“Sviluppare la cultura della sicurezza”
a cura di Gloria Giuricin
Preambolo:
in questa relazione si è scelto di partire da un articolo del nostro Codice Deontologico: art 9
“L’infermiere, nell’agire professionale, si impegna ad operare con prudenza al fine di non nuocere”,
per arrivare al Risk Management nella logica del governo clinico.
I sanitari sentono sempre più il bisogno di riflettere sul valore etico del proprio operato e sui
principi e criteri morali a cui è giusto ispirarsi nella pratica clinica e assistenziale. L’etica sanitaria,
attraverso tutte le sue declinazioni, rappresenta il tentativo unitario di fornire una risposta a questo
ordine di quesiti.
Naturalmente l’etica non può prefiggersi lo scopo di ottenere un’assoluta convergenza su un unico
insieme di valori non in conflitto tra loro, ma deve creare una base comune di discussione e
ingenerare la consapevolezza di quali sono gli obiettivi e l’insieme, perennemente aperto al
divenire, dei valori che orientano l’agire dei sanitari. “Negare l’assolutezza dei valori non significa
negare esistano dei valori” M.A. La Torre, 2009.
La cosa importante è non dimenticare che il nostro insieme di valori e di principi etici può essere
rivisto e modificato per le più varie ragioni, per trasformazioni personali e per nuove esperienze di
vita. Ogni essere umano è motivato ad agire in una certa maniera perché per lui contano i valori e i
principi che legittimano quel modo di comportarsi.
Ogni professionista sanitario ha quindi una prospettiva morale, che è cosa distinta dal sapere
scientifico.
Secondo Hume e molti altri pensatori, scienza ed etica sono nettamente distinti: i dati e i saperi non
possono costituire la ragione unica per assumere e giustificare i principi di ordine etico - morale. La
scienza si occupa di ciò che è, l’etica di ciò che deve essere. La prima studia la realtà, l’altra regola
il comportamento e la convivenza umana. La valutazione delle probabilità fa parte della scienza
naturale mentre la valutazione delle utilità implica anche un giudizio etico di valore.
Tutto il preludio per arrivare al significato etico della parola prudenza.
Nel linguaggio comune la parola prudenza trova largo impiego nella vita quotidiana e viene inteso
come cautela, come lentezza, come esitazione: guidare con prudenza, amministrare i propri bene
con prudenza, parlare prudente; il politico prudente è quello che riesce ad ottenere quello che vuole
senza esporsi troppo, senza gesti clamorosi. C’è anche una visione negativa della prudenza dove
l’aggettivo (prudente) serve ad accrescere il significato negativo del sostantivo (ipocrisia) , per cui
essa è diventata sinonimo di doppiezza o di dissimulazione ovvero di viltà o di paura. Se anche non
si giunge a tanto, l’accezione comune del termine rinvia a un atteggiamento di tipo pragmatico più
che morale, per cui, quando va bene, è sinonimo di fare attenzione: così l’espressione “sii prudente”
non è una esortazione etica quanto un invito tecnico; insomma, se ne fa una questione meramente
tecnica.
Gli antiche greci di fronte al termine prudenza, invece, hanno aperto una discussione filosofica morale che è proseguita nei secoli (Aristotele, Kant, Maritain, Jonas) fino ad oggi.
Per Aristotele (384-322 a.C.) “ è saggio o prudente chi è capace di deliberare bene su ciò che è
buono e vantaggioso non da un punto di vista parziale, come per esempio la salute, o per la forza o
la ricchezza, ma su ciò che è buono e utile per una vita felice in senso globale”.
Pertanto secondo Aristotele la prudenza è veramente tale solo se ha per fine il bene, vale a dire la
vera felicità. Secondo il filosofo essa non è una scienza, non è una tecnica e nemmeno un’ arte
giacchè questa produce, la prudenza ha per oggetto l’azione. Da qui egli riconosce il carattere
pratico della prudenza. Essa, per poter deliberare, deve vertere non sulle cose che non possono
stare diversamente, bensì su quelle che dipendono da noi, cioè dalle azioni umane, sulle scelte, che
possono essere di un tipo piuttosto che un altro. La prudenza poiché delibera è rivolta alla prassi,
all’azione.
