l’Etre (1956) prova l’esistenza di
un’ontologia Bantu attraverso lo studio della sua lingua materna, il Kinyaruanda, lingua in
cui, come in tutte le lingue Bantu, i sostantivi sono raggruppati in classi 31. Nel suo libro i
concetti del sistema speculativo Bantu vengono precisati mediante il confronto con quelli
del pensiero europeo. Vincent Mulago, sacerdote cattolico dell’ex Congo Belga, tratta di un
“vitale” superiore (L’union vitale chez les Bashi, les Banyarwanda et les Barundi; Un
visage africain du Christianisme – L’union vitale bantu face à l’unité vitale ecclésiale,
1955; La religion traditionnelle des Bantu e leur vision du monde, 1973). John S. Mbiti,
sacerdote anglicano del Kenya, nella sua opera principale African Religions and Philosophy
(1969) tratta soprattutto la cosmologia africana, analizzando in particolare il concetto di
tempo. Nel 1960 l’International African Institute of London ha tenuto in Salisbury
(Rodesia) il Terzo Seminario Internazionale sull’Africa sul tema: “I sistemi africani di
pensiero”. Negli Atti si trova scritto: “Il meccanismo mentale degli africani non è differente
dal nostro; procedendo per analisi e sintesi, hanno il senso della dialettica”.
Per quanto riguarda pensatori più recenti si possono citare Paulin J. Hountondji con
Histoire du Mythe (1974) e soprattutto Sur la Philosophie Africane (1980); Fabien Eboussi
Boulaga con La Crise du Muntu – Authenticité Africaine et Philosophie (1977); Marcien
Towa con L’idée d’une philosophie negro-africaine (1979); e i filosofi della cosiddetta
30
31
M. Griaule, Dio d’acqua. Incontri con Ogotemmêli, p. 9.
L’opera di Kagame è stata duramente criticata da Paulin J. Hountondji, che ha definito quella di Kagame
una ‘etno-filosofia’ (vedi sopra).
“dignità e personalità africana” Edward Wilmont Blyden e Kwame Nkrumah. Si possono
inoltre ricordare filosofi africani come Cherk Anta Diop per Civilization and Barbarism. An
authentic antropology (1991); K. C. Anyanwu per African Philosophy (1981); Odera Oruka
per Trends in contemporary african philosophy (1990) e Sage philosophy (1991); K.
Wiredu per Philosophy and african culture (1980) e il monzambicano Severino Elias
Ngoenha per Filosofia Africana – Das Independências às Liberdades (1993).
Di particolare interesse risulta la posizione – che in questo lavoro appunto è stata assunta
– del filosofo angolano Pedro F. Miguel. Questi scrive: “Dissentiamo, tuttavia, da quei
filosofi, africani o meno, che, nelle loro elaborazioni alla ricerca di una specificità filosofica
africana dei popoli Bantu, vengono assaliti dalla preoccupazione di trovare parallelismi
comparativi ed analogie con il pensiero occidentale, per arrivare alla dimostrazione che
anche i Bantu sono ragionevoli come gli occidentali, che la ragione è universale e che,
quindi, anche il pensiero Bantu si esprime attraverso categorie identiche a quelle
occidentali”32. E ancora: “Ugualmente dissentiamo da quei filosofi, africani o meno, che, per
le loro elaborazioni filosofiche sulla filosofia Bantu, ritengono non necessaria la presenza
del fattore linguistico quale veicolo di contenuti ontologici, argomentando che, così
operando, si cadrebbe in un pluralismo filosofico, senza mai approdare al porto della
‘Ragione Universale’ ”33. Miguel ritiene quindi che “se (gli africani) hanno una filosofia, lo
statuto epistemologico di essa non deve essere misurato assumendo la filosofia aristotelica o
le filosofie di stampo occidentale quali punti di riferimento; […] quindi, se esiste una
filosofia Bantu, essa deve imporsi secondo la sua propria forza e la sua propria
epistemologia”34.
Miguel dunque assume che la filosofia africana esiste, anche e “soprattutto perché”,
come abbiamo visto, “ci sono ‘filosofi africani’, che riflettono sulla propria cultura” 35. Ma
con questa assunzione che la filosofia africana esiste il filosofo non vuole stabilire una
connessione tra la mentalità africana e i sistemi speculativi europei: non vuole intendere
cioè, come invece facevano Tempels e altri pensatori africani e non, che esiste un pensiero
Bantu coerente e logico, riducibile agli schemi razionalistici occidentali. Al contrario
Miguel rivendica l’esistenza della filosofia africana nella sua peculiarità, ovvero di una
32
33
34
35
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 17.
Ivi, pp. 17-18.
Ivi, p. 18.
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 68.
filosofia africana caratterizzata appunto da alogicità, aconcettualità, misticismo,
irrazionalità, istintualità, la cosiddetta “emozione nera” dei poeti della négritude come
valore culturale dell’Africa Nera, contrapposta alla Ragione coerente, logica e astratta della
filosofia occidentale.
I.2 La Forza Vitale come fondamento nella filosofia africana
Si può sostenere l’esistenza di una filosofia africana (cfr. § I.1 Sull’esistenza della
filosofia africana o Bantu), in quanto “nella sua visione del mondo esistono per il Bantu
principi costanti e ricorrenti, comuni e irriducibili”36. Si può dunque affermare che l’Africa
possegga una “visione del mondo”, intesa come “riflessione filosoficamente valida” 37, o un
“apparato di pensiero filosofico proprio”38, in virtù dell’esistenza di fondamenti alla base del
pensiero Bantu che fanno sì che si possa parlare appunto di ‘filosofia’ africana. Si vogliono
allora indagare ed esporre tali principi che sono a fondamento della filosofia Bantu. Si è già
illustrata la rilevanza dell’opera di P. Tempels Filosofia bantu (1944-45) (cfr. § I.1
Sull’esistenza della filosofia africana o Bantu), che rappresenta la prima sintesi filosofica ed
esposizione sistematica dei fondamenti del pensiero Bantu. Tempels pone al centro della sua
elaborazione la ‘Forza Vitale’ e il ‘Muntu’ (persona)39 quali “perni attorno ai quali girano
tutti i valori umani e cosmici”40. La Forza Vitale si configura infatti come il nucleo teoretico
ed il fondamento della filosofia africana; essa costituisce “il vero e proprio nucleo
incandescente dal quale traggono energia e significato tutte le manifestazioni
antropologiche e culturali dei Bantu”41.
L’ontologia presentata da Tempels ha trovato oppositori anche all’interno dei Bantu
stessi. Ad esempio B. Kiami critica l’idea di ‘Forza Vitale’ come fondamento della realtà in
quanto non ritiene che sia “primordiale” come sostiene Tempels: “Si tratta di sapere se il
‘Muntu’ adulto è riuscito a costruire in sé, a partire da questa esperienza, una nozione di
essere cosciente, esplicita ed elaborata in una visione sintetica […] Dire che il ‘Muntu’ ha
36
37
38
39
40
41
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 21.
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 65.
Ivi, p. 69.
Cfr. P. Tempels, Filosofia bantu, cap. II, IV.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 20.
Ivi, p. 14.
sempre pensato senza ‘pensare essere’ è negargli tutta la vita intellettuale. Se il ‘Muntu
antico’ concepiva confusamente l’Essere egli lo concepiva in un altro modo rispetto al
‘Muntu contemporaneo’ o l’uomo occidentale […] Io non credo veramente che i Bantu
abbiano un concetto differente dagli altri uomini. Tutto quello che si può dire è che né nella
pratica scientifica, né in quella metafisica, propriamente dette, essi scandagliano la
profondità dell’Essere in tutta la sua estensione, né in tutte le sue profonde radici” 42.
Il teologo Igino Tubaldo invece, nel suo libro Filosofia in bianco e nero (1995),
concordando con Tempels, Senghor ed i loro seguaci, rintraccia nella Forza Vitale il
principio su cui si fonda la filosofia Bantu 43. Tubaldo mette subito in evidenza quello che
secondo lui sarebbe il più grave degli errori ed equivoci da parte di chi si avvicina al mondo
africano: rilevata la centralità e la rilevanza della Vita e della Forza Vitale all’interno del
pensiero africano, non riconoscere che si tratti di filosofia. L’autore, a sostegno della tesi
che un pensiero incentrato sulla vita costituisca una filosofia a tutti gli effetti, cita pensatori
la cui concezione ha come nucleo teoretico appunto il tema della vita 44: Antonio Rosmini
Serbati (1797-1855) con la sua teoria del “sentimento fondamentale” e dell’ “animazione
universale”; Henri Bergson (1797-1855) con l’Elan vital; José Ortega y Gasset (1883-1955),
la cui metafisica si basa proprio sul tema della vita; o il pensiero russo, incentrato sull’essere
concepito come “organismo, vivente unitotalità, di cui le nostre vite sono parte” 45. Più avanti
Tubaldo parla anche del Dio delle religioni come di un Dio “amante della vita” (Sap. 11,
26), “scrigno della vita” (1 Sam. 25, 14-24); centrale è anche il ruolo della “Spiritus vitae”,
quale “soffio di vita” (pneuma Zoés) (Apoc. 11, 11) e “grazia della vita” (kàritos Zoés) (1
Pet. 3, 7). Tubaldo fa riferimento anche alla tradizione rabbinica, secondo cui esiste nel
cielo una “rugiada della vita” o “rugiada luminosa” che ravviva i morti (Isaia 26, 19). Infine
nel cristianesimo Cristo si configura come il “Verbum vitae” e la vita come imperitura: con
la morte infatti “vita mutatur non tollitur” (la vita non è tolta, ma trasformata)46. Il pensiero
Bantu dunque, fondato appunto sulla nozione di ‘vita’, costituirebbe, secondo Tubaldo, una
42
43
44
45
46
Cit. da R. R. de Asùa Altuna, in Cultura Bantu e Cristianesimo, pp. 13-14.
Riguardo al tema della ‘Forza Vitale’ come fondamento della filosofia Bantu in I. Tubaldo, cfr. I.
Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., Seconda parte: Lineamenti di filosofia africana, cap. II
Essere - Vita - Forza vitale, pp. 121-125, cap. III Metafisica dell’essere e della vita, § 2 Vita - Forza
vitale, pp. 128-131.
Cfr. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 121.
N. Bosco, Il pensiero religioso russo, in Dio nella filosofia del Novecento, op. cit., pp. 502-512.
Cfr. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., pp. 122-123.
delle possibili “accentuazioni differenti” caratteristiche di una “Philosophia perennis”47,
ovvero di una filosofia non intesa come un sistema statico e definito, ma come un pensiero
dinamico in continua formazione. La ‘Vita’ dunque, sostiene Tubaldo, può essere oggetto di
riflessione ed indagine filosofica: come asserisce Wilhem Dilthey (1833-1911), teorico della
“filosofia vitalistica”, la vita “è l’unico, oscuro, spaventevole oggetto di ogni filosofia”.
Dopo questa premessa sulla legittimità di una filosofia incentrata sulla ‘Vita’, Tubaldo
sostiene allora che appunto la ‘Vita’ costituisce il cuore ed il principio fondamentale della
cultura Bantu – cultura caratterizzata da un carattere sapienzale48. L’autore sottolinea anche
come nella cultura africana la categoria della Vita e le sue manifestazioni abbiano
un’estensione particolarmente ampia. Tubaldo allora definisce ed espone tale fondamento
precipuo della teoria filosofica Bantu. Innanzitutto spiega che nella concezione Bantu i
concetti di ‘Vita’ e di ‘Forza Vitale’ coincidono, si identificano, per cui si può parlare
dell’elemento ‘Vita - Forza Vitale’ quale appunto caratteristica di fondo del pensiero
africano. Gli africani hanno una terminologia molto varia per indicare tale concetto di ‘Vita’
o ‘Forza Vitale’: ‘vita’, ‘forza vitale’, ‘rinforzare la vita’, ‘forza del nostro essere intero’,
‘forza della nostra vita’, ‘Line-force’… Tale elemento primordiale viene definito dall’autore
come l’ “impulso determinante dell’esistenza e della vita” 49. Si può allora affermare che per
una filosofia così caratterizzata – ovvero una filosofia la cui fonte filosofica è costituita
appunto dalla ‘Vita’ o ‘Forza Vitale’ – “non si tratta più” come scrisse Edith Stein (18911942) “di cercare la verità, ma di vivere la verità”.
Anche il filosofo angolano Pedro F. Miguel nella sua opera Kijila. Per una filosofia
Bantu (1985) rivendica, concordando con Tempels, Senghor ed i loro seguaci, il valore di
principio della nozione di ‘Forza Vitale’ all’interno della filosofia Bantu 50. Infatti la Forza
Vitale, la Vita si configura come il valore supremo della filosofia Bantu: essa costituisce il
Fondamento, la Fonte, l’Origine, la Sorgente, l’Archetipo, il Principio primordiale
generatore della realtà, da cui tutto ha origine e vita. Niente può essere spiegato senza di
47
48
49
50
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 122.
Nel II Congresso degli scrittori e artisti neri, tenutosi dal 26 marzo al 1 aprile 1959, la cultura africana è
stata definita come “vera sapienza, complementare ad altri tipi di sapienza umana”.
Per il concetto di ‘sapienza’ o ‘saggezza’ nella cultura africana cfr. § II.2 La filosofia africana come
Metafisica secondo I. Tubaldo: la Forza Vitale identificata con l’Essere.
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 123.
Riguardo al tema della ‘Forza Vitale’ come fondamento della filosofia Bantu in P.F. Miguel, cfr. P.F.
Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., pp. 20-26.
essa, come illustra Miguel riportando un proverbio Kimbundu 51: “Dibengu katulukê diie:
uadiangela ku-di-banda”, che significa “Il topo non scende dalla palma se prima non vi si è
arrampicato”52, ovvero non vi è effetto senza causa.
Miguel per una definizione della ‘Forza Vitale’ fa riferimento al poema politico
rivoluzionario Sagrada Esperança (1977) dell’angolano Agostinho Neto (1922-1979)53. La
Forza Vitale viene identificata da Neto con la speranza del popolo angolano, soggetto da
cinque secoli al dominio coloniale portoghese, nella lotta per l’indipendenza. Si tratta,
spiega Miguel, di “una forza che spera contro ogni speranza”54: “Ma la vita / uccise in me
questa mistica speranza / Io, più non spero / sono colui che si aspetta” 55. La Forza Vitale si
configura qui, secondo Miguel, come una “sperandarum substantia rerum”56: è la speranza
in sé stessi, nelle proprie azioni e nelle cose. Il nucleo dell’opera di questo poeta è
rappresentata da alcuni versi di “Notte di Carcere”, in lingua Kimbundu: “ ‘Xi ietu Manu /
Kolokota / Kizua a ‘ndo tu bomba / Kolokotenu”, che significa “E’ la nostra terra, fratello /
Forza! / Un giorno ci consoleranno / Forza!” 57 Miguel analizza allora la poesia, rilevando
che il termine chiave è kolokota, tradotto con “Forza!”. Si tratta dell’imperativo del verbo
kukolokota che significa ‘ostinarsi’, ‘insistere’, ‘persistere con energia vitale’; il sostantivo
che ne deriva è kukola che significa infatti ‘forza’, ‘energia vitale’. Così Miguel propone
una differente traduzione di kolokota, che si rivela “un po’ meno letterale e più rispondente
ai significati espressi dalla lingua Kimbundu” 58: “Continuiamo a difendere, Fratelli, la
nostra terra, / con tutta l’energia vitale che abbiamo, / perché la terra è nostra” 59.