1
Fattore importante da tenere presente è l’età dell’uomo, se giovane e privo di esperienza sarà meno
prudente. L’esperienza arricchisce di quei particolari che sono fondamentali per adottare
l’atteggiamento prudente unito giocoforza all’intelligenza, un’intelligenza che è quasi percezione.
È con Cicerone (106-43 A.C.) che il concetto di phronesis (saggezza pratica) viene tradotto con
prudentia. Nel trattato Sui doveri ( De Officis) la prudenza è distinta dalla sapienza, ma assieme a
questa è inserita, con la giustizia, la fortezza e la temperanza, tra le quattro virtù principali, fonti di
ogni dovere, secondo un modello presente già in Platone.
Successivamente, la dottrina della filosofia stoica sulle quattro virtù cardinali (prudenza,
giustizia,fortezza, temperanza) fu collegata da Ambrogio e da Agostino alla dottrina delle tre «virtù
soprannaturali» o «teologali», fede, speranza e amore, le quali sono chiamate «teologali» perché
sono riferite direttamente a Dio. Dunque, i Padri della Chiesa diedero a queste quattro virtù il nome
di “cardinali”, e ad esse affiancarono altre tre virtù, dette “teologali” (fede, speranza, carità), che
rappresentano un dono della grazia divina.
Sulla linea aristotelica, Tommaso d’Aquino definisce la prudenza come la « retta norma di tutte le
azioni», quella che dirige le altre virtù indicando loro regola e misura, quella che guida
immediatamente il giudizio di coscienza, per cui l'uomo prudente decide e ordina la propria
condotta seguendo questo giudizio; ne consegue che un atto umano, oltre ad essere buono in se
stesso, deve anche essere equilibrato; diversamente il rischio è quello di snaturare anche le altre
virtù in quanto sarebbero esercitate in maniera squilibrata.
Per comprendere il ruolo centrale che nell’etica di Tommaso gioca la prudenza bisogna tenere
presente la concezione che egli ha della scelta e, quindi, della libertà umana. Per l’Aquinate l’uomo
possiede due facoltà spirituali che è in grado di orientare al bene: l’intelletto (per il bene teorico) e
la volontà (per il bene pratico): la terza, rappresentata dai sensi, resta, invece, fuori dall’ambito
dell’etica.
La scelta, sostiene Tommaso, è propria della volontà, la quale in sé è già orientata al bene.
Ma per scegliere rettamente, la volontà ha bisogno dell’intelletto che la deve “illuminare”,
giudicando ciò che va fatto e ciò che, invece, va evitato: una tale “illuminazione morale” è quella
che Tommaso chiama sinderesi, per cui la scelta è opera di intelletto e di volontà. Quest’unione
passa attraverso il “giudizio pratico”, cioè attraverso quell’attività della ragione che è in grado di
mediare tra la norma generale e la conoscenza del caso particolare e che è, appunto, la prudenza.
Definita, quindi, come la «retta ragione dell’agire» (recta ratio agibilium), e quindi distinta dalla
(recta ratio factibilium), la prudenza è considerata anche l’«auriga delle virtù» perché, pur non
avendo un fine suo proprio, le spetta il compito fondamentale di indirizzare tutte le altre virtù verso
il «giusto mezzo».
La prudenza alla luce della persona
A voler sintetizzare quanto stiamo dicendo, e avanzare una proposta, si potrebbe anzitutto ricordare
che nella classicità precristiana e cristiana la prudenza fu considerata virtù “somma”, mentre
nell’età moderna è stata declassata a virtù “particolare” da legare a comportamenti di mera abilità
ovvero di discutibile apprezzamento.
Proprio in merito alla connotazione che la prudenza assume nell’età moderna, si possono avanzare
due osservazioni con riferimento alle due concezioni in qualche modo esemplari della modernità,
vale a dire quelle di Gracian (Baltasar Gracián y Morales (Belmonte de Calatayud, 8 gennaio
1601 – Tarazona, 6 dicembre 1658) è stato un gesuita, scrittore e filosofo spagnolo) e di Kant
(Königsberg, 22 aprile 1724 – Königsberg, 12 febbraio 1804). Riguardo al primo si può dire che la
2
giustificazione gracianiana1, secondo cui bisognava sopravvivere nelle difficili corti europee questo
non sembra che possa legittimare l’alterazione del significato classico di prudenza; e altrettanto
deve ripetersi oggi con riferimento ai non meno difficili ambienti di lavoro: si può comprendere
l’atteggiamento di Gracian, ma non giustificarlo. Anche riguardo al secondo, si può dire con Berti
che 2 “la svalutazione kantiana della prudenza, la sua riduzione a semplice abilità, a mera tecnica,
addirittura ad astuzia, è comprensibile solo nel quadro di un'etica della pura convinzione, ma è del
tutto inaccettabile nel quadro di un'etica della responsabilità, quale oggi viene imposta
dall'interdipendenza che, fra tutti gli uomini, è resa possibile dallo sviluppo straordinario della
tecnica”.