51
52
53
54
55
56
57
58
59
La stirpe Kimbundu, appartenente sempre all’etnia Bantu, si colloca nell’Angola centro-occidentale,
nella fascia tra Luanda, capitale dell’Angola, e la città di Malange.
O. Ribas, Misoso, p. 185.
Agostinho Neto nasce il 17 settembre 1922 a Kaxikane, nella provincia di Icolo e Bengo, in Angola.
Dopo gli studi liceali a Luanda, parte per il Portogallo, dove si iscrive alla Facoltà di Medicina di
Coimbra, laureandosi qualche anno dopo a Lisbona. Impegnato nei movimenti antifascisti ed
anticolonialisti, viene incarcerato nel 1951 e, successivamente, dal 1955 al 1957; in questi anni inizia a
scrivere i componimenti che verranno poi raccolti nella Sagrada Esperança. Tornato in Angola, fonda il
MPLA, Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola; viene quindi nuovamente arrestato ed
esiliato nella colonia penale di Capo Verde. Viene liberato nel 1962, anche grazie alle pressioni degli
intellettuali europei, e costretto agli arresti domiciliari in Portogallo. Riesce a fuggire e a tornare in
Africa, dove organizza la guerriglia che conduce l’Angola all’indipendenza l’11 novembre 1975. E’
presidente della Repubblica Popolare dell’Angola, fino alla sua morte, avvenuta l’11 settembre 1979 (cfr.
nota n. 4).
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 25.
A. Neto, Sagrada Esperança, p. 29.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 25.
A. Neto, Sagrada Esperança, op. cit., p. 118.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 25.
Ibidem.
Miguel come dimostrazione del fatto che la Forza Vitale si configura appunto come il
principio primordiale irriducibile che regge la filosofia Bantu, cita poi René Maran, che
scrive: “Il negro ha la passione della Forza. I precetti morali che lo orientano, derivano quasi
tutti dal culto che egli le rende”60. Il filosofo angolano cita anche Tempels: “La Forza, la vita
possente, l’energia vitale sono l’oggetto delle preghiere e delle invocazioni a Dio, agli spiriti
ed ai defunti”61. Miguel spiega infatti il ruolo primario della Forza Vitale nel pensiero e
nella vita dei Bantu, evidenziando la sua centralità nelle manifestazioni socio-religiose di
questo popolo: “tutte le manifestazioni socio-religiose perseguano lo stesso fine, quello di
acquistare vigore, di vivere con esuberanza, di rafforzare la vita ed assicurare senza
interruzione la sua perennità nella discendenza”62.
La filosofia africana come Metafisica o come una
II.
Ontologia “diversa”: la Forza Vitale identificata con
l’Essere o con l’Esserci (Natura)
II.1
60
61
62
La filosofia occidentale come Metafisica dell’Essere
Cit. da R. R. de Asùa Altuna, in Cultura Bantu e Cristianesimo, op. cit., p. 13.
P. Tempels, La Philosophie Bantoue, pp. 27-28.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 22.
All’interno della tradizione filosofica occidentale la più antica e diffusa teoria filosofica,
che caratterizza la prima fase della storia della filosofia, è la concezione metafisicoreligiosa. Questa teoria filosofica fornisce una spiegazione metafisica ricorrendo ad una
realtà divina e trascendente: essa teorizza infatti l’esistenza di una realtà o un Essere
supremo, superiore, sovrannaturale e trascendente. La prima teorizzazione filosofica di
questa spiegazione metafisica si ha in Platone (427-347 a.C.). Questi con la sua concezione
filosofica nota come “dottrina delle Idee” teorizza appunto l’esistenza delle “Idee”, ovvero
di “Sostanze”, “Essenze” o “Forme” reali delle cose, archetipi o modelli delle cose, in un
“mondo iperuranio”, che si configura come una realtà metafisica e trascendente (il termine
filosofico usato da Platone per indicare questo concetto di “Essenza”, “Sostanza”, “Realtà
Ultima” o “Sostrato” delle cose è ousia – ουσία). Secondo il filosofo questo mondo di
“Essenze”, ingenerate, immutabili ed eterne, costituisce la vera realtà, della quale la realtà
sensibile è solo una copia, un riflesso pallido e un’immagine sbiadita. Si ha così in Platone
la teorizzazione di una realtà che oltrepassa e trascende l’orizzonte e l’esperienza umana, di
un mondo supremo e assoluto di natura ontologico-metafisica. Questa tradizione inaugurata
da Platone viene ripresa, con trasformazioni più o meno profonde, dalle concezioni
religiose: la realtà e il mondo trascendente e metafisico teorizzato da Platone viene cioè
tradotto, mantenendo lo stesso apparato concettuale, nel Dio delle concezioni teologicoreligiose.
Nella tradizione filosofica occidentale questa concezione metafisico-religiosa teorizzata
da Platone viene mutuata da Aristotele (384-322 a.C.). Questi infatti, pur attuando una
“naturalizzazione” dell’Essere platonico, rintraccia sempre il fondamento della realtà
nell’Essere, ovvero nelle “Sostanze”, “Forme” o“Essenze” delle cose. La concezione
aristotelica mantiene dunque lo stesso apparato concettuale della filosofia metafisicoreligiosa e fornisce una spiegazione della realtà sempre in termini metafisici e ontologici.
Più avanti nella storia della filosofia le varie forme di razionalismo filosofico del XVII e
XVIII secolo – ovvero il razionalismo di Cartesio (1596-1650), il razionalismo empiristico
di Hobbes (1588-1679) e Locke (1632-1704), il razionalismo dell’autonomia di Kant (17241804) etc. – riconducono il principio fondamentale ed essenziale della realtà non tanto
all’Essere genericamente inteso (come nelle concezioni platonica e aristotelica), quanto alla
Ragione umana, quale caratteristica precipua e peculiare dell’uomo. Il razionalismo radica
questa facoltà razionale in un quadro unitario ontologizzante ed essenzialistico: questa teoria
filosofica è infatti caratterizzata da una spiegazione della razionalità umana in termini
sostanziali, ontologici o trascendentali. Anche l’Essere aristotelico e la Ragione delle
diverse concezioni razionalistiche presentano dunque connotazioni metafisiche e sostanziali
e si collocano quindi all’interno di un quadro e un orizzonte ontologico ed essenzialistico.
La filosofia occidentale dunque si rivela essenzialmente una concezione metafisicorazionalistica. Questa concezione metafisico-razionalistica, peculiare appunto della
tradizione filosofica occidentale da Platone al razionalismo, si caratterizza come una
Metafisica dell’Essere. Secondo questa interpretazione vi è infatti un’indipendenza,
un’eterogeneità, una scissione, una separazione tra un elemento o entità esterna e superiore
e l’elemento terreno e finito. Si stabilisce così un dualismo filosofico, una distinzione e
demarcazione netta tra trascendente (o trascendentale) e terreno, infinito e finito,
sovrannaturale e corporeo, Essere e Non Essere ovvero tra Dio o ragione da una parte e
Natura o sentimenti, passioni, emozioni dall’altra. Si teorizza dunque una dualità tra pensare
e sentire e quindi tra ragionamento, riflessione, giudizio e sensazioni, percezioni, passioni,
emozioni. La concezione metafisico-razionalistica infatti teorizza la sostanzialità dell’Essere
e – per quanto riguarda l’uomo – del Sé, caratterizzato in termini di Ragione. Si asserisce la
consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere dell’Essere e
della Coscienza o Ragione – che si configura come chiusa in sé stessa, resta confinata in sé
stessa – e dunque il fondamento stabile dell’Essere e del Sé. Si teorizza dunque la
separatezza dell’Essere o Ragione appunto dall’elemento naturale e terreno – all’interno
dell’uomo esso consiste nella sfera passionale ed istintiva. Secondo questo modello si
definiscono quindi due sfere e realtà distinte proprio dal punto di vista ontologico e
contrapposte tra loro: si istituisce infatti una dicotomia e una contrapposizione antitetica
appunto tra sovrannaturale e naturale, trascendente e terreno, Dio o ragione e sentimento,
mente e corpo, ideale e materiale, superiore e inferiore. La distinzione tra questi due
elementi si configura dunque come una vera e propria opposizione, antagonismo, conflitto
ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore è assegnata appunto all’Essere supremo e
superiore. Si teorizza infatti l’esaltazione, il privilegio e la superiorità di tale elemento
sovrannaturale e trascendente, contrapposto a quello naturale e materiale, considerato
inferiore e negativo. Questa spiegazione metafisico-razionalistica sostiene dunque il ruolo
centrale e prioritario, la centralità e la supremazia di questo Essere superiore, della
razionalità, mentre l’elemento inferiore e negativo è rappresentato appunto dall’insieme di
sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti. Tale sfera passionale e
istintiva rappresenta allora il lato oscuro dell’uomo, il luogo del male e dell’immoralità,
l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Questi due ambiti e sfere ben distinte e contrapposte tra
loro sono incardinate in una struttura gerarchica. Secondo questa concezione metafisicorazionalistica infatti gli esseri sono ordinati secondo una struttura gerarchico-piramidale che
riguarda l’intero universo: in questa scala gerarchica il livello più basso è occupato dai
minerali, seguiti poi dalle piante, dagli animali, fino ad arrivare al livello superiore in cui si
colloca l’uomo in quanto essere razionale, caratterizzato cioè dalla sua peculiare ed
esclusiva attività razionale o intellettiva, e infine l’Essere Supremo o la divinità. Secondo
questa teoria, che istituisce dunque distinzioni ontologiche, eterne e necessarie tra gli esseri,
vi è allora – come abbiamo visto – un dualismo e una contrapposizione tra l’elemento divino
o razionale e quello materiale e corporeo. Si ha così, secondo questa concezione, la
conseguente negazione, rifiuto e repressione dell’elemento naturale, istintuale e terreno –
appunto in quanto risulta negativo e malvagio – da parte dell’Essere superiore o della
ragione. Tale repressione si configura come una vera e propria sopraffazione,
prevaricazione, oppressione, sottomissione, dominio e annichilimento dell’Altro, del
Diverso, ovvero appunto dell’elemento terreno, corporeo, istintuale e materiale.
II.2 La filosofia africana come Metafisica secondo I. Tubaldo: la Forza
Vitale identificata con l’Essere
Il teologo I. Tubaldo apre la seconda parte del suo libro Filosofia in bianco e nero
dedicata ai lineamenti della filosofia africana con l’esposizione della nozione di
“metafisica” o “ontologia”. Egli definisce tale parte della filosofia come “lo studio
dell’essere”63. L’essere è “quel che è”; esso è caratterizzato da “stabilità definitiva” 64, in
quanto di tutto ciò che esiste si può dire che “è”. Tubaldo spiega che in questa “concezione
monolitica dell’essere”65 – la quale, ideata dai Greci, costituisce secondo il teologo non solo
il punto di partenza, ma l’apice di tutto il pensiero filosofico – l’Essere o mondo intelligibile
63
64
65
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 117.
Ibidem.
Ibidem.
si colloca al di là e in contrapposizione antitetica rispetto al mondo delle cose sensibili (cfr.
§ II.1 La filosofia occidentale come Metafisica dell’Essere). La filosofia occidentale infatti,
spiega il teologo, teorizza un dualismo, un’opposizione e un’antitesi tra gli ‘esseri’ e l’
‘Essere’, il ‘molteplice’ e l’ ‘Uno’, le ‘verità’ e la ‘Verità’, i ‘viventi’ e la ‘Vita’. Si può
parlare appunto di “strati molteplici dell’essere” 66. Tubaldo espone allora, riferendosi alla
dottrina platonico-aristotelica, in cosa consistono tale principio primordiale quale è l’Essere,
gli esseri o enti del mondo finito e i loro attributi, spiegando così anche il dualismo che
colloca questi due elementi in contrapposizione. Gli esseri o enti, asserisce il teologo, sono
in ‘potenza’ a differenza dell’Essere che è in ‘atto’. Gli enti si collocano nella realtà finita,
determinata, transeunte ed immanente, ovvero nello spazio e nel tempo, “nei quali sono
destinati a trasformarsi e a morire”67; al contrario l’Essere si colloca in una realtà
sovrannaturale, metafisica e trascendente, si configura come infinito, imperituro ed eterno.
L’Essere si colloca al di là della molteplicità, della tensione e del dinamismo proprio degli
enti e si configura come la “forma o stato ideale”68, unica, intera, statica ed immutabile.
L’Essere inoltre si manifesta nelle sue “categorie trascendentali”, che sono la “verità”, la
“bellezza” e la “bontà” (le “tre sorelle dell’essere” 69); esse costituiscono “la linfa dell’
‘essere’ ”70, mentre si manifestano negli esseri finiti solo in forma attenuata ed imperfetta.
La distinzione tra l’ ‘Essere’ e gli ‘enti’ si configura così come una distinzione tra l’
‘Essere’ e il ‘Nulla’ o ‘Non Essere’. Infatti, scrive Tubaldo, “noi siamo immersi negli
‘esseri’ […] e sperimentiamo continuamente il ‘non-essere’. Ciò significa che l’esperienza
che facciamo dell’ ‘essere’ non è mai pura, attorniati come siamo da tutti i lati dal ‘nonessere’ ”71. Così l’Essere si configura come “Mistero”, “Sacramento” e “Simbolo”, ovvero
come “una realtà invisibile e trascendentale sotto forme visibili, che sono gli esseri”, come
“un orizzonte illimitato, che sta sempre sullo sfondo, senza poter mai essere raggiunto” 72,
“orizzonte illimitato entro cui si stagliano nella loro limitatezza tutti gli enti conosciuti o
conoscibili” (Rahner). Si può dunque parlare di “mistero dell’essere”: l’Essere, lo Spirito sta
al fondo della realtà degli esseri, delle cose, nelle quali siamo immersi.
66
67
68
69
70
71
72
Ivi, p. 118.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 119.
Ibidem.
Tempels nella sua opera Filosofia Bantu ha sostenuto che la Forza Vitale, principio e
fondamento della realtà teorizzato dalla filosofia Bantu, si identifica e coincide con l’Essere
della filosofia occidentale. Tubaldo accoglie e riprende tale posizione di Tempels,
caratterizzata appunto dall’identificazione tra Forza Vitale ed Essere. Il teologo infatti –
dopo aver esposto ed illustrato la nozione di Essere, quale fondamento della filosofia
platonico-aristotelica, e quella di esseri o enti della realtà finita ed immanente – identifica la
Forza Vitale o Vita, quale principio primordiale secondo la filosofia Bantu, appunto con
l’Essere della tradizione filosofica occidentale73.