Ne consegue la necessità di non considerare la prudenza né scienza né tecnica, né stoltezza né
furbizia. Ed è questa consapevolezza che emerge, se la virtù della prudenza viene ripensata alla luce
della categoria di persona. Infatti, nell’ottica del personalismo alcuni caratteri del comportamento
prudente appaiono in tutta la loro consistenza etica.
Sotto questo profilo la riproposta della prudenza operata da Joseph Pieper3 (May 4, 1904November 6,1997) appare notevolmente interessante, in quanto propone una riflessione alla luce
dell’insegnamento tomista calato nel contesto della contemporaneità.
Proprio nell’ottica della persona si potrebbe dare una duplice definizione di prudenza, e dire che la
prudenza non è “avarizia spirituale”, nel senso che essere prudente non significa “giocare al
risparmio”, “tirarsi indietro”, “defilarsi”, cioè “non prendere posizione”, “non spendersi”, “non
impegnarsi” o “non impegnarsi più di tanto”; e non è nemmeno “artificiosità calcolante” , nel senso
che essere prudente non significa “giocare su più tavoli” o “fare carte false” o “barcamenarsi” più o
meno furbescamente; la prudenza invece è “equilibrio”, e come tale è “auriga virtutum”, “misura di
tutte le virtù” e, in questo, senso, espressione della dignità della persona, o, meglio, assunzione della
dignità della persona come misura dell’agire, per cui potremmo anche dire che la prudenza è virtù
indissolubilmente legata alla consapevolezza della dignità della persona e alla cura di
salvaguardarla con coerenza non meno che con realismo.
Oggi la prudenza sembra essere meno una premessa quanto piuttosto un’elusione del bene. Il bene è
prudenza: questa affermazione suona quasi assurda per noi. Oppure la si fraintende come la formula
di un’etica utilitaristica. Infatti prudenza sembra abbia più affinità con l’utile, col bonum utile, che
col bonum honestuma (col nobile). La preminenza della prudenza significa che la realizzazione del
bene presuppone la conoscenza della realtà. Fare il bene può solo colui che sappia come sono e
come stanno le cose. La preminenza della prudenza significa che in nessun modo sono sufficienti la
cosiddetta“buona intenzione” o il “buon proposito”.
La realizzazione del bene presuppone che il nostro agire sia conforme alla situazione reale, cioè alle
realtà concrete, che “circondano” una concreta azione umana, e che quindi prendiamo sul serio
queste concrete realtà con lucida obiettività. “La prudenza sta al Nord della mia anima come la prua
intelligente, che conduce tutta la nave” Paul Claudel, e sempre lo stesso sutore afferma;” la
prudenza è la paziente lanterna che non ci indica il futuro lontano, bensì l’immediato”. È alla
prudenza che si riferisce la via e il mezzo.
Dunque, l’uomo virtuoso non è un avaro spirituale né un calcolatore egoista né uno squilibrato
valoriale, ma un generoso e un responsabile che opera all’insegna del “discernimento”, cioè della
capacità di “analizzare” e “interpretare” le situazioni, e della “decisionalità”, cioè della capacità di
prendere decisioni evitando di lasciar decidere altri o il caso ovvero di decidere in modo
sconsiderato e frettoloso.
1
Oracolo manuale e arte di prudenza
Per Aristotele la prudenza era la più grande virtù del politico, la capacità di vedere le cose buone per sé e per gli altri
uomini. Per san Tommaso essa guidava le altre virtù verso il giusto mezzo. Kant invece la relegò fuori dalla sfera
morale.