Tubaldo rintraccia la presenza di questa identificazione tra Vita ed Essere anche
all’interno della filosofia occidentale stessa. Tommaso d’Aquino (1221-1274) infatti, nella
questione 18 della prima parte della Summa Theologica, nella trattazione della “vita di Dio”,
dopo aver presentato una serie di obiezioni alla tesi proposta, conclude: “Sed contra est
quod dicit philosophus (il filosofo è Aristotele nel De Anima): vivere viventibus est esse”.
L’asserzione “vivere viventibus est esse” viene così tradotta da Tubaldo: “per il vivente
vivere è essere”74. Tommaso d’Aquino continua: “Per cui vivere non è un predicato
accidentale ma sostanziale”. Così nella concezione aristotelico-tomistica la nozione di ‘Vita’
non coincide con quella di ‘accidente’, ma appunto con quella di ‘sostanza’, ‘essenza’ o
‘essere’. Il filosofo identifica poi, specificamente all’interno della concezione religiosa
cristiana, il concetto di ‘Vita’ con quello di ‘Dio’, che nella religione cristiana è appunto
‘Essere’: “Nel Vangelo di Giovanni (1, 3-4) si legge: E senza di lui (Verbo) niente è stato
fatto di tutto ciò che ebbe origine; in lui (Verbo) era la vita. Ma tutto all’infuori di Dio è
stato fatto. Quindi tutte le cose in Dio sono vita – Ergo omnia in Deo sunt vita”.
Questa stessa identificazione tra Vita ed Essere si ritrova, secondo Tubaldo, all’interno
della cultura e filosofia africana. Infatti, secondo l’autore, la Vita si configura nella
concezione Bantu come una realtà prima, come una proprietà essenziale dell’Essere, ovvero
dell’Unum o Verum. Così – secondo l’interpretazione che il teologo propone della filosofia
africana – la nozione di ‘Vita-Forza Vitale’ si identifica, coincide con quella di ‘Essere’,
‘Essenza’ o ‘Sostanza’ e si contrappone a quella di ‘esistenza’. Infatti “la vita è sperimentare
73
74
Riguardo all’identificazione in Tubaldo tra Forza Vitale ed Essere, cfr. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e
nero, op. cit., Seconda parte: Lineamenti di filosofia africana, cap. I Partendo dalla filosofia dell’essere,
pp. 117-120; cap. II Essere-Vita-Forza vitale, pp. 121-125; cap. III Metafisica dell’essere e della vita, § 1
L’uomo ma oltre l’uomo, pp. 127-128, § 2 Vita - Forza vitale, pp. 128-131, § 3 “Vivere viventibus est
esse”, pp. 132-133; § 4 Essere-Vita e verità, pp. 133-137; § 5 Metafisica e vita, pp. 137-138.
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 132.
se stessi come relazione: e in questo senso vita è più che ente, vivere è più che esistere” 75.
Tubaldo, a dimostrazione della sua tesi, rintraccia questa identificazione tra Vita ed Essere
all’interno del linguaggio del popolo Bantu. Analizza infatti il termine ‘Muntu’ (persona):
‘Ntu’ significa ‘essere’ e ‘Mu’ vita, per cui ‘Muntu’ è un ‘essere’ con ‘vita’. L’Essere-VitaForza vitale, spiega poi il teologo, può essere collocato nella categoria delle ‘cause’: la
‘causalità’ infatti, nella concezione africana, è sempre ‘vitale’, ha sempre a che fare con la
‘vita’, in quanto la produce, la protegge e la fortifica, o al contrario la minaccia, la debilita e
ne causa la fine. L’Essere-Vita si configura nel pensiero Bantu anche come ‘causa finale’: il
concetto di causa finale infatti è intrinseco a quello di vita, in quanto “fine della vita è
vivere”76. L’autore, allora, così conclude il paragrafo intitolato appunto “Vivere viventibus
est esse”: “Per cui se nella nostra elaboratissima filosofia occidentale c’è ancora qualcuno
che si pone il problema di una possibile relazione tra Essere e Dio, nella filosofia africana il
rapporto tra Vita e Dio è spontaneo”77. Tubaldo fornisce dunque una spiegazione del
concetto di Forza Vitale – principio primordiale su cui si fonda la filosofia africana – in
termini essenzialistici, religiosi e metafisici.
Tubaldo critica e rifiuta infatti un’interpretazione della Forza Vitale, fondamento
precipuo della filosofia Bantu, in termini naturalistici ed immanentistici: la Vita o Forza
Vitale cioè, secondo il teologo, non si identifica con la Natura ovvero con la realtà
immanente, finita e transeunte. Così Tubaldo confuta la posizione di chi ha sostenuto e
sostiene – dopo la pubblicazione dell’opera di Tempels Filosofia Bantu – che “il punto di
partenza della filosofia bantu non è l’essere ma la vita” 78, come se Essere e Vita fossero dei
concetti eterogenei e distinti in contrapposizione tra loro. Al contrario, sostiene il teologo, la
filosofia africana teorizza una stretta connessione tra il concetto di ‘Essere’ e il concetto di
‘Vita-Forza Vitale’, che si caratterizza appunto come “una forma trascendentale
dell’essere”79. Anche la nozione di ‘Vita’, come quella di ‘Essere’, è difficile da definire o
“contornare”, in quanto “tutto contiene”. Non si tratta infatti della “vita dei singoli”,
collocati nel mondo naturale, terreno ed immanente, ma della “vitalità della vita” o del
“cuore della vita”80, caratterizzata da una connotazione ontologica, sostanziale e metafisica.
75
76
77
78
79
80
Baget Bozzo, G., La nuova terra, p. 117.
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 133.
Ibidem.
Ivi, p. 121.
Ivi, p. 123.
Ivi, p. 124.
Si ritrova dunque nella filosofia africana, secondo questo autore, un dualismo ontologico e
una contrapposizione antitetica tra ‘Vita’ e ‘vite’ analoga a quella, propria della tradizione
filosofica occidentale, tra ‘Essere’ ed ‘esseri’ o ‘enti’. Così il concetto di ‘Vita’ viene ad
essere identificato con quello di ‘Essere’, quale principio trascendente, sovrannaturale,
eterno, superiore ed assoluto in contrapposizione alle ‘vite’ dei singoli ‘esseri’ o ‘enti’,
collocati nella natura o realtà finita, determinata, molteplice e peritura. La nozione di ‘Forza
Vitale’ coincide dunque con quella di ‘Essere’, ‘Essenza’ o ‘Sostanza’ e si contrappone a
quella di ‘accidente’. Con ‘Vita-Forza Vitale’ si intende infatti – secondo l’interpretazione
che Tubaldo offre della filosofia africana, in linea con quella proposta da Tempels – un
“‘vitale’ allargato e superiore, qualcosa che i bantu stessi non saprebbero ben definire,
perché trascendente. Allo stesso modo che esistono le ‘forme dell’essere’, così la ‘forza
vitale’ esprimerebbe l’intensità dell’essere, più che una sua modalità accidentale” 81.
Secondo la spiegazione che il teologo fornisce della concezione filosofica Bantu, in
accordo con quella presentata da Tempels, si ritrova così nella filosofia africana lo stesso
dualismo filosofico tra Essere e Natura teorizzato dalla filosofia occidentale (cfr. § II.1 La
filosofia occidentale come Metafisica dell’Essere). Anche nella concezione Bantu vi è allora
un’indipendenza, un’eterogeneità, una scissione, una separazione tra l’Essere, quale entità o
realtà metafisica, sovrannaturale, esterna, superiore e trascendente, e la Natura, quale
elemento terreno, finito, immanente, molteplice e transeunte. Si stabilisce cioè una
distinzione e demarcazione netta tra Essere, Essenza o Sostanza da un lato e Non Essere,
accidente, Natura o Divenire dall’altro: ovvero tra trascendente e terreno, infinito e finito,
sovrannaturale e corporeo, Dio o ragione e sentimenti, passioni, emozioni. Secondo questo
modello si definiscono quindi due sfere e realtà distinte proprio dal punto di vista ontologico
e contrapposte tra loro: si istituisce infatti una dicotomia e una contrapposizione antitetica
appunto tra Dio o ragione e sentimento, sovrannaturale e naturale, trascendente e
immanente, mente e corpo, ideale e materiale, superiore e inferiore. Si tratta di una dualità
tra pensare e sentire e quindi tra ragionamento, riflessione, giudizio e sensazioni, percezioni,
passioni, emozioni. La concezione africana in quanto metafisico-razionalistica infatti
teorizza la sostanzialità dell’Essere e – per quanto riguardava l’uomo – del Sé, caratterizzato
in termini di Ragione. Si asserisce la consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e
81
Ivi, p. 125.
l’ininterrotto permanere dell’Essere e della Coscienza o Ragione – che si configura come
chiusa in sé stessa, resta confinata in sé stessa – e dunque il fondamento stabile dell’Essere e
del Sé. Si teorizza dunque la separatezza dell’Essere o Ragione appunto dall’elemento
naturale e terreno – all’interno dell’uomo esso consiste nella sfera passionale ed istintiva. La
distinzione tra questi due elementi si configura dunque come una vera e propria
opposizione, antagonismo, conflitto ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore è
assegnata appunto all’Essere supremo e superiore. Si teorizza infatti l’esaltazione, il
privilegio e la superiorità di tale elemento sovrannaturale e trascendente, contrapposto a
quello naturale e materiale, considerato inferiore e negativo. Questa visione metafisicorazionalistica africana sostiene dunque il ruolo centrale e prioritario, la centralità e la
supremazia di questo Essere superiore, della razionalità, mentre l’elemento inferiore e
negativo è rappresentato appunto dall’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri,
pulsioni, impulsi e istinti. Tale sfera passionale e istintiva rappresenta allora il lato oscuro
dell’uomo, il luogo del male e dell’immoralità, l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Questi
due ambiti e sfere ben distinte e contrapposte tra loro sono incardinate in una struttura
gerarchica. Anche secondo la concezione africana – in quanto si caratterizza, secondo la
lettura di Tubaldo, come una concezione metafisico-razionalistica analoga a quella
occidentale – gli esseri sono ordinati secondo una struttura gerarchico-piramidale che
riguarda l’intero universo. In questa scala gerarchica il livello più basso è occupato dai
minerali, seguiti poi dalle piante, dagli animali, fino ad arrivare al livello superiore in cui si
colloca l’uomo in quanto essere razionale, caratterizzato cioè dalla sua peculiare ed
esclusiva attività razionale o intellettiva, e infine l’Essere Supremo o la divinità. Secondo
questa teoria, che istituisce dunque distinzioni ontologiche, eterne e necessarie tra gli esseri,
vi è allora – come abbiamo visto – un dualismo e una contrapposizione tra l’elemento divino
o razionale e quello materiale e corporeo. Si ha così, secondo questa concezione, la
conseguente negazione, rifiuto e repressione dell’elemento naturale, istintuale e terreno –
appunto in quanto risulta negativo e malvagio – da parte dell’Essere superiore o della
ragione. Tale repressione si configura come una vera e propria sopraffazione,
prevaricazione, oppressione, sottomissione, dominio e annichilimento dell’Altro, del
Diverso, ovvero appunto dell’elemento terreno, corporeo, istintuale e materiale.
L’Essere si estrinseca dunque in diversi ‘livelli’ o ‘stati’, e la Forza Vitale rappresenta
l’eminenza o lo ‘stato’ più elevato dell’Essere e dell’uomo (Muntu), che si caratterizza
appunto in termini di Ragione. Con ‘Vita-Forza Vitale’ infatti, secondo Tubaldo, si fa
riferimento – come si è detto sopra – ad un ‘vitale’ allargato, supremo, trascendente,
invisibile ed assoluto, che coincide quindi con l’Essere. Ad esso si contrappone – appunto
come nella concezione platonica – la Natura ovvero la realtà sensibile, immanente ed
empirica, che costituisce la sua immagine, ombra o copia e quindi in quanto tale si configura
come subalterna ed inferiore proprio dal punto di vista ontologico. La Vita quindi, quale
forza primigenia posta a fondamento della realtà, è considerata nel pensiero africano sacra e
divina. Così il concetto di ‘Vita’, coincidendo con il concetto di Essere, coincide anche con
quello di ‘Dio’; nella terminologia africana infatti i nomi che indicano Dio sono sempre in
stretta relazione con la ‘Vita’ (Dio è detto, ad esempio, “amante della vita” o “sorgente della
vita”).
Questa visione africana della Forza Vitale come Essere costituisce dunque anche la
risposta che la filosofia Bantu offre riguardo al problema filosofico-teoretico della Verità.
Se per ‘filosofia’ si intende “la ricerca di un qualche punto di partenza unificatore” 82, ovvero
della Fonte, dell’Origine, del Fondamento o del Principio costitutivo della realtà, si constata
che tale si configura l’Essere come Vita della concezione africana, la quale si caratterizza
quindi come una filosofia a tutti gli effetti. Così considerare l’Essere-Vita o Forza Vitale
come “punto unificato di partenza” o principio primordiale posto a fondamento della realtà
significa trovare il “senso dell’Essere” nella Vita, considerare la Vita come “datrice di
senso”83 e in quanto tale come ‘Verità’.
Tubaldo analizza allora l’etimologia del termine ‘verità’. La parola latina veritas, che
deriva dal verbo vereor, indicherebbe ‘rifuggire’, ‘tenersi lontano’, e quindi ‘temere’, ‘avere
paura’, ‘apprezzare’, ‘venerare con timore’. In greco aletheia (αλήθεια) ha un significato
analogo: indica l’Essere nella sua proprietà oggettiva di ‘manifestarsi’, di ‘apparire’, di
‘essere luminoso’, indica il ‘non-nascondimento’ dell’Essere. Ma al tempo stesso l’EssereVerità è ‘Mistero’, ‘Simbolo’ ed ‘Arcano’. Vi è infatti l’idea che gli esseri o enti posseggano
una propria “interiorità” intrinseca o “profondità” e su di essa una sorta di “velo” o
“velamento protettivo”84, rappresentato appunto dalla Verità. Così l’Essere-Verità si
caratterizza come connotato appunto da un peculiare carattere “misterioso” (si parla infatti,
come si è detto sopra, di “mistero dell’essere”). La Verità si configura infatti come “la
82
83
84
Ivi, p. 133.
Ivi, pp. 134-135.
Ivi, p. 134.
manifestazione luminosa del di dentro profondo degli esseri, i quali, a loro volta, proprio per
questo, non sono mai delle finestre interamente chiuse, luci spente, tesori sepolti” 85.