3
Le quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Notre Dame, Indiana, 1966
2
3
Si potrebbe allora affermare che la prudenza ha un duplice carattere: “obbedienziale”: è virtù che
chiede di saper ascoltare la propria coscienza e gli altri; e “responsoriale” : è virtù che chiede di
saper parlare alla propria coscienza e agli altri. In tal modo, si restituisce alla prudenza la sua
connotazione di “virtù cardinale”, anzi della “prima” delle virtù cardinali, della “virtù principe”,
come “guida delle altre virtù”: tanto dal punto di vista individuale quanto da quello sociale. Pertanto
agire secondo coscienza non significa fare ciò che sembra buono, bensì fare ciò di cui si è sicuri che
sia veramente buono (Rhonheimer M.,1994).
Il termine “coscienza” viene dal latino “coscientia” e indica letteralmente un “scienza”, congiunto al
prefisso “con”, esso indica un sapere complessivo, personale e responsabile. L’insistenza con cui la
cultura degli ultimi due secoli ha posto, il tema della coscienza-autocoscienza esprime, pur nella
diversità delle correnti di pensiero, una particolare sensibilità e attenzione verso un aspetto
fondamentale della dignità dell’uomo, quello di poter egli e di dover gestire in maniera autonoma
(non eteronoma) e responsabile la propria esistenza. L’importanza di agire secondo coscienza
esprime il rifiuto di un comportamento prettamente legalistico che si esaurirebbe con un
comportamento rispettoso della norma quand’anche essa sia riconosciuta come valore fisso,
assoluto e immutabile. Una coscienza guidata dal di fuori (eteronoma) sarebbe inautentica, e l’agire
dell’uomo non sarebbe morale. Rispetto alle norme che sono oggettive, la coscienza è soggettiva in
quanto appartiene al soggetto che interiorizza e fa sua la norma esteriore. La coscienza è il luogo e
la capacità soggettiva di accoglienza e di adesione alle leggi operative. Pertanto, va distinto l’”agire
dell’uomo” ( actus hominis): agire spontaneo, istintivo) dall’”agire umano ( actus humanus: agire
proprio dell’uomo, che deriva dalla consapevolezza razionale e da un libero atto di volontà) e
l’”agire morale” ( actus moralis): ovvero l’agire proprio dell’uomo quando corrisponde a ciò che
deve essere, all’ordine dei valori oggettivi ossia dei principi morali, percepiti dalla coscienza e
interpretati e precisati in relazione alla situazione e alle circostanze dell’agire. Nell’operare umano
vanno fatte due distinzioni: il facere, opere sono gli artefatti, le costruzioni che sfidano il tempo;
l’agere, opera è l’uomo stesso, l’io umano che tende alla sua perfezione nell’operare bene di
momento in momento.Per l’uomo non vi è nessuna “tecnica” dell’agire bene, garantita una volta per
tutte da volontarismi o decisionismi. La realizzazione del bene non è alla portata dell’osservanza
formalistica di una prescrione, imposta alla volontà di un subordinato, dall’impescrutabile potere di
un superiore. Solo una continua apertura al reale, resa possibile dalla capacità di prescindere da se
stessi, la disponibilità di lasciarsi condurre di volta in volta dall’esperienza, consente all’uomo
azioni buone che non sono prodotti dell’industriosità individuale, ma passi nell’autorealizzazione
personale.
Alla luce di quanto scritto la professione infermieristica tanto più si organizza e si configura tanto
più è portata a darsi delle regole che definiscano i doveri dei suoi membri. L’immagine che essa dà
di se stessa , il suo buon funzionamento, la fiducia, presupposto indispensabile per l’esercizio di
ogni professione, di coloro che si affidano alle prestazioni di un professionista si basano sul rispetto
che questi ha delle regole e dei doveri professionali. L’insieme di queste regole e doveri costituisce
la Deontologia. Nel linguaggio odierno “deontologia” ( dal greco DEON, dovere e LOGOS, parola,
scienza) indica i doveri che riguardano un gruppo professionale, ossia gli obblighi e le
responsabilità, i compiti e le convenienze, i dettami e le norme che ispirano un comportamento
professionale corretto. Le norme che regolano l’agire umano sono fondamentalmente di due tipi:
norme giuridiche e norme (principi morali). Il Diritto e la morale sono le due categorie
fondamentali di una riflessione etica. L’etica, in quanto riflessione critica sell’ethos (cioè sul
costume e sui suoi presupposti culturali e normativi, sia giuridici sia morali) si distingue da una
scienza empirica, che si limita ad una pura e semplice descrizione dei fatti ( dei comportamenti,
delle azioni). Essa cerca, invece, di darne una valutazione, un giudizio in quanto si interroga se ciò
che è corrisponde a ciò che dovrebbe essere, se il fatto (ciò che si fa o si vuole fare) corrisponde ad
un valore. Ad esempio riguardo alle applicazioni delle varie tecnologie riproduttive, o riguardo ad
una eventuale pratica dell’eutanasia.. l’etica si domanda se ciò che si fa corrisponde a ciò che è
giusto ( che si dovrebbe fare).