Si ritrova così, anche a proposito del tema della verità, la dualità tra due elementi distinti
e antitetici in opposizione: la Verità unica ed assoluta dell’Essere contrapposta alle verità
molteplici degli esseri o enti finiti e determinati. Scrive infatti Tubaldo: “Ciascuna verità si
presenta come un piccolo zampillo di una diga, che dice come al di là ci sia un lago di
verità, cioè, la verità e l’essere” 86. Il teologo accenna inoltre anche al significato che il
termine ‘verità’ assume nella lingua e nella cultura ebraica. In ebraico la parola Emeth “ha
un significato esistenziale di fedeltà e affidabilità: una cosa o una persona è vera se su di
essa ci si può appoggiare. Dove c’è Emeth ci si può abbandonare con piena fiducia”87.
Tutte le proprietà dell’Essere – e in misura minore e parziale anche degli esseri – emerse
dall’analisi del concetto di ‘Verità’ nelle culture latina, greca ed ebraica (ovvero
rispettivamente dei concetti di veritas, aletheia ed emeth) si sublimano, trovano la massima
e più elevata espressione e realizzazione, secondo la cultura africana, nel concetto di ‘Vita’.
La Vita o Forza Vitale infatti, nella filosofia Bantu, rappresenta l’espressione più
“manifestativa” e “luminosa” della Verità, la sua estrinsecazione superiore, suprema ed
assoluta. Questa identificazione della nozione di ‘Verità’ con quella di ‘Vita’ si ritrova,
scrive Tubaldo, anche nella cultura russa. La parola istina (‘verità’) infatti letteralmente
significa “ciò che vive e respira”: indica “l’essere-vivente-vivo-che respira, dotato della
condizione essenziale della vita e dell’esistenza. ‘Istina’ è la capacità di vedere negli esseri
che esistono la vita che vi spira dentro”88.
Nella filosofia occidentale con il termine ‘verità’ si può intendere anche ‘coerenza’ o
‘corrispondenza’ logica o assertiva, cioè “la logica relazione degli elementi di un tutto” 89;
per indicare questa accezione del concetto di ‘verità’ (predominante soprattutto nel
Medioevo) si usa la parola adaequatio. Nella cultura africana invece è assente l’uso del
concetto di ‘verità’ in questo senso assertivo o logico. ‘Verità’ può invero significare
‘coerenza’, ma non nel senso logico-formale, quanto piuttosto nel senso di “fedeltà alla
tradizione”. La tradizione assume nella cultura africana un ruolo centrale e primario. Essa è
caratterizzata da un carattere “sapienziale”: è cioè “costituita dall’insieme dei tantissimi
85
86
87
88
89
Ivi, p. 135.
Ivi, p. 134.
Ivi, p. 135.
Ibidem.
Ibidem.
rigagnoli di saggezza, provenienti da un passato remoto e capaci di produrre un ordine
interiore o la quint’essenza di quest’ordine, che è la sapienza” 90. Dunque nella cultura Bantu
la tradizione, che si caratterizza appunto come ‘sapienza’ e ‘saggezza’, costituisce il “valido
criterio di verità e di coerenza”91.
La Verità si configura come un Assoluto: “ciò che è vero” scrive Husserl “è vero in
senso assoluto, in sé; la verità è una, identica a sé stessa, qualunque sia l’essere che la
percepisce, uomo, mostro, angelo o Dio”. Tale Verità assoluta coincide nella concezione
Bantu, come si è detto, con la Forza Vitale, intesa come “una vibrazione vitale degli
esseri”92. Secondo il teologo, tale concetto di Forza Vitale o Vita si caratterizza come
l’elemento innovativo ed originale teorizzato dalla concezione africana e tale da poter
costituire l’apporto che la filosofia africana potrebbe dare a quella occidentale. La filosofia
europea infatti “si ritiene in possesso di molte verità, moltissime, ma senza vita”93. Tuttavia
anche la filosofia africana, secondo l’interpretazione che ne offre Tubaldo, ripropone –
come si è visto sopra – il dualismo ontologico e la dicotomia, propria della filosofia
occidentale, tra due elementi antitetici: la Verità, l’Essere, la Forma o la Vita da una parte e
le verità, gli esseri, la materia o i viventi dall’altra. Così, sebbene il concetto di Forza Vitale
o Vita costituisca il tratto originale e peculiare della filosofia africana rispetto a quella
occidentale, tuttavia la concezione filosofica africana (secondo la lettura di Tubaldo),
identificando poi tale Forza Vitale con l’Essere, si riduce ad una concezione metafisica
analoga quella occidentale. L’interpretazione che Tubaldo propone della filosofia africana
infatti vuole che, all’interno della concezione Bantu appunto, si istituisca un’identificazione
della Forza Vitale con l’Essere della filosofia occidentale. La concezione africana si
configura così, secondo la spiegazione presentata dal teologo, come una “ontologia ‘pura’ ”,
come un “astrattismo”94, ovvero come una concezione ontologico-metafisica, quale è quella
occidentale.
Infatti come per la filosofia occidentale si può parlare di ‘Metafisica dell’Essere’ (cfr. §
II.1 La filosofia occidentale come Metafisica dell’Essere), così per quella africana si può
parlare di ‘Metafisica della Vita’. Tubaldo sottolinea appunto che “non si tratta di due
90
91
92
93
94
Ivi, p. 136.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 138.
Ivi, pp. 136-137.
metafisiche alternative, quanto piuttosto complementari” 95, proprio perché Vita ed Essere si
identificano. Il teologo propone allora l’integrazione e la complementarità tra queste due
metafisiche, valorizzando i loro diversi aspetti peculiari: “l’Occidente filosofico ha urgente
bisogno di un po’ d’Africa e l’Africa filosofica […] ha urgente bisogno allo stato attuale di
un po’ di Occidente”96. Dunque la sapienza africana, il cui tratto precipuo è rappresentato
appunto dalla nozione di Vita o Forza Vitale come tradizione e saggezza, può essere
considerata come complementare a tutte le altre ‘sapienze’ umane.
Tubaldo propone dunque un’interpretazione della filosofia africana in termini
essenzialistici, sostanziali ed ontologici. Secondo la sua spiegazione infatti la Forza Vitale,
quale principio primordiale posto a fondamento della realtà nella filosofia Bantu, si
identifica con l’Essere della filosofia occidentale. Il teologo colloca così tale principio della
Forza Vitale all’interno di un quadro e un orizzonte essenzialistico e metafisico.
Nell’interpretazione fornita da Tubaldo dunque la concezione africana, caratterizzata da
connotazioni e tendenze ontologizzanti ed essenzialistiche, viene ridotta ad una concezione
ontologico-metafisica, analoga a quella propria della tradizione filosofica occidentale.
II.3 La contraddizione interna alla posizione di Tubaldo: la Forza Vitale
identificata con l’Esserci o Natura
Nella posizione di Tubaldo emerge un’incongruenza o contraddizione interna 97. Nel
paragrafo precedente (§ II.2 La filosofia africana come Metafisica secondo I. Tubaldo: la
Forza Vitale identificata con l’Essere), dedicato all’interpretazione che Tubaldo fornisce
della filosofia africana, si è visto come il teologo identificasse la Forza Vitale con l’Essere
della filosofia occidentale. La concezione africana veniva così caratterizzata, secondo la
spiegazione proposta da Tubaldo, come una concezione ontologico-metafisica, in analogia
con quella occidentale.
95
96
97
Ivi, p. 137.
Ibidem.
Riguardo alla contraddizione interna alla posizione di Tubaldo cfr. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero,
op. cit., Seconda parte: Lineamenti di filosofia africana, cap. III Metafisica dell’essere e della vita, § 1
L’uomo ma oltre l’uomo, pp. 127-128, § 2 Vita - Forza vitale, pp. 128-131.
Ma all’interno del testo dello stesso Tubaldo possono essere rintracciati dei passi in cui
tale principio della Forza Vitale non viene identificato con l’Essere, ma al contrario con la
Natura, quale elemento – come si è visto sopra (cfr. §§ II.1 La filosofia occidentale come
Metafisica dell’Essere e II.2 La filosofia africana come Metafisica secondo I. Tubaldo: la
Forza Vitale identificata con l’Essere) – invece antitetico all’Essere. Si tratta dunque di una
inverosimiglianza, incongruenza o contraddizione interna alla posizione di Tubaldo: infatti
la tesi principale del teologo consiste nella caratterizzazione della filosofia africana in
termini essenzialistici e metafisici, mentre in alcuni passi della sua trattazione l’autore
sembra ammettere una caratterizzazione di tale filosofia in termini naturalistici ed
immanentistici.
Presentiamo allora in questo paragrafo i passi in cui Tubaldo identifica la Forza Vitale
appunto con la Natura, quale principio immanente, materiale, terreno e transeunte. Egli
descrive la Forza Vitale come “un’immensa vibrazione, che mette in armonia e in
corrispondenza misteriosa tutti gli esseri”98. L’autore per spiegare questo concetto di ‘Vita’
o ‘Forza Vitale’ come Natura ricorre alla metafora dell’Oceano: “Come un oceano, che
palpita, solcato da correnti calde, cioè, da quelle ‘esperienze-limite’ o ‘nodi e fuochi’ di alte
tensioni vitali, quali la magia, la divinazione, il mondo degli spiriti…, come un profumo
intenso che tutto pervade, e da correnti fredde, dove predominano gli aspetti sociali,
economici, ecologici”99. Si tratta dunque di un’infinita ‘Forza’ che è presente, si incarna e si
esprime in ogni cosa: una Forza che, quindi, rappresenta la Natura e che plasma la realtà.
Tubaldo propone a questo proposito un appropriato parallelo con l’ ‘anima mundi’ di
Giordano Bruno (1548-1600) che dà vita e movimento a tutte le cose. La ‘Forza Vitale’ o
‘Grande Organismo’, inteso come un complesso di forze che pervade ogni cosa, costituisce
dunque la base di tutto il sistema filosofico Bantu.
In questo complesso di forze è immerso anche l’uomo: egli ‘sente’ e ‘partecipa’ della
Forza Vitale per “identificazione”100. L’uomo, ovvero il ‘Muntu’, infatti si configura come il
“soggetto primario”, il “centro” e il “nodo focale” della Forza Vitale: egli è il “padrone” 101
delle forze e dell’interazione di esse. L’essere umano o ‘Muntu’ inoltre nella concezione
ancestrale africana non si caratterizza come un essere chiuso nella sua individualità o
98
99
100
101
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 124.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 127.
incomunicabilità, ma al contrario come un essere comunicativo, aperto al mondo e all’
‘altro’ da sé. Nyerere scrive infatti che “per l’uomo africano il suo-essere-nel-mondo
significa essere con-gli-altri”.
Così secondo la teoria filosofica africana l’uomo fa parte di una sorta di “corpo misticoancestrale” o “ciclo vitale”102. Esso viene simbolicamente rappresentato con un cerchio che
unifica la vita e la morte, il presente e il passato, l’individuo e la comunità, ed anche l’uomo,
la donna, i figli103, gli spiriti e gli antenati. E’ centrale infatti nel pensiero filosofico africana
il concetto di ‘armonia cosmica’: l’immagine africana del mondo è caratterizzata cioè da
una straordinaria armonia, secondo cui gli elementi che costituiscono la realtà si
configurano come elementi inseparabili uniti in un Tutto. Si tratta appunto della Forza
Vitale universale che unifica le infinite relazioni ed elementi della realtà o natura. A questo
riguardo la filosofa africana si caratterizzerebbe, secondo Tubaldo, come una “filosofia del
sole”: “l’africano sperimenta e vive la vita come sperimenta il sole: all’alba, al meriggio, al
tramonto…, come forza, luce, calore”104.
Tale esaltazione e superiorità della Natura in contrapposizione all’Essere trascendente e
metafisico è il tratto caratteristico e peculiare della filosofia africana, che si rivela quindi,
secondo questa interpretazione, in antitesi rispetto a quella occidentale. Quest’ultima infatti
assegna la priorità di valore all’elemento divino, sovrannaturale e trascendente e ritiene
inferiore, subalterno e negativo quello corporeo, materiale, naturale e terreno: “I cristiani
che stanno sulla terra con un piede solo, staranno con un piede solo anche in paradiso”
(Bonhoffer). Invece, scrive Tubaldo, “per l’africano è più che normale stare sulla terra con
tutti e due i piedi. Per i bantu, infatti, la terra, è prima di tutto; essa è una specie di
tabernacolo sacro perché è la tomba degli antenati; è il veicolo che porta i doni agli antenati
e attraverso essa la forza vitale degli antenati circola nella comunità. Anche da morti non si
diventa ‘spiriti del cielo’, ma della ‘terra’ ” 105. Questa superiorità e priorità che la filosofia
africana attribuisce alla ‘terra’, alla Natura, alla materia e alla corporeità e non più al ‘cielo’,
all’Essere, alla forma e a Dio o alla ragione si sviluppa in forme diverse nei vari popoli e
102
103
104
105
Ibidem.
Tubaldo spiega, ad esempio, che l’uomo africano ha paura di morire senza figli, proprio perché questo
implicherebbe dimenticanza e rottura. Così alcune popolazioni africane usano porre nella bocca del
defunto privo di figli dei pezzi di carbone di legno: questo significa che l’uomo è spento per sempre.
Comunque, anche morendo l’uomo continua a far parte della Forza Vitale cosmica (cfr. I. Tubaldo,
Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 128).
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 128.
Ibidem.
culture africane. Per i pigmei, ad esempio, la vita è legata alla foresta: “La foresta è per noi
– dicono – padre, madre… Essa ci offre tutte le cose di cui abbiamo bisogno: cibo, vestito,
difesa, calore e affetto. Generalmente tutto procede bene perché la foresta è buona per i
figli. Quando le cose vanno male ci dev’essere qualche ragione…” 106.
Secondo questa interpretazione in termini immanentistici e naturalistici della filosofia
africana dunque tutti gli esseri della Natura – l’uomo, gli animali, le piante, la terra, fino ai
minerali – partecipano della Forza Vitale; tutte le forze che compongono un ente sono
‘vitali’, cosa che riesce molto difficile da comprendere per la mentalità ‘scientifica’
occidentale. Nel pensiero africano infatti – antitetico, secondo questa interpretazione
naturalistica e immanentistica, a quello occidentale – gli enti vengono considerati e distinti
in base alle ‘forze intrinseche’ o ‘qualità dinamiche’ che posseggono 107, per cui “ogni ente è
essenzialmente quello che è per il suo modo di vivere e di agire” 108. Le diverse
manifestazioni della vita non sono altro che variazioni della medesima entità, ovvero la Vita
stessa. Tutti gli esseri infatti partecipano della Forza Vitale-Natura, visibile ed immanente,
contrapposta all’Essere, invisibile e trascendente. Così, come spiega Tubaldo, secondo
questa teoria filosofica “tutto è in possesso di forza: la forza vitale penetra l’universo intero
e lo costituisce; è esistita all’inizio del mondo; è dinamica e tutti ne partecipano, anche le
cose”109.