4
La scienza e il progresso devono servire l’uomo, si può allora dire che la misura di ogni giudizio
etico sulle applicazioni della scienza è il bene autentico e integrale della persona umana ( ovvero
ogni individuo appartenente alla specie umana, qualunque siano le sue condizioni fisiche, psichiche
e mentali.
In che cosa consiste concretamente “il bene integrale della persona”? Per persona umana si intende
indicare ogni individuo appartenete alla specie umana, qualunque siano le condizioni fisiche,
psichiche e mentali. Le riflessioni sui problemi legati alla professione infermieristica hanno come
punto di partenza e costante riferimento l’uomo e i valori connessi al suo essere. La persona
umana, reale e storica, singolare ed esistente nella intersoggettività e nel suo ambiente vitale è
il supporto e dà significato a ogni discorso etico sulla scienza medica e sulle sue applicazioni.
Le leggi esprimono e determinano la forma della partecipazione dell’individuo alla vita sociale, al
bene comune, alla stessa sussistenza della società. L’osservanza delle leggi è la prima e
fondamentale forma di solidarietà e di collaborazione ad una vita comunitaria organizzata e stabile.
Alcuni esempi di certa e riconosciuta carta valoriale del e per l’uomo.
Carta dei Diritti , approvata dall’Unione Europea a Nizza nel 2000.
Articolo 1
Dignità umana
La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata.
Articolo 2
Diritto alla vita
1. Ogni individuo ha diritto alla vita.
2. Nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato.
Articolo 3
Diritto all'integrità della persona
1. Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica.
2. Nell'ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati:
. il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge,
. il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle
persone,
. il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro,
. il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani.
Costituzione Italiana entrata in vigore 1 gennaio 1948
Articolo 2
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili
di solidarietà politica, economica e sociale.
Articolo 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di
fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese.
5
Articolo 32
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività,
e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di
legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Una responsabilità in senso pieno richiede che la coscienza professionale dell’infermiere sia fondata
non solo su competenze e abilità tecniche o su una deontologia estrinseca, ma sull’assunzione del
valore della dignità umana come vera anima della deontologia infermieristica.
In assenza di una visione chiara e adeguata della dignità umana, i beni ricercati dalla professione
infermieristica potranno essere realizzati solo parzialmente, poiché non sono sufficientemente
mirati al protagonista che le professioni sanitarie intendono servire, cioè l’uomo stesso.
È in questa prospettiva che il Codice Deontologico si fa guida, non come semplice prescrittore di
comportamenti, ma come guida per la realizzazione di un’autentica coscienza professionale. Il
Codice non darà risposte a “ che cosa devo fare?”, ma a “ come devo comportarmi per realizzare
perfettamente la mia identità professionale?”.
La seconda parte dell’art. n. 9 cita “ al fine di non nuocere”, appare evidente il precetto “ primum
non nocere”, comune a tutte le professioni sanitarie, ovvero al principio della non- maleficità.
Garantire la sicurezza del paziente rappresenta oggi un interesse di rilevanza internazionale, tanto
nella prassi medica, quanto in quella infermieristica. A muovere la riflessione etico-deontologica
con una maggiore attenzione verso la prassi clinica interviene da un lato la crescente incidenza di
casi di responsabilità professionale legata alla malpractice, ma dall’altro anche la consapevolezza
etica, certamente profondamente radicata nella professione infermieristica, del primum non nocere..
È dal ragionamento bioetico che nascono i principi sui quali si fonda l’operato delle figure
protagoniste nell’atto sanitario:
Principio di autonomia: esige che si rispettino le richieste del malato, che devono essere libere e
informate. Esige la sua autonomia, ma anche la graduazione della verità in un percorso di alleanza
terapeutica;
Principio di beneficenza: esige che il sanitario senta come dovere il fatto di fare il bene del malato,
che deve essere contestualizzato (prevenzione, diagnosi, terapia, riabilitazione, prevenzione
secondaria, cronicizzazione). Per fare questo si richiede professionalità, competenza,
aggiornamento, perizia.
Principio di non maleficenza: esige che il sanitario abbia prudenza. Esige un calcolo costobeneficio e quindi una capacità di contestualizzare il problema, esige la valutazione della qualità
della vita.
Principio di giustizia: impone di valutare le conseguenze sociali delle scelte al di là del rapporto
singolo. Per società vanno intese le persone vicine, i familiari, ma anche la collettività: stato,
regioni, aziende sanitarie, ambiente naturale ed urbano, future generazioni con una valutazione delle
risorse in gioco anche a lungo termine. Pone problemi di equità e di priorità nella distribuzione delle
risorse.
Richiede la definizione dei partecipanti ad un patto sociale.
Principio di integrità morale della professione: il sanitario ha diritto di essere rispettato nella sua
autonomia morale ( secondo coscienza) e professionale ( secondo scienza) come un soggetto
proprio. Questo principio ci parla del conflitto di interessi del medico e dell’infermiere, conflitto
che può essere clinico o economico, ma che va esplicitato nel consenso informato.
Il Prof. Sandro Spinanti durante un suo corso di bioetica rivolto agli infermieri dice: nell’ambito di
una formazione sanitaria aggiornata e continuativa è necessario acquisire strumenti di riflessione e
6
quelle competenze concettuali, e quelle capacità relazionali necessarie per dare concretezza al
Patto con il cittadino che gli infermieri hanno adottato come specifico programma culturale.
Il Patto è espressione della sana beneficialità che ha sin dalle origini motivato l’assistenza sanitaria
e che non potrà mai scomparire finchè ci sarà qualcuno che soffre e un altro che per sua competenza
è in grado di aiutarlo. Questo non deve essere inteso come il ben noto paternalismo medico giacchè
oggi non ha più ragione di esistere.
Il richiamo dei principi etici della professione a loro volta basati sul rispetto dei diritti fondamentali
dell’uomo conferma che sono proprio questi a costituire la condizione che giustifica l’assunzione di
qualsiasi responsabilità dell’infermiere.
In altre parole si conferma che tutta la professione ha senso solo se inquadrata nella prospettiva
etica dei diritti umani, e che proprio in virtù di questa prospettiva si muove l’impegno
dell’infermiere a tutela del valore della salute, valore che egli riconosce costituzionalmente inteso
come bene del singolo e come interesse della collettività.
I Codici professionali si fanno portavoce di questo principio, richiamando con forza, tra le
responsabilità dei professionisti sanitari, l’impegno per la sicurezza del paziente.
È necessario scendere ancora un gradino nel ragionamento: per fare un lavoro accurato non basta
l’abilità tecnica che esso richiede ma bisogna prim’ancora compiere un’escursione politica che
consiste nel riconoscere l’altro. Bisogna essere convinti che l’altro abbia un peso, che sia
rispettabile e rilevante, che il suo giudizio ci stia a cuore e che possa esserci utile o nocivo.
La propensione al lavoro ben fatto scaturisce da una doppia rappresentazione interna: quella
dell’orgoglio di sé e delle proprie qualità, e insieme quella della considerazione dell’altro e del
riconoscimento delle sue aspettative. La teoria del sé e la teoria dell’altro venne così definita da
Giacomo Leopardi nel 1824 “ Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare
il loro amor proprio, senza di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il proccurar
che gli altri sieno contenti di voi, così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuol
conversare, è il mostrar con le parole ogni sorta di disprezzo verso l’altrui, l’offendere quanto più
si possa il loro amor proprio, il lasciarli il più possibile mal soddisfatti di se stessi e per
conseguenza di voi.” dal “Discorso sopra lo stato presente del costumi dagl’Italiani”, pag. 67,
L’agire professionale quindi se da un lato si esplicita attraverso il percorso didattico, il codice
civile, la deontologia, dall’altro è composta anche di quella parte assolutamente personale che può
pesare sulla bilancia n modo importante verso l’eccellenza o verso il pressappoco o nell’ancor
meno.