Si può così parlare a proposito della filosofia africana di ‘animismo’, ‘panteismo’ o
‘vitalismo’, appunto in quanto il principio primordiale della Forza Vitale si trova in ogni
cosa (si veda sopra il parallelo con l’ ‘anima mundi’ di Giordano Bruno), è “un’enorme
forza che plasma tutto e tutto avvolge: la terra, la roccia, le foreste, i laghi… E’ un mare di
forza vitale”110. L’autore cita allora il filosofo angolano P.F. Miguel, che parla di un
“immenso soffio vitale”, “vita con Pungu”, “in quanto la parola pungu (in lingua kimbundu)
indica il suono prodotto soffiando nel corno di bue e la “p” della parola pungu si pronuncia
106
107
108
109
110
B. Bernardi, Uomo, cultura e società. Introduzione agli studi etno-antropologici, op. cit., p. 397.
Tubaldo chiarisce il concetto di ‘forza intrinseca’ o ‘qualità dinamica’ con un esempio: “il vino è vino
perché produce effetti diversi dal latte” (I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 129).
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 129.
Ibidem. Tubaldo a proposito della Forza Vitale come costitutiva anche delle cose materiali, fa l’esempio
dell’oggetto dato in dono. Anche in questo caso infatti, l’oggetto viene dato in dono in quanto è caricato
di una forza che spinge il donatore ad offrirlo (cfr. I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 129).
Ivi, p. 130.
con le parole socchiuse e soffiando leggermente: ‘E’ un’evocazione del soffio vitale che si
propaga nell’universo; Dio stesso è Pungu: immenso soffio vitale’ ”111.
L’autore riprende infine il tema, esposto sopra, del ‘ciclo vitale’. Questo ‘vitale’ si
configura come una sorta di “rete”, di “tessuto compatto e organico”: è il “mondo della
vita”112, che, come abbiamo visto prima, vede unificati tutti gli elementi (nascita, pubertà,
iniziazione, matrimonio, figli, vecchiaia, morte, entrata nella comunità dei morti, etc.). La
Forza Vitale infatti è “comunicabile”; per cui si può parlare di “comunione” o
“interdipendenza”, intesa come sentimento di “alleanza”, “equilibrio” ed “armonia” 113 con la
terra, la natura e tutto ciò che esiste. L’uomo africano entra così in ‘comunione’ e in
‘alleanza’ con la ‘Forza della Vita’, ‘Sorgente della Vita’ o ‘Vitale Supremo’. Esistere
significa dunque, come già si è detto sopra, “essere con” 114. Emerge allora che nel pensiero
africano la nozione di ‘Vita’ o ‘Forza Vitale’ coincide, si identifica con quella di “unione” o
“partecipazione vitale”115: la filosofia africana può così essere definita come un “umanesimo
di solidarietà”116. La Forza Vitale infatti, intesa come amore per la vita o “gioia di vivere”, è
appunto comunicativa e mette in relazione gli esseri: la Vita viene sentita e vissuta come un
“dono”117 che si deve trasmettere “non solo generando, ma anche […] sapienzialmente e
spiritualmente”118.
La morte stessa, nella filosofia africana, non si oppone interamente alla vita, ma viene
spiegata e compresa sempre all’interno della Forza Vitale. L’essere che muore non si
trasforma in un altro essere, ma diventa parte della Forza Vitale universale. La morte infatti
costituisce solo una “mutazione di stato”, un “passaggio” ad una nuova esistenza spirituale e
viene quindi considerata come una manifestazione della Forza Vitale stessa. Tubaldo spiega
anche che “la morte trasferisce l’individuo dal presente verso il passato, soprattutto se c’è
chi si ricorda di lui e continua a pronunciare il suo nome” 119; anche qui emerge la
111
112
113
114
115
116
117
118
119
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Tubaldo spiega anche che il simbolo utilizzato dagli africani per esprimere questo concetto di
‘comunicatività’ è il “mezzo cerchio in posizione di apertura” (I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op.
cit., p. 130).
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., pp. 130-131.
Ivi, p. 131.
Tubaldo parla appunto del “Dono della vita”, dono che appunto si deve trasmettere in quanto “chi non dà
muore” (I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 131).
I. Tubaldo, Filosofia in bianco e nero, op. cit., p. 131.
Ibidem.
concezione di un “mondo interrelazionale” tra gli esseri, peculiare – come abbiamo visto –
della filosofia africana, in questo caso specifico tra i vivi e i morti.
Tubaldo connette inoltre il concetto di Forza Vitale come Natura a quello di ‘futuro’. La
Forza Vitale o Vita infatti si configura come “il soffio poderoso che spinge in avanti”: essa
“non è soltanto passato e presente, ma potenza, possibilità, promessa, energia. Vivere vuol
dire avere un orizzonte, che è come un fiume che scorre verso il mondo delle cose future e
possibili”120.
Secondo la spiegazione che Tubaldo propone della filosofia africana in questi passi che
abbiamo esposto, la concezione Bantu si rivela agli antipodi rispetto a quella che l’autore
definisce come “ontologia ‘pura’ ” o “astrattismo” 121, ovvero una concezione ontologicometafisica. L’autore sembra infatti ammettere qui una caratterizzazione della filosofia
africana in termini naturalistici ed immanentistici: egli presenta in questi passaggi la
filosofia africana come una forma di naturalismo, immanentismo, animismo, panteismo o
vitalismo. Ma l’interpretazione che Tubaldo fornisce della filosofia africana in questi passi è
contrastante e contraddittoria rispetto a quella prevalente nella sua trattazione della
concezione Bantu. La tesi predominante all’interno della posizione del teologo è infatti
quella secondo cui la concezione africana si caratterizza come una metafisica e dunque in
quanto tale proprio come una “ontologia ‘pura’ ” o “astrattismo”, analoga alla concezione
occidentale.
II.4 La filosofia africana come una Ontologia “diversa” secondo P.F.
Miguel: la Forza Vitale identificata con l’Esserci o Natura
Il filosofo angolano P.F. Miguel fornisce, nel suo libro Kijila. Per una filosofia Bantu,
un’interpretazione della filosofia africana antitetica a quella proposta dal teologo Tubaldo.
Infatti mentre la concezione filosofica Bantu viene da Tubaldo concepita come una
concezione ontologico-metafisica, secondo Miguel essa si caratterizza piuttosto come una
concezione naturalistica ed immanentistica. Se il primo identifica il principio della Forza
120
121
Ivi, p. 122.
Ivi, pp. 136-137.
Vitale con l’Essere trascendente e sovrannaturale, il secondo al contrario lo identifica con la
Natura, terrena, finita, immanente e materiale122.
Tempels ha sostenuto, primo fra tutti, che la Forza Vitale, principio e fondamento della
realtà teorizzato dalla filosofia Bantu, si identifica e coincide con l’Essere nel senso
occidentale del termine: “L’Essere è ciò che possiede la forza […] L’Essere è la forza […]
la forza per il Bantu non è un accidente […] è l’essenza medesima dell’Essere in sé” 123. Tale
posizione viene accolta e ripresa – come abbiamo visto (cfr. II.2 La filosofia africana come
Metafisica secondo I. Tubaldo: la Forza Vitale identificata con l’Essere) – dal teologo
Tubaldo, il quale concorda con Tempels appunto in questa identificazione tra la nozione di
Vita o Forza Vitale e quella di Essere.
La concezione africana intesa, secondo questa interpretazione propria di Tempels e di
Tubaldo, come una concezione ontologico-metafisica (cfr. § II.1 La filosofia occidentale
come Metafisica dell’Essere e § II.2 La filosofia africana come Metafisica secondo I.
Tubaldo: la Forza Vitale identificata con l’Essere) identifica dunque il principio della Forza
Vitale con l’Essere. La filosofia africana come concezione metafisico-razionalistica
rintraccia dunque, secondo Tubaldo, il principio e il fondamento essenziale e costitutivo
della realtà nell’Essere, quale entità e autorità esterna e superiore rappresentata da Dio o
dalla razionalità umana. Secondo questa spiegazione si ha – come abbiamo visto –
un’indipendenza, un’eterogeneità, una separazione tra questo elemento esterno e superiore
e l’elemento terreno, umano e finito, ovvero tra l’elemento divino o razionale e la sfera
sentimentale, emotiva e istintuale. Si stabilisce così un dualismo filosofico, una distinzione,
una demarcazione netta tra trascendente e terreno, sovrannaturale e naturale, Dio o ragione e
natura, pensare e sentire e dunque tra ragionamento, riflessione, giudizio e passioni,
emozioni, desideri e istinti. La concezione metafisico-razionalistica infatti teorizza la
sostanzialità dell’Essere e – per quanto riguarda l’uomo – del Sé, caratterizzato in termini di
Ragione. Si asserisce la consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto
permanere dell’Essere e della Coscienza o Ragione – che si configurano come chiusi e
confinati in sé stessi – e dunque il loro fondamento stabile. Si teorizza dunque la separatezza
dell’Essere o Ragione appunto dall’elemento naturale e terreno – all’interno dell’uomo esso
consiste nella sfera passionale ed istintiva – che rappresenta allora l’Alterità, l’Altro dal Sé,
122
123
Riguardo all’identificazione in Miguel tra Forza Vitale e Natura cfr. P.F. Miguel, Kijila. Per una
filosofia Bantu, cit., pp. 20-36.
P. Tempels, La Philosophie Bantoue, op. cit., p. 32.
il Diverso. Questa distinzione si configura come una vera e propria opposizione,
antagonismo ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore è assegnata appunto
all’Entità suprema e superiore. Si asserisce dunque l’esaltazione, il privilegio e la superiorità
di tale elemento metafisico-razionale contrapposto a quello naturale, terreno e – nell’uomo –
sentimentale, passionale e istintivo considerato inferiore e negativo. Infatti l’elemento
naturale, la corporeità, l’insieme dei sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni,
impulsi e istinti costituisce – secondo questa concezione filosofica – una sfera propria
dell’animalità e proprio in quanto tale viene contrapposta appunto all’Essere e alla
razionalità caratteristica dell’uomo, rispetto a cui rappresenta appunto l’Alterità, l’Altro dal
Sé, il Diverso. Tale lato terreno, materiale, passionale ed istintivo si configura come il lato
oscuro dell’uomo, il luogo dell’Immoralità e del Male. Si ha così la conseguente negazione
e repressione dell’elemento naturale, terreno, passionale e istintuale – appunto in quanto
risulta negativo e malvagio – da parte di quello positivo e superiore; tale repressione si
configura come un vero e proprio dominio, oppressione, sottomissione, prevaricazione,
sopraffazione e annichilimento dell’Altro, del Diverso ovvero appunto elemento naturale,
immanente, sentimentale, emotivo ed istintivo.
Il filosofo angolano Miguel concorda con Tempels ed i suoi seguaci (quale appunto
Tubaldo) nel riconoscere la Forza Vitale come principio e “valore supremo” della filosofia
Bantu, ma nega che tale principio coincida con l’Essere della filosofia occidentale. La
filosofia africana infatti, secondo Miguel, non si fonda sui “principi di identità, di non
contraddizione e sulla nozione di essere come atto” 124. La Forza Vitale è estranea a tali
principi e nozioni; al contrario, proprio in quanto si tratta di una forza, “la sua attuazione
non può essere circoscritta da un qualsiasi meccanismo intellettualistico per ottenerne una
‘definizione’ ”125. Anche altri pensatori criticano, come Miguel, l’idea che la Forza Vitale
possa identificarsi con l’Essere. Ad esempio E.F. Boelaert scrive: “C’è un non-senso nel
pretendere che la nozione Bantu di forza sostituisca la nostra nozione di Essere. Ciò
equivale a dire che il Bantu ha un’intelligenza essenzialmente diversa dalla nostra, e che può
pensare in una forza reale che non è l’Essere” 126. Anche V. Mulago rifiuta l’identificazione
tra Forza Vitale ed Essere: “Ciò che noi rifiutiamo categoricamente è la nozione che P.
Tempels dà all’Essere del ‘Muntu’ […] giacchè niente […] ci permette di identificare
124
125
126
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 22.
Ivi, p. 26.
Cit. da Asùa Altuna, R.R., Cultura Bantu e Cristianesimo, op. cit., p. 14.
l’Essere con la Forza Vitale; essendo un ‘accidente’ che qualifica e modifica la ‘sostanza’,
la Forza trova il suo posto nella categoria del Modo di Essere” 127.
Secondo Miguel dunque il principio della Forza Vitale non si identifica con l’Essere,
sostanza o forma ma al contrario con la Natura, accidente o materia. La Forza Vitale,
secondo la spiegazione proposta dal filosofo angolano, viene allora a coincidere con la
Natura in quanto realtà immanente, terrena, materiale e finita. Miguel, sostenendo che la
Forza Vitale si identifica con la Natura ovvero con la realtà empirica e sensibile in cui
viviamo e siamo immersi, fornisce dunque un’interpretazione della filosofia africana
antitetica a quella di Tempels e Tubaldo. Secondo Miguel la filosofia africana si caratterizza
così non come una metafisica – come invece volevano questi – ma piuttosto come una
forma di naturalismo, immanentismo, panteismo, animismo o vitalismo.
La filosofia africana intesa come una teoria filosofica naturalistica o immanentistica
rappresenta un superamento della concezione metafisico-razionalistica: il naturalismo o
immanentismo si pone agli antipodi e in antitesi rispetto alla concezione metafisica, attua il
ribaltamento e rovesciamento di essa. Anche secondo questo modello infatti – come nella
metafisica e nel razionalismo – si definiscono due sfere e realtà indipendenti,
ontologicamente separate e distinte, quali appunto l’elemento esterno, superiore,
trascendente o razionale e l’elemento naturale e terreno, che nell’uomo è rappresentato
dall’elemento sentimentale, passionale ed istintivo. Si stabilisce così un dualismo filosofico
che si configura anche qui come un antagonismo, una dicotomia e una contrapposizione
antitetica tra elementi distinti e opposti tra loro, ovvero appunto tra Essere e Non Essere,
sostanza e accidente, trascendente e terreno, sovrannaturale e naturale, Dio o ragione e
natura o sentimento, mente e corpo, pensare e sentire, ideale e materiale. Ma nel naturalismo
o immanentismo vi è un ribaltamento e un rovesciamento di questa dicotomia, teorizzata
dalla concezione metafisico-razionalistica. Infatti la positività, la priorità di valore viene
assegnata, nel naturalismo immanentistico, non più all’entità suprema e superiore, ma al
contrario proprio all’elemento terreno, finito, naturale. Si teorizza allora l’esaltazione, la
superiorità e il ruolo centrale e prioritario del lato naturale, materiale, transeunte e –
nell’uomo – di quello passionale, ovvero l’insieme di sentimenti, passioni, emozioni,
desideri, pulsioni, impulsi e istinti. In questa teoria filosofica infatti si ha la negazione della
sostanzialità dell’Essere e – per quanto riguarda l’uomo – del Sé, caratterizzato in termini di
127
V. Mulago, Un Visage africani du christianisme, pp. 152-153.
Ragione. La consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza dell’Essere e della Ragione e
la loro separatezza dall’elemento naturale e terreno – che all’interno dell’uomo consiste
nella sfera passionale ed istintiva dagli istinti ed emozioni – è, secondo questa concezione,
un’illusione, un’invenzione, una costruzione e una creazione dei sistemi metafisicorazionalistici. La consistenza, la compattezza e l’unità dell’Essere e della Coscienza o
Ragione, e dunque il loro fondamento stabile, viene quindi a dissolversi, viene meno, viene
minato, oscurato e negato. Infatti l’Alterità, l’Altro – dove per ‘Altro’ si intende appunto il
lato naturale, terreno, corporeo ed istintuale – non resta confinato: la realtà e il nostro Sé
sono intessuti e permeati dall’Altro. Questo modello filosofico rifiuta dunque la concezione
metafisico-razionalistica secondo cui l’elemento naturale, materiale e terreno è inferiore e
subalterno rispetto ad un Essere superiore, astratto, ideale e sovrannaturale. Il naturalismo o
immanentismo rifiuta e nega quindi la possibilità di riconoscere l’Essere o la ragione quale
principio primario e fondamentale della realtà e della natura umana. In questa concezione si
ha infatti il rifiuto, la negazione e la confutazione della tesi secondo cui il fondamento
centrale ed essenziale della realtà va ricercato in un Essere metafisico e trascendente e
l’affermazione di un’interpretazione secondo cui tale fondamento va rintracciato nella
Natura, immanente e materiale.
Secondo la posizione di Miguel dunque la filosofia africana è caratterizzata appunto
dall’identificazione tra la Forza Vitale e la Natura quale realtà immanente, terrena, materiale
e finita. Così la concezione Bantu si configura come una concezione naturalistica ed
immanentistica ovvero come una forma di panteismo, animismo o vitalismo. Secondo la
filosofia Bantu infatti, spiega Miguel, la Forza Vitale è presente in tutte le cose: nella natura,
nella terra, negli animali, nelle piante, nei minerali, nel clima e in tutti i fenomeni naturali –
elementi che secondo la concezione ontologico-metafisica si collocavano invece ai livelli
più bassi della scala gerarchica dell’Essere. Il filosofo descrive allora la Forza Vitale come
“un’enorme forza che plasma la terra, la roccia, la patria”128. La Natura infatti è mantenuta
da un sistema di energie e forze: gli esseri e le cose presentano in sé infinite ed intrinseche
“virtualità nascoste”129 in virtù delle quali la Forza Vitale-Natura si configura come l’
‘Arcano’, il ‘Simbolo’ ed il ‘Mistero’.
128
129
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 14.
Ivi, p. 23.
Anche altri pensatori, come Miguel, hanno fatto e fanno coincidere il concetto di Forza
Vitale con quello di Natura e forniscono un’interpretazione della filosofia africana in
termini naturalistici ed immanentistici. Così avviene ad esempio in Senghor, uno dei
fondatori negli anni trenta del movimento della négritude (cfr. note n. 2 e 29). Questi scrive
infatti: “Per costui (il Negro), una forza vitale, simile alla sua, anima ogni oggetto dotato di
caratteri sensibili: da Dio sino al granello di sabbia” 130. Senghor, come spiega Miguel,
procede con un accostamento a padre Pierre Teilhard de Chardin, autore di Fenomeno
Umano: “In altri termini, tutto ciò è simile a quanto afferma il Padre Pierre Teilhard de
Chardin quando scrive: ‘il che equivale a dire che la Vita può essere considerata come ‘sotto
pressione’ da sempre e dappertutto nell’Universo, nascendo appena le è possibile, dovunque
le è possibile; e, laddove è apparsa, intensificandosi quanto possibile nella immensità del
tempo e dello spazio’ ”131. Senghor spiega poi che cosa sia la Vita per i Bantu: “Per i NegroAfricani è una forza, una materia vivente, capace di accrescere la sua energia, di rin-forzarsi
o di de-forzarsi. L’Essere-Forza Vitale è così in collegamento con altre forze se vuol
crescere e non deperire”132. Così la Forza Vitale, quale realtà ontologica primaria all’interno
del pensiero africano, viene applicata dai Bantu – spiega Miguel – a tutto: così “malato è chi
non ha forza (essendo la salute la forza del corpo). Intelligente è chi ha forza” 133.
Riguardo alla coincidenza ed identificazione tra Forza Vitale e Natura è emblematica
anche l’opera dello scrittore angolano contemporaneo Boaventura Cardoso – opera che
tratta della lotta lontana nel tempo di un popolo contro gli invasori fino ad arrivare alla
recente liberazione finale – il cui titolo in lingua Kimbundu è Dizanga dia Muenhu. Il
termine Kimbundu ‘Dizanga’ significa ‘lago’, ma si tratta di una sineddoche 134, per cui
l’autore si riferisce in realtà ad un’immensa distesa d’acqua, cioè al mare; ‘Muenhu’
significa ‘vita’, ‘forza vitale’. Dunque il titolo dell’opera significa ‘mare di forza vitale’,
dove la Forza Vitale viene identificata con il mare, elemento naturale per antonomasia, che
è qui appunto simbolo ed emblema della Natura.
130
131
132
133
134
L.S. Senghor, Libertà, Negritudine ed Umanesimo, p. 260.
Ivi, pp. 260-261.
Ivi, p. 261.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 22.
La sineddoche è una figura retorica che consiste nel trasferire un termine dal concetto cui strettamente si
riferisce ad un altro con cui è in rapporto di quantità (il tutto per la parte, il singolare per il plurale, il
genere per la specie etc., o viceversa).
Anche lo scrittore angolano Oscar Ribas nel suo romanzo Uanga (‘Feticcio’) (1981) fa
coincidere la nozione di Forza Vitale con quella di Natura. Egli infatti, esponendo il
principio della Forza Vitale, riferisce ad esso le caratteristiche e gli attributi propri della
Natura: la tensione, il dinamismo, la capacità di interagire. L’identificazione della Forza
Vitale con la Natura emerge particolarmente, ad esempio, nella “Festa de Nùpcias”: qui
intervengono infatti forze quali Mutacalombo (dio degli animali acquatici), Mutanjinji (dea
degli animali terrestri), Quimbanda (medico ed indovino), Xinguilamento (manifestazione
degli spiriti). Esemplificativo del ruolo centrale del principio della Forza Vitale-Natura è
anche il fatto che il personaggio di Caterina, come simbolo dell’accettazione di Gioacchino,
manda a questo i cibi rituali tradizionali che servono a garantirsi la Forza Vitale presso gli
antenati: dikezu, jingibri o jindungu e kitoto o maluvu. L’autore parla anche di ‘forze
antagoniche’ che possono invece indebolire e far diminuire la Forza Vitale: l’indifferenza
delle persone, il tradimento, la violazione dei precetti o norme morali, etc.
Miguel per spiegare il principio della Forza Vitale che si caratterizza come un’ “energia
che si propaga nei meandri del mondo”135 e che quindi viene a coincidere con la Natura, fa
riferimento anche all’angolano Agostinho Neto (cfr. note n. 4 e 53); questi nel suo poema
politico rivoluzionario Sagrada Esperança – di cui si è già parlato nel § I.2 La Forza Vitale
come fondamento nella filosofia africana – identifica la Forza Vitale con la speranza del
popolo angolano nella lotta per l’indipendenza. Neto scrive. “Mi vien voglia di scrivere un
poema / […] / Un poema che non sia fatto di lettere / ma di sangue vivo / nelle pulsanti
arterie di un universo matematico”136. E’ importante sottolineare che per il Bantu Kimbundu
‘sangue’ è simbolo della Forza Vitale che circola tra i membri della comunità, con al vertice
gli Antenati. Il sangue inoltre è associato solitamente alla terra, che ha per i Bantu un valore
sacro, in quanto è il luogo dei rapporti tra i vivi e gli antenati e in quanto rappresenta la
fecondità dei campi, come la donna la fecondità della comunità. Infatti Neto, quando
compiange il patrimonio dei Bantu Kimbundu devastato dai colonizzatori portoghesi, dice:
“Tutti gli dei della mistica dei secoli / ed i loro sacrifici / cruenti od incruenti / il soffio
metafisico delle foreste sacre / l’ispirazione divinizzata degli ‘xinguilamentos’ (evocazione
degli spiriti) e degli stregoni / rimanevano schizzati dalla mota di acque fangose… / E
rimanevano anche… / l’odore acre del sangue e la fecondità della terra” 137.
135
136
137
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 26.
A. Neto, Sagrada Esperança, op. cit., p. 98.
Ivi, pp. 104-105.
La Forza Vitale è presente in tutti gli esseri della natura, nell’uomo, negli animali, nelle
piante, fino ai minerali: essa è, scrive Neto, il “verde delle palme della mia adolescenza” 138.
La Forza Vitale-Natura è dunque, secondo Neto, una “Forza che trasforma” 139 ed è proprio
in virtù di tale forza che i Bantu Kimbundu possono affermare “Noi siamo!” 140. La
personificazione di questa Forza Vitale-Natura è l’ “Amico Mussanda” 141, ovvero “colui al
quale si deve la nostra ragione di essere”142. Neto espone poi il principio che crea e fonda
Mussanda: “O iò Kalunga ua mu bangele! O iò Kalunga ua mu bangele-lé-lélé” 143 (Quello è
Kalunga che lo ha creato, quello è Kalunga, proprio lui che lo ha creato). Mussanda dunque
è il “fondante fondato” ovvero la Natura, il Non Essere o Esserci, il principio immanente,
materiale, finito, perituro e transeunte. Kalunga invece connota la “vita ‘al di là’ ”, è il
“fondante non-fondato”144 ovvero l’Essere, l’Assoluto, il principio trascendente,
sovrannaturale, imperituro ed eterno (la parola Kalunga significa letteralmente ‘mare’, che
va qui quindi inteso come metafora e simbolo dell’Assoluto).
Così per Neto il principio Bantu della Forza Vitale è antitetico a quello astratto, ideale e
metafisico della filosofia europea, ma coincide con il mondo reale, terreno e materiale;
dunque la filosofia africana naturalistica, immanentistica e panteistica si rivela agli antipodi
di quella occidentale. Neto scrive infatti: “Non rinchiuderti nel castello delle infinite
elucubrazioni / […] / Vieni con me in Africa, scendi dai palchi occidentali / a scoprire il
mondo reale”145. Questo mondo reale è il mondo “della mistica dei secoli / e dei loro
sacrifici / […] / il soffio metafisico delle sacre foreste / l’ispirazione divinizzata per
invocare gli spiriti”146.
Miguel, dopo aver fatto riferimento a questi autori per esemplificare la coincidenza di
Forza Vitale e Natura, espone egli stesso in cosa consiste questo principio fondamentale
della Forza Vitale intesa appunto come Natura. La Forza Vitale si configura, secondo il
filosofo, come “l’anima capace di sentire in tutta la realtà”, è “ciò che tutto forma” 147.
Miguel riconosce infatti nella filosofia africana “la forza vitale intrinseca al tutto ed il tutto
138
139
140
141
142
143
144
145
146
147
Ivi, p. 104.
Ivi, p. 82.
Ivi, pp. 82-83.
Ivi, p. 81.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 26.
A. Neto, Sagrada Esperança, op. cit., p. 81.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 27.
A. Neto, Sagrada Esperança, op. cit., p. 86.
Ivi, p. 104.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 29.
come un dinamico farsi”148. E’ evidente dunque in Miguel l’identificazione del concetto di
Forza Vitale con quello di Natura; tale identificazione emerge in particolar modo quando
egli definisce la Natura proprio in termini di Forza Vitale. Scrive infatti: “La Natura è forza
vitale ed animazione intrinseca alle cose, pertanto essa parla direttamente il linguaggio della
forza vitale. Chi riesce a penetrare in lei, attinge veramente ai segreti delle forze cosmiche
che la popolano, del mondo degli Antenati e del divino”149.
Così in questa concezione naturalistica o immanentistica Bantu vengono assegnati dei
ruoli prioritari e delle posizioni di privilegio a tutti gli esseri o elementi della natura, ovvero
non solo all’uomo ma anche agli animali, alle piante e perfino ai minerali – elementi che al
contrario nella concezione metafisico-razionalistica occidentale occupavano i livelli
inferiori della scala gerarchica dell’Essere. Animali e piante occupano ad esempio ruoli
centrali nelle favole, leggende e proverbi Bantu, dove questi esseri sono antropomorfi. Ma è
importante sottolineare che l’antropomorfizzazione che si ritrova nella cultura africana si
differenzia fortemente da quella della cultura occidentale. Infatti nella cultura occidentale –
in cui il ruolo primario è assegnato all’uomo in quanto essere razionale, che si colloca
appunto, dopo la divinità, al livello più alto della scala gerarchico-piramidale dell’Essere –
con l’antropomorfizzazione si attribuiscono forme fisiche e strutture mentali umane ad altri
esseri.
Nel
contesto
africano
si
assiste
invece
al
procedimento
inverso:
l’antropomorfizzazione animale o vegetale consiste infatti nella personificazione di questi
esseri e nel “vedere il loro comportamento nel comportamento quotidiano degli uomini,
classificare questi ultimi in funzione degli animali a cui vengono accostati” 150.
148
149
150
Ivi, p. 30.
Ivi, p. 29.
Ivi, p. 124, nota n. 43. Nella cultura africana, spiega Miguel, si possono distinguere alcuni animali in
particolare per le loro peculiari qualità. Ad esempio la tartaruga è il giudice, in quanto è l’essere
intelligente, che riflette e decide; nelle favole Bantu Kimbundu essa compare nel finale “quasi a voler
costringere gli astanti a prendere una decisione ponderata” (Ibidem). La lepre, che è un giudice ufficioso,
si differenzia dalla tartaruga che è lenta e si protegge con il suo carapace. “La lepre è paurosa, va sempre
con le orecchie ritte, sulla difensiva. Se ci si avvicina, lei fugge. Nelle favole dà la sua opinione ma fugge
davanti alle conseguenze di queste sue opinioni” (Ivi, pp. 124-125, nota n. 43); corrisponde alla volpe
delle favole occidentali. L’elefante simboleggia la forza fisica, sia per le sue dimensioni che per la
durezza della sua pelle; in lui tale forza fisica prevale sull’intelligenza. Il leone, gli altri felini e il lupo
rappresentano la ferocia, che si associa ad una vista limitata. Vi è poi l’antilope che, inoffensiva e
paurosa, esemplifica la “maggioranza silenziosa”. Il rospo e la rana sono animali che “non danno
fastidio”. Il coccodrillo e tutti i rettili sono stupidi, ma pericolosi. Vi è infine la rondine, il cui attributo è
la disinvoltura.
Proprio perché la Forza Vitale è in ogni cosa, in ogni elemento della Natura, si parla del
concetto di ‘armonia cosmica’151 come uno dei tratti essenziali caratteristici del pensiero
africano. Secondo la concezione Bantu infatti gli elementi della realtà non sono concepibili
separatamente gli uni dagli altri, ma sono intimamente connessi e congiunti insieme a
formare un unico Tutto: “il mondo dell’Africano è caratterizzato dalla sua unità e dalla sua
coerenza […] ed è possibile concepire la vita africana solo considerandola nel suo
insieme”152.