… la scarsa prudenza
Per molto tempo il controllo dell’errore è stato affidato al singolo professionista, l’attenzione, oggi,
sempre di più è portata a livello istituzionale.
La prestazione che vede coinvolti gli infermieri, indipendentemente dall’ambito clinico ove essi
operano (prevenzione, riabilitazione, cura) è la somministrazione dei farmaci.
Partiamo da un’analisi dei termini: prescrizione e ricetta, solitamente usati senza particolare
distinzione nel linguaggio comune.
È fuori discussione che la ricetta medica sia caratterizzata da una prescrizione di farmaci, ma al
tempo stesso è un atto più ampio e un atto più ristretto della prescrizione. Più ampio perché essendo
rivolta alle farmacie, ha natura di “certificato”; è un atto più ristretto in quanto non contiene le reali
istruzioni operative che in genere contiene una prescrizione medica di farmaci. Al contempo la
prescrizione medica è qualcosa di più e di meno della ricetta.
È meno in quanto non ha rilevanza esterna, si rivolge ad altri professionisti sanitari spesso contenuta
in atti più complessi ( vedi cartella clinica), o destinata direttamente al paziente; è più della ricetta in
quanto deve contenere nel dettaglio le istruzioni operative che in genere la ricetta non contiene.
Dal punto di vista medico-scientifico il medico prescrive il farmaco in seguito ad un processo
logico, cronologico e sequenziale. In particolare, giunge alla prescrizione dopo avere attuato le
seguenti attività:
7
•
•
•
•
•
•
•
Anamnesi del paziente
Esame obiettivo
Analisi della diagnostica
Ragionamento diagnostico complessivo e individuazione di una sorta di “graduatoria” e
fissazione delle situazioni in ordine di importanza
Individuazione di una serie di patologie o di quadri clinici che possono essere inquadrati nel
raggruppamento nosologico individuato
Scelta della diagnosi certa o probabile
Scelta dell’impostazione terapeutica
Dopo questo percorso, avviene la prescrizione che si realizza fondandosi sui seguenti principi:
informare il paziente, acquisirne il consenso, agire secondo evidenza scientifica, garantire un
impiego appropriato delle risorse, perseguire la beneficialità del paziente e l’astensione da pratiche
di accanimento terapeutico agendo indipendentemente senza condizionamenti.
All’infermiere compete la somministrazione, che non è mera pratica, ma presuppone conoscenze
clinico scientifiche e tecniche che lo abilitano a tale attività
Non solo, come cita l’autore Avvocato Giannantonio Barbieri: l’infermiere non è l’esecutore di atti
decisi da altri, ma è responsabile, tra le altre e a titolo esemplificativo, dell’identificazione dei
bisogni di assistenza infermieristica, della ricerca degli strumenti, dei metodi, delle competenze e
delle tecniche tese a fornire una risposta a tali bisogni. Esistono atti medici esclusivi, o meglio atti
sanitari praticabili in via esclusiva dal medico, così esistono atti sanitari praticabili in via esclusiva
dagli infermieri, qualificabili atti infermieristici.
Per contro come ci ricorda l’Avvocato Luca Benci si assiste alla acquisizione da parte del popolo di
determinate attività sanitarie per esempio di autodiagnostica (stik glicemia, colesterolo, pressione
arteriosa, test di gravidanza) per cui parlare di attività sanitarie volendo dividerle in modo preciso e
lineare oggi è molto più difficile, oggi che dopo il riconoscimento delle professioni sanitarie non
mediche si sente ancora parlare di “paramedici”, “primario” abolito nel 1995 e “parasanitario” che
non vuol dire nulla.
La somministrazione dei farmaci, che è un atto specificamente infermieristico all’interno
dell’ospedale e case di cura ed è in assoluto il campo in cui maggiormente si verificano errori,
soprattutto per quanto concerne la terapia parenterale anche perché è più facile che venga scoperta.
In una ricerca durata di 10 mesi e svoltasi ad Empoli (2005) è risultato che il 55% degli errori in
generale appartengono al personale infermieristico:
61% dei casi vi è stata un’errata trascrizione della terapia
15% una preparazione non corretta del paziente per esami diagnostici
13% caduta accidentale del paziente
6% prelievi non eseguiti
5% smarrimento delle provette.
Per quanto concerne la somministrazione dei farmaci gli errori avvenuti sono:
36% il nome del farmaco o il suo dosaggio o la sua posologia erano scritti diversamente sulla
cartella clinica e sulla scheda infermieristica
28% il dosaggio non era specificato
19% mancava la prescrizione medica
17% non specificava sulla cartella clinica l’ interruzione della somministrazione del farmaco.
Come si sbaglia:
• Omissione di un intervento necessario
• Scarsa attenzione o negligenza
• Violazione di un processo diagnostico o terapeutico
• Inesperienza in procedure invasive
• Difetto di conoscenze
8
•
•
•
Insufficiente competenza clinica
Insufficiente capacità di collegare i dati del paziente con le conoscenze
Errore di prescrizione, informazione, compilazione
Nel Regno Unito il termine americano “ Nursing malpractice” è tradotto “ Clinical neglicence”,
espressione usata per un’infrazione di assistenza da parte dei sanitari, ivi inclusi medici e infermieri.
Secondo l’art. 433 del Codice Penale “chiunque detiene per il commercio, pone in commercio o
somministra farmaci guasti o imperfetti è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la
multa non inferiore a 100 Euro”. Ad oggi l’orientamento giurisprudenziale è il seguente: non ha
alcun fondamento la distinzione tra la detenzione per il commercio e la detenzione per la
somministrazione prospettata dal ricorrente dal momento che sia l’una sia l’altra rendono probabile,
o quanto meno possibile, l’utilizzazione concreta del medicinale guasto o imperfetto a scopo
terapeutico.
Negli Ospedali e nei Distretti la responsabilità della farmacia di unità di reparto è del capo sala e
degli/le infermieri/e, non del Direttore di Struttura, nelle farmacie del farmacista e nelle cliniche
private del Direttore Sanitario.
Molto spesso si è portati negli ambiti lavorativi-professionali ad imputare all’organizzazione la
causa di errori, difficoltà, demotivazione che portano ad una leggerezza nel proprio operato. Un po’
di vero in questa analisi c’è. Il paradigma più avanzato analizza i rapporti tra persona e
organizzazione, e quello delle “competenze” consente di realizzare un equilibrio reciprocamente più
soddisfacente tra il contributo che le persone danno e il sistema delle ricompense che ricevono dalla
loro partecipazione ad attività organizzate.
Il valore aggiunto non è ricercare e approfondire “l’introspezione psicologica del dipendente” o
evidenziare gli schemi operativi e le regole organizzative quale medicamento per migliorare la
qualità dell’uno e dell’altra, ma osservare il rapporto persona-organizzazione.
La persona competente non può fare a meno dell’organizzazione e nessuna organizzazione può fare
a meno della persona competente.
Competente è la persona a cui compete qualcosa, ma anche che è abile nel farla, cioè possiede
capacità, conoscenze ed esperienze finalizzate.
Ridurre gli errori, migliorare le prestazioni erogate legano inevitabilmente professionisti e
organizzazione e quest’importante obiettivo viene affrontato attraverso il Risk management nella
logica del governo clinico.
La presente relazione è stata liberamente tratta dai testi presenti in bibliografia.
Bibliografia
• Luca Benci “La prescrizione e la somministrazione dei farmaci” Mc Graw-Hill, 2007
• G. Del Poeta, F. Mazzufero, M. Canepa “il Risk management nella logica del governo
clinico” Mc Graw-Hill, 2006
• Annalisa Silvestro “Commentario al Codice deontologico dell’infermiere” 2009, ed. Mc
Graw Hill
• Miro Coffari dal Seminario “ Management infermieristico: riflessioni e prospettive eticodeontologiche nel contesto sanitario attuale”, 2007
• R. Vaccani “Professionalità, attitudine e carriera” ETASLIBRI,1992
• P. Rotondi, A. Saggin “Persona e organizzazione” Mc Graw-Hill, 2002
• R. Simone “Il Paese del pressappoco” Garzanti, 2005
• Enrico Berti “Alasdair MacIntyre: comunità e tradizione” Internet
• Mosè Furlan, Alessandra Bernardi, Renzo Pegoraro “Etica delle professioni sanitarie” ed.
Piccin,2009
Internet: Google “prudenza in ambito professionale”
9