Secondo questa visione naturalistico-immanentistica l’uomo ovvero il Muntu si
caratterizza in termini di sentimenti, emozioni, passioni, impulsi, percezioni e sensazioni, e
non in termini di ragione, come vuole invece la tradizione razionalistico-metafisica
occidentale (cfr. § II.1 La filosofia occidentale come Metafisica dell’Essere) o
l’interpretazione metafisica della filosofia africana di autori quali Tempels e Tubaldo (cfr. §
II.2 La filosofia africana come Metafisica secondo I. Tubaldo: la Forza Vitale identificata
con l’Essere). Si parla infatti, per quanto riguarda la ‘facoltà’ che caratterizza l’uomo non di
intelletto o ragione, ma di muxima che può essere tradotto con ‘cuore’, inteso come sede dei
pensieri, sentimenti, desideri, emozioni, pulsioni, sensazioni e percezioni.
Miguel spiega poi questa coincidenza ed identificazione del principio della Forza Vitale
con la Natura nella cultura e nella filosofia Bantu attraverso l’analisi della lingua
Kimbundu. L’autore fa alcuni esempi:
Kimbundu
sostantivo
Ditadi
Dizui
Kinama
Kilumba
Imbwa
Inzo
Lumwenu
Lukuaku
151
Italiano
aggettivo
didi
didi
kiki
kiki
ii
ii
lulu
lulu
aggettivo
questa
questa
questa
questa
questo
questa
questo
questa
sostantivo
pietra
voce
gamba
ragazza
cane
casa
specchio
mano
Per il concetto di ‘armonia cosmica’ nella cultura e nella filosofia africana cfr. anche § II.3 La
contraddizione interna alla posizione di I. Tubaldo: la Forza Vitale identificata con l’Esserci o Natura.
152
D. Westermann, The African Today and Tomorrow, p. 48.
Emerge subito una rilevante differenza tra la lingua Kimbundu e quella italiana. Nella
lingua italiana infatti il pronome-aggettivo ‘questa’, ad esempio, si accompagna e si
connette a tutti i sostantivi di genere femminile esistenti. Invece nella lingua Kimbundu il
pronome-aggettivo varia a seconda della classe a cui appartiene il sostantivo a cui si
riferisce. Così ad esempio il pronome-aggettivo ‘didi’ si usa quando il sostantivo a cui si
accompagna inizia per ‘d’. Questa analogia tra il pronome-aggettivo e il sostantivo
caratterizza tutta la struttura della lingua Kimbundu ed ha un’importanza fondamentale che
qui di seguito illustriamo.
Miguel formula, con alcune delle parole elencate, delle frasi:
KILUMBA KINA KINGENDELE NAKIU KUSAMBWA KIAXALA KUENOKO.
La ragazza, con la quale sono andato dall’altra parte, è rimasta là.
DITADI DIDI DIAKOLO KIAVULU.
Questa pietra è molto dura.
LUMWENU LUÊ LWAKEXILE MUXILU IÊ NGALUBULU.
Ho rotto il tuo specchio che stava nella tua stanza.
JIMBWA JAMI JAKEXILE KUSAMBWA JAJIBAKU KIOMBO.
I miei cani, che stavano dall’altra parte, hanno ucciso un cinghiale.
Il filosofo allora per spiegare quanto avviene nella lingua Kimbundu fa riferimento
all’ultima frase. Egli spiega che la particella JI, che appartiene alla parola JIMBWA (‘i
cani’), si ripercuote sull’intera frase. Tale particella compare infatti in ogni parola della frase
che sia in relazione con ‘i cani’: JAMI = i miei (cani); JAKEXILE = stavano (soggetto: i
cani); JAJIBAKU = hanno ucciso (soggetto: i cani).
Si potrebbe continuare la frase in questo modo:
JIMBAWA JAMI JAKEXILE KUSAMBWA JAJIBAKU KIOMBO KIADILE IDINGO
IAMI.
I miei cani, che stavano dall’altra parte, hanno ucciso un cinghiale che aveva mangiato la
mia mandioca.
KIOMBO = un cinghiale; KIADILE = aveva mangiato (soggetto: un cinghiale). Si tratta
dunque dello stesso fenomeno linguistico: tutti i termini che hanno una qualche relazione
con ‘un cinghiale’ ne ripropongono la stessa particella KI.
Tale particella – che si ripercuote e si ripresenta in tutte le parole della proposizione che
sono in connessione con la parola a cui la particella appartiene – non si può definire come
un prefisso, ma come la ‘sostanza’153 della parola-uomo, parola-animale o parola-oggetto
che dinamizza e storicizza l’intera frase. Se si considera la frase ‘JIMBAWA AMI
AKEXILE KUSAMBWA AJIBAKU KIOMBO ADILE IDINGO AMI’, ovvero la
medesima frase privata di tutte le particelle correlanti, si dovrebbe avere la stessa
traduzione, in quanto le parole considerate singolarmente hanno lo stesso significato di
quando sono concatenate e connesse tra loro. “Ma”, scrive Miguel, “se un Bantu Kimbundu
dovesse pronunciarle così, narrando ad un suo compatriota dei suoi cani che hanno ucciso
un cinghiale ladro di mandioca, provocherebbe uno shock culturale nel suo interlocutore,
talmente grave che quest’ultimo si domanderebbe se, per caso, il narratore non provenga da
un altro mondo”154.
Infatti, per i Bantu Kimbundu, la particella che si ripropone all’interno della
proposizione rappresenta appunto la Forza Vitale che la parola-uomo, parola-animale o
parola-oggetto possiedono e che viene da esse scaricata e diffusa su tutto il discorso. La
Forza Vitale che la parola-uomo, parola-animale o parola-oggetto hanno in sé si diluisce e si
propaga così lungo tutta la frase, ricomparendo, per mezzo delle loro particelle correlanti,
negli elementi del discorso che sono legati o connessi con esse. La Forza Vitale si configura
dunque come la sostanza individualizzante della parola-oggetto che viene trasmessa a tutte
le parole che entrano in rapporto o relazione storico-situazionale con essa. Secondo i Bantu
Kimbundu se si privassero le parole di queste particelle correlanti e ci si limitasse a mettere
insieme nella frase le parole considerate singolarmente – proprio come avviene nelle lingue
153
154
Il termine ‘sostanza’ usato qui da Miguel non va inteso come sinonimo di ‘essenza’ della tradizione
filosofica occidentale, che – come abbiamo visto – costituisce invece l’oggetto della critica del filosofo
angolano. Al contrario va inteso come ‘natura’ nel senso immanentistico del termine, in linea appunto con
l’interpretazione panteistica ed animistica della filosofia africana proposta dall’autore.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 32.
europee – “riducendole […] a codici universalizzanti, universali ed intercambiabili” 155, si
interromperebbe il flusso della Forza Vitale che attraversa e dinamizza il linguaggio. La
Forza Vitale della parola-oggetto infatti, se non si ripercuotesse e ripresentasse in tutti i
termini che sono con essa connessi, rimarrebbe allo stato latente, potenziale ovvero
inespressa ed inattiva.
E’ necessario infatti che la parola Kimbundu si espanda e si propaghi in tutta la frase per
trasmettere ad essa il suo significato. Infatti la vibrazione che è intrinseca e connaturata alla
parola e che viene trasmessa all’intera proposizione corrisponde, secondo la concezione
Bantu, al significato e costituisce la ‘vita’ di quella parola-uomo, parola-animale o parolaoggetto. Così tale parola dinamizza l’intera frase trasmettendole e trasferendole la propria
Forza Vitale. Se si elimina la connessione o correlazione tra i vari termini della
proposizione, la narrazione rimane allo stato latente o potenziale: si interrompe cioè, come
si è detto sopra, il flusso della Forza Vitale, che invece dovrebbe passare dalla parola-uomo,
parola-animale o parola-oggetto alle altre parole della frase e poi a chi ascolta. Dunque la
frase privata delle particelle correlanti “non vibra, non trasmette nulla” 156. Al contrario
“rappresenta una frattura insanabile tra la mente e la realtà” 157 ovvero costituisce un’
“astrazione”; in quanto tale risulta dunque assolutamente estranea alla cultura Bantu e viene
da essa radicalmente criticata e rifiutata.
Miguel fa poi un parallelo tra il linguaggio, la filosofia e le istituzioni sociali, politiche e
religiose dei Bantu. L’autore spiega infatti che così come la parola si diluisce e si diffonde
in tutta la proposizione o in tutto il discorso, allo stesso modo la concezione filosoficoculturale della Forza Vitale si diluisce e si diffonde nel complesso delle istituzioni e
manifestazioni socio-politiche e religiose, nelle leggende, nei proverbi, nei riti, nella magia,
nelle tradizioni, nelle arti e nella musica. Questa ‘armonia’ 158 – secondo cui gli elementi sia
della realtà che della cultura si configurano come elementi inseparabili uniti in un Tutto –
rappresenta uno degli aspetti peculiari della cultura africana. Proprio questo costituisce uno
degli aspetti principali per cui la cultura e la filosofia africana differiscono fortemente da
quelle occidentali; non si riesce infatti a sistematizzare una cultura e una filosofia così
Ibidem.
Ivi, p. 33.
157
Ibidem.
158
Per il concetto di ‘armonia’ nella cultura e nella filosofia africana cfr. sopra questo stesso paragrafo e §
II.3 La contraddizione interna alla posizione di I. Tubaldo: la Forza Vitale identificata con l’Esserci o
Natura.
155
156
lontana e diversa negli schemi occidentali. Questo tema dell’armonia riguarda anche le varie
discipline africane. Uno scrittore yoruba, Adebayo Adesanya così spiega l’armonia,
l’accordo e la conciliabilità delle varie discipline africane: “Qui non si tratta soltanto del
nesso fra fatti e religione, fra religione e ragione, fra ragione e realtà contingente, ma altresì
di un nesso o accordo fra tutte le discipline. Se per esempio una teoria medica contraddice
una deduzione teologica, essa viene respinta e viceversa. L’esigenza, elevata a sistema, di
un accordo reciproco di tutte le discipline è il principio essenziale del pensiero yoruba. Dal
pensiero greco si può anche staccare Dio senza che l’architettura logica di tale pensiero
risulti danneggiata. Nel pensiero yoruba ciò non è possibile. Il pensiero medievale poteva
eventualmente rinunciare alla scienza della natura. Nel pensiero yoruba anche questo è
impossibile. Nel pensiero scientifico moderno non v’è posto per Dio. Di nuovo, nel pensiero
yoruba ciò è escluso, perché, a partir da Olodumare 159, è stato costruito un edificio di
cognizioni dove la mano divina si manifesta fin negli elementi più rudimentali. La filosofia,
la teologia, la politica, le scienze sociali, il diritto agrario, la psicologia, la nascita e la morte
sono riunite in un sistema logico così compatto, che anche a staccar da esso una parte
soltanto, la struttura complessiva resterebbe paralizzata” 160. Quest’armonia, accordo e
conciliabilità di cui parla Adesanya non caratterizza solo il pensiero e la cultura yoruba, ma
tutta la cultura, la filosofia e il pensiero tradizionale africano.
Dall’analisi della lingua Kimbundu svolta da Miguel emerge dunque la stretta
corrispondenza e consonanza, nella cultura Bantu, tra le categorie linguistiche e gli attribuiti
delle cose. Miguel scrive infatti che “il linguaggio non è uno strumento, un mezzo che
l’uomo usa, semmai è il linguaggio che usa l’uomo: esso, in altre parole, è una realtà che,
attingendo dalle cose, si impone”161. La lingua si configura infatti per i Bantu come una
realtà che rappresenta il mondo delle cose: il linguaggio cioè è strettamente connesso e
coincide con la realtà. Data questa forte connessione e correlazione nella cultura Bantu tra
linguaggio e mondo, appare allora, secondo il filosofo, del tutto erronea l’affermazione di
Senghor: “E’ una fortuna che l’Africa Nera abbia disdegnato la scrittura, anche quando non
la ignorava affatto […] La scrittura impoverisce il reale, perché lo cristallizza in categorie
rigide”162.
159
160
161
162
Antenato degli Yoruba.
A. Adesanya, Yoruba Metaphysical Thinking, pp. 39 sgg.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., pp. 33-34.
L.S. Senghor, Libertà, Negritudine ed Umanesimo, op. cit., p. 239.
Al contrario nella cultura e nel pensiero africano vi è un’intima unione e corrispondenza
non solo tra le parole e la realtà, ma anche tra le parole e il parlante. Tra il parlante e le
parole c’è infatti sempre un rapporto di prolungamento dell’uno nelle altre. Miguel fa allora
un esempio:
‘NJILA YADIA TAT’ETU YAFWA’
Questa frase a seconda della modulazione della voce assume due diversi significati:
1) ‘L’uccello che ha ucciso nostro padre è già morto’.
2) ‘Il sentiero dove nostro padre morì non esiste più’.
L’autore fa ancora un altro esempio:
‘ETU TWA MUKINGA’
Anche questa frase può assumere più di un significato:
1) ‘Noi lo abbiamo aspettato’.
2) ‘Noi siamo in attesa (stiamo aspettando)’.
Da questi esempi emerge dunque la stretta ed intima unione e connessione che esiste,
nella concezione Bantu, tra il parlante ed il parlato. E’ evidente allora dal punto di vista
comunicativo e comunitario la grande responsabilità che il parlante ha, secondo la cultura
africana, nell’uso del linguaggio. Tale responsabilità si configura, spiega Miguel, come un
dovere di carattere sacro, in quanto la parola consiste – come si è visto sopra – nella Forza
Vitale: la parola-Forza Vitale costituisce così l’unione e la comunione vitale tra i membri
della comunità.
Da tutta questa analisi del linguaggio Kimbundu sviluppata dal filosofo emerge dunque
che il principio e fondamento della Forza Vitale-Natura – e con essa, scrive Miguel, anche i
“legami di sangue” e l’ “intercomunicazione” 163 – si esterna, si manifesta, si estrinseca e si
fortifica appunto attraverso il linguaggio. Il linguaggio si configura infatti come depositario
della sapienza o saggezza ancestrale e atavica, ovvero della Vita o Forza Vitale che si
163
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 34.
trasmette attraverso la tradizione. Si è già parlato della centralità della ‘tradizione’ 164 per i
Bantu: in essa infatti si sedimenta la cultura atavica e secolare Bantu e si estende e si
trasmette attraverso le generazioni. Scrive infatti Miguel: “la tradizione orale è la biblioteca,
l’archivio, il rituale, l’enciclopedia poetica, proverbiale e romanzesca” 165. Dunque, spiega il
filosofo “per questo il Bantu mima la parola […]. Per questo il Bantu, quando parla davanti
a un pubblico, è considerato un oracolo. Per questo ogni anziano Bantu che muore è una
biblioteca bruciata”166.
Emerge dunque il valore che nella cultura africana il linguaggio assume in quanto
manifestazione ed estrinsecazione del principio primordiale della Forza Vitale. Scrive infatti
Senghor: “In Africa Nera, in una civiltà non ‘al di qua’ ma al di là della scrittura, l’arte
principale è quella della parola, essa esprime la Forza Vitale, l’essere nominante e, al tempo
stesso, l’essere nominato. Essa possiede una virtù magica, ma, nella misura in cui è ritmata,
diventa poesia”167. E questo linguaggio africano, che esprime ed esplicita appunto la Forza
Vitale, si caratterizza – continua Senghor – come un linguaggio ‘poetico’ ovvero come un
linguaggio che si caratterizza – in antitesi rispetto a quello occidentale – non in termini
razionalistici, ma al contrario in termini sensibili e sentimentalistici. Egli scrive infatti:
“Esse (le lingue negro-africane) sono Lingue poetiche. Le parole, quasi sempre concrete,
sono circondate da immagini, la disposizione delle parole nella proposizione, delle
proposizioni nelle frase, obbedisce più alla sensibilità che all’intelligibilità: alle ragioni del
cuore più che a quelle della ragione. Ciò che, in definitiva, fa […] il francese (come esempio
di lingua occidentale) è di presentarci, inoltre, […] una profusione di parole astratte, di cui
le nostre lingue mancano”168.
Questa analisi che Miguel definisce “sintagmatica” della lingua Kimbundu ha portato a
delle considerazioni e conclusioni di tipo invece “paradigmatico”: si tratta infatti di
osservazioni che valgono non solo per la lingua e cultura Bantu Kimbundu, ma per l’intero
linguaggio e pensiero africano. Tale considerazione, a cui si è giunti attraverso questa
analisi,
164
165
166
167
168
consiste
appunto
nella
caratterizzazione
del
linguaggio
africano
come
Per il concetto di ‘tradizione’ e per quello di ‘sapienza’ o ‘saggezza’ nella cultura africana cfr. § II.2 La
filosofia africana come Metafisica secondo I. Tubaldo: la Forza Vitale identificata con l’Essere.
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 35.
Ibidem.
L.S. Senghor, Libertà, Negritudine ed Umanesimo, op. cit., pp. 239-240.
Ivi, pp. 347-348.
un’esternazione, manifestazione, esplicitazione ed estrinsecazione del principio primordiale
della Forza Vitale, intesa in termini di Natura.
Miguel infine tratta, nell’ultimo paragrafo di questo capitolo del suo libro dedicato
specificamente ai fondamenti della filosofia Bantu, dello statuto ontologico ed
epistemologico della Forza Vitale. Il filosofo dimostra che all’interno del pensiero Bantu
non è plausibile identificare la Forza Vitale con l’Essere, ma al contrario è necessario far
coincidere tale principio con la Natura ovvero con il Non Essere o Esserci. Miguel spiega
infatti che la parola Kimbundu kukala significa ‘essere’: essa indica sia ‘essere’ come verbo
che l’ ‘essere’ come sostantivo. Se si considera ‘essere’ come verbo, il prefisso ku è un
prefisso verbale ed è parte integrante del termine (caratterizza infatti l’infinito presente del
verbo). Se si considera invece l’ ‘essere’ come sostantivo, il prefisso ku ha la funzione di
preposizione avverbiale e quindi non è parte costitutiva della parola: non dovrebbe cioè
essere indispensabile, ma potrebbe essere tolto e la validità del termine conservarsi. Così se
la parola kukala viene privata appunto del prefisso ku, si ottiene kala, che traduce dunque
‘essere’, ‘être’, ‘Sein’, etc.
Ma, mentre nella lingua italiana, francese, tedesca, etc., ovvero nelle lingue europee, il
termine ‘essere’ ha significato, il termine Kimbundu kala al contrario non ha significato e
non è definibile in alcun modo. La parola Kimbundu infatti acquista significato e validità,
ovvero può esistere, solo se è congiunta appunto alla preposizione avverbiale ku. Tale
prefisso indica la connotazione spazio-temporale, movimento, dinamismo, situazione e
storicità, e non esprime mai quindi “pura nozione” 169. In Kimbundu una preposizione si può
unire ad un sostantivo e mettere in relazione due termini della proposizione oppure si può
unire ad un sostantivo assolutamente, cioè senza mettere in relazione i termini di una
proposizione. Quando la preposizione si congiunge al sostantivo assolutamente, essa assume
una funzione avverbiale e quindi il valore situzionale sopra descritto.
Così il termine Kimbundu kukala va tradotto non con ‘essere’, ma con ‘esserci’, ‘y être’,
‘Dasein’. Il kukala Kimbundu dunque non corrisponde all’Essere della tradizione filosofica
occidentale, ovvero non si configura come “pura nozione”, non si presenta in forma
concettualizzata, statica ed astratta. Al contrario corrisponde all’Esserci, ovvero si configura
come “tensione”170, si presenta appunto in forma storicizzata, situazionale, dinamica. Infatti
169
170
P.F. Miguel, Kijila. Per una filosofia Bantu, cit., p. 36.
Ibidem.
la parola kukala non viene mai usata nella lingua Kimbundu per definire l’essere in senso
concettuale ed astratto, come accade invece nelle lingue europee. Miguel scrive infatti che:
“non ha senso in Kimbundu chiedersi: ‘Kukala ihi?’ che sarebbe ‘che cosa è l’Essere?’ ”171.
Per inciso può inoltre essere detto che nella forma del passato ukexilu o kukexilu, che
deriva da ngakexile (passato del verbo kukala) – privato della particella pronominale nga
(‘io’) – la sostituzione della particella e con u indica la caratterizzazione del modo di essere
della cosa in questione. Così ukexilu e kukexilu significano non solo ‘esserci’, ma esprimono
anche appunto il modo di essere della cosa: ovvero il modo di ‘essere in’ di questo essere o
ente.
E’ dunque evidente che l’interpretazione che il filosofo angolano Miguel fornisce della
filosofia africana si configura come antitetica a quella proposta da Tempels e dal teologo
Tubaldo. Infatti mentre questi identificano il principio della Forza Vitale con l’Essere
trascendente e sovrannaturale, secondo Miguel esso coincide piuttosto con la Natura,
terrena, finita, immanente, materiale e dinamica ovvero con il Non Essere o Esserci. Così se
la concezione filosofica Bantu viene da Tempels e Tubaldo concepita come una concezione
ontologico-metafisica, al contrario Miguel la caratterizza come una concezione naturalistica,
immanentistica, panteistica, animistica e vitalistica.
171
Ibidem.
Conclusione
Dall’esposizione, presentata in questo lavoro, delle interpretazioni che il teologo I.
Tubaldo e il filosofo angolano P.F. Miguel forniscono della filosofia africana, risulta
evidente che esse si configurano come antitetiche, divergenti e contrapposte tra loro. Questi
pensatori infatti, pur rintracciando entrambi nella Forza Vitale il fondamento della filosofia
Bantu, presentano poi due caratterizzazioni discordanti e contrastanti di tale principio.
Tubaldo accoglie e riprende la posizione di Tempels, che nella sua opera Filosofia Bantu ha
sostenuto che la Forza Vitale, principio e fondamento della realtà teorizzato dalla filosofia
Bantu, si identifica e coincide con l’Essere della filosofia occidentale. Il teologo infatti – nel
suo libro Filosofia in bianco e nero – identifica la Forza Vitale o Vita, quale principio
primordiale su cui si fonda la filosofia Bantu, appunto con l’Essere della tradizione
filosofica occidentale.
Si è visto allora come secondo la spiegazione che il teologo fornisce della concezione
filosofica Bantu, in accordo con quella presentata da Tempels, si ritrova nella filosofia
africana lo stesso dualismo filosofico tra Essere e Natura teorizzato dalla filosofia
occidentale. Secondo la lettura di Tempels infatti anche nella filosofia Bantu, come in quella
occidentale, vi è un’indipendenza, un’eterogeneità, una scissione, una separazione tra
l’Essere, Essenza, Sostanza, Dio o Ragione – quale entità o realtà metafisica,
sovrannaturale, esterna, superiore, ideale e trascendente – e il Non Essere, accidente,
esistenza, Natura o sentimenti, passioni ed emozioni – quale elemento terreno, finito,
immanente, materiale, corporeo, molteplice e transeunte. Si stabilisce cioè una distinzione e
demarcazione netta tra due sfere e realtà distinte proprio dal punto di vista ontologico e
contrapposte tra loro. La dicotomia tra questi due elementi si configura come una vera e
propria opposizione, antagonismo, conflitto ed antitesi, in cui la positività, la priorità di
valore è assegnata appunto all’Essere supremo e superiore. Si teorizza infatti il ruolo
centrale e prioritario, l’esaltazione, il privilegio e la superiorità di tale elemento
sovrannaturale e trascendente, mentre quello naturale e materiale viene considerato inferiore
e negativo, come il lato oscuro, l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Secondo la concezione
africana – in quanto si caratterizza, secondo la lettura di Tubaldo, come una concezione
metafisico-razionalistica analoga a quella occidentale – gli esseri sono ordinati secondo una
struttura gerarchico-piramidale che vede al livello più basso i minerali, le piante e gli
animali, mentre al livello superiore l’uomo in quanto essere razionale e l’Essere Supremo o
la divinità. Si ha così, secondo questa concezione, la conseguente negazione, rifiuto e
repressione dell’elemento naturale, materiale, terreno e istintuale, ovvero dell’Altro, del
Diverso – appunto in quanto risulta negativo e malvagio – da parte dell’Essere superiore o
della ragione.
Tubaldo propone dunque un’interpretazione della filosofia africana in termini
essenzialistici, sostanziali ed ontologici. Nella sua spiegazione infatti la Forza Vitale – quale
principio primordiale posto a fondamento della realtà nella filosofia Bantu – viene
identificata con l’Essere della filosofia occidentale e quindi collocata e presentata all’interno
di un quadro e un orizzonte essenzialistico e metafisico. Nell’interpretazione fornita da
Tubaldo dunque la concezione africana, caratterizzata da connotazioni e tendenze
ontologizzanti ed essenzialistiche, viene ridotta ad una “ontologia ‘pura’ ”, ad un
“astrattismo”172, ovvero ad una concezione ontologico-metafisica, analoga a quella propria
della tradizione filosofica occidentale.
172
Ivi, pp. 136-137.
L’interpretazione che della filosofia africana fornisce il filosofo angolano P.F. Miguel,
nel suo libro Kijila. Per una filosofia Bantu, si configura come antitetica a quella proposta
dal teologo Tubaldo – il quale riprende la spiegazione di Tempels. Il filosofo angolano
infatti, pur concordando con Tempels e Tubaldo nel riconoscere la Forza Vitale come
principio e fondamento della filosofia Bantu, nega tuttavia che tale principio coincida con
l’Essere della filosofia occidentale. Al contrario egli lo identifica con la Natura, Non Essere
o accidente ovvero con la realtà terrena, finita, immanente e materiale. Così mentre la
concezione filosofica Bantu viene da Tubaldo concepita come una concezione ontologicometafisica, secondo Miguel essa si caratterizza piuttosto come una concezione naturalistica
ed immanentistica ovvero come una forma di naturalismo, immanentismo, panteismo,
animismo o vitalismo.
Si è visto allora come la filosofia africana intesa come una teoria filosofica naturalistica
o immanentistica si pone agli antipodi e in antitesi rispetto alla concezione metafisica, attua
il ribaltamento e rovesciamento di essa. Anche secondo questo modello infatti – come nella
concezione metafisico-razionalistica – si definiscono due sfere e realtà indipendenti,
ontologicamente separate e distinte, quali appunto l’Essere, sostanza, Dio o Ragione –
ovvero l’elemento esterno, superiore, sovrannaturale, trascendente ed ideale – e il Non
Essere, la Natura o accidente – ovvero l’elemento terreno, finito, materiale e corporeo, che
nell’uomo è rappresentato dall’elemento sentimentale, passionale ed istintivo. Si stabilisce
così un dualismo filosofico che si configura anche qui come un antagonismo, una dicotomia
e una contrapposizione antitetica. Ma nel naturalismo o immanentismo vi è un ribaltamento
e un rovesciamento di questa dicotomia, teorizzata dalla concezione metafisicorazionalistica. Infatti nel naturalismo immanentistico la positività, la priorità di valore viene
assegnata non più all’entità suprema e superiore, ma al contrario proprio all’elemento
terreno, finito, naturale (che rappresenta appunto l’Alterità, l’Altro da Sé, il Diverso), di cui
si teorizza l’esaltazione, la superiorità e il ruolo centrale e prioritario. Questo modello
filosofico rifiuta allora la concezione metafisico-razionalistica secondo cui l’elemento
naturale, materiale e terreno è inferiore e subalterno rispetto ad un Essere superiore, astratto,
ideale e sovrannaturale. In questa concezione si ha dunque il rifiuto, la negazione e la
confutazione della tesi secondo cui principio primario e fondamentale della realtà va
ricercato in un Essere metafisico e trascendente e l’affermazione di un’interpretazione
secondo cui tale fondamento va rintracciato nella Natura, immanente e materiale.
Risulta dunque evidente che le interpretazioni che il teologo I. Tubaldo – il quale
riprende la tesi di Tempels – e il filosofo angolano P.F. Miguel forniscono della filosofia
africana si configurano come discordanti, antitetiche e contrapposte. Infatti mentre Tempels
e Tubaldo identificano il principio della Forza Vitale con l’Essere trascendente e
sovrannaturale e concepiscono la visione Bantu come una concezione ontologicometafisica, Miguel al contrario fa coincidere la Forza Vitale con il Non Essere, Esserci o
Natura, quale realtà terrena, finita, immanente, e materiale, e caratterizza la concezione
filosofica Bantu come una concezione naturalistica, immanentistica, panteistica, animistica
e vitalistica.
L’interpretazione proposta da Miguel, a mio parere, si rivela più plausibile e coerente, e
rende conto della concezione Bantu in maniera più adeguata. Non è plausibile infatti, come
dimostra il filosofo angolano, all’interno del pensiero Bantu identificare la Forza Vitale con
l’Essere quale elemento trascendente e sovrannaturale – come fanno Tempels e Tubaldo; al
contrario è necessario far coincidere tale principio con la Natura ovvero con il Non Essere o
Esserci quale realtà immanente, terrena, materiale e finita – come fa appunto Miguel. Così
l’interpretazione che Tempels e Tubaldo forniscono della filosofia africana in termini
essenzialistici, sostanziali ed ontologici – secondo cui la concezione Bantu, presentata
all’interno di un quadro e un orizzonte metafisico e caratterizzata da connotazioni e
tendenze essenzialistiche, si configura come una concezione ontologico-metafisica analoga
a quella propria della tradizione filosofica occidentale – si rivela poco plausibile ed
inadeguata. Risulta dunque più accreditata, adeguata e conforme alla concezione Bantu la
tesi – antitetica a quella di Tempels e Tubaldo – proposta da Miguel, secondo cui la
concezione filosofica africana si configura come una concezione naturalistica ed
immanentistica ovvero come una forma di panteismo, animismo o vitalismo.
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